Covid, la strana guerra: mistero sulla strategia e “disertori” ben pagati

Strategia strategia, per piccina che tu sia… D’accordo, qui la strategia non è cosa piccola, lo capiamo benissimo anche noi incolti dalla nostra reclusione, Milano, vigilia della settimana n.7. Essendoci di mezzo la salute di un popolo e un’economia nazionale, non può che essere inevitabilmente grande strategia. Epperò… però come si fa a dire alla nazione nello stesso giorno, con tre voci diverse, che finirà il 15 aprile, anzi il 3 maggio, anzi il 18 maggio? Non si può fissare una regola per cui notizie così importanti per decine di milioni di persone le dà uno solo e gli altri non rispondono alle interviste nemmeno sotto tortura? Le mascherine sono obbligatorie o no? E se ne arrivano da tutto il mondo come è possibile che i medici, e gli infermieri e gli agenti di polizia (a partire dalla polizia penitenziaria) ne siano privi? Se il tampone è così importante perché non se ne fa uso uguale in tutta Italia, e un medico che si mette in quarantena e ovviamente lo comunica non riesce a farselo fare (successo a Milano)? Che cos’è questa lite continua tra comuni e regioni e tra regioni e Stato?

Ma se è una guerra, si è mai vista in guerra una roba del genere? Comandi che litigano, assenza di ordini chiari, assalti finali al nemico annunciati per giorni sempre diversi? E insisto, insisto: si sono mai visti quelli al fronte che se la danno a gambe (sì, penso sempre ai battaglioni di medici che si danno malati mentre ottanta di loro muoiono) senza subire una sanzione, e che anzi continuano a prendersi indisturbati lo stipendio?

Guardo le strade deserte, ascolto l’inquietante silenzio della notte illuminata da una splendida luna, e penso che della guerra ci sono alcune cose, senza dubbio: i morti senza mani care da stringere e senza funerali, il coprifuoco permanente, famiglie divise, a volte con strazio, l’impossibilità di curarsi perché ci sono cose più urgenti, gli affari e i negozi quotidiani finiti di colpo e povertà improvvise. Ma della guerra mancano alcune cose: lo spirito di disciplina, la univocità dei comandi, la punizione dei disertori. E appunto la strategia; che non sia solo quella medica di stare a casa.

Mentre gli uomini lasciano il campo e se ne stanno nelle loro case, magari crogiolandosi al sole sul balcone come i miei dirimpettai in questo momento, sta accadendo qualcosa di incredibile. Non solo crolla l’inquinamento, come sappiamo. Non solo crollano i reati, perché nessuno si sogna di andare a rapinare nelle case, presidiate h.24, come dicono gli aspiranti manager; e tanto meno nessuno si sogna di mettere le mani addosso a qualcuno per un rolex, fosse mai che è infetto. Ma l’istinto che sempre li guida porta gli animali a riprendersi il mondo.

La primavera è tutta loro. Concerti mai sentiti di uccellini al tramonto, suoni di sogno vicino a parco Ravizza. In via Boccaccio, in pieno centro, proprio sulla strada, cammina al suo passo un gruppetto di papere, ripreso da telecamerina pirata. Al parco Sempione spuntano conigli, e arrivano immagini di una gazzella sulla spiaggia a Pesaro, di delfini a Otranto e perfino di pesci visibili in trasparenza a Venezia. Sei recluso per tutto ma mai come ora ti arrivano immagini. Solo quelle importanti non ti arrivano, se non di sguincio. È morta dopo 288 giorni di sciopero della fame Helin Bolek, cantante dei Grup Yorum, gruppo turco del dissenso, perseguitato da Erdogan. Si era fatta due anni di carcere, è morta chiedendo la scarcerazione dei suoi compagni e la fine del divieto imposto ai loro concerti. Aveva 28 anni. Che la loro musica diventi nel mondo simbolo di libertà.

E a proposito di animali che riescono fuori, sono tornati alla carica i mafiosi dei clan foggiani. In pieno giorno, alla faccia dei divieti, hanno realizzato un attentato dinamitardo contro la struttura di assistenza per anziani “Il Sorriso di Stefano”, dei fratelli Luca e Cristian Vigilante, testimoni a carico di un clan di estorsori che ha provato a passare anche da loro. I due imprenditori andranno avanti, anche se da un balcone l’ennesimo traditore ha urlato “Vigilante chiudila questa struttura, non ne possiamo più”. Libera di Foggia, che già a gennaio è scesa in piazza per protesta, giura che starà al loro fianco. E una presa ancora più dura su questa criminalità sgallettante promettono le forze dell’ordine. Non passeranno. Purtroppo sono passati nell’incuria generale tanto tempo fa. Ora però possono essere ricacciati indietro, come il contagio. Perché anche questa è una guerra. Ma torneranno i prati.

I medici porteranno le cicatrici
e qualcuno vuole fargli causa

Cara Selvaggia, mi chiamo Veronica e sono un medico odontoiatra a Frosinone. Amo il mio lavoro anche se non ha nulla di eroico, mi piace far sorridere le persone e sono felice così. Non le scrivo per me, ma per mio fratello. Lui è un vero eroe, è un medico anestesista e rianimatore. Lui è uno dei tanti cervelli che dal centro-sud è migrato al nord per il cosiddetto ‘posto fisso’. Le assicuro un bel cervello, sempre stato primo in tutto, dalla scuola elementare al concorso di specializzazione. Ha lasciato il Policlinico Gemelli di Roma perché non c’era possibilità di assunzione e ha trovato la fortuna al Poliambulanza di Brescia, lontano dalla famiglia e dagli amici. Si è sposato, ha comprato casa e ha messo su famiglia. Ora vive con sua moglie, una vivace bimba di 3 anni e una piccola Stella arrivata ad illuminare questo periodo buio il 1 di aprile. Mio fratello. quando si toglie camice e mascherina torna a casa e indossa i panni del super papà aiutando in casa, curandosi delle sue bimbe. Le scrivo perché sono arrabbiata e amareggiata per l’ignoranza e l’irriconoscenza di molte persone che dopo aver gridato agli ‘eroi’, ora si organizzano in gruppo per denunciare i medici che non sono riusciti a salvare i loro cari. Capisco la disperazione, la rabbia di aver perso un familiare, ma oggi i medici vadano tutelati perché, quando finirà, molti di loro porteranno i segni di disturbi post traumatici da stress. Qualcuno pensarà “i medici sono abituati alla morte”, ma non è vero, non così. Non sono abituati a vedere morire 20-30 persone al giorno; non in quel modo, senza che i loro pazienti diano un ultimo bacio a figli e nipoti. Quando tutto sarà finito servirà aiuto anche per loro: chi ridarà a questi uomini e donne la spensieratezza? Grazie per lo sfogo, spero che la sua penna possa amplificare il mio grido.

Veronica

Sono morti 80 medici e un numero imprecisato di infermieri, oss e addetti alle pulizie negli ospedali. Sarebbero le loro famiglie a dover intentare cause contro chi non li ha protetti, al limite.

Italiani all’estero, l’odissea “Alitalia in ritardo e ‘assente’ Nessun controllo sanitario”

Cara Selvaggia, mi chiamo Lucrezia Clerici, sono una studentessa internazionale e, fino a quando il Covid 19 non si è diffuso anche in Inghilterra, ho studiato e vissuto a Canterbury. La scuola è stata chiusa per ordine del governo il 20 marzo e ho dovuto programmare il rientro in Italia. Ma il primo volo messo a disposizione dalla Farnesina (trovato dopo una serie infinita di chiamate e tentativi di prenotazione) era del 31 marzo. Non avendo altra scelta ho comprato il biglietto restando all’estero 10 giorni in più, tra mille difficoltà e a spese della mia famiglia. Finalmente, il gran giorno della partenza, carica di valigie dopo aver smantellato la mia sistemazione al college, arrivo in aeroporto pronta per prendere il mio volo AZ 0203 delle 12.15: arrivo stimato alle 15.55. Così avrei preso la coincidenza per Milano alle 17.30. Ma l’aereo non c’è. La puntualità è solo per l’annuncio che ci informa di un ritardo di 4 ore. Nello sconforto che inizia a farsi spazio chiedo il motivo di tanta attesa ma nessuno mi fornisce una spiegazione. Siamo un bel gruppo di passeggeri, ci sono anche altri ragazzi come me. Attendiamo accampati davanti al gate senza controllo, senza richiesta di osservare la distanza di sicurezza, che alla meglio cerchiamo di tenere nonostante lo spazio piccolo. Dopo un po’ ci vengono fornite delle banali mascherine di tessuto, solo quelle ci separano dal contagio del Coronavirus. Un annuncio ci avvisa che siamo in partenza, l’imbarco è veloce ma atterriamo a Fiumicino alle 18.30 e il mio volo per Milano è già partito. Nessuno del personale Alitalia (consapevole che molti di noi avevano la coincidenza con altri voli) ha assistito in alcun modo i passeggeri. In risposta alle proteste, a noi in viaggio per Milano ci hanno solo detto che forse potevamo prendere il volo delle 20:00. Ma tra l’attesa per ritirare i bagagli, i controlli dei documenti (ma non sanitari… nessuno ci ha mai misurato la temperatura) ovviamente abbiamo perso anche l’aereo delle 20:00. Ci viene detto che la colpa non è di Alitalia e non abbiamo diritto a nessun rimborso; forse, se la mattina successiva qualche passeggero rinuncia, mi imbarcano sul volo delle 10:00 per Milano. Forse. Sono basita ed espongo le mie rimostranze, ma sono solo una ragazza di 18 anni e non mi stanno a sentire. Rimango da sola in aeroporto senza sapere dove passerò la notte, come pagherò le spese e soprattutto se l’indomani avrò un posto su quel maledetto aereo. Ovviamente la mia famiglia, in preda alla preoccupazione di sapermi in giro da sola si è fatta carico di tutto e da Milano, via internet, mi ha prenotato un hotel per la notte, fortunatamente ancora disponibile all’ospitalità visto il periodo di serrata totale in cui ci troviamo. Considerando quanto mi avevano detto in aereoporto ho deciso di tornare a casa con il treno, sempre mia madre è riuscita a prenotare un posto per la mattina successiva sull’unico Frecciarossa diretto a Milano. Ritengo di dover segnalare la sequenza di disservizi, l’assenza ingiustificata e gravissima dei referenti della Compagnia Alitalia e la forte carenza di attenzione per i controlli sanitari soprattutto in una situazione di grave emergenza come quella che stiamo attraversando.

Lucrezia

 

Cara Lucrezia, ritieniti fortunata: poteva fallire mentre eri in aeroporto, in attesa del primo volo.

 

I medici porteranno le cicatrici e qualcuno vuole fargli causa

Cara Selvaggia, mi chiamo Veronica e sono un medico odontoiatra a Frosinone. Amo il mio lavoro anche se non ha nulla di eroico, mi piace far sorridere le persone e sono felice così. Non le scrivo per me, ma per mio fratello. Lui è un vero eroe, è un medico anestesista e rianimatore. Lui è uno dei tanti cervelli che dal centro-sud è migrato al nord per il cosiddetto ‘posto fisso’. Le assicuro un bel cervello, sempre stato primo in tutto, dalla scuola elementare al concorso di specializzazione. Ha lasciato il Policlinico Gemelli di Roma perché non c’era possibilità di assunzione e ha trovato la fortuna al Poliambulanza di Brescia, lontano dalla famiglia e dagli amici. Si è sposato, ha comprato casa e ha messo su famiglia. Ora vive con sua moglie, una vivace bimba di 3 anni e una piccola Stella arrivata ad illuminare questo periodo buio il 1 di aprile. Mio fratello. quando si toglie camice e mascherina torna a casa e indossa i panni del super papà aiutando in casa, curandosi delle sue bimbe. Le scrivo perché sono arrabbiata e amareggiata per l’ignoranza e l’irriconoscenza di molte persone che dopo aver gridato agli ‘eroi’, ora si organizzano in gruppo per denunciare i medici che non sono riusciti a salvare i loro cari. Capisco la disperazione, la rabbia di aver perso un familiare, ma oggi i medici vadano tutelati perché, quando finirà, molti di loro porteranno i segni di disturbi post traumatici da stress. Qualcuno pensarà “i medici sono abituati alla morte”, ma non è vero, non così. Non sono abituati a vedere morire 20-30 persone al giorno; non in quel modo, senza che i loro pazienti diano un ultimo bacio a figli e nipoti. Quando tutto sarà finito servirà aiuto anche per loro: chi ridarà a questi uomini e donne la spensieratezza? Grazie per lo sfogo, spero che la sua penna possa amplificare il mio grido.

Veronica

 

Sono morti 80 medici e un numero imprecisato di infermieri, oss e addetti alle pulizie negli ospedali. Sarebbero le loro famiglie a dover intentare cause contro chi non li ha protetti, al limite.

 

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Stadi aperti in Bielorussia: “Il virus? Non esageriamo”

“Questo derby è stato l’unica partita di calcio sulla terra”. Questa frase si legge nel rapporto ufficiale dell’incontro della Dinamo Minsk che ha registrato la sua sconfitta per 3-2 contro il Futbol Klub Minsk il 29 marzo scorso. Nello stesso giorno nel resto del mondo sono morte 33mila persone nell’era dell’emergenza Covid-19, un virus che per il presidente della nazione, Aleksandr Lukashenko, “è solo una psicosi”.

Nell’isolata e siderale città slava giocatori flemmatici e riluttanti hanno segnato gli ultimi gol per squadre che dal Novecento non hanno abbandonato il loro nome sovietico. Mani battute al cielo al ritmo dei cori di tifosi con le sciarpe al collo: bianche e blu per la Dynamo, blu e rosse per la Futbol Klub. Sono le ultime sentinelle del pallone tra gli spalti della Vysejsaya Liha, Premiere League bielorussa, unica in Europa a continuare e di cui adesso si acquistano diritti tv. Ma un appello inascoltato è stato lanciato proprio dagli ultras della squadra di seria A Neman Grodno, scesa comunque in campo lo scorso weekend: “Chiediamo di sospendere il campionato come sta accadendo nel resto del mondo, invitiamo i fan di tutte le squadre a restare a casa e non andare allo stadio, c’è una difficile situazione epidemiologica nel Paese”.

Sempre più ultras chiedono la fine dei giochi, spaventati dalle cifre fasulle delle autorità che dichiarano meno di cento casi di contagio nel Paese. Altre sfide sono in programma, non importa il loro risultato, ma piuttosto che ce ne sia uno: solo in Bielorussia la rete negli stadi aperti si gonfia. “Non c’è stato d’emergenza nel nostro Paese, perché sospendere i giochi?”. L’autorità sportiva di Minsk non ha fermato i raduni, bollando i consigli dei virologi del Paese come apocalittici ed ingombranti. Il sito sportivo Pressbol annuncia che “le partite sono seguite da Ucraina, Russia, Israele, Serbia, Bosnia-Erzegovina e Montenegro, India” dove non si gioca più a calcio.

Mentre le nazioni sono al crocevia della catastrofe mondiale, Lukashenko fa correre i ragazzi sul campo verde con i numeri sulla schiena. Un gioco paradossale, con i cancelli aperti degli stadi e i confini chiusi di Stato sigillato in se stesso, a cui perfino la sorella Russia ha chiuso le sue dogane e i suoi camion di rifornimenti per la malattia che decima il mondo, che per il dinosauro sovietico al potere dal 1994, “non esiste”.

Anche il più bilioso tra i deputati del Cremlino, il liberal-democratico Vladimir Zhirnovsky, ha avvertito da Mosca: “Lukashenko deride il pianeta. Ovunque sono state prese misure rigorose, in Bielorussia gli stadi sono pieni”. Il vice-presidente della Duma poi lo ha chiamato per nome e patronimico: “Prima che decine di infetti diventeranno migliaia, fermati, ti prego, Aleksandr Gregorevich, credi che l’intero globo sia pazzo e tu intelligente?”.

Ma Lukashenko ha posto una sola cosa al vertice del potere: l’immaginazione, la sua. Dà consigli di salute ai suoi 9 milioni di cittadini rintronati dalla sua propaganda ghignando: “Bisogna ammazzare il virus con la vodka, bere 40-50 millilitri al giorno, ma non al lavoro” e “due o tre volte alla settimana fare la sauna”, “non lavatevi solo le mani, ma anche gli intestini con l’alcol”.

Il mondo fa sommarie stime di danni incalcolabili, Aleksandr vuole fare solo quello dei risultati dei campionati: non solo di calcio, di tutti gli sport. Nel momento in cui la tenuta della Sanità mondiale oscilla, lui si fa riprendere mentre pattina sul ghiaccio indossando la divisa rossa, bianca, blu della sua nazionale. Il futuro della Bielorussia è tra le sue dita e lui prende in mano la mazza per giocare a hockey: “Meglio vivere in piedi che morire in ginocchio”. Citando la frase del rivoluzionario sudamericano Emiliano Zapata si rivolge alla giornalista e le chiede: “Lei vede qualche virus qui in giro sugli spalti? Il miglior rimedio per il virus è lo sport”, ha sghignazzato a microfono.

Continuate a giocare, “continuate a lavorare, andate nei campi, il trattore guarisce tutti”. La Bielorussia in questi giorni è testimone di un’incoscienza tutta slava, prigioniera dell’arbitro folle che la tiranneggia, che non uscirà sconfitto e colpevole da una partita, ma dall’epidemia e dalla storia.

Oggi moriva Raffaello

“Il bello è un quadro tale che lo si possa mettere nella cella di un condannato all’isolamento perpetuo senza che ciò sia un’atrocità, anzi il contrario”. Mai come in queste settimane di reclusione forzata nelle nostre abitazioni possiamo comprendere la saggezza di questa definizione, che dobbiamo a Simone Weil, una delle voci più alte della filosofia del Novecento. E se mi chiedo quale quadro vorrei nella mia stanza pensando di non poterne mai più uscire, ebbene ne vorrei uno di quel Raffaello che, quando era vivo, sembrò vincere la natura, e morendo parve far morire con lui la natura stessa. Sono le parole che probabilmente Pietro Bembo dettò per la tomba di Raffaello: che morì, a 37 anni, esattamente mezzo millennio fa, il 6 aprile del 1520. Non è forse l’artista che abita di più il mio spirito (dove Rembrandt, Velázquez, Goya sono di casa…), ma dovendo provare a dire cosa siano il bello, la bellezza (queste parole così pericolose, nelle mani di demagoghi e seduttori di varia natura…), ebbene è il nome di Raffaello quello che affiora alla labbra. Perché la sua – come scrisse Renoir della Madonna della seggiola – “è la pittura più libera, più salda, più meravigliosamente semplice e viva che sia dato di immaginare”.

Raffaello, dunque, merita ogni celebrazione possibile. Ma agli occhi di molti, il cinquecentenario è stato irrimediabilmente rovinato dal Coronavirus, che ha imposto la chiusura della grande mostra delle Scuderie del Quirinale, una settimana dopo che era stata vergognosamente inaugurata (alla presenza del presidente Mattarella) il 3 marzo scorso, a epidemia dilagante. La situazione è, in effetti, degna di un film di fanta-storia dell’arte: alcune delle opere più importanti di Raffaello hanno affrontato viaggi comunque rischiosi per essere chiuse a chiave dove nessuno può goderne. Così sono finite la difficile spartizione che ha grottescamente stabilito al tavolo della politica che Leonardo (il cui cinquecentenario era nel 2019) sarebbe toccato alla Francia e Raffaello all’Italia; tutta la prostituzione dei musei ai grandi e rapaci sponsor; tutte le tonache della coerenza che tanti storici dell’arte hanno buttato alle ortiche pur di esserci; tutta la cieca prepotenza dei superdirettori dei supermusei, che hanno fatto carte false per prestare i Leonardo (vedi l’Uomo Vitruviano di Venezia) e poi i Raffaello: la farina del diavolo, stavolta, è finita in crusca.

Ma perché non provare a trarre una lezione da tutto questo? Con ogni probabilità le mostre saranno tra le ultimissime cose a ripartire: perché è assai difficile imporre un severo distanziamento e ancor più difficile poter definire poi (in caso di nuovi positivi) il primo anello della catena del contagio. Ma mentre per i musei, per le biblioteche, per i cinema, per i teatri – che sconteranno almeno in parte analoghe difficoltà – credo si debba far di tutto, sul piano tecnologico e organizzativo, per provare a ripartire, sulle mostre potremmo davvero ripensarci. Potremmo decidere di passare dalle circa 10 mila mostre che si aprono ogni anno in Italia a farne d’ora in poi solo la centesima parte, cioè un centinaio circa: fino a quando dovremo convivere con questo o altri virus (e potrebbe essere anche non una parentesi, ma una nuova epoca…) il costo organizzativo di una mostra sarebbe esponenziale, e dovrebbe davvero valerne la pena.

Ma, si dirà, Raffaello sarebbe tra gli artisti che comunque la meriterebbero, una mostra, in una occasione come questo tondissimo centenario. Ebbene, no: proprio questo è il punto. La prima categoria di mostre da abbandonare sarebbe proprio quella dei carrozzoni celebrativi costruiti dalla politica: bisognerebbe fare solo le mostre necessarie. Qualunque tema riguardino. Cioè quelle che nascono da un lungo lavoro di ricerca originale, capace di parlare anche al grandissimo pubblico e al contempo di far avanzare significativamente la conoscenza accostando opere che di solito sono separate.

Poco prima di dimettersi, il ministro Lorenzo Fioramonti stabilì che io sostituissi il rappresentante del Miur nel Comitato Nazionale per la celebrazione di Raffaello. Tutto era stato ormai già deciso: il comitato non venne più riunito, e dunque non sono corresponsabile di alcuna scelta. Ma ho potuto almeno leggere i verbali, apprendendo che del milione di euro abbondante che è stato seminato a pioggia, il 90% è stato destinato a … mostre. (E, lo noto per inciso, apprendo anche che non è stata affatto seguita la raccomandazione messa a verbale da uno dei più autorevoli membri del comitato, Silvia Ginzburg, che “esprime perplessità sul fatto di attribuire finanziamenti ad eventi con comitati scientifici nei quali sono coinvolti membri del Comitato”). Cosa avrei proposto io? Di spendere tutto quel milione per parlare di Raffaello in ognuna delle circa 45.000 scuole della Repubblica. Avremmo potuto formare, e pagare decentemente, giovani storici dell’arte capaci di spiegare a tutti perché Raffaello è così importante, e non solo come artista ma anche come autore del primo vero manifesto per la tutela pubblica del patrimonio culturale: quella lettera a Leone X del 1519 il cui manoscritto (vergato da Baldassare Castiglione) lo Stato acquistò nel 2016 su mia segnalazione, e grazie alla capacità di un dirigente esemplare del Mibact, Gino Famiglietti.

In quella lettera, Raffaello scrive che non può tacere degli scempi del patrimonio fatti dai potenti del suo tempo: e che dunque parlerà, “per amore dell’antichità e della verità”. Sarebbe stato un bel titolo e un bel programma per una grande campagna di educazione alla bellezza e alla responsabilità. E sarebbe bello non doverla aspettare altri 100 anni.

Quando la quarantena sarà finita partirà la sfida per la supremazia

Tra le truppe al fronte serpeggia il sospetto che la situazione sia grave, quando i generali invece di organizzare un piano d’azione coerente e mobilitare le risorse, rilanciano ossessivamente il grido di battaglia della guerra precedente. Ormai ad ogni Whatever it takes scatta una sirena d’allarme.

I trilioni di dollari ed euro lanciati dai balconi mediatici, come coriandoli dai carri del Carnevale di Rio, al momento sono fake money, al pari delle news che ne magnificano gli effetti. Sono risorse spropositate, prese allegramente a prestito dalle future generazioni. Non a caso sui mercati, dopo l’euforia per i bazooka monetari, si evoca il raffronto con gli otto milioni baionette. Le illusioni di una ripresa rapida sono evaporate e la verità ha varcato i confini dell’incredibile: il sistema finanziario, i modelli di asset pricing, le strategie di portafoglio, le previsioni economiche, riflettono un mondo inghiottito dal marasma, come Atlantide dall’Oceano. La pandemia è un planetario frullatore di certezze e di equilibri consolidati. Un cataclisma di schumpeteriana, vorticosa distruzione creativa mai sperimentato nella storia dell’umanità.

Esaurita la fase in cui ci si affida alle misure di stampo medievale, tra quarantene e grida manzoniane, partirà la competizione frenetica per la supremazia futura in un mondo sconvolto. Le rendite di posizione finora acquisite sono destinate a frantumarsi. L’effetto distruttivo del virus si esaurirà solo una volta scoperto il vaccino e buona parte della popolazione mondiale sarà al riparo dal contagio, cioè non prima di 18-24 mesi. In questo arco di tempo si ristruttureranno tutte le catene del valore dalla manifattura, all’intelligenza artificiale. Le direttrici ruoteranno attorno ai sistemi paese. Prevarranno quelli con migliore capitale umano, più organizzati, più tecnologicamente avanzati, più strategicamente reattivi. Agli aspetti sanitari (la capacità di eseguire test sulla popolazione e il tracciamento dei contagiati) andranno aggiunte la flessibilità del sistema economico, la snellezza del quadro legale, l’affidabilità delle infrastrutture, l’efficienza della burocrazia, la solidità del quadro politico, la capacità di mobilitare ingenti capitali per le riconversioni.

Corea, Taiwan, Giappone, Germania, Olanda, Svezia, Canada, Australia, attualmente sembrano destinati ad attestarsi nel gruppo di testa. Gli Usa usciranno ammaccati economicamente ma soprattutto nella loro immagine di efficienza. Parimenti la Cina non si scrollerà tanto presto di dosso la reputazione di paese a forte rischio. L’Italia avrebbe un vantaggio. Essendo stata colpita prima potrebbe venirne fuori prima. Su tutti gli altri aspetti rimane tragicamente deficitaria. Sarebbe il caso di concentrarsi su queste deficienze, invece di cianciare sul Mes e comprare pagine della Faz.

Lavoro, donazioni e affitti: ecco come ottenere i bonus

Bonus, cassa integrazione, sospensione dei termini per i versamenti e decine di altre misure sono state previste nel Cura Italia, che vale 25 miliardi di euro, a sostegno di famiglie, imprese e lavoratori per affrontare la spaventosa sfida occupazionale ed economica causata dall’emergenza Coronavirus. Ma, mentre si parla già del nuovo decreto di aprile che, tra le altre cose, estenderà lo stop ai licenziamenti, con tutele anche per gli assunti dopo il 23 febbraio, rifinanziando il reddito di emergenza per tre milioni di italiani con importanti investimenti per dare liquidità alle imprese, sono ancora troppi i dubbi sulle misure previste a marzo. Oltre al corposo capitolo delle forme di integrazione salariale che vanno richieste all’Inps e che coinvolgono più di 5,8 milioni di beneficiari, ci sono infatti anche le misure fiscali previste sempre in soccorso di famiglie e lavoratori che restano troppo ostiche. Così l’Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 8/E, ha risposto a un po’ di domande presentate dalle associazioni e dai professionisti. Si tratta sì di un testo ostico, ma che dà risposte concrete ai tanti cittadini che in questi giorni si ritrovano smarriti. Facciamo un po’ di chiarezza almeno sulle misure fiscali più comuni.

Bonus per chi va a lavoro. Ai lavoratori dipendenti che continuano a lavorare in ufficio, in fabbrica, nei supermercati, negli ospedali, in trasferta presso clienti o in missioni presso sedi secondarie dell’impresa, non potendo farlo in smart working, viene riconosciuto un bonus 100 euro da calcolare in base al numero di giorni lavorativi svolti presso la propria sede di lavoro nel mese di marzo 2020. Ma ne hanno diritto solo i lavoratori che hanno un reddito fino a 40.000 euro. Le Entrate, inoltre, spiegano che bisogna considerare esclusivamente il reddito di lavoro dipendente assoggettato a tassazione progressiva Irpef e non anche quello assoggettato a tassazione separata o a imposta sostitutiva. I sostituti d’imposta riconosceranno il premio in via automatica a partire dalla retribuzione del mese di aprile o comunque entro il termine di effettuazione delle operazioni di conguaglio di fine anno. Poi il datore di lavoro potrà recuperare la somma in compensazione.

Solidarietà alimentare.

La corsa alla solidarietà in favore delle famiglie trova un supporto nel Fisco. Mentre i Comuni stanno iniziando a distribuire, tra non poche difficoltà, i buoni spesa e si moltiplicano nelle città i banchi alimentari che gratuitamente danno sostegno a chi non riesce più a fare la spesa, c’è una certezza fiscale: spetta una detrazione dall’imposta lorda ai fini dell’imposta sul reddito pari al 30% alle donazioni effettuate dalle persone fisiche, dagli enti non commerciali e dai titolari di reddito d’impresa aventi ad oggetto le misure di solidarietà alimentare effettuate a favore dello Stato, delle Regioni, degli enti locali territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e associazioni legalmente riconosciute senza scopo di lucro. Le Entrate precisano che la deduzione non è parametrata al reddito. Pertanto l’agevolazione spetta anche in presenza di una perdita fiscale realizzata nel periodo d’imposta in cui è stata effettuata l’erogazione liberale.

Affitti dei negozi. Il “Cura Italia” ha previsto un credito d’imposta pari al 60% del canone di locazione di cui beneficiano gli esercenti di attività commerciali i cui negozi o botteghe sono in affitto come risarcimento parziale della spesa sostenuta per la locazione di un locale rimasto inutilizzato a causa dell’emergenza. Il Fisco spiega che il credito è utilizzabile dallo scorso 25 marzo esclusivamente in compensazione, utilizzando il modello di pagamento F24 e che il bonus maturerà solo a seguito dell’avvenuto pagamento del canone stesso. Una precisione importante visto che la norma testualmente non lega il bonus all’effettivo pagamento, per cui potrebbe capitare che un inquilino che non paga il canone di marzo richieda comunque il credito d’imposta. Gli immobili oggetto di locazione per cui è possibile fruire del credito d’imposta devono essere classificati nella categoria catastale C/1 e restano esclusi tutti gli altri contratti di locazione di immobili rientranti nelle altre categorie catastali anche se aventi destinazione commerciale come, ad esempio, i contratti di affitto di rami d’azienda.

Vidimazione libri sociali.

In risposta al dubbio formulato sullo lo slittamento dei termini di pagamento della tassa annuale di vidimazione dei libri sociali, l’Agenzia conferma che l’adempimento è tra quelli la cui scadenza è stata rinviata dal 16 al 20 marzo 2020. La proroga è più lunga – dall’8 marzo al 31 marzo – per i soggetti con domicilio fiscale, sede legale o operativa negli 11 comuni della Lombardia e del Veneto, la ex zona rossa.

L’avventura del musicista, solitario e “intollerante”

Serio come un ambasciatore, divertito come un conduttore tv, giornalista ed editor di Terza pagina per un bel pezzo della sua vita, Alberto Sinigaglia ha deciso di raccogliere in un libro la parte più originale della sua esperienza di musicologo colto.

In Fffortissimo, appena uscito per Accademia Perosi Editore, Sinigaglia racconta, ricorda, rimette in sequenze ordinate nel tempo e nei luoghi i grandi concerti, le grandi opere, gli eventi musicali dell’anno (ogni anno della sua vita professionale) e il lettore capisce subito che Sinigaglia “sa la musica” (uso una espressione di Bruno Maderna) come un professionista di quella grande impresa nazionale che è (che è stato) lo spettacolo di musica in Italia. Ma mentre sul fondo del suo libro sentite continuamente le prove d’orchestra e l’esplosione della grande musica in una storica sala da concerto, l’autore va per una sua strada del tutto nuova. A lui interessa l’artista, esecutore o autore o direttore: il mistero di qualcuno, amato, ammirato ma del tutto solo nel contesto della comune vita culturale, che a un certo punto apre la scatola magica e fa uscire la musica. Raramente un libro ha raccontato questa avventura di seguire, scoprire e narrare, con cautela e precisione, la solitaria e irritabile grandezza dell’uomo che fa la musica.

Per esempio, entriamo nella grande sala da concerto del libro, intimiditi (come l’autore a suo tempo) dalla presenza misteriosa e unica di Arturo Benedetti Michelangeli, piena del suo umore grande e intollerante che non concepisce convivenze di altre presenze udibili o suoni, neppure un respiro. E nasce, raccontata con tensione e suspense, un’avventura breve, fulminante, ma da Fantasma dell’Opera. Poichè ero amico e intenso frequentatore di Luciano Berio (erano i giorni del Laboratorio di Fonologia Musicale della Rai, di Omaggio a Joyce, di Berio e Umberto Eco) alcuni dei protagonisti del libro di Sinigaglia, erano a quel tempo incontri privilegiati da non dimenticare, come Lorin Mazel, Karlheinz Stockhausen, Pierre Boulez. Ma c’è molto di più nell’elenco di Sinigaglia.

C’è tutta un’epoca della cultura italiana e della cultura europea (Sinopoli, Zeffirelli, Ronconi, Rostropovich, Bernstein,Von Karajan, Chailly, Bussotti) e si estende anche ai grandissimi cantanti (Pavarotti, Placido Domingo). E al gioco delle coppie: Malipiero-Verdi, Calvino-Eco, Calvino-Sanguineti, Stockhausen-Berio, Bach-Pasolini.

Ma c’è qualcosa di più nuovo e inedito, in questo libro. Di solito l’ascoltatore colto, il giornalista musicologo, il critico accreditatosi muovono, nelle loro riflessioni, giudizi e ricordi, fra ciò che l’artista ha fatto in passato (il curriculum) e ciò che sta facendo adesso (la performance che stiamo raccontando). Sinigaglia va dentro il tempo reale, ne ascolta le voci (sia col metodo dell’intervista che con quello della osservazione attenta), ne segue le vite e compone un’antologia, finora unica, della grande musica e di coloro che la svelano e la rendono memorabile.

Ha vissuto una grande epoca, Sinigaglia, e in questo libro ne rende conto, con una narrazione realistica, diretta, a volte inaspettatamente scherzosa, una serie di esperienze narrative per persuadervi che la storia della musica e dei grandi musicisti ai nostri giorni è bella e gratificante. Ma non è una fiaba.

Restituiamo le braccia all’agricoltura. La terra è l’ultima ancora di salvezza

Se nasce un bimbo o se muore un padre nulla e niente si ferma in campagna. La frutta, infatti, deve comunque essere colta, le capre – o le mucche – devono essere munte. E le pecore devono trovare un sempre nuovo andirivieni. Gli animali non possono essere messi tra parentesi, non vanno in ferie e non conoscono lockdown alcuno. Nel giorno della fine non serve a niente l’inglese: Coronavirus o meno, il latte reclama il bricco – altrimenti la bestia che lo produce va a morire – e così marcisce la frutta non colta o, ancora peggio, rinsecchisce tra i rami. E davvero era un segno di dannazione, giusto a febbraio, quell’albero prossimo a gemmare ma carico di mandorle scheletrite: vecchie di un anno, ancora abbracciate alle loro scorze e però bucate dai tarli.

Un presagio di peste, quel grumo di mandorle morte impiccate tra le gemme vive: nessuno si era curato di fare la battitura in quel campo – questo era successo – e quel po’ di Ben di Dio si capovolgeva nella promessa di sventura. Piantare alberi lungo il cammino è da sempre un viatico di salute – anzi, è un saluto – affinché non ci sia mai penuria; i rami che si allungano oltre i perimetri della proprietà non si potano mai, e mai vanno ripiegati all’interno, apposta per nutrire chi passa o chi si ferma per fare la foto al paesaggio: gli Erei, le Madonie e i Nebrodi che s’inghirlandano di ginestre, papaveri e margheritine per accostarsi a Etna, sempre imponente di malia.

È la terra di Cerere, madre di Proserpina, quella. La ragazza va e viene dalla bella stagione – e viceversa – alla vallata per vivificare sugli arbusti la linfa di cui si nutre il bisogno della gente. Le spighe sono prossime a maturare e quel mandorlo, oggi – sulla Strada statale 121 – ha già mutato i propri fiori nelle ghiotte e morbide drupe verdi. È il morto che insegna a piangere e il presagio, dunque, è già decifrato: i frutti vivi sullo stesso ramo di quelli stecchiti significano empietà. Ma nulla e niente si ferma. In quel punto c’è stata pioggia il 13 dicembre scorso per poi tornare il 25 marzo scorso, troppo poco per fare contento il massaro. Ma quel che si trova, si prende, sempre così ci si regola con le annate. E fare presto – adesso – significa come sempre, e però più di ogni altra volta, mettere mano alla zappa, governare i pascoli, dare dimora al fieno, vento alle spighe e la falce al grano.

Non si inverte la regola della ruota. Manco il tempo di chiudere la quarantena e si fa maggio, quindi giugno, ovvero la mietitura. Pare di vederle le ragazze, e i ragazzi con loro – tutti gli studenti che non hanno potuto finire scuola – precipitarsi alla volta dei poderi, in soccorso alle trebbiatrici, e così prendere la maturità al liceo della terra.

Per davvero, la vita dei campi, è tutta un’altra cosa. Può anche essere villeggiatura, la campagna; può perfino diventare una mistica dell’umanesimo ma come la talpa scava per se stessa, tra le zolle intrise del sudore della fronte, mai e poi mai potrà farlo per la storia. Pare di vederli, tutti loro. Braccia restituite, tutte, all’agricoltura. La mobilitazione della gioventù, da subito, non può che essere contadina. La terra, infatti, è la leva ultima e più inesorabile da cui l’umanità riscatta il proprio destino. L’applicazione immediata della “tecnè” è tutta di episteme agreste. Un diploma di perito agrario, già da subito, serve più di qualunque laurea in scienze della comunicazione. L’eterno andirivieni che resta, infatti, è quello di pane, paste e carne. È appunto ciò che rimane: il resto è scorie.

Vita da Coronavirus Che cosa fare chiusi dentro una stanza

La sveglia suona e non hai nemmeno bisogno di aprire le finestre per vedere se c’è il sole, grazie alle app meteo sul telefono. Puoi anche dare un’occhiata alla tua strada tramite Google Street View, magari la vedrai ancora affollata, con un’impressione di normalità. I giornali si leggono con l’abbonamento sul tablet, i cereali della colazione sono arrivati ieri con la spesa online, la frutta è del verduraio del mercato che fino all’altro ieri si era incaponito a non consegnare a casa, ma col virus ha cambiato idea. Per muoversi un po’ prima di iniziare lo smartworking l’unico problema è la scelta, tra le centinaia di app, canali Youtube e profili Instagram con lezioni di yoga o fitness. Tra una videoconferenza all’altra, potresti ricordarti che lo studio medico sta per chiudere, ma ai tempi del covid-19 – magia – la ricetta arriva sulla tua email, mentre i farmaci a casa te li porta, ad esempio, Pharmap. E se prima del pranzo volessi colmare alcune lacune di sapere? Senza uscire di casa puoi iscriverti a corsi universitari e master in ogni università del mondo, tra cui Berkeley, Harvard e Mit (e persino laurearti); oppure fare ripetizioni private di qualsivoglia materie via webcam – aspettando l’ologramma del maestro in stanza –, ad esempio con il sito Superprof; mentre se ti viene voglia di suonare uno strumento ci sono decine di app pronte all’uso.

A pranzo le opzioni si sprecano: puoi cucinare utilizzando siti di videoricette, anche di chef famosi, o farti recapitare a casa qualsiasi piatto. Acquistare qualunque oggetto è un attimo, ma i vestiti oggi si provano prima nei camerini virtuali. Certo, potrebbe anche venirti voglia di fare un viaggio, tutto acquistabile online. Ma perché spostarsi se con Google World Wonders, Google Earth VR, Virtual Globetrotting o 360Cities.net puoi viaggiare nel globo virtuale?

Per i musei non serve neanche più il biglietto, visto che dal Louvre al Metropolitan, dal Prado al Museo Egizio quasi tutti offrono ora visite da casa. E se ti venisse lo sghiribizzo di comprare casa? Molte agenzie immobiliari consentono dei tour virtuali, mentre le banche si sono organizzate per concedere mutui senza la perizia tecnica fisica, e anche la stipula dal notaio si potrà presto fare per via telematica. Per una serata di cinema dopo cena sai ormai a chi rivolgerti (e anche per il sesso online) ma se invece ti stuzzicasse il teatro? Moltissimi, tra cui quelli milanesi, hanno messo online i propri spettacoli.

Di e-book prima di dormire ce ne sono milioni, anche versione audio, gratis o a pagamento, mentre per fare incetta di riviste di gossip e femminili, invece, ci sono due app a pochi euro (Readly o Cafeyn). Seguire la messa, o le lodi o il rosario, non è mai stato tanto facile, tante parrocchie trasmettono le celebrazioni in streaming (persino i frati della Porziuncola di Assisi). E la confessione? Papa Francesco ha suggerito di parlare direttamente con Dio, chiedendo perdono con l’Atto di Dolore. Insomma, ormai chiusi in una stanza si può davvero fare tutto. Persino guadagnare il paradiso.