Il dramma delle donne incinte: sole al parto e poche ostetriche

Chiuse in casa, senza poter fare un poco di sport né passeggiare, così come il loro stato richiederebbe. Costrette alle visite preparto da sole, private dei corsi di preparazione al parto e anche di qualsiasi presenza nel momento del travaglio, a partire dal padre. Infine, rimandate a casa di corsa, senza poter ricevere alcuna visita né aiuti. È questa la condizione nascosta di decine di migliaia di donne incinte al momento dell’emergenza e che oggi vivono nella paura e nell’ansia. Ma l’allarme sanitario può spazzare via i diritti delle puerpere? Secondo moltissime associazioni che si occupano di maternità, la risposta è negativa. Richiamandosi alle raccomandazioni Oms che chiedono il rispetto delle donne in gravidanza, l’“Osservatorio sulla Violenza Ostetrica in Italia” (OVOItalia), insieme a “La Goccia Magica” e “Ciao Lapo”, hanno lanciato un appello che chiede, tra le altre cose, la possibilità del rooming in stanza e dell’allattamento al seno, il potenziamento dei servizi territoriali, infine l’assunzione di ostetriche, unica categoria non prevista dai decreti. “Già prima del virus non esistevano protocolli unici di assistenza al parto nelle regioni e nelle aziende ospedaliere, ora la disomogeneità è ancora maggiore, i protocolli sono spesso improvvisati e a pagarne il prezzo sono le donne”, spiega Elena Skoko, una delle fondatrici dell’Osservatorio. Il problema che queste associazioni sottolineano è che le misure per fronteggiare le emergenze non hanno tenuto conto delle necessità delle madri, con le ostetriche spesso utilizzate per i reparti Covid-19 e i consultori chiusi. “Veniamo a sapere – dice Skoko – di neonati precocemente separati dalle madri le quali, rimandate a casa senza aiuti, magari non riescono ad allattare e soffrono di mastiti. Che, tra l’altro, danno febbre e sintomi influenzali”.

Secondo Ivana Arena, ostetrica libera professionista con una lunga esperienza in ospedale, “impedire ai padri di accompagnare la donna al parto viola un diritto fondamentale non solo delle donne, ma anche degli uomini: basterebbe usare dispositivi di protezione adeguati. In molti ospedali – continua – si stanno facendo travagliare le donne asintomatiche con la mascherina, che dà un senso di soffocamento. In generale noi crediamo che il virus abbia mostrato come gli ospedali non siano il posto più sicuro dove partorire. Ci vorrebbero luoghi dedicati, come case del parto o, dove possibile, il parto in casa”. Sulla stessa linea delle associazioni questa volta c’è anche la Sin (Società Italiana di Neonatologia), che ha diffuso un documento molto preciso su cosa fare nel caso di donna in gravidanza: negativa, sospetta positiva o positiva. Anche la Sin sottolinea sia l’importanza dell’allattamento -anche in donne con sospetta infezione, per le quali si raccomanda la spremitura del latte – che del rooming in. Insomma, le cosiddette best practices cliniche relative a parto e dopo parto non dovrebbero cambiare neanche in tempi di coronavirus. C’è in gioco la salute delle donne e dei bambini. E non solo presente, anche futura.

Tamagotchi, il regalo sconsigliato

Insensibile, snaturata e cinica. Lo sono, e allora? Non me ne importa nulla se ha fatto la cacca oppure no. Per me può anche morire di fame, di freddo e di stenti. E se non muore può crescere con turbe devastanti, deviazioni della personalità, può ammalarsi e contaminarsi con i peggiori virus, può deperire, può consumarsi e scomparire… non mi avrà mai! Pensavo fosse un gioco e ho finito per odiarlo, soprattutto da quando lui, il mio ex, mi obbliga a prendermene cura come se fosse un feticcio del nostro rapporto. Mi ha chiesto di ricominciare e per recuperare il nostro rapporto mi ha regalato un Tamagotchi. Che sarebbe una specie di videogioco con un orrendo sgorbio virtuale che dovrebbe farmi tenerezza ed esige le cure di un neonato. Lo chiamano un virtual pet. Lui è convinto sia un bel pensiero, ma si può regalare un Tamagotchi? Pretende che me lo porti a teatro, in camerino e persino in scena. Io sto recitando il ruolo del fantasma in “Spirito Allegro” di Coward con Pagliai–Gassman, una commedia che non permette distrazioni. Appresso al Tamagotchi rischio il vuoto di scena, o quel che è peggio il pieno di scena, che sarebbe quando entri non attesa o non richiesta e tutti i presenti ti guardano attoniti, e con una punta di disprezzo perché non è il tuo turno. Perché poi alla fine l’orrendo sgorbio ti cattura, ti guarda con degli occhioni struggenti e ti impone l’accudimento coatto. Non gliene frega niente del tuo lavoro, delle regole di palcoscenico, del personaggio. L’unico protagonista è lui, anzi loro. Li ho lasciati entrambi, il mio ex e il Tamagotchi, all’ingresso degli artisti d’un teatro di provincia, a Capracotta. Sparita per entrambi, con somma allegria. Quella sera è stata la replica migliore. Grande pubblico a Capracotta!

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Da Campobasso in su: il cinema a caccia di qualche idea (virale)

La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come film. Non fa eccezione il coronavirus, su cui il cinema italiano ha già piazzato la camera: se causa lockdown le scappatelle sono interdette, ci ritroveremo comunque cornuti e mazziati.

Forte del precedente Italy in a Day (2013), il premio Oscar Gabriele Salvatores – si legge nella nota di Indiana Production e Rai Cinema – “come tutti gli italiani, è chiuso tra le pareti domestiche. Non può muoversi quindi chiede di prendere i telefonini e utilizzarli come se fossero i suoi occhi, per permettergli di viaggiare all’interno delle case, di mondi diversi, di storie, emozioni e immagini che si aprono dinanzi alle finestre”. Ne verrà un Viaggio in Italia, titolo nella migliore delle ipotesi aspirazionale: se ne sono fregiati, tra gli altri, Johann Wolfgang von Goethe, che tra 1813 e 1817 diede conto del suo Grand Tour nel Bel paese (Italienische Reise); Roberto Rossellini, con il bel film partenopeo del 1954; Martin Scorsese, che vi ha anteposto Il mio per un fluviale omaggio documentario al nostro cinema (1999). Tanta roba, ma Salvatores e sodali tirano dritto e con un cronogramma dalla Cina allo stivale, dal contagio degli altri al nostro puntano a una cinematografia collettiva “che vuole essere testimonianza e memoria di questo drammatico momento storico”.

Non bastasse, ad aggiungere il resto di niente – come dal romanzo di Enzo Striano da lei adattato nel 2004 – è Antonietta De Lillo, che in una lettera pubblica indirizzata all’ad di Rai Cinema Paolo Del Brocco chiede di “ripristinare un clima di fiducia ed equità” e di “rendere pubblici i dati sull’utilizzo delle risorse nei diversi progetti”. Già, perché – rammenta De Lillo – mica c’è solo Salvatores al lavoro: Instant Corona, di MIR Cinematografica, AIR3 Associazione Italiana Registi e Milano Film Festival, ha residenza meneghina; Tutte a casa Donne, Lavoro, Relazioni ai tempi del Covid-19, tenuto a battesimo dalle Mujeres nel cinema, declinerà al femminile il qui e ora. Troppa grazia.

Ok, ma l’epica da Trieste in giù? Orfani di Scola, l’abbiamo appaltata a Gabriele Muccino, vedere l’ultimo Gli anni più belli, sicché nel momento del bisogno poteva il nostrano Omero esimersi? Certo che no, ed ecco la chiamata alle armi via social: “Raccontatemi dei vostri rimorsi, dei vostri dolori, delle vostre gioie, dei vostri amori strappati, dei vostri amori ritrovati. (…) Scrivetemi di voi, fatelo confidenzialmente. Sarò l’unico a leggere le vostre testimonianze. Aiutatemi a scrivere questo film”, fermoposta: gmuccino3@gmail.com.

Sceneggiatura partecipata, e c’è chi butta il cuore oltre l’ostacolo, l’ingegno oltre la venalità, il dovere del testimone oltre il diritto d’autore. Piovono idee, Twitter non si risparmia, per esempio, @matpredini offre Cuorantena, ambientato a Campobasso dal febbraio all’aprile 2020, titoli di coda sulle note di Mascherina dei Litfiba reinterpretata da Claudio Baglioni e avvio in medias res: “Anna (Will Smith) è una diciassettenne molisana ribelle che vuole diventare una carrellista. La madre Rosaria (Stefania Sandrelli) non è d’accordo perché vuole che (…) intraprenda la strada del padre Jeffrey (Franco Oppini) – morto di infarto 5 anni prima – astronauta”. Chi vivrà vedrà, e forse non è una buona notizia, comunque almeno per il titolo Muccino potrebbe pensare a un remake: fosse ottimista, A casa tutti bene; virale, Baciami ancora; terminale, L’ultimo bacio; memoriale, Ricordati di me; epigrafico, Come te nessuno mai. Insomma, il #CoronaFilm Gabriele l’ha già fatto, pardon, Ecco fatto.

Signori, si chiude? Il futuro dei talent appeso al Covid

Applausi per Gaia. A distanza, certo. Con l’eco lontana degli schiamazzi di quel pubblico di entusiasti che il coronavirus ha esiliato dalla tribuna di Amici 19. Dopo mille titubanze, Maria De Filippi è riuscita a condurre in porto l’edizione più tormentata del suo talent, tra porte chiuse, litigi con i prof, umani cedimenti, risse in diretta tra i tecnici, e un risultato di audience (4 milioni 822mila spettatori con un 22,78 di share) in linea con gli anni precedenti. Che non possono essere più esaltanti come nelle stagioni ruggenti della “tv di prima”, i 6/7 milioni di quando i social e la visione online avevano un peso specifico marginale rispetto al dominio del piccolo schermo.

Ma è indubbio che venerdì sera, con l’incoronazione della brava Gozzi – la 22enne italo-brasiliana che con ostinazione ha cancellato lo smacco di XFactor 2016, dove era stata sconfitta dai Soul System – si sia celebrato anche un rito di passaggio verso il possibile crepuscolo dei faraonici tornei a eliminazione dove uno su mille ce la fa, anzi spesso neppure lui, e tutti gli altri condannati a fare i conti con le illusioni perdute. Maria è di fronte a una sfida autorale e produttiva: ha già ammesso che il suo modo di fare una televisione che punta sulla “realtà” e sulla narrazione della gente comune dovrà essere rivoltato come un calzino. Un ripensamento che, dunque, non vale solo per i talent: che Uomini e Donne sarebbe senza il pubblico gossipparo in studio, per non dire dei baci e balli negati fra tronisti e corteggiatori? Come sollecitare le corde dell’empatia degli spettatori senza l’abbraccio da happy ending a C’è posta? Bella domanda: ma quella è la drammaturgia del quotidiano-ordinario. Per Amici lo storyboard è ancor più crudele: lì innumerevoli aspiranti star del pop immaginano di giocarsi una carriera. A torto, quasi sempre. Perché ogni talent, prima ancora di essere un girone della morte dove una giuria di caronti e televotanti può rispedirti nel basso inferno dell’anonimato, è un trampolino. Sta al concorrente sapersi produrre in un primo tuffo nella vasca del mercato discografico, dove nuotano troppi pesci piccoli, qualche vecchio navigatore delle correnti melmose e alcuni squali. Di anno in anno, in quella piscina, l’acqua si è fatta sempre più bassa, e il rischio di rompersi l’osso del collo è consistente. Quel mercato, semplicemente, non esiste più. I dischi d’oro di un tempo sono pura mitologia: ben che vada, oggi un emergente può sperare in poche migliaia di “copie” della sua canzone, quasi tutte digitali, tra streaming e download. Con i cd puoi farci il tiro al piattello. E se, fino a mesi fa, la nuova presunta stella poteva contare sul cono di luce della televisione, ora non avrà neppure il breve periodo di visibilità mediatica post-vittoria da sfruttare con una stringa di live. Sì, il coronavirus può aver messo un punto all’era dei talent. Si faranno ancora? Amici aveva aperto già mesi fa i casting per l’edizione 2021: ma dove e come gestirli senza assembramenti e nevrosi varie? E lo stesso problema ha XFactor, che a maggio di ogni anno convoca oceaniche selezioni di candidati. Scenari inimmaginabili, nel mondo alle prese con la quarantena, quando l’inconscio collettivo non gradisce più del tutto il gioco al massacro dell’eliminazione.

Oggi lo slogan è “distanti ma uniti”, con i fans mobilitati per via virtuale: ma il concorrente è dannatamente solo in scena con la propria fragilità e la sua forza d’animo. E se la De Filippi può decidere per se stessa, valutazioni più complesse deve farle proprio X Factor, dai costi ormai troppo onerosi per le strategie di una rete satellitare. L’edizione originale, quella inglese, è stata congelata già prima dell’emergenza dal suo creatore Simon Cowell: irraggiungibili i picchi di audience del 2010, quando su ITV 19 milioni di spettatori assistettero alla clamorosa vittoria di Matt Cardle sugli One Direction. Chissà domani chi trionferà, tra gli artisti e il Covid, che ha già spazzato via il Primo Maggio e l’Eurovision Song Contest, messo sotto scacco i talent, e allunga l’ombra pure su Sanremo.

“Mia moglie sostiene: basta vittimismo. Ma preferisco SuperPippo a Superman”

A sette anni smontava le radioline per “cercare la voce di mio padre”; a sedici ascoltava tutto il giorno le emittenti private, “perché ero fissato, sapevo qualunque aspetto, anche i più impensabili, su come si costruiva e gestiva una trasmissione”. A 38 anni il riflettore ha illuminato anche lui e Nicola Savino è entrato nel ciclo ristretto dei “famosi” (“per fortuna quando ero già grande”) e, zitto zitto, cheto cheto, è nel gotha della radiofonia italiana (conduce, con Linus, Deejay chiama Italia), ha presentato programmi come L’Isola dei famosi, Quelli che il calcio, Le Iene; così quando qualcuno lo definisce “spalla”, gli girano vorticosamente le scatole e si ricorda delle origini meridionali (“sono un po’ permaloso ”).

È stato uno dei primi in quarantena e a causa di un collaboratore colpito dal virus; da quando è in casa, ogni pomeriggio alle 18.30, estrae dalla memoria e dallo scaffale i suoi vinili, e ritrova il vezzo di quando era deejay: “Per quaranta minuti cerco di far ballare le persone su Instagram. Anche se da venerdì ci sono problemi: mi hanno bloccato”.

Che è successo?

Questione di copyright, di diritti d’autore, non ci avevo pensato e in assoluto lo capisco: però vi sembra il momento? È un modo per distrarre migliaia di persone.

Migliaia di persone, e lei stesso…

La mia giornata è più piena di prima, dico “sì” a tutto. Sempre. È una reazione nervosa e di attaccamento alla vita.

Fa le pulizie?

(Tono incerto, un po’ colpevole) Sì, sì, comunque sì… abbastanza; ho imparato qualcosa, e mi dedico a lavatrice, lavastoviglie e stendere i panni non è semplice (spiega nei dettagli l’operazione).

È diventato bravone.

(Ride) Il grande insegnamento di questo periodo è la pazienza.

E poi mette(va) dischi…

Avevo smesso nel 2010, mi sentivo inadeguato, avevo 43 anni e mi domandavo: “Ma cosa ci combino qui?”. Ora invece sto riconsiderando tutto, e in maniera irrazionale.

Cioè?

Se uno mi domanda: dove vuoi andare a parare, non ho risposta, è solo un soccorso, prima di tutto a me stesso, uno sfogo disperato, e poi per gli altri.

Sua moglie balla sullo sfondo in stile cubista.

E pensare che è la persona seria di casa, una lettrice, una donna profonda, ma adesso è necessaria la leggerezza.

Definisce sua moglie “leggera” mentre lei tenta perennemente di abbassare il livello.

Sempre, e da una vita. Mia moglie mi accusa: “Smettila di fare la vittima”.

Lo fa?

Per farmi accettare vivo sotto l’effetto “Paperino”, e in questo c’è del vero; però uno come me, votato alla leggerezza, alla risata, non può individuare nel supereroe un modello di vita: preferisco Superpippo a Superman.

Lei con la Gialappa’s è una delle poche “spalle” diventate protagonista.

Loro erano un mio sogno già nel 1986 ai tempi di Radio Popolare; anzi sognavo di essere loro.

Fan vero.

Gli dico sempre, guardandoli negli occhi: state attenti perché sarò il vostro “Chapman” (il folle che 40 anni fa ha sparato a John Lennon); comunque parliamo una lingua comune.

La definisca.

Sarcasmo, Milano, scherzare su tutto anche su parenti molti prossimi defunti. Cinismo.

Sulla mamma si scherza?

Io posso, anche sulla mia che non c’è più.

Il limite?

Su se stessi non ci deve essere, con gli altri uno deve mantenere maggiore considerazione, ma non è semplice e scattano i sensi di colpa.

È permaloso?

Moltissimo.

Cosa la offende?

(Ride) Sicuramente le battute sulle caratteristiche fisiche, e un tempo non amavo la storia del secondo, quando mi definivano “spalla”; se nelle dirette mi scrivono “ti è venuta la pancia” ci resto male. Sono vanitoso.

Nel suo lavoro la vanità è importante.

È un plus, però è fondamentale resistere agli insulti e non dare soddisfazione. Io a volte ci casco, specialmente sui social, poi li blocco.

Le manca il mignolo.

Errore di un’ostetrica quando avevo sette mesi: per anni ho cercato di nasconderlo, quando andavo in televisione utilizzavo una protesi, poi ho capito la stupidaggine e me ne sono liberato.

Ora che ha riscoperto i vinili, sarà sommerso dai ricordi…

È un continuo, è come restare intrappolati nell’adolescenza: le prime fidanzate, le prime giornate, settimane, mesi, anni chiuso in radio.

Ha iniziato presto.

Tutto parte dai viaggi all’estero di mio padre: era ingegnere all’Eni, spesso partiva per i Paesi arabi e tornava a casa carico di sensi di colpa e di radioline (ci pensa) . Una di queste l’ho recentemente ritrovata e ricomprata per 100 euro su eBay.

E lei?

Avevo sei o sette anni, e la sera, quando andava via la luce, grazie alla diffusione delle onde corte (le AM) riuscivo a trovare stazioni molto lontane, anche della Grecia o oltre, così smontavo tutto e in qualche modo cercavo mio padre lì dentro (cambio tono). Solo a dirlo mi commuovo, per me era un dolore, anzi è il mio problema.

E suo padre?

Non c’è più; per fortuna da adulto ho recuperato il rapporto con lui e un giorno si è sfogato: “Non sono stato un grande genitore”, io ovviamente l’ho tranquillizzato (in sottofondo del rumore).

Che fa?

Scelgo un disco.

Non molla.

No, ora no, e sono un po’ preoccupato, non vorrei il conto tutto assieme; (tono basso) e non abbiamo ancora toccato il tasto dolente dell’attività fisica.

Se vuole possiamo già parlare di sesso.

Bel casino: abbiamo un’adolescente, e la sua camera da letto è confinante con la nostra.

Meglio dormire…

Dormo pure poco, e non prendo alcun tranquillante, non mi piacciono, anche perché sono figlio di genitori abbonati al Tavor e, come dice Freud, per ammazzare padre e madre il figlio segue sempre direzioni opposte; e poi è un danno per il lavoro.

Tradotto.

Quando presentavo Colorado tornavo a casa ed ero sovraeccitato dalle luci e dagli applausi. Ero in over. Quindi mi addormentavo alle tre con la sveglia alle sette, così a un certo punto ho ceduto al Tavor, ma la mattina in radio perdevo mezzo secondo sulla reazione a una battuta. Per noi i tempi sono fondamentali.

Nel 1986 quali erano i suoi miti?

Amavo le radio private milanesi, con Gerry Scotti, Claudio Cecchetto, Amadeus, Linus, Albertino, Gianni Riso, Fausto Terenzi; amavo i morning show delle sette del mattino.

Si sente milanese?

Moltissimo, devo tutto a questa città, e sono milanese proprio perché meridionale…

Non sarà stato sempre semplice.

Mi dicevano “ah, Savino, il cognome finisce con la ‘o’, tu sei un terùn”; però rappresento un caso particolare, perché cresciuto a San Donato Milanese, anzi a Metanopoli, una cittadella dell’Eni, una specie di dormitorio per i dipendenti, dove eravamo tutti uguali, tutti di altri posti.

È uno dei primi vip in quarantena…

E quando è finita ho pure notato il comportamento del prossimo nei miei confronti: scendevo per la spesa e le persone mi tenevano a distanza, compresa la portiera; in realtà credo di essere stato male a gennaio.

Perché?

Prima di Sanremo, e per una settimana, ho avuto tosse secca, febbre alta e fatica a respirare. Stavo per chiamare i soccorsi.

Torniamo alla radio: lei ha iniziato come regista: rubava il mestiere con gli occhi?

No, non ci pensavo e non so neanche cosa mi è scattato…

Però?

Vedere dal vivo e per anni dei fuoriclasse come Fiorello, Amedeus o lo stesso Linus è stato una guida, quindi ti entrano in testa i loro tempi e il loro atteggiamento: a Radio Deejay chi fa il figo, il fenomeno o la star, dura come un gatto in tangenziale. Siamo un po’ come la Juventus.

Come si trova da “famoso”.

Per fortuna lo sono diventato a 38 anni e mi è sembrato di tornare bambino: da piccolo vivevo in un posto dove tutti ci conoscevamo e salutavamo; ora avviene lo stesso.

Ha dichiarato: “Con questo lavoro si va fuori strada”.

Diventi egoriferito, chiuso in un piccolo mondo che ritieni di interesse generale; poi l’assenza da video e da luci della ribalta può causare delle crisi d’astinenza.

Lei è un fervente interista…

Il calcio è uno degli indicatori del mio mutamento.

Addirittura.

Già dai primi provvedimenti del governo è come se avessi archiviato la mia passione per il calcio: ho assistito a Juventus-Inter con un profondo disinteresse e per me lo spettacolo è finito quando non ho visto i tifosi allo stadio; poi c’è una questione economica: quanti italiani hanno più di tre mensilità sul conto corrente?

Non tantissimi.

Ricordo quando a Radio Deejay ero un fonico e guadagnavo un milione di lire al mese e per comprare dei mobili sono stato costretto alle rate.

Vizio.

Mi piacciono gli alcolici e la Playstation, che per fortuna è in camera di mia figlia e mi vieta l’accesso così non posso utilizzarla sempre.

Scaramanzie.

Poche: non nego l’attenzione al gatto nero e alla scala.

A Radio Deejay ha incontrato tutti. Chi l’ha stupita?

Robbie Williams (celeberrimo cantante inglese) e lo penso ogni volta che viene in trasmissione; è un’altra categoria, potrebbe rappresentare il più grande entertainer del mondo, un Fiorello in scala assoluta.

Parole grosse.

Mi colpisce la sua sensibilità, la prontezza di riflessi, il senso dello spettacolo e la memoria. Si ricorda tutto. Tutto. Quando l’ho rivisto la seconda volta, mi ha chiesto di mia figlia e per me la memoria è un superpotere.

È potere vero.

Obblighi le persone a parlare bene di te.

Voto della maturità?

50 e non ero studioso: sono sempre stato sul filo del 6, poi quando c’è un momento d’urgenza, mi preparo con grande tenacia e cerco di stupire. Amo stupire. Amo sorprendere il nemico nel sonno.

Nel ruolo di deejay, rimorchiava in discoteca?

Poco, non sono mai stato bravissimo con le donne, non ci so fare, sono sempre stato più conquistato e con il senno di poi potevo lanciarmi di più.

È un rimpianto?

Alla fine sono contento del mio percorso: chi ha deciso che è un figo chi sta con tutte? È un darsi via…

Quando parla riflette, come chi ha lavorato su stesso…

Per anni ho cercato delle risposte in terapia, ma riflettere non è mai abbastanza. Però è vero, è così.

(Cantano i Queen in “Radio Ga Ga”: “Starei da solo a guardare la tua luce. Mia unica amica lungo le notti adolescenziali. E tutto ciò che dovevo sapere, l’ho ascoltato sulla mia radio”)

Orbán azzera i transgender: no al cambio di sesso

A colpi di decreto l’ormai onnipotente Orbán svilisce un diritto umano dopo l’altro. A Budapest hanno messo fine al riconoscimento legale delle persone transgender: il sesso di una persona è “biologico, basato sui cromosomi e caratteristiche genetiche”, si legge nel nuovo disegno di legge a firma del vice premier Zsolt Semjen. “Sesso della nascita” è la locuzione che ora apparirà sui documenti al registro civile di un’Ungheria conservatrice, dove la vessata “ideologia gender” e i relativi studi accademici sono da anni già scomparsi da programmi e aule delle università. Inutili le sirene d’allarme della Budapest libertaria e di quell’Europa. “I transgender hanno diritto al riconoscimento legale basato sulla loro autodeterminazione”. Dunja Mijatovic, già attivista bosniaca, poi rappresentante Osce e dal 2018 commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, ha fatto appello al Orszaghaz, il Parlamento ungherese, che potrebbe essere svuotato dei suoi poteri e spento appena il premier lo riterrà opportuno, grazie a un decreto approvato lunedì scorso che gli affida poteri illimitati a tempo indeterminato. Adesso carte di identità e passaporti non combaceranno con l’apparenza degli individui che le detengono. Sarà drammatico, se non impossibile, trovare un impiego, affittare una casa, avere accesso al sistema sanitario e altri servizi: “I trans saranno in possesso di documenti che non corrispondono alla loro reale identità”, ha detto Tamas Dombos dell’Alleanza Lgbt ungherese.

Alla condanna perentoria di Bruxelles, Orbán ha risposto che deve “difendere il suo popolo e contenere il contagio del virus”. Non è chiaro dopo il suo golpe bianco chi potrà contenere lui, autocrate magiaro che non ha mai avuto in pugno tanto potere finora.

“Prima il regime, poi l’Isis: l’altra guerra è sulle donne”

Il telefono non smette mai di squillare. Giorno e notte. Le emergenze non sono finite con il coranavirus. Anche nel Nord-Est della Siria sono tutti in quarantena e soprattutto ora, le donne che hanno bisogno di aiuto. Così possono chiamare uno dei numeri messi a disposizione dalla Malê Jin, la casa delle donne. A rispondere Ilham Amare, 50 anni, e fondatrice della casa che aiuta a risolvere tutti i problemi famigliari con la mediazione prima di chiamare le autorità e arrivare in tribunale. “Nell’ultima settimana siamo intervenute per cinque casi di violenza gravi”, spiega, sottolineando quanto sia importante non uscire e osservare le nuove norme di distanza sociale. “Non è il coronavirus che ci fermerà”. Prima c’era il regime siriano, poi è arrivato Isis. In mezzo una cultura feudale, patriarcale. Per le donne la vita era fatta solo da obblighi, regole, restrizioni e soprattutto nessun diritto.

“Ho visto donne, picchiate, violentate, legate in catene per non uscire di casa. Tutta questa sofferenza mi ha portato a lottare”, Amare comincia a raccontare così il suo impegno per le donne siriane. “Sulla carta i diritti c’erano, ma la vita quotidiana era poi molto diversa”, spiega con una voce calma e pacata, seduta su un divano grigio con disegni geometrici rossi, nel suo ufficio a Qamishlo, in Rojava, la regione controllata dai curdi. Alle pareti, fotografie di giovani donne sorridenti, martiri della rivoluzione. E il leader del Partito dei Lavoratori curdo Abdullah Öcalan i cui scritti politici sulla democrazia e la liberazione delle donne hanno influenzato il movimento.

Amare ha cominciato a lavorare per le donne a 16 anni. Erano altri tempi, i curdi erano oppressi dal regime di Assad, prima padre e poi figlio. Nessun diritto e chiunque avanzasse richieste era visto come un nemico dello Stato. Quando ha cominciato nel 1988, erano in otto. Bussavano a ogni porta, raccoglievano informazioni sulle condizioni in cui vivevano le donne. Poi parlavano con le famiglie, o nei casi più difficili trovavano maniere per farle scappare. “Il regime era assolutamente contrario a tutte le nostre attività. Per questo dovevamo lavorare in completa segretezza”, spiega. Ilham è stata in carcere tre volte. La prima nel 1989. “Avevo 17 anni, è stata un’esperienza terribile, porto ancora i segni”, dice indicando le gambe. “Mi hanno torturata e umiliata, ma quella violenza mi ha spinto a lottare ancora di più”.

La prima Casa è stata inaugurata a Qamishlo nel 2011, oggi ce ne sono 52. “Il regime aveva circondato l’isolato per non far arrivare le persone all’inaugurazione. Siamo scese con i bastoni”, racconta sorridendo. Ma oggi ascoltano tutti. “Sono persino arrivati due soldati del regime”, continua con una certa soddisfazione. “All’inizio era imbarazzato, l’ho fatto entrare, l’ho baciato sulla fronte e l’ho chiamato ‘figlio mio’”, poi ha cominciato parlare. “Si stava separando dalla moglie. Lei voleva lasciarlo da un giorno all’altro senza un tetto. Insieme abbiamo trovato una soluzione”. Al termine della mediazione l’uomo si è messo a piangere e le ha chiesto scusa per tutto quello che il regime ha fatto contro il movimento delle donne. Lei lo ha abbracciato. Per lei il cambio di mentalità può avvenire solo attraverso l’istruzione. “Bisogna educare tutte le persone. Non solo le donne”.

Nel 2014 ha aiutato a sviluppare un pacchetto di leggi per la famiglia, implementato dall’amministrazione autonoma che considera la lotta delle donne, uno dei cardini della rivoluzione. Banditi i matrimoni minorili, la poligamia. Vietato il lavoro minorile, protezione per le vittime di violenze.

È sorpresa nel sapere di tutte le donne uccise che prima vanno dalla polizia per denunciare i compagni o mariti ma non vengono protette. “Perché non sono andate dai gruppi femministi? Non c’è qualcuno che si occupa di violenze?”. Per lei la polizia non è mai la soluzione e sono le donne a doversi proteggere. “Mi piacerebbe vedere l’Europa”, continua. Non ha il passaporto, e il regime non glielo darà mai. “Non lascerei mai Rojava, questa è la mia terra. Ma sarebbe bello portare la nostra esperienza anche in altri Paesi”.

I pirati informatici in agguato, facile rubare i dati sanitari

Sono stati invocati a torto per il crash del sito dell’Inps il 1° aprile scorso, quando il premier Giuseppe Conte e il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, hanno ipotizzato un “attacco hacker”.

Sono stati invocati anche per un recente e presunto accesso abusivo ai sistemi informatici dell’ospedale romano in prima linea contro il coronavirus: lo Spallanzani. Ma anche in questo caso lo scetticismo è d’obbligo, fino a quando non saranno chiuse le indagini. Esiste, però, un rischio reale che cybercriminali e spie possano sabotare la lotta alla pandemia?

Ad aver denunciato questo pericolo in modo autorevole è stato un esperto di livello internazionale: l’americano Bruce Schneier, che il settimanale Economist ha definito “il guru della sicurezza informatica”. In un articolo dal titolo Come hacker e spie potrebbero sabotare la lotta al coronavirus, pubblicato sulla rivista americana Foreign Policy con Margaret Bourdeaux, direttrice del programma di sicurezza e salute della Harvard Kennedy School, Bruce Schneier ha messo in guardia contro questo rischio fin dalla fine di febbraio.

“Da molto tempo governi e agenzie di intelligence hanno un interesse a manipolare l’informazione sanitaria, sia quella delle loro stesse popolazioni che di popolazioni straniere”, spiegano. I due esperti citano la disinformazione russa su Aids, vaccini e coronavirus, ma sottolineano che il problema più serio non è questo, quanto invece le gravi vulnerabilità delle strutture mediche che affliggono una superpotenza come gli Stati Uniti, figuriamoci paesi meno ricchi e tecnologicamente avanzati, come potrebbe essere il nostro. Schneier e Bourdeaux, infatti, denunciano che è scioccante quanto sia facile hackerare le strutture sanitarie.

L’anno scorso, i ricercatori israeliani dell’Università Ben Gurion hanno condotto un’esercitazione di cybersicurezza per dimostrare quanto fosse semplice entrare nei sistemi informatici di un ospedale attraverso una wifi pubblica.

Poiché l’ospedale non proteggeva esami e dati medici con la crittografia, i ricercatori israeliani sono riusciti ad accedere alle Tac e a modificare le immagini inserendo dei falsi tumori: solo nel 60 per cento dei casi i medici riuscivano a scoprire la manipolazione e a distinguere le Tac vere da quelle falsificate.

Ma nel caso del coronavirus, in che modo spie e cybercriminali potrebbero sabotare la lotta? Schneier e Bourdeaux spiegano che test e terapie contro il virus vengono eseguiti e somministrate a livello locale e regionale da una moltitudine di laboratori e centri sanitari che poi trasmettono i dati all’agenzia del governo federale Center for Disease Control and Prevention (CDC), attraverso programmi informatici che hanno mille vulnerabilità. Queste vulnerabilità possono essere sfruttate per hackerare e alterare l’intero database sul coronavirus del CDC.

“In tempi normali, c’è tutto il tempo per le autorità sanitarie di notare anomalie nei dati e per ricostruire quali informazioni sono state falsificate”, scrivono i due esperti, “ma durante un’epidemia, quando ci sono decine di migliaia di casi da registrare e analizzare, sarebbe facile per medici e autorità sanitarie, stremate dalla fatica, essere ingannati dai dati falsi. Il caos che ne risulterebbe potrebbe portare ad assegnare in modo sbagliato le risorse per combattere l’epidemia, dare false rassicurazioni che i casi stanno calando quando invece non è così, o anche sprecare tempo prezioso nel cercare di verificare dati in conflitto tra loro”.

Schneier e Bourdeaux avvertono che le autorità sanitarie americane e di tutto il mondo non devono perdere tempo nel mettere in sicurezza i loro sistemi sanitari dal punto di vista digitale e gli Usa, in particolare, devono passare dalla cybersicurezza per scopi offensivi a quella a scopo difensivo per proteggere infrastrutture vitali come quelle mediche.

“La scelta di molti governi, incluso quello degli Stati Uniti, di mantenere le strutture Internet vulnerabili, in modo che possano spiare facilmente su tutti, non è più sostenibile”, concludono i due esperti.

Quarantena, la polizia spara in aria per farla rispettare

Il coronavirus non ha risparmiato l’America Latina. Dalla prima settimana di marzo a ieri si contano 25 mila casi, dagli 8 mila del Brasile ai 5 mila del Nicaragua. In mezzo c’è il Perù con i suoi 1500 contagi e una sessantina di morti, impaurito, per ora, più dall’incoscienza dei Paesi confinanti che dall’epidemia a uno stadio non allarmante. Questo anche grazie alla tempestività del governo di Marin Vizcarra, che dal 16 marzo ha decretato dapprima il coprifuoco notturno – dalle 16 alle 5 del mattino dopo – e poi un meccanismo di alternanza di genere per le uscite diurne. Uomini e donne in quarantena possono uscire solo a giorni alterni e per motivi di necessità fino al 12 aprile. Tutti in casa, invece, di domenica.

Si tratta di una misura già adottata a Panama non senza polemiche, che Lima ha copiato sperando di appiattire l’impennata di contagi. “Non è facile per il Perù affrontare una situazione del genere. Non tutto il Paese è la capitale: ci sono lande al confine con l’Ecuador dove l’emergenza è già partita e in cui c’è grande timore per ciò che potrebbe accadere se il virus superasse la frontiera”, spiega al Fatto Riccardo Farina, professore di Italiano a Lima. “Ma anche in una metropoli di 10 milioni di abitanti non è facile far rispettare la quarantena: a parte quei 4 distretti più vivibili, per il resto le persone hanno per la maggior parte lavori in nero, non possono restare in casa”. Per non parlare dei Cerros (le favelas peruviane). “La quarantena è una misura difficile da attuare in una situazione così diseguale. L’altro giorno – racconta il professore Farina – la polizia ha sparato in aria a La Libertad per far rientrare in casa i cittadini che si rifiutavano di farlo”. E poi c’è la preoccupazione per il servizio sanitario. Anche chi, come lui, che insegna nel prestigioso collegio Antonio Raimondi e per contratto ha un’assicurazione privata, sa che questa non copre le spese sanitarie in caso di epidemie o pandemie. Per gli altri cittadini ci sono gli ospedali pubblici, meglio, “ospedali militari”, il cui solo nome “non è molto rassicurante”.

Per gli italiani in Perù dunque la situazione potrebbe farsi difficile. “Ho scritto all’ambasciata italiana – ci dice il prof. Farina – perché la preoccupazione è che qui arrivi il picco quando in Italia la situazione migliora. Come faremmo in quel caso a tornare con le frontiere chiuse?”. L’ambasciata oltre a chiedere l’iscrizione all’Aire (l’elenco dei cittadini italiani residenti nel Paese) non ha per ora fornito risposte sulle possibilità di rientro di “non turisti”, ritenuti la fascia più fragile dei concittadini all’estero. “Ma c’è anche chi come nel mio caso ha un contratto di soli 12 mesi, vive in Perù da poco – spiega ancora il professore di Italiano – e non ha le radici necessarie per potersela cavare. La speranza è che in caso di necessità pur dovendo pagare il volo, il ministero degli Esteri ci faccia rientrare”. Intanto “Vizcarra ha disposto un bonus di 380 soles (100 euro) in una specie di decreto Cura Perù per una popolazione che vive con un salario minimo di 900 soles”, racconta l’italiano che continua a tenere lezioni online grazie alla piattaforma Zoom. “Ma il mio è un caso particolare, i miei alunni fanno parte della classe borghese. So che anche le università pubbliche si stanno organizzando, ma ci sono anche colleghi italiani nella scuola pubblica con contratti a tempo che sono senza stipendio”.

 

Spagna
Emergenza estesa al 26 aprile. Sánchez: “Raggiunto il picco”

Stato di emergenza prolungato fino al 26 aprile con – allo studio del governo Sánchez – possibili riaperture graduali delle attività economiche e allentamenti delle restrizioni sulle uscite di bambini e runner. La Spagna conta meno morti per il primo giorno dopo una settimana: 809, la metà delle persone ricoverate in terapia intensiva e un minore aumento dei contagi, 7.000 in più, in tutto 124.736 infettati e 11.700 vittime. “Con cautela possiamo dire che nei prossimi giorni, superato il picco, la curva dovrebbe iniziare a scendere”, ha spiegato nel suo discorso il premier socialista, precisando che tuttavia questa proroga non sarà l’ultima. “Il nostro sistema sanitario si deve riprendere e per farlo ha bisogno di tempo”, ha concluso. Il governo intanto cerca di rimediare a un paio di “incidenti diplomatici” che hanno dato il colpo di grazia alla Sanità: dopo i test cinesi non funzionanti, ieri è toccato ai respiratori acquistati dalle regioni di Castilla-La Mancha e Navarra dalla Turchia e bloccati da Erdogan perché necessari al suo Paese. “Non siamo riusciti a convincere Ankara a mandarceli”, si è scusata la ministra degli Esteri, Arancha González Laya.

 

Stati Uniti
Trump non firma il lockdown. A NY 630 vittime in un giorno

Il bilancio delle vittime raggiunge le 7.500, con 1.480 decessi venerdì, un nuovo record, la giornata più letale in un singolo Paese dall’inizio dell’epidemia, secondo i dati della Johns Hopkins University; i positivi sono oltre 280 mila. Nello Stato di New York, i morti sono oltre 3.000 morti, 630 in un giorno solo. L’ordine di stare in casa, che non viene dato a livello nazionale, e la raccomandazione d’indossare la mascherina, disattesa proprio dal presidente, sono temi di scontro tra Donald Trump e i suoi esperti. Sull’ordine di stare a casa, Trump è chiaro: “Lasceremo la decisione ai singoli governatori, Stato per Stato”, nonostante le pressioni di molti specialisti, tra cui Anthony Fauci. Sulle mascherine, le autorità sanitarie le consigliano a tutti i cittadini. In conferenza stampa, Fauci non c’è. Quando i giornalisti gliene chiedono conto, Trump sbotta. Nonostante l’emergenza, il presidente prosegue le purghe e silura l’ispettore generale dell’intelligence Michael Atkinson, che informò il Congresso della denuncia della talpa che innescò il Kievgate.

Giampiero Gramaglia

 

Turchia
C’è il coprifuoco, ma Erdogan lascia le moschee aperte

Il Coronavirus si sta diffondendo in tutta la Turchia – sono 500 i morti, e 24 mila i malati – specialmente a Istanbul dove vivono circa 18 milioni di persone. Nella megalopoli sul Bosforo si registrano il 60 per cento dei contagiati. Finora 484 pazienti sono guariti, mentre 1.251 sono in terapia intensiva. . Sul fronte delle misure di contenimento, il presidente Erdogan ha deciso di imporre il coprifuoco ai turchi di età inferiore ai 20 anni e di consigliare agli ultrasessantacinquenni di restare a casa, oltre al divieto per tutti di assembramento. Il Sultano ha ordinato il divieto di spostamento da una città all’altra, ma all’interno le auto possono circolare e venerdi molti turchi sono andati a pregare nelle moschee. Erdogan si è guardato bene però dal chiuderle per non scontentare lo zoccolo duro del proprio elettorato. Emre Imamoglu, il sindaco di Istanbul – esponente dell’opposizione – ha accusato il Sultano di aver mantenuto aperta troppo a lungo la frontiera con l’Iran permettendo al Covid-19 di entrare.

Roberta Zunini

 

Argentina
Banche chiuse poi riaperte: code chilometriche al freddo

Dopo aver commesso gli stessi errori dell’Italia (blocco solo dei voli diretti non controllando i passeggeri in transito) l’Argentina, pur con numeri limitati (1353 contagi e 42 decessi) aveva preso decisioni drastiche come la chiusura dello spazio aereo e la quarantena totale. Ma ha commesso l’errore di chiudere le banche senza calcolare che pensionati e titolari dei sussidi di povertà potevano incassare i soldi solo agli sportelli: rischiando la protesta sociale, il governo ha aperto gli istituti venerdì, col risultato di milioni di anziani e indigenti in coda fin dalla fredda notte precedente, con assembramenti di chilometri senza alcuna regola.
In Ecuador il numero dei contagiati è di 3368 casi con “solo” 145 morti (statistiche falsate perché i decessi segnalati corrispondono solo a quelli negli ospedali oltre i limiti di capienza). La città costiera di Guayaquil è divenuta famosa per i cadaveri davanti alle porte delle case o per strada. La capitale “morale” ed economica è nota per l’emigrazione verso Spagna e Italia da dove, senza severi controlli negli aeroporti, il virus ha potuto diffondersi.

Guido Gazzoli

Cig, indennità e smart working: le risposte ai quesiti dei lettori

Bonus, ammortizzatori, licenziamenti, smart working… Ogni giorno Il Fatto riceve decine di email di lettori che chiedono chiarimenti su come funzionano le misure del decreto “Cura Italia”. In attesa che, come proposto da Antonio Padellaro, ci sia un question time giornaliero in cui sia il governo a rispondere, proviamo a farlo noi. Scriveteci a lettere@ilfattoquotidiano.it.

 

Reddito di cittadinanza

Sono una Partita Iva. Ho chiesto il reddito di cittadinanza che ora è passato da 100 a 250 euro. Perché non si pensa di integrarlo per arrivare a un importo dignitoso per chi è senza lavoro? (M. B.)

Il reddito cit euro integra l’importo per arrivare a 780 euro al mese, ma non si può cumulare con il bonus da 600 euro. La ministra del Lavoro Nunzia Catalfo ha annunciato che è allo studio un rafforzamento del “reddito” limitato ai mesi di crisi più acuta.

 

Bonus 600 euro

Mio marito è stato assunto il 2 marzo e non ha diritto a niente: è un nuovo esodato. Chi ha avuto la sfortuna di avere un contratto dopo quella data deve morire di fame? (Lettera firmata)

Per il ricorso agli ammortizzatori sociali, che vanno richiesti all’Inps, è stato previsto il requisito più inclusivo che prevede la condizione di essere in forza al 23 febbraio 2020. Va detto, però, che alcune regioni hanno richiesto al ministero del Lavoro di includere nella Cig in deroga i lavoratori assunti dopo il 23 febbraio: la ministra Catalfo ha promesso che sarà fatto col decreto di aprile.

 

Siamo circa 200.000 lavoratori dello spettacolo che ci troviamo esclusi da tutte le misure, perché in possesso di contratti di tipo intermittente. Aiutateci. (Lettera firmata).

Questi lavoratori non accedono all’indennità di 600 euro perché il loro contratto è a chiamata e l’art. 38 del Cura Italia prevede che le indennità per i lavoratori dello spettacolo siano circoscritte a coloro che hanno lavorato almeno 30 giornate, ma che alla data del 17 marzo non avessero un rapporto di lavoro dipendente. Problema: chi ha il “contratto a chiamata” risulta essere “dipendente”, benché di fatto gli intermittenti a quella data fossero senza lavoro. Le Regioni potrebbero risolvere la questione concedendo a questi lavoratori la Cassa integrazione in deroga, misurando il lavoro perso in base allo storico dei 12 mesi precedenti. Apripista, per ora, è la Regione Lazio.

 

Il riconoscimento di un bonus di 600 euro ai lavoratori autonomi è giusto in linea di principio, ma è giusto darlo a chiunque ne faccia richiesta? (Gemma 048)

La domanda per l’ottenimento dell’indennità non si fa tramite autocertificazione ma dimostrando di avere stringenti requisiti che hanno escluso migliaia di persone. Tra le quali anche quelle costrette a lavorare in nero o a chiamata, gli autonomi che guadagnano troppo poco per permettersi una partita Iva, colf, badanti. Ma anche i lavoratori del Terzo settore o educatori e operatori sociali impiegati nei servizi pubblici, sotto diverse forme di esternalizzazione. Per ora la priorità sarebbe consentire a tutti di sopravvivere.

 

Cassa integrazione

Che differenza c’è tra il pagamento di Cig ordinaria e quella in deroga? Quale conviene? (P.T.)

Non c’è una convenienza ma requisiti necessari per richiederle, con la seconda che è diventato un importante cuscinetto di salvataggio per oltre 2 milioni di lavoratori che altrimenti sarebbe rimasti esclusi. Sul fronte del pagamento con la Cassa ordinaria c’è il conguaglio o il pagamento diretto a richiesta del datore di lavoro; per la Cig in deroga c’è solo il pagamento diretto dell’Inps.

 

Banca

Per andare al bancomat più vicino, che non è quello della mia banca, mi hanno addebitato 2 euro di spese: sarebbe opportuno che le banche, almeno in questo periodo, evitassero queste pratiche. (Maurizio Zenga)

Non è ancora previsto per legge che le banche azzerino questo tipo di commissioni, che possono arrivare a 3 euro. Ma c’è da dire che alcuni istituti hanno già agito, come alcune Casse di Risparmio e Banche Popolari. Poi ci sono anche Banca Sella e Intesa SanPaolo: la prima ha previsto l’azzeramento delle commissioni di prelievo presso gli Atm di altre banche; la seconda le ha azzerate fino al 31 luglio solo per quei clienti nel cui Comune le filiali di Intesa sono chiuse (un po’ poco).

 

Smart working

Siamo in smart working con i nostri pc e lavoriamo bene. Ma il top management spiega che occorre intervallare lo smart working alle ferie/rol/festività soppresse (forzate) con tutte le conseguenze sulla produttività. Qui si fa cassa ai danni dei lavoratori. (Lettera firmata)

Il datore di lavoro deve ricorrere il più possibile allo smart working e rispondere all’obbligo di tutela della salute del lavoratore. Ma se l’azienda, per comprensibile calo dell’attività, non fosse in grado di far svolgere la normale attività, potrà decidere di utilizzare i ratei di ferie e permessi maturati dagli stessi o di ricorrere agli ammortizzatori sociali. Anche per l’Inps la presenza di ferie pregresse non è ostativa alla domanda di Cigo e Cig in deroga.

 

Vivai

Da pochi giorni hanno riaperto le attività florovivaistiche purché in grado di garantire la sicurezza de i clienti. Ma i fiori sono una cosa necessaria? Allora riaprano anche le fiorerie. Io non lavoro da tre settimane. (A.L.)

I negozi di fiori al dettaglio non possono riaprire alla vendita, perché il loro codice Ateco è diverso da quello dei florovivaisti. Possiamo farci portavoce dell’istanza della sua categoria, come i vivaisti hanno spiegato alla ministra delle Politiche agricole, Teresa Bellanova che senza fiori e piante sono a rischio 27mila imprese con 2,5 miliardi di fatturato.

 

(In collaborazione con Simone Cagliano – Fondazione Studi Consulenti del Lavoro)