Ho dedicato l’Antivrus del 2 aprile alla lettera dei miei collaboratori. Mi sono documentata e ne ho trovate le ragioni. La mia non è, come erroneamente ha scritto un giornalista, una stilettata allo Spallanzani. Ai colleghi del noto istituto i miei complimenti per essere riusciti a ottenere tanto. Io e i miei collaboratori vorremmo far arrivare ai politici (da vent’anni!) l’informazione che noi e la nostra efficiente e attiva Bsl-4 esistiamo. Siamo l’altro centro di riferimento per le bioemergenze nazionali. Ecco i principali contributi elargiti allo Spallanzani a fronte di zero per la nostra struttura:
2003 – 40 milioni per la costruzione di un reparto d’isolamento con dieci posti letto e di un laboratorio per la diagnosi e la coltivazione di virus di livello Bsl-4 (ad oggi in costruzione);
2006 – 12 milioni da parte della Protezione Civile;
2010 – 2,5 milioni dalla Protezione Civile;
2014 – 4 milioni di euro, legge n. 190/2014, “Contributo straordinario per fronteggiare situazioni di emergenza biologica”;
2015 – 50 milioni per studiare l’Ebola;
2020 – Decreto Milleproroghe – 2 milioni di euro “annui” per la bioemergenza;
2020 – 8 milioni di euro, di cui 5 della Regione Lazio e 3 del Miur per lo studio sul vaccino CoVid-19.
La nostra struttura sopravvive con fondi “non nazionali”, è stata capofila in una dozzina di progetti internazionali e in prima fila in tutte le emergenze. Negli ultimi due mesi i “miei angeli” hanno processato più di 13.000 tamponi e sono in attività h24, incuranti di essere assenti nella memoria romana.
La piccola casta del sindacato del pallone
Nel calcio italiano fermato dal Coronavirus è in corso una guerra fra ricchi che si sono riscoperti poveri. L’ultimo fronte è il taglio degli stipendi dei giocatori, inevitabile per la tenuta del sistema, su cui però le parti non trovano accordo.
Ancora più intransigente degli stessi calciatori, che ad esempio alla Juventus un’intesa l’hanno già firmata quasi sfiduciando i loro rappresentanti, pare il loro sindacato diretto da Damiano Tommasi. Che promette sacrifici ma li pospone, frappone paletti, difende i suoi interessi. Qualcuno potrebbe chiamarli privilegi, da parte di chi del sindacato ha fatto una vera professione, pure ben pagata. L’Assocalciatori, nata per tutelare la fascia debole della categoria, ogni tanto finisce per assomigliare a quella ricca. Non tutti i calciatori sono Cristiano Ronaldo: in Serie C ce ne sono oltre mille al minimo federale di 26mila euro l’anno, che non possono restare senza stipendio come qualsiasi lavoratore.
L’incapacità dei patron, litigiosi e preoccupati solo di non rimetterci, è il vero ostacolo alla trattativa. Ma fin qui il sindacato che rappresenta la categoria più fortunata d’Italia ha trovato più problemi che soluzioni. Negli anni è diventato un centro di potere votato all’arroccamento, come nel 2018, quando il veto di Tommasi portò al disastroso commissariamento del Coni. Come tutti i centri di potere garantisce benefici a chi lo dirige, pure economici. A partire dal suo presidente, che da calciatore viene ricordato anche per aver giocato un anno al minimo sindacale dopo un grave infortunio, e oggi guadagna da sindacalista. Lo statuto dell’associazione, in realtà, non parla di compensi, ma i vertici hanno trovato il modo di averne uno lo stesso: attraverso la società di servizi, la Aic Service, che si occupa un po’ di tutto, dall’attività pubblicitaria a quella editoriale, e paga i suoi amministratori, in carica per quattro anni, rieleggibili. Ed è la stessa Assocalciatori a decidere quanto, e chi. Nel 2017 risultavano a bilancio 477mila euro alla voce “compensi ad amministratori”, nel 2018 addirittura 632mila. Da dividere per otto, ma non in parti uguali: il grosso spetta a chi comanda. Nel Cda, che conta ben tre amministratori delegati, ci sono tutti i capi presenti, passati e futuri dell’Aic: non solo Tommasi, anche il suo storico predecessore, Sergio Campana, che a quasi un decennio dall’addio figura ancora come consigliere. Oppure Umberto Calcagno, vice ed erede designato alle prossime elezioni che dovevano tenersi in primavera ma potrebbero slittare a fine 2021 dopo le Olimpiadi.
Intanto è in buona compagnia: per l’Aic lavora pure suo fratello Alessandro, per l’ufficio legale dell’Associazione. “Io ero a capo del legale, è avvocato anche lui, abbiamo fatto i fiduciari insieme – spiega -, non vedo perché avrebbe dovuto lasciare quando sono diventato vice”. Quanto ai compensi, “non possiamo fare gratuitamente questo lavoro, visto che non abbiamo tempo per fare il nostro”. Nel pallone non c’è posto per anime candide.
Resistenze quotidiane: disegni, musica, poesie e bagni… di gong
Visto che dobbiamo “stare a casa”, chi vuole condividere con gli altri la sua vita in quarantena può farlo sulle pagine del Fatto. Siamo una comunità e mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto, raccontateci cosa fate, cosa inventate per non annoiare i figli e non allarmare i nonni, quali libri, film e serie tv consigliate all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.
Da due vecchi del Sud: “Forza Lombardia!”
Buongiorno Milano, da quando si è conclusa la preghiera del Papa ai piedi del miracoloso Crocifisso della Chiesa di San Marcello, ti sto pensando tanto. E sai perché questo vecchio scugnizzo con pochi studi nato ottant’anni fa in un vicolo di Napoli ti pensa e ti scrive? Per dirti che pur avendoti conosciuta per soli quattro giorni, nel settembre 2015, in occasione dell’Expo, subito si è innamorato di te e ancora ha vivo il ricordo di quelle splendide giornate trascorse da te, in compagnia di Francesca. Scrivo a te per inviare all’intera Lombardia un pensiero di compartecipazione a tanto dolore. Ma il mio vuole essere anche un messaggio di speranza e di augurio. Un grande abbraccio.
Raffaele e Francesca
La clausura senza virus della sorella di Leopardi
“La mia amica non ne dubiterà, ma io vorrei ch’essa vedesse il mio cuore e con quale ardore, con quale inesprimibile ardore esso vorrebbe che ogni passo di lei fosse un trionfo, che tutti la ammirassero, la esaltassero… Quanto mi godrei nel vederti jouer Rosina”. Così scriveva Paolina Leopardi a Marianna Brighenti, la giovane cantante lirica che, nella pur breve carriera, ottenne grande successo. Paolina era appassionata di musica e seguiva gli spettacoli teatrali attraverso i giornali che il padre le lasciava leggere. Malvolentieri possiamo immaginare, perché il conte Monaldo aveva idee ben precise: “La femina non la voglio letterata”, mentre vegliava sui progressi dei figli maschi che lo riempivano di orgoglio (…) La sorella di Leopardi visse cinquantasette anni reclusa a Recanati, non perché avesse scelto la clausura o per obblighi da virus, semplicemente era “femina” e la famiglia aveva deciso la sua vita; i libri e le lettere erano l’unica via di fuga e di salvezza. L’attuale reclusione che tanto ci infastidisce è stata per secoli la naturale condizione femminile; Paolina, in un certo senso, è stata più fortunata di altre e altri: sapeva leggere.
Silvana Bartoli
Gli artisti devono raccontare questi giorni
Oggi siamo in mezzo a questa grande sciagura del Covid-19. Tutti o quasi in casa a tentare di organizzarci giornate a volte lunghe come una settimana. Se penso a un lavoro utile da fare, penso ai nostri pittori, poeti, fotografi, scrittori e altri artisti che potrebbero immaginare, narrare e raccontare i vuoti fisici delle nostre città, dei nostri paesi, delle nostre piazze. Tutti noi proviamo quei sentimenti che rimbalzano, dalla malinconia alla fiducia e dalla paura al coraggio. Fermare quei sentimenti e quelle emozioni su una tela, in poesia, sul rullino di una macchina fotografica – una volta tornati alla normalità – sarebbe la testimonianza di un’esperienza che mai ci saremmo immaginati di vivere. Anche le guerre si raccontano. Provate a raccontare questa. I nostri nipoti avranno un racconto di quello che è successo.
Giovanni Frangioni
Meditazioni online con le sinfonie orientali
Questa è la nostra iniziativa casalinga che da tempo porta luce a tutti quanti in questo periodo di “buio”. Ogni giorno infatti ci colleghiamo per una decina di minuti su Instagram e Facebook per fare piccole meditazioni online con il suono dei gong, dell’arpa, delle campane tibetane e di altri suoni di benessere che aiutano a rilassarsi e togliere ansie, stress, preoccupazioni.
Di norma proponiamo, con la nostra associazione “Bagni di Gong Torino”, bagni sonori della durata di un ora ed in questo periodo abbiamo deciso comunque di stare vicini alle persone con questa iniziativa.
Massimo Palin
Il disegno di Camilla ci porterà fortuna
Un unicorno arcobaleno di buon auspicio da parte di Camilla (nella foto). E grazie alla coraggiosa mamma di Camilla abbiamo il Fatto ogni mattina!
Daniele
Gli eurobond non ci saranno: su cosa tratta (e rischia) l’Italia
L’appuntamento è per l’Eurogruppo di martedì. Dalla riunione dei ministri economici della zona euro si capirà se esiste una linea comune per reagire alla crisi innescata dalla pandemia. L’ultima volta, il 24 marzo, è finita senza accordi. Stessa storia al Consiglio europeo (i leader di governo) del 26, che si è chiuso rinviando la palla di nuovo ai ministri. Le premesse del nuovo eurosummit non sono buone: dovrebbe fornire il ventaglio di soluzioni tecniche per i leader politici, ma l’accordo è improbabile e il nuovo Consiglio Ue – a quanto filtra – dovrebbe slittare a dopo Pasqua.
La recessione innescata dalla pandemia non ha precedenti in tempo di pace. Tutti i Paesi spenderanno centinaia di miliardi per evitare il tracollo. Per quelli più deboli il problema è come gestire l’enorme mole di debito pubblico che sarà creata. L’Italia ha chiesto – con una lettere firmata da 9 Paesi Ue, tra cui Spagna e Francia – uno “strumento di debito comune”, gli eurobond (o “coronabond”). Un modo di evitare che le gigantesche spese pesino sui conti pubblici ipotecando le politiche fiscali una volta che il “Patto di stabilità” (le regole Ue) sarà ripristinato. Serve una condivisione degli oneri che Germania e Olanda non hanno intenzione di concedere. Giovedì è saltato il tentativo del presidente del Consiglio Ue, il belga Charles Michel, di far tenere un vertice ristretto Spagna-Italia-Olanda. Per Giuseppe Conte non aveva senso senza Germania e Francia. E aveva ragione.
Venerdì Parigi si è sganciata da primo gruppo, siglando un accordo informale con Berlino che diverrà la base di lavoro dell’Eurogruppo. Il testo si basa sulla proposta francese (chimata “Non-paper”) ed è in tre pilastri: l’uso di linee di credito del Meccanismo europeo di stabilità (Mes); un piano della Banca europea degli investimenti (Bei); il fondo di sostegno all’occupazione “Sure” annunciato dalla Commissione europea.
Il coinvolgimento del Mes, l’ex “fondo salva Stati” inviso a Italia e Spagna, è il vero punto di scontro. Il suo Statuto prevede che le linee di credito si possano attivare solo facendo firmare al Pese beneficiario un “Memorandum” in cui accetta pesanti condizioni di rientro dal prestito (sul modello greco). Parigi e Berlino parlano di “Condizionalità light”, ma il documento preparato dai tecnici dei ministeri delle Finanze (Working group) non la mette giù così. Prevede “memorandum standardizzati” con la condizionalità di spendere i soldi per fa fronte all’epidemia e poi di rispettare “il Patto di stabilità”, cioè le regole fiscali europee che – una volta ripristinate – costringerebbero i Paesi indebitati a pesanti strette fiscali recessiva. Insomma, le condizionalità sarebbero solo rimandate.
Le linee di credito possono valere per l’Italia al massimo il 2% del Pil (36 miliardi), durare 2 anni e vanno restituite in 10 anni. La proposta francese viene perfino incontro ai desiderata tedeschi e chiede che il debito del Paese beneficiario sia sottoposto a “un’analisi di sostenibilità”, con il rischio che gli investitori possano temere di dover essere chiamati a dei sacrifici (scatenando la fuga dal debito del Paese). Nei documenti del Working group questa ipotesi per ora non è contemplata.
Anche gli altri pilastri dell’accordo franco-tedesco non vengono incontro all’“appuntamento con la storia” evocato dal premier italiano, soprattutto per le esigue cifre impegnate. Il piano che coinvolge la Bei prevede che i Paesi aumentino di 25 miliardi il capitale della banca per permetterle di prestare fino a 200 miliardi per progetti all’interno dell’Unione (non spese correnti). Il piano “Sure” nasce invece monco. Prevede che gli stati membri stanzino 25 miliardi di garanzie per permettere alla Commissione europea di dar vita a un fondo che si finanzi sul mercato fino a 100 miliardi da usare per finanziare sussidi contro la disoccupazione nei singoli Stati membri. Il fondo però non spenderebbe direttamente i soldi ma li presterebbe ai singoli Paesi, che vedrebbero così aumentato il loro debito pubblico e peraltro non potrebbero ricevere più del 10% delle risorse (10 miliardi).
Non c’è insomma alcuna condivisione dei rischi tra i Paesi europei ma solo prestiti. Nel suo “Non paper” la Francia propone anche un quarto pilastro: un fondo che emetta obbligazioni con garanzia comune degli Stati membri, gestito dalla Commissione, per fronteggiare la crisi. Il fondo si dovrebbe “finanziare con una tassa di solidarietà o con risorse del bilancio europeo”. Sarebbe il vero passo per la mutualizzazione del debito. E infatti Berlino non l’ha voluto.
Gli eurobond non ci saranno. Italia e Spagna possono solo rigettare il pacchetto Mes.
“Con il premier, a partire dal reddito di base”
Cerca di acquisire visibilità la sinistra che sostiene il governo e che costruisce un ponte con un pezzo di mondo 5Stelle che ha rotto con il movimento. E non a caso le parole d’ordine del Reddito di base e del Reddito di cittadinanza costituiscono la proposta principale in un rapporto di sostegno, “senza sconti” al governo Conte.
“Stiamo vivendo un momento drammatico della storia del nostro Paese e del mondo. Il peggiore dalla fine della Seconda guerra mondiale. C’è bisogno di remare tutti nella medesima direzione”: inizia così il documento firmato, tra gli altri, da Elly Schlein, Nicola Fratoianni, Loredana De Petris, dall’ex ministro Lorenzo Fioramonti, dai parlamentari Rossella Muroni, Elena Fattori, Francesco Laforgia, Paola Nugnes, Erasmo Palazzotto, Silvia Benedetti, Andrea Cecconi, Luigi Di Marzio, Flora Frate, Veronica Giannone, Luca Pastorino, Veronica Giannone, dall’eurodeputato Massimiliano Smeriglio e dall’ex sindaco di Cagliari, Massimo Zedda.
“Vogliamo, con la nostra iniziativa, aiutare l’azione del governo, ma suggerendo tre priorità per uscire dall’emergenza sanitaria”. La prima è la “partecipazione: la democrazia e il confronto sono pratiche da valorizzare anche durante lo stato di eccezione. A partire dal massimo coinvolgimento delle assemblee elettive e delle autonomie locali, dei sindaci, degli amministratori. Serve una relazione forte e continua anche con tutti coloro che fuori dalle istituzioni contribuiscono a dare densità alla nostra democrazia”.
La seconda priorità è la “solidarietà. l’Europa deve agire con coraggio. Il virus non conosce frontiere, per questo sono necessarie politiche sanitarie, sociali, fiscali ed economiche unificate, capaci di sostenere i Paesi in difficoltà senza condizionalità capestro. Bene i 750 miliardi della Bce, bene la Commissione sulla sospensione del Patto di Stabilità e sull’allentamento dei vincoli sugli aiuti di Stato. Ma non basta”. “Sono urgenti inoltre politiche espansive, investimenti, risorse e uno scudo comune, che solo gli Eurobond possono garantire così come sostenuto dall’Italia e altri otto Stati membri”.
Terza priorità, il “reddito”. “Riteniamo fondamentale un Reddito Universale”, una misura “capace di non lasciare indietro nessuno, allargando la platea dell’attuale Reddito di Cittadinanza a chi è stato colpito in maniera pesantissima dalla crisi”. Per finanziarlo si può istituire “un fondo di solidarietà nazionale a cui far compartecipare le categorie meno colpite, le imprese partecipate, i giganti dell’e-commerce, i dirigenti pubblici, i consiglieri regionali, i parlamentari nazionali ed europei. Lo si può fare con una tassa di scopo sui grandi capitali. Lo si può fare ricongiungendo le risorse dei fondi strutturali europei non ancora spesi, non andati a buon fine, fermi nei ministeri e nelle regioni. Nel sistema nazionale di monitoraggio, rispetto ai pagamenti fatti ai beneficiari risultano disponibili 37 miliardi, mentre rispetto agli impegni presi ne risultano 22. E anche con le stime più prudenziali ci sono almeno 10-12 miliardi da andare a recuperare”.
“C’è da ricostruire, sono pronto a dare una mano a Conte”
Carlo Calenda, eurodeputato eletto nel Pd, ma che poi ha fondato il suo movimento Azione, ponendosi all’opposizione del governo Conte, di fronte alla crisi da pandemia ha molta voglia di mettersi a disposizione.
Ha rivisto la sua posizione di opposizione al governo Conte?
No, ma l’approccio che ho assunto è cambiato perché sono cambiate le condizioni, anche se io non entrerei in un governo Conte.
Però si mette a disposizione?
Certo, tanto più se si pensa che in questi momenti il governo dovrebbe chiamare la più ampia compagine possibile.
Vorrebbe dare una mano? E in che modo?
Certo che voglio dare una mano. Ho mandato un progetto a Conte per organizzare un “Comitato per la ripartenza” che, come è evidente, sarà complessa e richiederà di agire. Penso a uno Steering committee, un comitato di controllo formato anche dalle opposizioni che così, in questo modo, non si deresponsabilizzano.
Con i leader delle opposizioni?
Sì, ma anche della Protezione civile, dei ministeri coinvolti per preparare la ripresa dell’attività e coordinata da un manager e un esperto di sanità con gruppi di lavoro ben precisi.
Che giudizio dà delle scelte fatte finora?
Sono l’unico politico che non ha commentato le decisioni in ambito sanitario. Ritengo che nel mezzo di un’epidemia si obbedisce e non si discute, ci sono protocolli e si applicano. Ci sono stati momenti confusi e scelte sbagliate, ma non ho la conoscenza precisa per giudicare, e penso che ci siano competenze specifiche che vadano ascoltate.
Allora qual è il problema?
Il problema, adesso, è capire come si riparte. Per questo servirebbe una chiamata alle armi da parte del governo di figure con competenze anche tecniche. Roosevelt con il New Deal ha chiamato le migliori intelligenze a collaborare e con le Agenzie federali ha fatto ripartire l’America.
Ha proposte concrete da fare?
A tonnellate. Ho subito segnalato, a proposito del decreto economico del governo, che il meccanismo della cassa integrazione non avrebbe funzionato. Ci voleva l’anticipazione bancaria così come il Fondo centrale di garanzia è troppo complesso per dare liquidità immediata alle imprese. Quello che mi sembra sia il problema principale è che si fanno norme che poi sono sganciate dall’implementazione. E ci si trova di fronte a disastri come quello dell’Inps.
Servirebbe un governo nuovo? Anche lei tifa per un governo Draghi?
Oggi sarebbe impraticabile. Sia perché nel corso dell’emergenza non si cambia il governo. E poi per l’anomalia dell’opposizione in Italia. Ma ce lo vede Draghi a guidare un governo con Salvini che magari dice “vaffa” all’Europa? Questa ipotesi mi sembra una trappola per Draghi per buttare giù Conte.
Una trappola preparata da chi?
Da Salvini e forse anche da Renzi. Se l’opposizione evolverà in modo responsabile ci si può pensare, ma al momento non se ne parla.
E che giudizio dà invece sulle Regioni?
Il Veneto ha gestito bene e Zaia mi sembra un bravo amministratore. La Lombardia ha due problemi: l’appoggio eccessivo sulla sanità privata e una dinamica rivendicativa da parte del presidente Fontana. Vedo grandi difficoltà sugli approvvigionamenti e infatti mi ero offerto di andare a dare una mano ad Arcuri. Mi è stato detto che sarebbe stato un problema politico e amen.
Per la ripartenza serviranno molte risorse. Che pensa dell’Europa?
Per il momento noi abbiamo un debito nazionale che è coperto dagli acquisti massicci della Bce. Fino a che funziona, bene, ma poi occorrerà capire come il debito diventerà sostenibile. Poi c’è il tema degli Eurobond che servono a garantire all’Europa i fondi per agire, non per finanziare l’Italia o la Spagna
Servirebbe un minimo di bilancio comune. Ma è proprio ciò che osteggiano Germania e Olanda.
Ma se si vuole costruire l’Europa quella è la strada, anche iniziando a creare forme di fiscalità comune. Se la Ue non batte un colpo, allora sarà giustificabile chi dice: ‘A che serve l’Europa?’.
La requisizione “finta” in Puglia dei macchinari per il Veneto
Tutto è bene quel che finisce bene. Si potrebbe chiudere così la querelle nata dalla minaccia di Michele Emiliano di requisire due macchinari per processare i tamponi prodotti dalla ditta Masmec di Modugno, vicino Bari, e destinati alla Regione Veneto. Il presidente Luca Zaia non l’aveva presa bene (“se sono nostri vado a prenderli di persona”) e la vicenda ha avuto qualche eco sui giornali, ma è stata in sostanza solo teatro: i macchinari non sono mai stati requisiti e lunedì saranno a Verona come previsto.
La cosa è andata così. La Musmec, che lavora molto col colosso Menarini, aveva venduto a quest’ultima quattro macchinari e la Menarini aveva deciso di venderli al Veneto: “Sono destinati a Verona”, ha spiegato Michele Vinci, presidente della Masmec. Qual è il problema? Apparentemente nessuno, ma alla Puglia ne servivano due e la minaccia (sguaiata) di Emiliano è servita se non altro a sbloccare la trattativa con Masmec-Menarini, che pareva arenata. La Regione e il suo presidente ritengono, peraltro, di avere un certo diritto di primazia sul prodotto, tanto più che hanno bisogno di aumentare i tamponi fatti in Regione: “La tecnologia è made in Puglia; le ricerche effettuate nel corso degli ultimi anni nella fabbrica che realizza i macchinari sono state fatte grazie ai finanziamenti della Regione Puglia; le validazioni di questi macchinari sono state effettuate dall’Istituto di Igiene dell’Università degli Studi di Bari presso il Policlinico di Bari”.
Alla fine, non senza la moral suasion del governo, anche le esigenze della Puglia saranno accontentate: “Al presidente Emiliano servono altre due macchine e gliele abbiamo trovate”, dice sempre Vinci, “Queste altre due, che saranno acquistate dalla Regione, si aggiungono a quella già donata da Masmec al Policlinico di Bari. I macchinari li abbiamo costruiti e glieli consegniamo martedì o mercoledì”.
Non di sola Fiera vive l’Italia. Tutti gli altri ospedali record
Aprirà domani il nuovo ospedale Covid-19 allestito nei padiglioni della Fiera di Milano. Già disponibili 53 posti letto (saranno 160, assicurano, dopo Pasqua). Pronti 55 ventilatori per la terapia intensiva, 22 dei quali donati dall’Ordine di Malta, 6 da Luxottica, 7 dalla Croce rossa, 17 da Pirelli e 3 Fondazione Fiera. L’ospedale, allestito in soli dieci giorni per contrastare l’emergenza Covid-19, che sta colpendo duramente la Lombardia, è stato orgogliosamente presentato come un miracolo milanese.
Nulla da eccepire, se non fosse – non ce ne voglia la grandeur meneghina – che opere simili sono state portate a termine anche altrove, molto più in silenzio, a cominciare da due regioni confinanti anch’esse duramente colpite dall’epidemia, l’Emilia-Romagna e il Piemonte.
In Emilia dal 23 marzo è operativo l’ospedale da campo allestito in 72 ore dall’Esercito all’interno dell’ex Arsenale militare di Piacenza, edificio in cui lavorano 80 persone e che attualmente dispone di 37 posti di terapia intensiva e 3 di sub-intensiva (attualmente ne sono occupati 37).
In Piemonte, invece, è stato inaugurato il 31 marzo l’ospedale di Verduno, nelle Langhe cuneesi, struttura in fase di costruzione da anni i cui tempi di apertura sono stati accelerati dalla regione e il centro è diventato Covid hospital. Inaugurato il 31 marzo alle 15.30, ha 55 posti letto. E a Torino, a breve, le ex Officine grandi riparazioni ferroviarie, oggi polo culturale e gastronomico, saranno riconvertite in ospedale da campo. Da domani iniziano i lavori curati dalla Regione e le Ogr dovrebbero essere operative e ospitare i primi dei cento degenti che si conta di poter ricoverare nell’area (messa a disposizione dalla Fondazione Crt) prossima a essere trasformata in reparto di terapia intensiva.
Per restare nel Nord-Ovest, la Regione Liguria ha realizzato un punto Covid-19 a bordo di un traghetto ormeggiato a Genova. Trenta cabine (altre 25 saranno pronte a breve) sono state attrezzate per ospitare i malati di Coronavirus, pazienti che non richiedono ossigeno se non i rari casi, persone che devono essere monitorate, ancora contagiose, ma che non possono tornare alle loro abitazioni: pazienti, per esempio, che vivono con persone anziane o in comunità. La soluzione nave è stata suggerita dalla difficoltà, nel caso di riconversione di altri reparti ospedalieri, di realizzare un’aerazione separata rispetto al resto dell’ospedale.
L’opzione ospedali dismessi è stata la scelta della Regione Toscana, che ha disposto la riapertura delle vecchie strutture di Lucca, Prato, Pistoia, Massa e Carrara. L’ospedale di Massa era praticamente abbandonato anche se pronto all’uso, quello di Prato in via di demolizione, mentre il Ceppo di Pistoia era stato convertito in Bed&Breakfast. I posti recuperati sono stati 72 a Lucca, 53 a Massa, 20 a Carrara e 40 a Prato.
Nelle Marche, invece, si aspetta che venga terminato l’ospedale commissionato a Guido Bertolaso (tempo stimato 12 giorni) alla Fiera di Civitanova Marche, 100 posti di terapia intensiva al costo di 12 milioni di euro frutto di donazioni sul conto della Onlus dei Cavalieri di Malta. A Jesi, intanto, è stato allestito l’ospedale da campo della Marina Militare, 40 posti letto e 4 di terapia intensiva, gestiti da medici e paramedici della Marina. E sono già attivi da settimane i due ospedali da campo della Protezione Civile Marche.
Viaggiando verso Sud, è la Campania di Vincenzo De Luca a essere particolarmente attiva. Qui sono giorni cruciali per la realizzazione di 120 nuovi posti letto di terapia intensiva distribuiti in tre gran di blocchi ospedalieri. I primi 72 dovrebbero vedere la luce entro il 12 aprile, 48 a Napoli e 24 a Salerno. La regione ha optato per la costruzione di nuove strutture accanto agli ospedali del Mare di Napoli, Ruggi di Salerno, Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta: 72 posti TI nel capoluogo di regione e 24 a testa negli altri due. I progetti prevedono un assemblaggio e montaggio rapido di moduli, i primi già arrivati a Napoli e Salerno. Il tutto “chiavi in mano”, completi di forniture sanitarie, letti e ventilatori. Le piastre di allocazione dei moduli sono già pronte a Napoli e Salerno, domani iniziano i montaggi nei cantieri. C’è un ritardo su Caserta ma si spera di concludere il 23 aprile.
In altre Regioni non si è decisa la riconversione di aree ad altra destinazione d’uso o la riapertura di vecchi ospedali, ma si è scelto di liberare spazi nuovi ospedalieri. Come in Puglia, dove sin dall’inizio sono stati coinvolti sei ospedali pubblici e tre cliniche private per l’attivazione di 173 posti in terapia intensiva, 186 in pneumologia e 352 in malattie infettive.
O in Calabria, dove l’obiettivo – al netto della mancanza dei ventilatori polmonari necessari – è stato quello di aumentare i posti letto di terapia intensiva, soprattutto nei tre ospedali hub di Reggio Calabria, Catanzaro e Cosenza. In Sardegna, invece, tre strutture private (Mater di Olbia, Policlinico di Sassari e Clinica Città di Quartu per un totale di 35 posti letto in terapia intensiva andranno a sommarsi ai 20 attualmente presenti nella rete ospedaliera pubblica.
In Friuli-Venezia Giulia il 3 aprile sono stati aperti 39 nuovi posti letto di terapia intensiva e sub-intensiva nell’ospedale di Cattinara a Trieste, mentre in Veneto da metà marzo sono stati individuati alcuni Covid Hospital, praticamente uno per provincia, con aree totalmente isolate e una disponibilità di 2.985 posti, rispetto ai 744 ordinari dei reparti terapeutici.
A cura di Sandra Amurri, Sarah Buono, Elisa Benso, Vincenzo Iurillo, Giuseppe Pietrobelli, Paola Pintus, Giacomo Salvini
Assembramenti e gaffe: i flop dei sindaci nell’emergenza
C’è chi distribuisce mascherine in piazza, chi consegna buoni spesa in base alla cittadinanza e chi favorisce famiglie con un parente detenuto. La gestione dell’emergenza nei territori procede in ordine sparso e in questi giorni sta causando problemi e imbarazzi.
Venerdì abbiamo raccontato della distribuzione di 500 mascherine da parte del Comune di Massa, che ha provocato assembramenti ai banchetti. Nonostante il precedente, domani saranno distribuite altre 5mila mascherine in 17 punti strategici. Questa volta il sindaco di centrodestra Francesco Persiani ha garantito che ci sarà un servizio d’ordine: “I 17 punti saranno vigilati da numeroso personale della Protezione civile”.
Anche se fosse, però, resta irrisolto il rischio già corso l’altro giorno, cioè quello di invitare migliaia di persone a uscire di casa. Persone che nelle vicinanze della consegna potrebbero pure seguire le norme di prevenzione, ma che avranno occasione per uscire, passeggiare e incontrarsi. C’è poi un tema politico, perché Persiani ha pubblicato sulla sua pagina istituzionale una foto con Matteo Salvini per ringraziarlo “per l’ampia disponibilità ad aiutare le amministrazioni locali”. Tutti episodi che non sono piaciuti alle opposizioni: il deputato del M5S Riccardo Ricciardi ha sentito in privato il sindaco, sconsigliando di proseguire con la consegna, mentre Martina Nardi (Pd) ha promesso un’interrogazione parlamentare per denunciare gli assembramenti, citando la “spettacolarizzazione” in corso.
Ma i guai non finiscono a Massa. In Calabria a preoccupare sono i criteri per assegnare i buoni spesa. A Cirò Marina e Strongoli (Crotone) il rischio è stato quello di avere graduatorie in cui un detenuto in famiglia costituisse un titolo preferenziale. I due Comuni, entrambi sciolti per mafia e retti da commissari prefettizi, avevano un bando fotocopia: “La graduatoria sarà formulata applicando un ordine di priorità”. Priorità tra cui spiccava, appunto, l’appartenenza del richiedente “a famiglie di detenuti”, criterio ritenuto più rilevante delle “condizioni socioeconomiche gravemente disagiate”. Partita la segnalazione della Dda di Catanzaro, i commissari si sono affrettati a modificare i bandi, eliminando il criterio contestato.
Ad Africo invece, vicino Reggio Calabria, chi chiede i buoni dovrà riportare che nel proprio nucleo familiare “non sussistono condanne definitive ai sensi dell’articolo 416 bis (associazione mafiosa, ndr), né condanne per reati contestati con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, né carichi pendenti per gli stessi reati”. Una dicitura “sbagliata e pericolosa” secondo la sezione locale dei magistrati di Area Democratica per la Giustizia: “Non si esplicita se gli eventuali precedenti o le pendenze costituiscano causa di esclusione anche per il familiare convivente del reo o dell’indagato ancora sub judice”.
Opposti poi i casi di Ferrara e Parma. La prima, amministrata dal leghista Alan Fabbri, ha inserito la provenienza tra i criteri di priorità per i buoni pasto: prima gli italiani, poi gli europei e poi gli extraeuropei, ma solo quelli con determinati permessi di soggiorno. E Cgil, Cisl e Uil protestano: “Per quale motivo dovrebbe essere ignorato un cittadino straniero che ha perso il lavoro e si trova in difficoltà, solo perché in possesso di un permesso di soggiorno diverso da quello di lungo periodo?”. A Parma invece Federico Pizzarotti, prima di fare marcia indietro, aveva imposto ai richiedenti di “ripudiare il fascismo”. Anche a Codogno, epicentro del focolaio, il sindaco ha dovuto rivedere i piani: prima aveva annunciato la distribuzione gratuita di uova di Pasqua per strada, nonostante gli ovvi rischi; poi ieri si è corretto trasformando l’iniziativa in una consegna porta a porta.
A Firenze Renzi fa il mediatore per il donatore dalla Russia
Le forniture russe e i 100 specialisti di guerra batteriologica chiamati a combattere il coronavirus in Italia, non sono piaciuti a molti, impressionati dai mezzi militari di Mosca sulle strade italiane. “Mi preoccupa una certa rivalutazione dei regimi illiberali” diceva pochi giorni fa il sottosegretario renziano agli Esteri Ivan Scalfarotto al Foglio. Poi sono arrivate le minacce della Difesa russa a La Stampa e a quel punto è intervenuto anche Matteo Renzi: “Chi minaccia un giornalista come Jacopo Iacoboni minaccia tutta la libera informazione”, ha twittato.
Eppure, con i russi, proprio Renzi in questi giorni ha avuto altri rapporti: la deputata di Fratelli d’Italia, Daniela Santanchè, si è rivolta a lui quando ha saputo che l’amico e imprenditore russo Leonid Boguslavsky voleva fare una donazione per Firenze. Il magnate di Mosca, finito nel 2018 nella lista nera del Dipartimento del Tesoro Usa che aveva messo in fila gli oligarchi considerati “vicini a Putin”, ha una villa a Firenze e ha contattato Santanchè, che a sua volta ha chiamato Renzi: “Lui ha parlato con l’assessore Saccardi e lei ci ha spiegato cosa serviva: così è arrivata la donazione” racconta la Pitonessa. Un bonifico da un milione di euro destinato alla Fondazione Santa Maria Nuova per i reparti di tre ospedali fiorentini. Un bel gesto di un imprenditore che in Russia ha costruito la sua fortuna grazie all’attività di venture capital, diventando uno dei miliardari più influenti al mondo. Intervistato da Bloomberg riguardo a un suo amico anti-Putin morto in circostanze sospette ha detto: “Non so cosa sia successo, non mi sono fatto un’opinione a riguardo”. Santanché però assicura: “Leonid è un amico di famiglia e non lo ha certo fatto per il consenso politico. Poi ad averne di aiuti così, mi sarebbe piaciuto vedere anche quelli europei”.