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Non saranno le zanzare a diffondere ancora il virus

Gentile professoressa Gismondo, le vorrei fare una domanda: sta arrivando la stagione calda e di conseguenza arriveranno anche le zanzare: costituiranno un ulteriore pericolo per la diffusione del coronavirus?

Franco

 

Gentile signore Franco, La sua paura, fortunatamente, è infondata. Non è mai stata dimostrata trasmissione di coronavirus attraverso gli insetti.

Maria Rita Gismondo

 

La memoria corta: Draghi non è l’uomo dei miracoli

Politici e quotidiani sempre più spesso fanno il nome di Mario Draghi: questi avrebbe le capacità per portarci fuori dalla crisi. In tal modo lasciando intendere, in maniera malevola, che l’attuale presidente del Consiglio non le abbia.

Ma l’ex governatore della Bce non fu direttore generale del Tesoro sino al 1992 e dal 1993 al 2001 presidente del Comitato per le privatizzazioni, operate a danno dei contribuenti e a vantaggio delle multinazionali e delle banche d’affari, completate le quali l’illustre dirigente abbandonò gli incarichi pubblici per divenire, dal 2002 al 2005, vicepresidente del Management Committee Worldwide della Goldman Sachs?

Vale giusto la pena ricordare che, sempre lui, nel 1998, fu artefice del Testo Unico della Finanza con cui venne rimosso il divieto per le banche di sedere nei Consigli di amministrazione delle società finanziate. Non voglio discutere le capacità di Mario Draghi, ma credo sia giusto che i cittadini sappiano che l’uomo dei miracoli non esiste e semmai esistesse questi non è Mario Draghi.

Domenico Maio

 

Sono passato al “Fatto” per la vostra serietà

Fino a qualche mese fa leggevo occasionalmente Il Fatto, ma da quando è scoppiata la situazione Covid, le confesso di non perdere un numero. Avendo, nella mia vita, sempre preferito la carta stampata ad altro modo di informarmi, ho avuto modo di rendermi conto della serietà, competenza, obiettività e assoluta libertà sua e dei giornalisti del Fatto.

Severino Furlan

 

Grazie, caro Severino, ce la mettiamo tutta per meritarci ogni giorno la fiducia di voi lettori.

M. Trav.

 

Stanziamenti americani: Zaia spara cifre a caso

Sono un vecchio lettore del Giornale e della Voce di Montanelli. L’altro giorno Luca Zaia è intervenuto a una trasmissione su Radio1. “Considerato che la Germania – ha detto l’insigne matematico – ha stanziato 550 miliardi di euro per la crisi coronavirus, e considerato gli Stati Uniti hanno stanziato 1.000 miliardi di dollari, si deduce che, proporzionalmente, la Germania ha fatto uno sforzo maggiore in considerazione che gli Stati Uniti sono tre volte circa i suoi abitanti”. Secondo lui, “il governo americano avrebbe dovuto stanziare all’incirca 1.500 miliardi di dollari”. Peccato che abbia stanziato 2.000 miliardi di dollari e non mille! Parole a casaccio, dette così… Cosa vuoi che siano mille miliardi in più o in meno!

Fausto Padovan

 

E se aiutassimo la sanità con l’8 e il 5 per mille?

Un’idea per supportare la sanità, in questo delicato momento. Il governo dovrebbe emanare un decreto per imporre la devoluzione obbligatoria dell’8 per mille e del 5 per mille direttamente alla Sanità italiana, per l’anno fiscale in corso. Sarebbe necessario e doveroso.

Angelo Sardo

 

Mai abbassare la guardia sulle organizzazioni mafiose

Da lettore mi ha fatto molto piacere l’intervista al Dott. Gratteri e sono contento che anche in questo momento il Fatto non considera secondaria la lotta alla criminalità organizzata. Come immaginavo siete gli unici che hanno dato spazio alla vicenda.

Michele Brescia

 

Le assicurazioni risparmiano, potrebbero contribuire

Nel bell’articolo di Nicola Borzi apparso venerdì sul nostro quotidiano sono state dimenticate le assicurazioni nell’elenco dei vincitori; infatti queste società stanno risparmiando milioni sulle RC auto grazie al quasi totale blocco del traffico in tutta Italia. Sarebbe un bel gesto da parte loro mettere a disposizione della Protezione civile almeno una parte di questi gratuiti guadagni.

Leonardo Mingiacchi

 

DIRITTO DI REPLICA

Ho letto con stupore sul Fatto Quotidiano di ieri anche il nome della Cisl e il mio in un articolo sulla presunta formazione di un partito di Mario Draghi. Per quanto mi riguarda voglio precisare che la notizia è assolutamente infondata. La Cisl non partecipa alla costruzione di nessun movimento politico o partito, perché conserva gelosamente nel suo dna il principio dell’autonomia e della assoluta indipendenza dalla politica. La nostra azione è da settanta anni esclusivamente sindacale, al 100%, una funzione sociale libera, autonoma e pluralista, sulla base dell’insegnamento ideale dei nostri “padri fondatori”.

Annamaria Furlan, Segretaria Generale Cisl

 

I NOSTRI ERRORI

In relazione al pezzo sul Foia e la sospensione dell’accesso agli atti della Pa pubblicato ieri, precisiamo che la sospensione è prevista fino al 15 aprile 2020. Il 31 maggio è la sospensione prevista per gli enti impositori. Ce ne scusiamo con i lettori e gli interessati.

Vds

 

Rispetto all’articolo di ieri sul nuovo Paziente 1, vi è un errore di datazione e di attribuzione, non colpa del Fatto, ma di un fraintendimento nel rapporto italiano pubblicato sul sito europeo Eurosurveillance. Qui la data del ricovero del 10 febbraio attribuita a un nuovo cittadino lombardo è in realtà già quella di Mattia, l’ormai noto paziente 1 di Codogno. Me ne scuso con i lettori.

Davide Milosa

Del Vecchio, il Lussemburgo, il dopovirus e i sacrifici

Leonardo Del Vecchio, tra le altre cose fondatore di Luxottica, è l’uomo più ricco d’Italia o forse del Lussemburgo, visto che la holding di famiglia Delfin ha sede nel paradiso fiscale in cui il nostro, l’anno scorso, ha spostato pure la residenza (da Montecarlo). La sua, com’è noto, è una storia di successo: figlio di pugliesi immigrati al nord, in qualche decennio è passato da operaio a capo di un impero. Eppure, nonostante gli 84 anni, Del Vecchio non ha smesso di imparare: “Finora pensavamo che il pubblico fosse meno efficace del privato – ha detto ieri a Repubblica – Credo che migliaia di medici e infermieri che ogni giorno rischiano la loro vita abbiano dimostrato che non è così”. Chissà che gioia per i lavoratori del Ssn del Lussemburgo, ma non è questa la cosa che ci ha colpito di più: “Ho vissuto le bombe e la guerra, la fame e la povertà – ha detto – Da tutto questo ne potremo uscire solo in due modi: con la rabbia lasciata correre per le strade o puntando sul sacrificio e sulle energie di tutti per ripartire assieme”. Riassunto: “Sacrifici, non rabbia per uscire dalla crisi”. E qui dobbiamo confessare che il richiamo allo sforzo collettivo e ai sacrifici da parte del sciur padrun, per quanto caro anche ai parroci, ci lascia come una sensazione di fregatura imminente. Fra poco, infatti, si inizierà a contare pure le vittime del dopo-guerra e saranno moltissime: a guardarle bene, ci scommettiamo, si scoprirà che quasi nessuna aveva holding in Lussemburgo e che i sacrifici li facevano pure prima del coronavirus. Permette, sciur padrun, che almeno s’incazzino?

“La Stampa” sbaglia, la russofobia è ancora tra noi

Il Coronavirus sta ottundendo le facoltà cerebrali, prima ancora che attaccare i polmoni. Navighiamo in un oceano di follia. Ho scritto più volte che la prima “emergenza” in Italia è la cosiddetta informazione, che è controllata in gran parte da due gruppi finanziari ed è assolutamente omologata culturalmente, oltre che politicamente a senso unico, e povera, spesso poverissima sul piano della mera capacità giornalistica, non di rado anche nella padronanza della lingua italiana.

Ho raccontato qualche giorno fa la vicenda del vergognoso articolo di tale Jacopo Iacoboni su uno dei più “allineati” quotidiani italiani, La Stampa. L’articolo, sulla base di fonti non specificate di autorità militari e politiche italiane, insinuava che gli aiuti russi all’Italia in difficoltà non fossero che un escamotage per mettere una zampa nel Paese, allontanandolo dagli “alleati storici” (ossia lo Zio Sam, nostro padrone assoluto dal 1947) e che oltre tutto quegli aiuti erano “per oltre l’80%” assolutamente inutili.

L’articolo, un esempio di che cosa non debba essere il giornalismo (sarebbe da far studiare nelle sedicenti scuole che scuciono denaro a giovani illudendoli di avviarli alla professione), era stato ridicolizzato, con la verve che gli è propria, da Marco Travaglio, sul Fatto Quotidiano. Travaglio, è noto, è non solo una penna caustica, ma un signor giornalista, uno che evita le supposizioni e prova a raccontare i fatti sulla base di una documentazione accertata. Del resto il signor Iacoboni gli aveva fornito ampia messe di scempiaggini, al limite del caricaturale, per cui era facile affondare il suo pseudo-argomentare. E ricordo che Travaglio è dichiaratamente uomo che politicamente si schiera a destra ma, a differenza di Iacoboni, è un vero giornalista, uno di quelli che dà quotidiane lezioni di informazione (il che non toglie che valga anche per lui, come per me!, il detto latino quandoquidem dormitat Homerus! Insomma tutti possiamo sbagliare, ma importante è procedere in modo rigoroso, controllando le fonti, lasciando da parte insinuazioni prive di fondamento, e soprattutto non facendoci “dettare” i nostri articoli da qualche padrone o suo emissario).

Avevo ripreso la questione, denunciando quell’esempio di sciacallaggio, in un momento in cui l’Italia vive una situazione terribile e, ignorata dagli “alleati storici” e abbandonata e persino derisa dai partner europei, riceve aiuti da Paesi esterni, tutti, guarda un po’, appartenenti all’area che era stata del socialismo, o lo era ancora: Repubblica Popolare Cinese, Cuba, Venezuela, Federazione Russa. In particolare da questo grande Paese erano appena giunti aerei cargo che avevano trasportato camion attrezzati con un centinaio di addetti, tutto personale medico e paramedico altamente qualificato, con attrezzature non solo mediche, ma igieniche e sanitarie. Un esempio di organizzazione perfetta oltre che di eccezionale generosità.

Ebbene, La Stampa (ma anche altri giornali a cominciare dal sodale Repubblica, ormai appartenente allo stesso gruppo finanziario del quotidiano torinese), sputava su quegli aiuti, aggiungendo elementi di tensione politica, insufflando dubbi e sospetti in una opinione pubblica smarrita e sull’orlo costante di crisi di ansia e di panico.

L’articolo ha generato, come era del tutto ovvio (e personalmente lo avevo previsto) le reazioni irritate del governo russo, che si è espresso per bocca del suo ambasciatore a Roma prima, e poi del portavoce del ministero della Difesa (responsabile della spedizione, trattandosi di mezzi e personale inquadrati nelle Forze Armate della Federazione). Giustamente non solo i comunicati russi facevano osservare la gratuità dell’aiuto russo, e denunciavano come del tutto infondate e perniciose le insinuazioni del sedicente giornalista, ma parlavano di “russofobia” (tema su cui mi sono soffermato più volte negli ultimi tempi, molto prima dell’emergenza Covid-19).

Ebbene, che cosa sarebbe dovuto accadere, quale risposta ci sarebbe dovuta esser da parte della Stampa? Una sola possibile: un messaggio di scuse.

Invece no, con sufficienza e una notevole dose di superflua arroganza, prima il direttore Molinari, poi il comitato di redazione, subito supportato da quello del gemello Repubblica, hanno risposto lamentando la carente libertà di stampa in Russia, e vantando quella italiana! Secondo un consolidato modello argomentativo, quando si è in difficoltà davanti a precise contestazioni, invece di entrare nel merito, si rovescia l’accusa. Si può fare, ma solo dopo! E nel momento in cui addirittura si creano a livello addirittura governativo, delle task force contro le fake news, si può far passare come libertà di stampa la libertà di menzogna?! Siamo davvero a un passo dalla follia.

Lo sconcerto cresce se andiamo a vedere le reazioni politiche: i primi a insorgere, non contro Iacoboni, bensì a suo favore, e dunque contro il governo russo, sono stati rappresentanti dei Radicali (così ogni tanto scopriamo che esistono ancora, o meglio credono di esistere), del Pd, il solito Renzi, che deve non farsi scavalcare, in fatto di tutela della libertà di menzogna, dai suoi ex soci di via del Nazareno, tutti appassionatamente insieme a Forza Italia. Ringalluzzito da tale parterre, il simpatico Iacoboni prima sollecita un pronunciamento ufficiale del nostro governo (“In Italia non ci facciamo intimidire, qui esiste la libertà di critica. Noi non siamo la Cecenia. Ringrazio i tanti che mi hanno espresso la loro solidarietà, anche se mi sarei aspettato immediatamente una reazione da parte del presidente del Consiglio”). E quando arriva un comunicato congiunto dei ministeri degli Esteri e della Difesa (“La libertà di espressione e il diritto di critica sono valori fondamentali del nostro Paese, così come il diritto di replica”), Iacoboni, ormai convinto di essere un paladino della libertà di stampa, uno dei nuovi “eroi” sorti nella battaglia contro il Covid-19, non si accontenta. E sentenzia: “Ognuno legga e si faccia un’idea. La nota, dettaglio importante, è firmata dai ministeri della Difesa e degli Esteri italiani. Non è una nota di Palazzo Chigi”.

Ossia, il nuovo Tocqueville, grande teorico della libera stampa, nell’Ottocento, dico Iacoboni, sembra infastidito dal fatto che la Nota inizi con un riconoscimento alla Russia (“L’Italia è grata alla Russia per gli aiuti…”), e soprattutto a lui non bastano due ministri scesi per difendere la sua “professionalità” (!?), pretende che scenda in campo addirittura il presidente del Consiglio. Il quale evidentemente non ha di meglio da fare, in queste giornate di delirio, di sofferenza nazionale, di confusione, incertezza, paura, che difendere l’onore professionale di Jacopo Iacoboni.

Personalmente, nella mia modesta veste di commentatore, raccogliendo l’invito implicito di Iacoboni (in fondo è il solito “armiamoci e partite!”), proporrei una bella dichiarazione di guerra. Al virus l’abbiamo già fatta, con modesti risultati finora. E sull’onda del patriottico orgoglio di cui sono traboccanti le reti sociali e i balconi d’Italia, avvierei una nuova “campagna di Russia”. Ci andò male, com’è noto, in passato, quando Mussolini mandò a combattere gli Alpini con le scarpe di cartone. D’altronde oggi buttiamo nelle corsie di ospedali giovani e vecchi medici e paramedici senza esperienza e senza mezzi di protezione nell’altra “guerra”. Magari stavolta nelle steppe siberiane ci andrà meglio. Dunque, Mosca sei avvertita!

Guarigione e salvezza: obiettivi da raggiungere con la non violenza

Ieri era l’anniversario dell’assassinio di Martin Luther King (4 aprile 1968), vigilia quest’anno della Domenica delle Palme. King, pastore evangelico battista e leader del movimento nonviolento per i diritti civili degli afroamericani, è stato anche leader della protesta contro la guerra del Vietnam e gli interessi del sistema politico-economico legato all’industria bellica. Premio Nobel per la Pace nel 1964, con le sue marce non violente e la sua predicazione sulla “forza di amare” egli voleva sconfiggere il razzismo che covava nel cuore degli uomini, e quindi della società, e anche la volontà di sopraffazione della violenza militare ed economica.

Così il pastore valdese Tullio Vinay: a pochi anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, facendo apporre sul muro della chiesa all’aperto del Centro ecumenico di Agape (a Prali, in provincia di Torino) il versetto di I Corinzi 13 “l’amore non verrà mai meno”, indicava la forza più potente e definitiva per la conversione dell’animo umano, che bisognava praticare e non solo predicare. Durante il fascismo si era impegnato personalmente nella rischiosa protezione degli ebrei perseguitati e poi, come Martin Luther King, contro la guerra nel Vietnam. Proprio una sua visita in quel paese in guerra lo portò a fondare a Parigi, con altri, l’associazione dei cristiani per l’abolizione della tortura.

Erano entrambi discepoli di quel Gesù che, in un momento di effimero entusiasmo popolare – come ci raccontano i vangeli in questa Domenica delle Palme – entra in Gerusalemme non da re conquistatore ma da “poverello”, a cavallo di un asinello: “la gran folla che era venuta alla festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme, uscì a incontrarlo, e gridava: ‘Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!’. Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: ‘Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, montato sopra un puledro d’asina!’” (Giovanni 12,12-15).

Gesù si presenta perciò come Colui che le Scritture avevano annunciato, come re mansueto e non guerriero, come predicatore nonviolento, araldo di quell’amore sovrabbondante della grazia di Dio, capace anche di perdersi e morire, pur di dare frutto e nuova vita: “‘L’ora è venuta, che il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato. In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna” (Giovanni 12,23-25).

Quella della Domenica delle Palme è quindi una giornata di gioia ma velata da ciò che avverrà da lì a pochi giorni (il tradimento, la condanna a morte e la crocifissione del Venerdì Santo), fino a tornare a risplendere nella risurrezione della Domenica di Pasqua. I racconti della Settimana Santa, perciò, illustrano in sintesi la vittoria del bene sul male come frutto di una lotta immane in cui anche Dio è impegnato direttamente, con i suoi strumenti però, non con quelli tipicamente umani della forza e della violenza ma con quelli dell’amore e della convinzione che producono – questi sì – guarigione e salvezza.

Oggi i cristiani in Italia non potranno raccogliersi nelle chiese per partecipare ai culti, non riceveranno i tradizionali ramoscelli di ulivi, segno del discepolato di pace e riconciliazione a cui sono chiamati dal loro re nonviolento. La loro gioia sarà velata non solo per l’attesa del Venerdì Santo ma anche per l’impossibilità quest’anno di condividere comunitariamente quell’annuncio di fede, di speranza e di agire responsabile che è alla base dei racconti evangelici della Passione. Ma pazienza, ciò che conta è che il messaggio evangelico e la conseguente testimonianza siano occasione di ripensamento e di scelte di vita nuova.

*Già moderatore della Tavola Valdese

Geli di primavera e il buco dell’ozono causato dal lago

In Italia – Marzo è terminato con connotati da tardo inverno, sotto la terza irruzione fredda da Nord-Est dopo i due episodi della settimana precedente. Pioggia qua e là, specie su Prealpi e Toscana, e neve a 300 metri in Puglia: mercoledì mattina, 1° aprile, ce n’erano 10 cm a San Giovanni Rotondo, paesaggio inconsueto per la stagione. Gelate notturne al Centro-Nord (giovedì, minime di -4 °C nel Ravennate e -7 °C nell’Aretino), ma senza toccare l’eccezionalità dell’8 aprile 2003, quando si scese a -8 °C sulla pianura bolognese e a -10 °C intorno a Campobasso. Nonostante il finale invernale, in Italia marzo 2020 ha mostrato nel complesso temperature vicine alla norma (anomalie: +0,5 °C in Lunigiana, -0,7 °C a Torino), facendolo percepire freddo rispetto al febbraio di caldo record. Mancano ancora le grandi piogge di primavera al Nord, e per ora non arriveranno: ci aspetta una settimana soleggiata e di nuovo più calda.

Nel mondo – Il gelo dei giorni scorsi è stato più anomalo in Europa centrale e soprattutto in Austria, con minime da primato per aprile, mercoledì, di -6,4 °C a Graz e -10,3 °C a Bad Bleiberg (900 m, Carinzia). La neve ha imbiancato capitali balcaniche come Skopje (Macedonia) e Sofia (Bulgaria) e fiocchi si sono visti anche in riva all’Atlantico presso Bordeaux. Tuttavia pochi giorni di freddo tardivo non hanno impedito di chiudere il semestre ottobre-marzo più caldo in un secolo e mezzo al Nord delle Alpi, da Ginevra a Lucerna. Brusca parentesi invernale pure a Tokyo, dove si è passati dai 25 °C di sabato 28 marzo alla rara nevicata primaverile di domenica (1 cm), giunta sulla fioritura dei ciliegi che mai, almeno dal 1953, era iniziata presto come quest’anno (14 marzo). Una tempesta di polvere si è sollevata il 24 marzo dall’ex-lago d’Aral trasformato in deserto negli ultimi decenni a causa della deviazione degli affluenti per irrigare le vaste coltivazioni ex-sovietiche: sospinta da venti orientali, la nube di polvere salata ha raggiunto eccezionalmente anche l’Europa e l’Italia il 28-29 marzo, facendo impennare le PM10 a 100-150 microgrammi al metro cubo d’aria, sebbene non tossiche come lo smog. Confermato il marzo più caldo in oltre un secolo tra il Sud degli Stati Uniti e il Messico (a Orlando, New Orleans, Corpus Christi, Mexico City, Guadalajara, Acapulco…), ma la mitezza anomala ha interessato anche la East Coast. Violente grandinate e tornado nel Midwest, tra cui un vortice di intensità EF3 (venti a 225 km/h) sabato 28 a Jonesboro, Arkansas, ma senza vittime. All’interno del potente vortice polare che nello scorso inverno ha trattenuto aria freddissima nei cieli artici, senza lasciarla traboccare verso di noi, si sono generate le condizioni ideali per la formazione di un ampio “buco nell’ozono”, simile a quello che ogni anno si sviluppa sopra l’Antartide: in gelide nubi stratosferiche contenenti cloro di origine industriale si innescano reazioni chimiche di distruzione dell’ozono, che a quelle altezze (circa 20 km) filtra i raggi ultravioletti dannosi per le cellule viventi. Benché straordinario, il fenomeno è transitorio e dovrebbe esaurirsi in poche settimane senza interessare zone densamente abitate. La Cop-26, che doveva tenersi a novembre 2020 a Glasgow per l’avanzamento dei negoziati sul clima, è stata rimandata al 2021 per l’emergenza Covid-19 insieme alla pre-Cop e all’evento per i giovani Youth4Climate in programma a Milano. Speriamo che ciò non rallenti ulteriormente la lotta ai cambiamenti climatici, che restano la più grande minaccia a lungo termine. Lo ribadisce l’astrofisico francese Aurélien Barrau in un appello firmato da centinaia di personalità che è diventato un libro: Ora. La più grande sfida della storia dell’umanità (Add Editore).

La fortezza infetta dell’Ungheria

“Non ho mai sentito scienziati, veri scienziati, parlare in termini di nazionalità, mai sentito espressioni come ‘la mia nazione, la tua nazione, la tua lingua, la mia lingua, la mia o la tua dislocazione geografica’. Queste sono tutte cose estranee e davvero lontane dalla visione e dal lavoro degli scienziati”. Ho trascritto una dichiarazione del medico italiano Francesco Perrone, che il New York Times International del 3 aprile pubblica in prima pagina, indicando lo scienziato italiano come “uno dei più importanti ricercatori sul coronavirus. L’articolo è una sorta di guida agli incroci di università, laboratori e scienziati che si cercano e comunicano attraverso il mondo, da Singapore a Oxford, da Pittsburgh al Pasteur Institute di Parigi, dai campus cinesi ai laboratori inglesi, francesi, tedeschi, italiani, americani. Un tempo, avvertono gli autori, ciascun ricercatore avrebbe esibito il risultato del suo frammento di ricerca in una pubblicazione per il prestigio e la carriera dell’autore e la fama della sua università. Adesso, racconta il lungo articolo, gli scienziati cercano subito nel mondo i compagni di lotta più vicini al punto esplorato, per rafforzare insieme la ricerca e avvicinarsi a capire e a scoprire. Il tempo del “made in…” nella scienza, nei giorni e nell’incubo del coronavirus, è finito. In situazioni normali tutto ciò che il lungo articolo che ho citato (un elenco di decine e decine di casi in cui ciascuno, da ciascun angolo di ricerca scientifica del mondo, cerca di dare o avere forza nel lavoro degli altri, non importa quanto estranei e lontani), sarebbe stata raccontata come la rappresentazione della scienza che imita la politica.

Ovviamente – in un mondo complesso – la politica si può fare solo insieme, unione, collaborazione, scambio. Ma ciò che sta avvenendo, benché stupefacente, ci dice che un treno blindato spinge con forza cieca contro il convoglio europeo, spinge in direzione opposta alla corsa, tenta di farlo restando sullo stesso binario, a costo di distruggere e deragliare: chiusura invece di apertura, esclusione invece di inclusione, abolizione della libertà, eliminazione della magistratura e del Parlamento, anni di carcere per gli oppositori. Il progetto è rigorosamente distruttivo, eppure, ecco il fatto strano che merita attenzione, non è legato a una riforma politica e ai tanti modi di cambiare la vita delle persone (per esempio, nel fascismo, muscoli, giovinezza e pugnali).

No, qui il progetto politico è legato direttamente alla morte. Il primo ministro ungherese Orbán, liberandosi subito di tutte le finzioni di coloro che si spostano verso il fascismo fingendo una passeggiata o, al massimo, un esercizio sportivo, ha messo in chiaro che voleva pieni poteri a causa del coronavirus. Solo il potere assoluto, ha detto ai suoi, che hanno obbedito, può sconfiggere un male che entra in tanti modi e da tutte le parti, viene certamente da fuori ed è portato certamente dagli stranieri. Orbán l’aveva detto da tempo, insieme ai suoi seguaci italiani Salvini e Meloni (che non sembrano sentire l’imbarazzo di stare agli ordini). Aveva detto che chiudere le frontiere e fermare l’infezione dei migranti era l’unica strada in difesa della civiltà e della razza magiara (Salvini e Meloni avevano dovuto affrettarsi a correggere in fretta “razza italiana”). Per anni ci hanno ripetuto che i migranti (mai divenuti focolaio di alcuna malattia) ci avrebbero portato le sette piaghe del mondo povero, e avrebbero infettato i nostri figli a scuola, anche con la tubercolosi, al punto che molte madri ritiravano i loro bambini se c’erano bambini neri in classe e proibivano i pasti ai bambini “stranieri” se la loro famiglia non poteva pagare.

Intanto vedevamo in tv che gli “operatori”, a ogni sbarco (a volte dopo settimane di attesa in mari roventi e mari ghiacciati dei naufraghi) si accostavano ai salvati indossando mascherine chirurgiche e guanti, come adesso a Brescia e Bergamo, ma che in seguito non avremmo più trovato per i nostri connazionali infettati da nostri connazionali. Ecco il progetto di Orbán: primo, i pieni poteri sono lo strumento magico (o la santificazione del leader assoluto) che d’ora in poi può comandare alle persone, alle cose e alla natura, una sorta di evocazione inconsapevole della Bibbia, in cui Giosuè ferma il sole e Gesù ingiunge a Lazzaro di alzarsi. Secondo, la città deve essere chiusa, anche con l’uso di muri, fossati e filo spinato, affinché non ci sia scambio di medici e di medicine “straniere”.

Terzo. Quando Salvini, Meloni e Tajani si presentano ai microfoni davanti a Palazzo Chigi per raccontare da leader parlamentari che cosa non va bene con il governo, rappresentano un Parlamento che il loro amico e protettore Orbán ha abolito. Dunque, se sono veri credenti (e dicono di esserlo) non sono nessuno e parlano nel vuoto.

Il Professor Cacciari e l’interrogazione col botto

 

“Mi sta davvero chiedendo se saremo migliori o peggiori? Non cambierà niente”.

Massimo Cacciari intervistato dal “Corriere della Sera”

 

Al ginnasio avevo un professore di Matematica con un metodo infallibile per terrorizzare la classe, e costringerci a studiare le equazioni: le interrogazioni col botto. Più il disgraziato di turno alla lavagna s’impappinava col gessetto a mezz’aria e più il cerbero tamburellava nervosamente con le nocche sulla cattedra finché, a tempo scaduto, il crescendo di percussioni esplodeva con una terrificante manata sulla superficie lignea, in una sentenza inappellabile: il botto. Talché, quando mi capita di incrociare Massimo Cacciari in qualche dibattito televisivo, e la memoria di quel trauma mi sovviene, al primo brontolio con saetta incorporata cerco d’ingraziarmelo con un cauto (e vile) “concordo con il Professore” (sì, dalla laringe mi esce perfino una P maiuscola); quindi ne scruto l’espressione sperando in un cenno di assenso, come davanti a quella lavagna. Pronto a fare dietrofront nel caso mi fossi avventurato su un terreno minato per non rischiare un metaforico scappellotto. Scherzo naturalmente, anche se l’intervistatrice Candida Morvillo merita un plauso per certe domande ardimentose su colore della chioma e immortalità. Cacciari, e qui torno serissimo, ha tra gli altri il dono di incenerire con una parola (o con una smorfia) la retorica melensa “dello stare a casa, dei carrarmati nelle strade, degli Inni di Mameli e via blaterando”. Aggiungerei: i diari intimisti sulle passeggiate nel tinello, e sulla riscoperta dei valori familiari. Quanto a certi interrogativi esistenziali sul “dopo”, il Professore ci dice esattamente quello che potremmo trarre non da Immanuel Kant, ma da una semplice rilettura del sussidiario di Storia: “Non cambierà niente, la maggioranza della gente spera di tornare a vivere come prima e altri sperano, come prima, di vivere un po’ meglio”. Infine: “Pensare come se questa fosse la terza guerra mondiale è un’idiozia”. Applausi. Ci accompagna l’immagine di lui che “ogni tanto tira un colpo al calciobalilla, ed è molto nervoso”. Avercene.

Non voler capire in che guai siamo

Il presidente della Confindustria Vincenzo Boccia ha trasmesso a un Paese impaurito un messaggio che moltiplica lo sconforto. “È il momento del primato della politica”, dice, rilanciando un vecchio motto della Dc. Lo propugnava Paolo Cirino Pomicino a fine anni 80. Antonio Patuelli, che oggi se la tira da banchiere ma allora era anche ufficialmente un politicante di seconda fila, lo accusava di volere “una restaurazione del primato della politica sull’efficienza e la produttività”. Il primato della politica per lorsignori è trafficare, e Boccia muore dalla voglia come molti dei suoi colleghi imprenditori per finta, spesso solo prenditori di denaro pubblico.

La nenia la sappiamo a memoria. Serve un fiume di denaro pubblico per dare liquidità a un’economia collassata, e tutti d’accordo, poi c’è il salto logico: la seconda mossa necessarissima sono le “semplificazioni che permettano l’attivazione immediata delle opere pubbliche e dei cantieri”. Sembra una vera ossessione. Non solo Boccia, anche il suo probabile successore Carlo Bonomi vuole fermare il Coronavirus con semplificazioni e grandi opere, e anche l’ex ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e, più scatenato di tutti, il viceministro delle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri, che vuole accelerare i cantieri Tav mentre il suo partito, il M5S, chiede di fermare i cantieri della Torino-Lione per destinare il denaro a più sensati impieghi.

È come se – a forza di raccontare che i grandi cantieri erano l’unico modo di tirar fuori l’Italia dal suo declino ventennale – nei loro cervelli fosse rimasto solo quel pensiero, e non si rendessero conto della drammaticità del momento. Per dire, due vecchi democristiani come Pier Ferdinando Casini e lo stesso Cirino Pomicino parlano di patrimoniale. In tutto il mondo ci si preoccupa di salvare le piccole e medie imprese, non le grandi. L’economista Michele Boldrin, liberista a 24 mila carati, dice che i titolari di redditi sicuri (statali e pensionati) dovrebbero cedere il 20 per cento del loro netto mensile a chi è rimasto per strada.

Di questo si parla. E qui siamo a gloriarci dell’ipotetica accelerazione (nb: partenza dei cantieri se va bene in 3-4 anni anziché 6 o 7) della tratta ferroviaria Fortezza-Ponte Gardena, 28 chilometri al costo di oltre un miliardo di euro che in un futuro indefinito e remoto (mentre controlliamo l’andamento della pandemia sulla scala dei giorni) collegherà il nuovo tunnel del Brennero alla nuova ferrovia Ponte Gardena-Verona che completerà il corridoio di collegamento ferroviario tra una città portuale, Helsinki, e un’isola, Malta, distanti 4 mila chilometri.

Abituati a succhiare il denaro dei contribuenti per poi dare la colpa del debito pubblico a malati e pensionati, si sono convinti che i soldi pubblici non finiscano mai. Questa classe dirigente è più lenta degli spiantati a capire che cosa ci sta arrivando addosso, e che bisognerà fare scelte e rinunce dolorose, decidere se dare da mangiare ai camerieri dei ristoranti rimasti a piedi o scavare tunnel ferroviari. E se chiediamo soldi all’Europa per il Coronavirus chi glielo dice poi agli “antipatici” olandesi che li spendiamo per le nostre cattedrali nel deserto?

Molti pensano che nel Dopoguerra, troppo spesso evocato a sproposito, l’Italia abbia conosciuto un’età dell’oro grazie al piano Marshall, e che ci aspetta una riedizione di quell’epoca felice e fiera di riscatto. Sarà bene che questi allegroni aprano almeno un libro, e scoprano che in milioni fecero la fame; che con il piano Marshall gli Stati Uniti ci hanno regalato meno del 2 per cento del Pil, e che i nostri padri se lo fecero bastare; e che oggi sarebbero 30-40 miliardi di euro che nessuno ci regalerà perché anche i ricchi stanno contando i morti. Il “primato della politica” sarà il benvenuto quando darà ai governi la dignità di ignorare le stupidaggini (interessate) di Confindustria.

Matteo ormai prega solo in tv

In uno dei migliori momenti cinematografici di Paolo Villaggio, Fantozzi finiva in preda ad allucinazioni mistiche. Erano quasi tutti momenti di difficoltà, tipo l’impacco bollente della signora Pina o il diluvio universale durante la partitella di calcio. Per Matteo Salvini ormai deve funzionare più o meno così: grida qualcosa sulle mascherine, si lagna di non essere ascoltato dal governo e poi, realizzando che da settimane in realtà è proprio l’esecutivo ad avere i consensi più alti, si rifugia nell’esaltazione della fede sperando che quel tono rassicurante e timorato di Dio faccia colpo. Dopo la preghiera in diretta tv con Barbara D’Urso, ieri Matteo a SkyTg24 ha fatto sapere che per battere il coronavirus auspica una mano da più in alto: “Non vedo l’ora che la scienza e anche il buon Dio, perché la scienza da sola non basta, sconfiggano questo mostro per tornare a uscire. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua e occorre anche la protezione del Cuore immacolato di Maria. Sostengo le richieste di coloro che chiedono, in maniera ordinata, composta e sicura, di riaprire le chiese”. Tutto sommato ce lo auguriamo anche noi: Salvini potrà pregare quanto desidera, ma almeno non in diretta nazionale.

F.F. non sa nulla, perciò insulta

Quando uno pensa che anche lo schifo abbia un limite, gli basta leggere Libero e le sue firme per essere prontamente smentito. Ieri il F.F. che noi non nominiamo mai per non sporcare le mani ai lettori – per intenderci: quello con le mèches o lo chatouche, che prima stava con Craxi, poi con B. e ora con Salvini per completare il museo degli orrori – non ha gradito l’analisi di Selvaggia Lucarelli sul Fatto a proposito dei tragici errori di Fontana, Gallera&C. Legittimo. Solo che, anziché confutare il suo articolo opponendogli dati e fatti (oggetti per lui misteriosi), ha pensato bene di insultarla sui social, dandole della “gossipara spargizizzania che porta male a tutto quel che tocca…”. E, fin qui, si potrebbe anche sorridere, vista la bella fine fatta dai precedenti spiriti guida di F.F. (Craxi pregiudicato e latitante, B. pregiudicato ai servizi sociali), se il lord Brummel di Libero non aggiungesse “…diventata nota perlopiù per le sue tette da vecchia matrona”. Altri, più autorevoli di noi, hanno già denunciato il suo sessismo da trivio. Noi preferiamo lasciar giudicare questa nullità dal suo attuale direttore Vittorio Feltri, che lo conosce bene e infatti, in un raro lampo di lucidità, ebbe a scrivere: “Non pubblicare un articolo di Facci non è censura: è un’opera buona, è fargli un favore”.