Medici, volontari, lavoratori: ogni giorno la loro vita è un’opera d’arte

Caro Coen, tu parli di un grande poeta, Mario Benedetti, e io mi chiedo se oggi, proprio nel nostro triste oggi, chi sono i poeti. Servono ancora, ne abbiamo bisogno? Credo di sì. Abbiamo bisogno come l’aria (anch’essa ormai considerata un pericolo, un veicolo di trasmissione di questa peste del Duemila) di loro. Eppure i poeti tacciono. Chiusi nelle loro case non trovano più le parole. Nessuno mette in versi le paure che ci stanno divorando l’anima. Il terrore della malattia, l’abisso di una morte improvvisa, l’incertezza per il futuro, quello più vicino a noi, il domani, le prossime ventiquattro ore. E allora rivolgiamo il nostro pensiero a chi fa poesia ma poeta non è. E sono tanti. Non scrivono versi, ma trasformano le loro passioni, il senso del dovere, la disponibilità verso il mondo che ci circonda e soffre, in altissima opera poetica. I medici, gli infermieri, chi ogni giorno pulisce gli ospedali. Questi sono poeti. La società che oggi si aggrappa disperatamente al loro sapere, ai loro studi, alla loro disponibilità totale, “prima” li considerava meno di zero. Poeti sono gli operai, i commessi dei supermercati, i farmacisti, i ferrovieri, gli insegnanti che con pochi e scarsissimi mezzi tentano di non far imbarbarire i nostri figli nella noia mortale, gli uomini e le donne in divisa, i giornalisti che lavorano per darci informazioni. Poeti sono gli uomini e le donne semplici, cattolici e laici, che nelle città spezzano il loro pane con chi il pane non ha. Poeti sono gli operatori umanitari delle Ong che oggi fanno volontariato negli ospedali, sulle ambulanze, dovunque mettendo a disposizione la loro esperienza. Perché la sofferenza umana non ha confini, né colore della pelle. Pensa, negli ultimi anni li hanno attaccati, vilipesi, indicati come complici dei trafficanti di carne umana. Oggi ci sono. Tanta gente, come vedi, molti di loro forse non hanno mai letto i versi di un poeta. Ma ogni giorno scrivono poesie bellissime e vere.

Mario Benedetti, addio: senza di te “al mondo c’è meno luce”

Caro Enrico, venerdì 27 marzo il Coronavirus ha ucciso Mario Benedetti, grande poeta friulano. La notizia è passata inosservata, e questo mi addolora. Era malato da anni. È mancato nella casa di cura di Piadena, in provincia di Cremona. Lo ricorda Umberto Fiori in un malinconico post su doppiozero.com. I due hanno insegnato al milanese Istituto per il Turismo L.V. Bertarelli, in corso di Porta Romana, a due passi dall’abitazione di Dario Fo. Benedetti, nato a Udine nel 1955, era della vicina Nimis, dove si produce dell’ottimo vino (superbo il Ramandolo) e dove Ippolito Nievo ambientò Il Conte pecoraio, scritto cent’anni prima che Benedetti nascesse. Verso la Slovenia, ad est, dopo Attimis si arriva, percorrendo stradine tortuose, a Porzus, il luogo dell’eccidio, quando 17 partigiani della Brigata Osoppo (cattolici e laici socialisti) furono trucidati da un manipolo di gappisti del partito comunista. Tra loro, anche il fratello di Pasolini. Una brutta ferita della nostra storia. Quando muore un poeta, “al mondo c’è meno luce per vedere le cose”, scrisse Alda Merini. La luce di Benedetti era spesso cruda, evocava sofferenza, asprezze della vita. Basta leggere Tutte le poesie (2017) che Garzanti pubblicò nella collana “I grandi libri”. Stefano Dal Bianco, uno dei curatori, lo spiega: “Stare vicini a Mario era sentire una energia che veniva da chissà dove, fredda e compressa e mista di intransigenza, di autentica cattiveria e totale apertura a qualunque possibilità di pensiero, a qualunque tenerezza…”. In Mio padre (da Il parco del Triglav, 2009) certi versi, riletti oggi, sembrano l’epitaffio di questi giorni drammatici, assurdi. Fuori delle nostre case, il contagio, la paura; dentro le nostre case il Contenimento, e per molti, la solitudine, l’attesa: “Sta solo fermo nella tosse/Un po’ prende le mani e le mette sul comodino/per bere il bicchiere d’acqua comprata,/ come tanti prati guardati senza dire niente/tante cose fatte in tutti i giorni”. Non c’è autocommiserazione. È che tutto ciò che succede – che ci succede – non pare vero.

I soldi di Sky e Dazn: incubo della Serie A

Sulla testa dei presidenti di Serie A, che dopo aver pagato nell’ultimo anno 188 milioni ai procuratori (100 solo Juventus, Inter e Roma), superato i 2,5 miliardi di debito, messo a bilancio 717 milioni di plusvalenze quasi tutte farlocche (avete presente una bomba a orologeria? Ecco, tenetevi pronti) e che oggi piangono e strepitano perché il Coronavirus è arrivato a metterli sul lastrico, mentre in mutande erano già da un pezzo, anche se loro se la spassavano facendo finta di niente; sulla testa dei nostri prodi, dicevamo, pende ora una spada di Damocle che – questa sì – scaturisce dai nefasti veleni liberati dal Coronavirus: il pagamento in pericolo dei diritti-tv. Visto che la stagione si è interrotta ai primi di marzo, non solo in Italia ma in tutta Europa, le tv non hanno alcuna intenzione di pagare per partite che a dispetto del gran prodigarsi di Uefa, Figc e federazioni tutte al 90% non trasmetteranno mai.

Sapete perché gran parte dei club di Serie A, tolti quelli che temevano di precipitare in B come il Torino di Cairo o il Genoa di Preziosi, con devastante danno economico annesso (che sarà scaricato su Brescia e Spal), si stanno prodigando per finire la stagione anche al 31 luglio, costi quel che costi, persino giocando 3 partite a settimana a 40 gradi all’ombra in Sicilia e Calabria, le regioni meno esposte alla pandemia (ipotesi mutuata dalla Bundesliga che sta pensando di riunire il circo sotto la campana di vetro di Renania settentrionale e Vestfalia, le zone della Germania considerate meno a rischio)? La ragione è una sola: non perdere i soldi delle tv che sono da sempre la bombola ad ossigeno dei nostri stremati club.

Si è detto: i club di Serie A sono preoccupati perché Sky e Dazn non vogliono pagare la sesta e ultima tranche del 2019-20, 130 milioni Sky, 21,5 Dazn, in tutto 151,5 milioni. Ma magari le cose stessero così. Il contratto impegna Sky a pagare alla Lega 780 milioni per trasmettere 266 partite (prezzo 2,9 milioni a gara) e Dazn a pagare 193 milioni per 114 partite (prezzo 1,7 milioni a gara). Ebbene, ad oggi Sky ha trasmesso 180 delle sue 266 partite (-86) e Dazn 76 su 114 (-38); mancano dunque all’appello la bellezza di 124 partite – le 120 dei turni finali più 4 recuperi – per un corrispettivo di 316,5 milioni, più del doppio dei 151,5 di cui si parla. E non solo Sky e Dazn non si sognano di scucirli, ma calcolatrice alla mano pretendono la restituzione dei soldi della penultima rata se un terzo di campionato, com’è probabile, non verrà mai giocato. In Premier hanno calcolato un mancato introito, da Sky e BT, di 843 milioni; in Liga il 27% in meno (310,5 milioni) da Mediapro; in Francia Canal + e BeIN hanno appena annunciato che non onoreranno l’imminente scadenza prevista di 152 milioni (110 + 42).

E così, mentre la Lega era intenta a flirtare con Mediapro, possibile promessa sposa del prossimo triennio, ecco la vecchia concubina Sky (e consociata Dazn) riprendere il coltello dalla parte del manico: ai presidenti, che l’hanno già spesa, potrebbe non reclamare la 5^ rata da 151,5 milioni, ma solo a patto di riottenere i diritti 2021-24 da acquistare, ça va sans dire, a un prezzo molto inferiore a quello dell’ultimo bando: 973 milioni, il più basso dei 5 top campionati. Prendere o lasciare. Come diceva quello: comunque vada, sarà una catastrofe.

Salvini, la gran bestemmia dei sepolcri imbiancati

“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”. É forse questa l’unica vera invettiva che il Gesù di Nazareth pronuncia nei suoi Vangeli ed è anche quella che oggi si presta meglio per battezzare i fan di Matteo Salvini (suoi compagni di partito, giornalisti e giornaliste dalla dubbia etica cristiana ed esperti, di solito, nel denigrare i magistrati, esponenti della destra cattolica che odia Papa Francesco, parroci non di frontiera ma anzi di retroguardia nella lettura apocalittica del contagio) pronti a rilanciare sui social la sua proposta blasfema e opportunista: “Per Pasqua, si celebrino le messe aperte ai fedeli nelle chiese”.

C’è di peggio, beninteso, in questa Italia del Covid-19: a cominciare dal presidente della Regione Lombardia (anche lui leghista, non dimentichiamolo) che non perde occasione per attaccare il governo nazionale e poi ordina ai suoi concittadini di non uscire senza la mascherina. “Non si trovano” è stata la risposta unanime, anche di chi Attilio Fontana lo aveva votato, e lui subito è stato pronto a rispondere (“Usate le sciarpe o un foulard”), comunicando di fatto, proprio mentre le impone, che “tutto va ben madama la marchesa” per sostituire le mascherine: e che una sciarpa (inutile e anzi pericolosa perché trattiene il virus) è la panacea miracolosa.

Anche Salvinivuole mandare la gente allo sbaraglio del contagio e vorrebbe farlo proprio nel giorno di Pasqua, nelle chiese aperte ma senza riti e funzioni, e con una cervellotica proposta su chi e quanti dovranno usufruire di quelle messe di resurrezione ai tempi del Coronavirus: “Basterebbe che potessero farlo anche solo 4-5-6 fedeli” ha spiegato infatti il Capitano-teologo-matematico. E scelti da chi? Con una riffa padana di quelle che un tempo animavano le adunate leghiste del Pian del Re o di Pontida? Predestinati da Dio Padre e creatore di tutto? Oppure dai parroci, chiamando gli eletti tra i pochi che, ancora prima della pandemia, frequentavano le chiese?

Com’è ovvio, poi, tutto sarebbe ancora una volta possibile grazie alla distanza di sicurezza e alle famigerate mascherine, le stesse che ossessionano sia Salvini che il suo fido Fontana, ma che nella Lombardia governata dal Carroccio (e, nella sanità pubblica piegata a quella privata, ancora dagli stessi dirigenti offerti da Comunione e Liberazione e dalla Compagnia delle Opere al “Celeste” Formigoni e ai suoi memores domini) nessuno è in grado di trovare.

Ma non è Salvini il vero problema di questa pandemia ultra-cattolica alla ricerca di consensi e di alleanze. Due sono le questioni che, invece, emergono dalla “bestemmia” del capo leghista sulle messe di Pasqua. La prima riguarda proprio i “sepolcri imbiancati” che da sabato sera stanno rilanciando la proposta del “tutti in chiesa”. Qualcosa di più, e se possibile di peggio, degli “atei devoti” che, all’ombra del cardinal Camillo Ruini e nella piena complicità col paganesimo della proposta etica e sociale di Silvio Berlusconi, hanno segnato (partecipando a quell’inganno e favorendolo) forse una delle pagine più buie della storia della Chiesa italiana dal 1945.

Un progettopolitico e di collateralismo religioso, coordinato nei discreti palazzi romani dal gran ciambellano Gianni Letta, ma comunque pur sempre un “progetto”. Poi stoppato dal declino morale dell’ex Cavaliere e, non va dimenticato, dalla mancata elezione a pontefice dell’arcivescovo di Milano, Angelo Scola.

I “sepolcriimbiancati” di oggi, al contrario, appaiono più sprovveduti, ma forse addirittura più pericolosi, votati come sono soltanto al fiancheggiamento elettorale e dei consensi attorno ai “cristianismi” volgari del leader leghista. I rosari ostentati negli studi tv e nei comizi, la recita dell’Eterno Riposo nell’angiporto catodico e sacrilego di Barbara D’Urso, ora infine l’appello per le messe di Pasqua.

La seconda e ultima questione, tocca infine le reazioni della Chiesa alle provocazioni del Capitano. Quella del Papa, mediata e distante dalle miserie della politica italiana (com’è giusto che sia), è arrivata con la celebrazione della Domenica delle Palme in una basilica di San Pietro chiusa al pubblico. Bergoglio, nella messa delle Palme, ha così ripetuto una formula, “Il Signore sia con voi”, che non ha bisogno di riti, luoghi e presenze fisiche per sprigionare il suo significato capace di abbracciare tutti. Un no preciso (com’è stato sottolineato proprio nella diretta del Tg1 Rai) senza se e senza ma.

Restiamoin attesa, invece, di un parola netta da parte della Conferenza Episcopale Italiana (Cei), la più coinvolta – per territorio e appartenenza – in questa vicenda. A di là del facile gioco delle rime, questa volta è proprio il caso di dirlo: Cei, se ci sei, batti un colpo.

Commercio: “App di Stato per vendere su internet”

Dimentichiamo i ristoranti affollati, l’aperitivo sorseggiato tra i tavolini affastellati in strada, il caffè al bancone del bar da assaporare gomito a gomito. Quando calerà il sipario sull’emergenza e le serrande torneranno su, la regola resterà in vigore: tutti a distanza di un metro, possibilmente con guanti e mascherina. Non sarà un dramma, in ufficio: qualcuno lavorerà da casa, gli altri allontaneranno le scrivanie. Ma come faranno bar, ristoranti, catering, negozi d’abbigliamento, parrucchieri, oppure gli stabilimenti balneari?

“Lo chiediamo al governo e alla comunità scientifica”, dice Patrizia De Luise, presidente di Confesercenti. Senza indicazioni dalle autorità, le soluzioni sembrano obbligate: file all’ingresso e meno clienti (magari su prenotazione). Nei ristoranti, ad esempio, la coppia cenerà al tavolo da 4, per garantire la distanza. Quando si riapre, del resto, non si sa: è “serrata” finché dura l’emergenza. Confcommercio stima la ripartenza addirittura ad ottobre, per i pubblici esercizi: 23,4 miliardi, il danno economico solo per alberghi e ristorazione a fine anno. La certezza, per tutti, è una sola: o si cambia o si muore. Per i commercianti la soluzione ci sarebbe: vendere online. Non su Justeat e le altre app. “Quelle incassano circa il 20% su ogni consegna e gli esercenti non hanno più un soldo”, dice Giancarlo Banchieri, presidente Fiepet (l’associazione delle piccole e medie imprese del commercio e turismo). Patrizia De Luise lancia la proposta: “Chiediamo al governo una piattaforma nazionale sostenuta dallo Stato, così i commercianti (già stremati) non pagheranno l’obolo alle piattaforme private e potranno risollevarsi con minor fatica”.

Quasi la metà delle Pmi (il 44%) medita di chiudere bottega, secondo un sondaggio condotto da Swg tra il 19 ed il 23 marzo. L’obiettivo è sopravvivere al lockdown, altro che precauzioni sanitarie. L’unica boccata di ossigeno è il denaro, subito, per pagare bollette, affitti, fornitori. personale. Solo che il cash non si vede: “Col decreto Cura Italia, lo Stato garantisce l’80-90% dei prestiti, ma il credito è fermo – dice Banchieri –. Le banche lavorano a mezzo servizio: molte agenzie del nord sono chiuse per l’epidemia, quelle aperte sono oberate dalla burocrazia per la sospensione dei mutui”. Per il presidente Fiepet, molti negozi riapriranno solo ad una condizione: “Lo Stato dovrebbe pagare agli esercenti il 10-20% del loro fatturato di marzo 2019, altrimenti molti chiuderanno”. E non basterà neppure: “Bisognerà aiutare chi sopravviverà al lockdown, perché i consumi caleranno drasticamente”.

Ristorazione Capitale. Nel centro storico di Roma, quartiere ebraico, Piperno serve cucina romana dal 1864. Oggi il ristorante conta 10 dipendenti, ma il fatturato s’è azzerato dal giorno alla notte. “Sono in affitto e per fortuna il proprietario del locale mi è venuto incontro – dice Pier Paolo, il titolare –. Altri invece devono pagare la rata intera e non sanno come fare”. Pier Paolo non vede l’ora di riaprire, ma le mascherine per il personale sono rare come l’oro. “E poi, prova a stare con 40 gradi in cucina, ‘mascherato’”. Sulla distanza di sicurezza, non serve l’accademia: “Manterremo gli stessi tavoli per la metà delle persone”. Così la clientela è distanziata, ma decimata. Perciò medita sulle consegne a domicilio: “Mai fatto, ma è arrivato il momento. Però il delivery si mangia il personale”. A meno che i camerieri non diventino fattorini (rider, è più epico): forse è il destino, ineluttabile, per molti.

Più a nord della Capitale, zona Eur, Palombini è un’istituzione: bar, pasticceria, ristorante e catering. Già prima del Coronavirus consegnava a domicilio i pasti per gli uffici: “Non siamo su Justeat, riceviamo le ordinazioni sul nostro sito e quando riapriremo il l’e-commerce sarà decisivo”, dice Sergio, il proprietario. Intanto ha ordinato le mascherine chirurgiche per il personale, ma non si aspetta ricavi da capogiro, dopo il lockdown: “Per garantire il distanziamento dimezzeremo i coperti, c’è da riorganizzare lo spazio e i tavolini, ai buffet dei catering le persone dovranno avvicinarsi un po’ alla volta”. Una soluzione sono gli orari d’apertura più lunghi, per recuperare i clienti: “Certo, ma bisognerà trattare col personale”. Sergio Palombini ha una certezza: “Non riapriremo l’attività, ne inventermo una nuova”.

Milano da bere. Nel deserto dei Navigli, i protagonisti della movida cercano soluzioni per riaprire in sicurezza. “Per i bar e le discoteche garantire la distanza sociale sarà un’impresa, non sappiamo cosa accadrà”, dice Angelo Donnaloia, presidente Aibes (Associazione Italiana Barmen e Sostenitori). Alioscia Bisceglia è il proprietario dell’Elita Bar, uno dei locali simbolo: “Cominciano a girare delle bozze di protocollo. Il sospetto è che le autorità vogliano dirci ‘noi abbiamo dato istruzioni precise ora sta a voi esercenti’. Quando potremo riaprire, il rischio è che per noi sarà impossibile lavorare”. Traduzione: il governo pone l’obbligo della distanza di un metro, ma la soluzione dovranno inventarsela i gestori (e non è detto che ci sia).

Intanto, bisogna stringere i denti: “All’inizio pensavamo che un mese fosse sopportabile, coi tempi lunghi è difficile sopravvivere ai costi fissi e del personale”, dice Bisceglia. A differenza della ristorazione, i locali serali non hanno nemmeno il salvagente delle consegne a domicilio. Vendono socialità: il drink dell’aperitivo si beve in compagnia, all’aperto, o niente. Lo spartiacque tra la vita e la morte, per i luoghi della movida, sarà la clientela locale: “Chi puntava sui turisti, potrebbe trovarsi con l’acqua gola”, avvisa Angelo Donnaloia.

Turisti cercasi. L’accesso al lungomare di Viareggio, di solito preso d’assalto al primo caldo stagionale, è sbarrato da un cartello: “Chiuso, closed”. Da Marina di Pisa fino alla Liguria passando per la Versilia, le spiagge sono vuote. “I clienti chiedono se riapriremo – avvisa Mario Tempestini, titolare dello stabilimento Maddalena a Tirrenia (Pisa) – io non so cosa dire”. In Toscana, dalla Versilia a Capalbio fioccano disdette, caparre congelate, lavoratori stagionali disperati. In Sardegna, idem: la manutenzione dei lidi è ferma e nessuno assume. In ballo, nel Paese, c’è la sopravvivenza di circa 20 mila aziende. “Abbiamo chiesto al governo l’estensione delle concessioni, per tutti gli stabilimenti, fino al 2033”, dice Claudio Maurelli, rappresentante insieme al fratello Marco di Federbalneari Italia. Intanto, ci s’ingegna per garantire le distanze. Francesco Gambella ogni estate pianta 36 ombrelloni in 200 metri quadri di sabbia, nel lido “La Marinella” ad Olbia: “Sono un volontario in ambulanza, il guadagno viene dopo la salute. Ma per tenere le distanze servirebbe uno sceriffo, bisogna incentivare l’uso di guanti e mascherine”. Sempre sul Tirreno, a Capalbio, Adalberto Sabbatini è il titolare dell’ “Ultima spiaggia”, lido popolato da politici (Martelli e Napolitano) intellettuali e imprenditori. Pure lui affronta il rebus: “Possiamo allontanare gli ombrelloni o servire cibo da asporto ma non è più vacanza. Dovevamo aprire a metà marzo con il ristorante, un po’ di lettini, ora chissà: fortunatamente il 70% dei clienti viene da Lazio e Toscana quindi possiamo ancora sperare, ma gli albergatori che lavorano con l’estero valutano di non riaprire”.

È il caso di Enrico Borgogni, titolare di 2 strutture nel centro storico della città del Giglio, tra cui il famoso Hotel Firenze: “Il 2020 lo considero perso, gli stranieri non verranno finché non si sentiranno al sicuro. Poi, se riapriremo, la hall è grande e potremo distanziare gli ospiti, ma la città non è pronta”. Affari a picco pure per pensioni e affittacamere: solo a marzo a Firenze sono state cancellate l’80% delle prenotazioni (le altre anticipavano il lockdown). Alberto, 38 anni, dal 2018 affitta con Airbnb un monolocale in centro: “Avevo il calendario pieno fino a luglio, hanno disdetto tutti”. Così, il centro storico torna ai fiorentini, dopo furenti polemiche sull’“invasione” dello straniero per via di Airbnb: “2 anni per la colonizzazione, pochi giorni per il crollo”, dice Laura Grandi, segretaria regionale del Sunia (Sindacato Unitario Inquilini e Assegnatari).

Parrucchieri. Fuori dal salone “L’Italiano di Milano”, l’insegna con le spirali a strisce bianche e rosse è immobile. Luisella lavora lì da circa un anno, oggi è ferma e domani non si sa: “Cambierà tutto per evitare i contatti stretti, anche se al momento non c’è nessuna linea guida per un’eventuale riapertura”. Nel frattempo, l’alternativa è l’assistenza da remoto: “Molti clienti mi chiamano per ricevere istruzioni su tinte e prodotti per la cute, sul taglio, invece, soluzioni non ci sono”, dice Luisella. “Si useranno più precauzioni e tutti i materiali saranno usa e getta”, rassicura Sebastiano Liso, presidente di Confesercenti Immagine e Benessere: “Si riceverà su appuntamento per non intasare i saloni, ma parrucchieri ed estetica, forse, pagheranno il prezzo più alto”. Mascherina e chioma lunga: il look della pandemia.

Abbigliamento. Confcommercio stima un calo nel settore da 6,6 miliardi per fine anno. Almeno il delivery può limitare i danni. Persino il re delle cravatte Maurizio Marinella ha ceduto: “Stiamo preparando un sito per iniziare a venderle su internet”. Proprio lui, Marinella, scettico sullo strumento e attento a mantenere alto il posizionamento del brand di lusso: “Abbiamo sempre accolto il cliente nel nostro negozio di Napoli con calore: caffè, sfogliatella e una bella conversazione. Ma dovremo adeguarci, anche se non rinunceremo alla nostra tipica ospitalità. Solo che dovremo mettere una persona alla porta per regolamentare gli ingressi”. Marinella si sta attrezzando alla riapertura ridisegnando spazi e mobilio, per vendere secondo il distanziamento sociale, approvvigionandosi per tempo di mascherine e gel “per i miei 72 dipendenti, che resteranno in organico nonostante la crisi”. Marinella aggiunge una riflessione: “Questa emergenza potrebbe essere l’occasione per trovare finalmente qualche giovane disposto a lavorare nei nostri laboratori tessili”.

Una cosa è certa: dopo il lockdown, molti non torneranno al lavoro di prima. O si cambia, o si muore.

“Parla di Draghi premier chi non ha niente da fare”

Presidente Bonaccini, cosa dicono gli ultimi dati sul Covid-19 in Emilia-Romagna?

C’è un ulteriore rallentamento del contagio: tre settimane fa ci muovevano con una crescita sotto la linea del 15%, due settimane fa del 10%, l’ultima sempre sotto il 5%. Non è finita la crescita ma ormai la curva è piatta. Gli accessi ai pronto soccorso e ai servizi in ambulanza registrano un calo importante, ma stiamo pagando un tributo pesante di vittime. Per questo insisto su quanto sia fondamentale continuare a restare a casa.

Il sistema sanitario regionale sta reggendo?

Alle misure restrittive del governo su scala nazionale ne abbiamo affiancate altre, come Regione, ancora più stringenti, d’intesa col ministro Speranza. E in un solo mese abbiamo moltiplicato per sei i posti letto per Covid. Stiamo reggendo grazie alla nostra sanità regionale e grazie al fatto che sia pubblica, universalistica, capillare.

Le tensioni tra Regioni e Stato centrale hanno mostrato i limiti del federalismo in Italia. Perché non c’è stata “leale collaborazione”?

Io ho lavorato fin dal primo minuto perché ci fosse massima unità di intenti. Di fronte all’emergenza si lavora insieme, non c’è spazio per polemiche strumentali.

Altri colleghi – per non fare nomi: il lombardo Attilio Fontana – sono in polemica permanente con il governo.

Da me non avete sentito una sola polemica. Il governo è arrivato a provvedimenti omogenei per tutto il Paese col sostegno di tutte le Regioni. Ci sono state fibrillazioni, ma non vedo fratture. Quando c’è un’epidemia nazionale e globale è sacrosanto che la risposta debba avvenire come sistema Paese.

Lo Stato deve riaccentrare la gestione del servizio sanitario?

Non dico questo. In Emilia-Romagna sarebbe un drammatico passo indietro. Dobbiamo alzare il livello dove è più basso, non il contrario. Peraltro le Regioni intercettano prima sul territorio le criticità. Se avessi dovuto aspettare il governo per istituire la zona rossa nel comune di Medicina oggi avremmo probabilmente l’intera città metropolitana di Bologna fuori controllo e gli ospedali al collasso. Non è una critica, è quasi un’ovvietà.

Quando potremo “riaprire” la Regione, e il Paese?

Sono giorni che sento previsioni in libertà sulla riapertura. Io non ne faccio, non mi compete. Nessuna ripartenza è possibile se prima non fermiamo la pandemia.

Il costo sociale però è straziante. Quanto pesa la crisi in Emilia-Romagna?

La nostra regione vive di manifattura avanzata, di innovazione costante, di export e turismo. Qui fermarsi significa pagare un prezzo ancora più alto, ma è necessario, va fatto. Al governo non abbiamo posto il problema di quando riaprire – questo ce lo dovrà indicare la comunità scientifica – ma di come farlo.

E come si fa?

Liquidità, rivoluzione digitale e big data, investimenti pubblici e sostenibilità: su questi assi portanti si giocherà la ripartenza. L’Emilia-Romagna sarà pronta.

Vincendo le elezioni a gennaio, di fatto, ha salvato il governo Conte. Magari oggi avremmo avuto Salvini a Palazzo Chigi. Se l’immagina?

Guardi, non so cosa sarebbe accaduto con un governo di destra ma oggi non vedo molta utilità nell’alimentare polemiche politiche. Mi limito ad una considerazione più generale: dall’Italia oggi stiamo chiedendo tutti risposte a Bruxelles, anche chi fino a ieri predicava muri e chiusura. Purtroppo, sono i sovranisti di altri paesi ad opporsi, confermando la linea dell’austerità e dell’egoismo.

La sua avversaria Lucia Borgonzoni aveva promesso che sarebbe rimasta a fare opposizione in Regione, dimettendosi dal Senato. Ha fatto il contrario.

Ognuno si misurerà con le proprie coerenze, ma abbiamo altre priorità che non commentare Borgonzoni.

Come valuta la gestione di Conte? È stato fatto tutto il possibile?

Nessun governo o presidente del Consiglio ha mai dovuto affrontare una crisi di questa portata. E col senno di poi tutti sono capaci di trovare soluzioni migliori. Credo che sia stato fatto e che si stia facendo il possibile. La collaborazione istituzionale deve essere massima.

Il premier intanto è sempre più popolare. Per il suo Pd è una buona o una cattiva notizia?

Insisto: non credo sia questo il momento per le analisi politiche. Verrà nuovamente il tempo in cui confrontarci e dividerci, ora dobbiamo pensare a fermare il contagio.

In questi giorni ha fatto il nome di Romano Prodi, in che modo lo coinvolgerà?

In Emilia-Romagna vogliamo provare a ridisegnare il nostro futuro, sapendo che tutto sarà diverso. Sto formando un gruppo che possa lavorare liberamente e con una certa audacia a questo progetto. Ci saranno economisti, filosofi, scienziati, donne e uomini della cultura ed esperti delle nuove tecnologie. Romano Prodi ed Enrico Giovannini ne faranno parte.

Come valuta la manovra per portare Mario Draghi a Palazzo Chigi?

Davvero in questo momento dovremmo occuparci di alchimie di palazzo? Piuttosto, ascoltiamo Mario Draghi e la sua ricetta: va speso tutto quello che è necessario per assicurare liquidità alle imprese, reddito ai lavoratori e alle famiglie, investimenti pubblici. Lascio le fantasie politiche a chi in questo momento non è impegnato né nella gestione dell’emergenza, né nel dover costruire le condizioni della ripartenza.

L’Europa che prova sta dando di sé?

L’Europa che si divide e che non sa essere solidale non serve a nulla. Tradisce se stessa, le ragioni per cui è stata fondata. Non si può spaccare nel momento di fare il passo in avanti decisivo: serve una dose massiccia di liquidità per cittadini, famiglie, imprese, fondi a costo zero e da restituire a lunghissima scadenza. Serve un cambio radicale di paradigma. O ne usciamo tutti insieme o davvero non si salverà nessuno.

Covid-19: caccia ai soldi dietro la corsa ai vaccini

La corsa contro il tempo per sviluppare vaccini e terapie contro la pandemia da coronavirus è una competizione globale. In gara, secondo i dati più recenti del Milken Institute – un think tank sulla salute pubblica – a sabato scorso c’erano aziende, istituti e università con 97 trattamenti farmacologici tra anticorpi, antivirali, terapie basate sull’Rna e cellule ma soprattutto 52 vaccini che saranno fondamentali per prevenire la malattia. Ma prima che i test clinici, anche in forma accelerata, possano condurre alla produzione di massa passeranno dai 12 ai 18 mesi nello scenario più ottimistico. La ricerca, sia pubblica che privata, sta viaggiando a piena velocità e farà guadagnare valanghe di denaro alle aziende produttrici che deterranno un enorme potere geopolitico. Nel mondo di big pharma, il settore dei vaccini però è solo una delle fette della torta della farmaceutica e nemmeno la più appetibile, anche se può realizzare giganteschi affari durante le pandemie. Sarà il prezzo dei vaccini a fare la differenza tra chi potrà curarsi e chi invece dovrà convivere con il rischio di contrarre il virus.

Secondo le stime di Fortune Business Insights realizzate prima dell’esplosione dell’epidemia di Covid-19, nel 2018 il mercato globale dei vaccini aveva raggiunto un valore di 37,4 miliardi di euro e potrebbe raggiungere gli 83,6 miliardi entro il 2026. Cifre alle quali ora si aggiungeranno i ricavi della campagna vaccinale globale contro Covid-19. Quasi quattro quinti delle vendite globali di vaccini provengono da cinque multinazionali: si tratta di GlaxoSmithKline (Regno Unito, 34,2 miliardi di giro d’affari nel 2018), Merck (Usa, 36,83 miliardi), Sanofi (Francia, 34,46 miliardi), Pfizer (Usa, 46,72 miliardi) e Gilead Sciences (Usa, 19,3 miliardi). Le multinazionali spesso esternalizzano le attività di ricerca e sviluppo. I produttori di vaccini sono rappresentati dalla Federazione internazionale dei produttori e delle associazioni farmaceutiche (Ifpma). Dagli anni ‘80 alcuni produttori di vaccini sono stati fondati nei Paesi in via di sviluppo: attualmente forniscono circa la metà dell’approvvigionamento di vaccini in termini di volumi e circa il 30% del valore dell’approvvigionamento totale di vaccini dell’Unicef. Queste società hanno portato a un calo dei prezzi grazie all’aumento della concorrenza. La loro associazione è la Rete di produttori di vaccini dei Paesi in via di sviluppo (Dcvmn).

Tuttavia, sono relativamente pochi i produttori di vaccini in grado di soddisfare gli standard di qualità stabiliti dall’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). I mercati dei singoli vaccini sono così ormai ridotti a monopoli o oligopoli. Inoltre per le imprese farmaceutiche investire denaro tempo e ricerca nella produzione di vaccini in grado di sradicare totalmente una malattia, come avvenuto nei decenni scorsi con il vaiolo, non è conveniente quanto produrre farmaci per curare malattie croniche. Nel 2018, la banca d’affari Goldman Sachs ha stimato che il trattamento prodotto da Gilead Science per l’epatite C, che ha prodotto tassi di guarigione superiori al 90%, nel 2015 aveva fatturato solo negli Usa 12,5 miliardi di dollari che però tre anni dopo si erano ridotti ad “appena” 4 miliardi perché si era “gradualmente esaurito il pool disponibile di pazienti curabili”. Anche uno studio di McKinsey spiega che la ricerca e sviluppo di nuovi vaccini vanno incontro a controlli più stretti sui prodotti più complessi, con tempi più lunghi per l’approvazione dei prodotti. Ovvero costi più elevati: “Data la natura preventiva di questi farmaci, i vaccini affrontano un livello elevato di qualità e sicurezza, che pertanto aggiunge complessità e costi aggiuntivi durante tutto il processo di sviluppo”. Così investire nella produzione di farmaci rende spesso il doppio o il triplo rispetto a finanziare dei vaccini, anche nei casi di maggior successo come quello del vaccino pneumococcico coniugato che ha avuto un picco di fatturato di 6 miliardi di dollari.

L’Oms ha sviluppato da anni una strategia globale 2019-2030 contro l’influenza e i rischi di pandemie polmonari per la quale ha continuato a chiedere investimenti pubblici e privati. Ma sarà il prezzo dei vaccini a fare la differenza tra gli Stati e i privati che potranno pagare per immunizzarsi contro la pandemia di Coronavirus e coloro che non potranno. La questione è fondamentale per miliardi di persone che vivono nei Paesi poverissimi, poveri e a medio reddito, dove mancano le risorse anche solo per potersi lavare le mani, senza immaginare mascherine o tamponi. Ma paradossalmente il prezzo dei vaccini riveste un ruolo fondamentale anche nel Paese ricco per antonomasia e in realtà primo per diseguaglianza sociale: negli Usa il presidente Trump continua a insistere sul ruolo dei vaccini. Lunedì 2 marzo i vertici delle principali imprese farmaceutiche mondiali si sono incontrate alla Casa Bianca con Trump per discutere della ricerca e sviluppo di un vaccino anti Covid-19. Erano presenti gli amministratori delegati di Gilead, GlaxoSmithKline, Moderna, Novavax e CureVac oltre i capi dei settori R&D di Sanofi, Johnson & Johnson e Pfizer.

Ma la vera differenza la farà la possibilità per tutti di potersi vaccinare, che è legata al prezzo e alla disponibilità di copertura sanitaria pubblica o privata. Nel 2010 il presidente Usa Barack Obama varò la riforma della sanità nota come Obamacare con cui estese a decine di milioni di statunitensi poveri la copertura sanitaria. Ma nel 2017 l’ordine esecutivo presidenziale 13.813 di Donald Trump cancellò parte dei benefici introdotti da Obama. Su 330 milioni di cittadini Usa, secondo gli ultimi dati del 2018, 159 milioni avevano l’assistenza sanitaria di base pagata dai datori di lavoro (che spesso però non copre nemmeno i costi da migliaia di euro dei tamponi necessari per il test del coronavirus), altri 84 milioni un altro tipo di copertura, ma 28,6 milioni erano senza alcun tipo di copertura sanitarie. Il tasso di popolazione Usa non coperta per le spese sanitarie nel 2018 è così risalito di nuovo l’8,9% dal minimo dell’8,6% cui era sceso nel 2016. Nelle ultime ore così Trump ha annunciato che il governo Usa pagherà le cure per il coronavirus a chi non ha un’assicurazione sanitaria usando fondi dal pacchetto di aiuti economici da 2.200 miliardi di dollari varato la settimana scorsa.

L’Ue nuda davanti alla storia se ora scarica l’Italia prostrata

Sono anni ormai che l’Italia si muove in Europa come un elefante in un negozio di porcellane. Dalla crisi dell’euro, i responsabili europei si sono sempre voltati dall’altro lato per non vedere la crescente frammentazione della zona euro, di cui l’Italia è l’epicentro. Fingono di ignorare i numeri imbarazzanti che riguardano la terza economia dell’Unione, giocano sul tempo, cercano espedienti per continuare a rinviare i cambiamenti. La pandemia di Covid-19, che sta colpendo tutto il continente, e l’Italia in primo luogo, abbattendosi su un Paese già gravemente indebolito, non giustifica più queste tattiche dilatorie. Oggi l’Europa ha un appuntamento con la storia. A seconda della risposta che darà all’Italia, cadrà in frantumi, oppure no.

Il caso dell’Italia è così grave che ha già fatto barcollare diversi responsabili europei. Prima fra tutti Christine Lagarde, il cui intervento sugli aiuti da garantire ai Paesi della zona euro in questa crisi sanitaria senza precedenti era molto atteso. Ma la Lagarde ha commesso una gaffe inspiegabile, imperdonabile per una responsabile del suo livello che, prima come ministro, poi come direttore generale del Fondo Mondiale Internazionale, ha già dovuto gestire la crisi dell’euro (…). Le giuste scuse che la Commissione europea ha rivolto all’Italia basteranno a cancellare questi affronti? Dall’inizio di questa tragedia gli italiani si sentono soli, molto soli. Tutti i paesi confinanti, tranne la Francia, hanno chiuso le loro frontiere con l’Italia, spazzando via in un colpo solo i trattati del mercato unico, della libera circolazione europea, dello spazio Schengen. La maggior parte dei paesi europei, a partire proprio dalla Francia e dalla Germania, hanno lesinato sugli aiuti, preferendo tenere per sé i dispositivi medici e i farmaci piuttosto che inviarli oltralpe. Invece di ricevere la solidarietà dell’Europa, gli italiani hanno visto arrivare aerei carichi di mascherine dalla Cina, di aiuti dalla Russia, medici cubani. Tutti gesti mediaticamente messi in scena, in nome della fraternità internazionale: ognuno di questi paesi ha di fatto capito che c’erano delle pedine da riposizionare nello scacchiere geopolitico che si sta velocemente trasformando sotto l’effetto della pandemia, e che l’Italia potrebbe rappresentare l’anello debole. Gli stessi italiani si stanno interrogando: a cosa serve questa Unione che, anche in momenti di estrema emergenza, non è in grado di dimostrare la minima solidarietà? Ma molti osservatori, e in molte capitali del mondo, si stanno ponendo la stessa domanda.

“A ogni crisi macroeconomica riappaiono tutti i difetti di concezione della zona euro e ogni volta la crisi dell’Europa si risveglia”, osserva Eric Dor, economista della Ieseg School of Management di Lille. Le lacune della zona euro sono note da anni: mancano un budget comune, un’unione bancaria e un meccanismo di compensazione. Queste disfunzioni strutturali hanno causato degli squilibri economici che minano ormai l’intera costruzione politica dell’Ue. In molti dei suoi lavori, l’economista David Cayla, docente all’università di Angers e autore di La fin de l’Union européenne (2017), ha messo in luce gli effetti della costruzione traballante dell’Unione: “Grazie alla sua organizzazione, alla sua specializzazione industriale e ad un euro debole rispetto alla sua economia – ha spiegato Cayla in un’intervista – la Germania è diventata il principale beneficiario dell’Unione. Altri paesi hanno seguito il motore tedesco.

L’Olanda, che ha una tradizione commerciale, e in misura minore il Belgio (soprattutto fiammingo), traggono vantaggi da questa concentrazione”. Questa polarizzazione economica e industriale ha portato alla distruzione dello strumento produttivo e industriale dell’Europa del sud. L’Italia, per la quale l’euro è troppo forte e non ha più la possibilità di usare l’arma della svalutazione per riacquistare competitività, ha pagato un pesante tributo. Tra il 2000 e il 2015, il volume dell’attività manifatturiera è diminuito di oltre il 21%. Dal suo ingresso nell’euro, l’economia italiana ha registrato 15 trimestri di recessione. Il Pil del paese, dopo essere aumentato nel corso dei primi anni, è crollato a partire dalla crisi del 2008, recuperando a malapena nel 2016 il livello del 2000. Da allora, l’economia italiana è di nuovo precipitata, sfiorando la recessione ogni trimestre dalla fine del 2018 (…). Questo caos economico si ritrovava già nei bilanci delle banche. I crediti sospetti – per non dire persi – sono stimati a più di 360 miliardi di euro, ovvero più del 13% delle passività bancarie. Non trovando una soluzione a livello europeo, il governo ha via via assorbito i conti per evitare il fallimento delle banche. Ma le banche italiane, come quelle spagnole, dipendono quasi esclusivamente dalla Banca centrale europea che alimenta le loro liquidità.

La crisi dell’euro ha di fatto ulteriormente accentuato la frammentazione della zona euro. “I flussi monetari non circolano più all’interno della zona”, ha riconosciuto lo scorso luglio Christian Noyer, l’ex governatore della Banca di Francia. Di questa frammentazione sono un esempio eclatante i conti di Target 2, il sistema di pagamento dell’unione bancaria, la piattaforma che funziona da camera di compensazione tra le varie banche centrali dell’Unione europea. Nel gennaio 2020, l’Italia ha registrato un deficit di 384 miliardi di euro rispetto a tutti gli altri paesi europei, mentre la Germania ha registrato un’eccedenza di 821 miliardi. Le eccedenze degli uni rappresentano le perdite degli altri.

È in questo contesto economico già molto pesante che è piombata la pandemia di Covid-19. Secondo le prime stime della Confindustria, l’economia italiana rischia un calo del 6,8%. Per far fronte all’epidemia e alle conseguenze delle misure di contenimento che hanno bloccato il paese, e nel tentativo di preservare il futuro, il governo italiano si sta impegnando a liberare d’urgenza 50 miliardi di euro supplementari (…). Ma l’Italia ha bisogno di più di 50 miliardi di euro per riprendersi pienamente. Questo è uno dei motivi che ha spinto il governo italiano e i governi di molti altri Paesi ad appoggiare la proposta di emissione di “Coronabond”. Un debito mutualizzato a livello europeo che permetterebbe di reperire molti più capitali, senza correre il rischio di provocare una crisi del debito pubblico di un Paese o di un altro, come è successo per la crisi greca. Questa risposta finanziaria da sola sarebbe senza dubbio insufficiente, ma, se si aggiungono le promesse della Bce che si è impegnata ad assicurare “mezzi illimitati”, sarebbe la prova che l’Europa può essere solidale nella crisi.

Come nel 2012, la Germania e l’Olanda si oppongono a ogni progetto di mutualizzazione del debito. È una delle promesse che erano state fatte agli elettori: tedeschi e olandesi non avrebbero mai pagato per gli altri paesi. Per la Germania e l’Olanda il ricorso agli eurobond non è giustificato anche perché l’Europa possiede ormai gli strumenti necessari per affrontare una nuova crisi: il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), un fondo di 450 miliardi di euro destinato ad aiutare i Paesi in difficoltà. Ma, pur rafforzando l’effetto di incentivo del fondo e contraendo i prestiti necessari sui mercati, non è certo che il Mes sia sufficiente a riparare i danni causati dalla pandemia e la recessione che ne seguirà per poter far fronte ai bisogni dell’Italia. “Serve un piano Marshall per l’Italia”, ha detto Christopher Dembik, il responsabile della ricerca macroeconomica del gruppo Saxo Bank. Il governo italiano sembra escludere il ricorso al Meccanismo europeo di stabilità tanto più che le regole in vigore, come chiedono la Germania e l’Olanda, devono essere rispettate. In altre parole, come fu nel caso del salvataggio della Grecia, tutti gli aiuti sarebbero sottoposti a condizioni e il Paese che li riceve dovrebbe accettare di porsi sotto il controllo dell’Europa, di applicare le misure correttive che gli vengono raccomandate, di rinunciare in sintesi a una parte sostanziale della sua sovranità. “Inaccettabile”, ha già fatto sapere il governo italiano, facendo notare che la crisi attuale, legata alla epidemia, non è dovuta agli effetti nefasti di una politica caotica. Inoltre, come fanno notare alcuni responsabili europei, il ricorso al Mes implicherebbe nuove politiche di austerità, necessarie per garantire il rimborso degli Stati creditori ma che, applicate a un’economia già in ginocchio, avrebbero un esito disastroso.

Diversi politici ed economisti tedeschi si sono uniti agli altri paesi europei per chiedere la creazione di Eurobond, cioè di mutualizzare i debiti a livello europeo per affrontare insieme la sfida senza precedenti di questa crisi sanitaria. Dal canto suo, la destra tedesca resta ferma sulle sue posizioni, rifiutando ogni evoluzione verso un’unione di trasferimento, basata sulla solidarietà di tutti. Alla base delle resistenze della Germania e dell’Olanda a ogni forma di trasferimento e di mutualizzazione, non ci sono solo questioni di principio. All’epoca della crisi dell’euro, quando l’Italia ha rischiato di ritrovarsi nella stessa situazione della Grecia, molti osservatori si erano chiesti se gli altri paesi europei sarebbero stati in grado di salvarla. L’Italia non è la Grecia, facevano notare. Le nostre economie, spiegavano all’epoca, non ce l’avrebbero mai fatta a resistere all’operazione di salvataggio della terza economia europea, indebitata per oltre 2 miliardi di euro. Queste riflessioni sono ancora nella mente di tutti. Allo stesso tempo, rinunciare ad aiutare l’Italia vorrebbe dire accettare di fatto una dislocazione accelerata dall’Europa. Bisogna salvare l’Italia e l’Europa oppure salvare se stessi? Per il momento, Angela Merkel, come suo solito, resta in silenzio. Ma a differenza della crisi finanziaria del 2008, non potrà tergiversare ancora a lungo. La storia sta bussando alla nostra porta.

(traduzione Luana De Micco)

Dall’Elba alle Eolie, terrore del contagio nelle isole minori

Marciana Marina, il più piccolo comune dell’Isola d’Elba, è vuota. Il BarLume è solo un lontano ricordo: niente turisti stranieri che chiedono un cappuccino a tutte le ore del giorno, nessun giallo da risolvere ma soprattutto la quarantena forzata di Gino, Ampelio, Aldo, Emo e Pilade, i cinque pensionati-detective che nella serie scritta da Marco Malvaldi passano tutto il giorno al bar con vista mare a giocare a carte. Adesso in paese sono tutti chiusi in casa, si parla solo di tamponi, guanti e mascherine e di come andrà a finire la stagione estiva, forse già compromessa dal Covid-19. Uno scenario inimmaginabile fino a poco tempo fa. A Marciana il coronavirus non è ancora arrivato ma sull’isola sì, con otto contagi di cui sei solo a Rio Marina, estrema punta nord dell’Elba. “Speravamo di restare vergini e sarebbe stato sicuramente meglio – dice al Fatto Quotidiano il sindaco di Porto Azzurro, Maurizio Papi – però non è stato possibile: se avessimo chiuso l’isola a inizio marzo, questo non sarebbe successo”.

Nonostante la lontananza dalla terra ferma e i diversi movimenti di persone e di merci, il coronavirus sta colpendo tutte le isole minori italiane, anche quelle più lontane dai primi focolai lombardi e veneti: oltre agli otto casi elbani, ce ne sono due all’isola del Giglio (una coppia di Piacenza), 30 casi tra Capri e Ischia, uno a La Maddalena (Sardegna) e quattro a Salina, nelle Eolie. Al momento invece non si registrano casi nelle isole di Ponza e Ventotene, zero positivi anche a Panarea e Lipari (le più grosse delle Eolie) e alle Termiti, talmente isolate che il sindaco Antonio Fentini e il suo staff hanno deciso di non metterci piede da più di tre settimane governandole da Termoli, in Molise. Una sorta di autogoverno da parte dei circa 300 residenti rimasti sulle isole visto che, insieme al primo cittadino, sulla terra ferma sono rimasti anche il segretario e il ragioniere comunale ma anche il comandante dei vigili urbani. Il problema però diventa l’approvvigionamento: dopo i blocchi della compagnia Tirrenia, gli unici collegamenti con le isole sono garantite da elicotteri e la nave “salvamigranti” Diciotti.

Il vero incubo di governo e Regione Sicilia però si è materializzato il 26 marzo: a Lampedusa una docente rientrata da Bergamo lo scorso 10 marzo è risultata positiva e adesso il timore è che il virus entri anche nei centri di prima accoglienza, visto che tra fine febbraio e inizio marzo sono sbarcati 150 migranti. Al momento 26 di questi si trovano in quarantena nell’hotspot di Lampedusa (gli altri sono stati trasferiti in nave a Porto Empedocle) e anche per la grandezza del centro, possono mantenere le distanze di sicurezza. Ma il timore è che con l’arrivo della bella stagione gli sbarchi dal nord Africa ricomincino, aumentando i contagi sulla piccola isola da 4.500 abitanti. Anche per questo tutti i collegamenti con Palermo sono interrotti, tranne quelli per rifornire la più grossa isola delle Pelagie con farmaci e beni di prima necessità.

Con i primi contagi sulle isole minori, è arrivata anche la caccia all’untore, tipicamente il residente nelle regioni del nord Italia che alla prima emergenza fugge da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna per riaprire le seconde case. Con il rischio di un’inevitabile “bomba sociale” tra residenti e “ospiti”. Oltre ai 13mila sbarcati in Sardegna dalle zone rosse, nell’ultimo mese sull’isola d’Elba sono arrivati circa 500 cittadini da Lombardia e Veneto che nei primi due week-end di marzo, anche grazie alle prime giornate di sole, hanno affollato le spiagge di Cavoli e Campo nell’Elba: “Dovevamo chiudere il porto di Piombino appena sono emersi i primi focolai e le zone rosse nel nord Italia – continua il sindaco Papi – anche noi sindaci ci siamo mossi in ordine sparso e la Regione non ha bloccato subito i traghetti. Adesso rischia di essere troppo tardi”.

Le preoccupazioni sulle isole minori sono soprattutto di carattere sanitario. Quasi sempre non ci sono veri e propri ospedali e quindi nemmeno i posti da terapia intensiva: i possibili contagiati devono essere trasportati con elicotteri sulla terra ferma e solo in determinate condizioni meteo, quindi l’obiettivo dei sindaci isolani è che il contagio sia contenuto per evitare una crisi sanitaria. È il caso, per esempio, di Lipari dove nei giorni scorsi un gruppo di cittadini ha scritto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, perché c’è un solo posto di terapia intensiva e la vicina Messina rischia di diventare “la Bergamo due” d’Italia con 288 casi positivi (10 guariti e 18 deceduti), seconda solo alla provincia di Catania per numero di contagi. Il problema riguarda anche quei medici e infermieri che fanno avanti e indietro dalle isole e potrebbero portare il virus, involontariamente: “Ci rendiamo conto di esser una piccola comunità, ma da sempre siamo isolati e spesso dimenticati dalle istituzioni regionali, ma oggi siamo noi a chiedere di isolarci e tutelarci – hanno scritto i cittadini di Controcorrente Eolie – così rischiamo di fare la fine dei topi”.

Stesso sgomento che riguarda gli elbani: se il virus dovesse estendersi a macchia d’olio su tutta l’isola, il sistema sanitario andrebbe in sofferenza. All’Elba non c’è un vero ospedale (quello di Portoferraio è considerato un pronto soccorso) e nemmeno posti di terapia intensiva: i contagiati che hanno bisogno di un ricovero sono stati trasportati con un elicottero agli ospedali di Cisanello (Pisa) e di Livorno. “Siamo preoccupatissimi – spiega Manola Balderi, vicepresidente dell’associazione ‘Elba sanità’– non abbiamo ospedali vicini e i nostri medici non sono attrezzati per rispondere a un’emergenza così grave”. Per ridurre al minimo il contagio quindi molti sindaci elbani hanno deciso di adottare misure draconiane. Papi a Porto Azzurro ha prima schedato i residenti e le 150 persone che hanno riaperto le seconde case, poi ha anticipato il governo impedendo il jogging e imponendo al massimo due uscite per il cane, fino all’ultima ordinanza di fine marzo: i residenti potranno fare solo una spesa ogni quattro giorni. Per farlo, davanti ai tre supermercati comunali si trovano volontari delle associazioni che ‘schedano’ chi entra e chi esce e, attraverso l’incrocio dei dati, si potranno scovare i furbetti.

Vietato indagare sul virus: giornalisti dietro le sbarre

Uno dei primi nomi dell’elenco è serbo: Ana Lalic. La corrispondente del media Nova.rs “ha causato panico diffondendo notizie non verificate” sul Covid-19, raccontando del lavoro del personale medico impossibilitato a garantire la sicurezza dei pazienti in un ospedale della Vojvodina. È stata arrestata di notte dalla polizia di Novy Sad, rilasciata qualche giorno dopo con la fedina penale sporca e a mani vuote: con computer e telefono confiscati non può più lavorare.

Il virus costringe molti in affollate corsie d’emergenza dell’ospedale, altri nella tomba ed ancora altri ancora in cella. È il destino dei reporter che in queste settimane investigano su governi impreparati, inadeguati o indifferenti al diffondersi della pandemia. La ricerca della verità sul Coronavirus conduce spesso alle sbarre, da Gaza al Venezuela: Darvinson Rojas è un giovane giornalista che tentava di documentare il suo Paese nel suo momento più cruciale. Le Faes, squadre speciali di Caracas, hanno pestato suo padre Jesus e poi interrogato lui per ore sul nome della fonte che gli ha fornito informazioni sul malsano stato di cose nello stato di Miranda.

“Arrestare giornalisti e interrogarli scoraggerà gli altri dal riportare della pandemia, chiediamo il suo immediato rilascio” ha tuonato il CPJ, Comitato Protezione Giornalisti, costretto a ripetere appelli contenenti questa stessa frase da inviare uguali, giorno e notte, da un lato all’altro del mondo, dopo una pioggia orizzontale e verticale di notizie di reporter arrestati, interrogati, espulsi, trascinati nel fango per essere screditati a puntino.

Uno dietro l’altro, episodi simili si inanellano da Minsk a Delhi. Nella siderale Bielorussia, per aver criticato l’inazione del presidente Aleksandr Lukashenko, il giornalista Siarhei Satsuk rischia una pena di dieci anni di carcere, ma in prigione intanto il suo Stato l’ha già rinchiuso. Il Corona rende letale ciò che era già pericoloso: dire la verità sotto i più duri regimi o nelle più autoritarie tra le democrazie. Giordania, Oman, Marocco, Yemen hanno limitato la diffusione di notizie. Teharan invece ha vietato la stampa dei quotidiani come misura necessaria di contenimento dell’infezione. Non potranno più sfogliare le pagine dei giornali cittadini storditi da proclami decuplicati in tv e radio, numerosi come i cadaveri nelle fosse dei cimiteri persiani, colme dei loro cari deceduti. Né potranno più leggere le parole di Mohammad Mosaed, giornalista economico che ha criticato le autorità, finito nel mirino delle temute Guardie rivoluzionarie, che hanno giudicato “criminali” i suoi commenti. Al parallelo di Addis Abeba Yayesew Shimelis, penna del giornale Feteh e volto della tv Tigray, pensa di essere finito in custodia per aver questionato i numeri dei contagi del ministero della Salute etiope, ma non gli sono state fornite accuse formali per cui ora conta solo le sbarre della sua cella. In Niger la sua storia si ripete uguale per Kaka Touda Mamane e in Zimbawue per Nunurai Jena. Sorti gemelle a quella di Siddharth Vardarajan, redattore al giornale The Wire, colpevole di aver firmato “un’indagine che semina discordia” secondo le autorità indiane, che hanno fermato le sue dita sulla tastiera con le manette.

Alcuni in faccia hanno la mascherina, altri la museruola: rappresentazione plastica del silenzio richiesto dalle autorità. Nella nebbia di informazioni approssimative fornite dalle fonti ufficiali, che sciorinano compiaciute ai microfoni cifre mendaci sul Covid-19, il clangore della censura a certe latitudini è sempre più assordante.

A colpi di decreti d’emergenza in Ungheria, Russia, Serbia si possono infliggere multe e anni di carcere a chi diffonde fake news sul virus. Si tratta di un flusso spiazzante di leggi repentinamente approvate che permettono però di neutralizzare, sopprimere, criminalizzare chi sfida, critica o indaga le versioni ufficiali di premier e presidenti dal pugno durissimo. Sono le nuove regole di ingaggio che minano ulteriormente la già ardua sopravvivenza del giornalismo d’inchiesta.

“Proteggere i cittadini della disinformazione”: dietro questa ragione nobile nascondono l’alibi dei loro reali intenti per la repressione della libertà di stampa capi di Governo da Budapest a Città del Capo fino ad Istanbul, dove centinaia di persone sono state fermate per aver fatto “commenti provocatori” sui social media sul Covid-19. In Cambogia per diffusione di false notizie ci sono stati 17 arresti. Sul sito del Governo sudafricano le dichiarazioni sul controllo della stampa sono similari a quelle del lontanissimo governo thailandese: verrà perseguito penalmente chi diffonde dati allarmanti sul virus. Se ci sono le impronte digitali delle autorità, lente nel prendere decisioni per salvare gli infetti, non bisogna comunque smentire la macchina governativa.

Imperativo è non scavare e tacere. Eppure si registrano atti di abnegazione di chi tenta anche in questo momento funesto di tributare riconoscimento alla cronaca della situazione reale, cercandola anche dove sembra impossibile trovarla.

Ruth Michaelson, corrispondente del britannico Guardian dal 2014, è stata costretta a lasciare lo Stato arabo più popoloso, l’Egitto, dopo che ha diffuso uno studio scientifico che ha fatto infuriare i servizi segreti del Cairo: ha riferito, citando accreditate fonti, che i contagiati nel Paese sono decine di migliaia e non solo 865, come dichiarato dal ministero della Salute all’ombra delle piramidi. Il suo permesso giornalistico è stato ritirato come la licenza dell’agenzia Reuters, sospesa per tre mesi dalle autorità irachene con una multa aggiuntiva di 25 milioni di dinari, oltre 20mila dollari per un motivo equivalente. L’agenzia giornalistica, fornendo numeri che contraddicono Bagdad, ha messo “a rischio la sicurezza irachena”. Nonostante minacce, interrogatori, paure e detenzione, altri giornalisti continueranno ad affacciarsi sulle loro nazioni vessate per raccontarle nel loro periodo più cupo, consapevoli che il nuovo virus è pericoloso, ma il silenzio è da sempre mortale.