L’ex ministro: “Così ho blindato gli anziani”

“Senza gli interventi che abbiamo messo in atto dall’inizio dell’emergenza il contagio sarebbe stato molto più diffuso. Come avviene in tutte le epidemie, non so se le nostre misure possano definirsi decisive, ma sicuramente sono state efficaci. Attenzione però, non cantiamo vittoria. Questa storia non è mica finita”. Ferruccio Fazio, medico, ministro della Salute dal 2009 al 2011 (governo Berlusconi) e oggi sindaco di Garessio, spiega come nel paese del Cuneese – tremila anime sullo spartiacque delle Alpi tra Piemonte e Liguria – il coronavirus non sia dilagato. E come i decessi siano stati contenuti.

Dottor Fazio, quante persone sono morte nella vostra casa di riposo?

Se la domanda è quanti sono mancati per coronavirus le rispondo zero. Se mi chiede quanti sono morti per il virus unito ad altre patologie siamo a cinque. Alla Opera Pia Garelli abbiamo 80 ospiti. Diciotto erano sospetti. Li abbiamo isolati subito e sono risultati positivi. La stessa cosa abbiamo fatto con sei infermieri.

È corretto dire che sarebbe potuta andare peggio?

Diciamo che abbiamo attivato in modo tempestivo le direttive del governo. I decreti, se attuati subito, sono efficaci. Certo, mi lasci dire che se da Roma si fossero svegliati un po’ prima, sarebbe stato ancora meglio.

Come ha fatto a ottenere i tamponi, praticamente introvabili in Piemonte fino a pochi giorni fa?

Prima che arrivassero abbiamo lavorato con i medici di famiglia isolando i pazienti sospetti sintomatici, evitando una parte dei danni. Quando è stato accertato che il virus era nel paese, con il primo positivo, a metà marzo, ho chiesto i tamponi. Ma non solo per il paziente. Per tutti. Ed è questo l’aspetto importante. Dopo una lunghissima trattativa, anche con la Asl di Cuneo, sono riuscito ad averli per i sintomatici. Se devo commentare la strategia del governo sui tamponi scelgo la domanda di riserva. Dire che è migliorabile è un eufemismo.

È vero che lei ha blindato la casa di riposo?

Sì. Dalla fine di febbraio, quando si sapeva che il virus stava girando, d’intesa con i medici e il direttore sanitario abbiamo impedito i ricoveri. Poi il direttore si è ammalato e l’ho sostituito io. Come in tutte le cose è la somma di azioni che conta e non c’è nulla che è totalmente determinante. Ma anche questo aspetto è stato rilevante.

E le mascherine?

Le abbiamo distribuite da due giorni a tutti i cittadini. Non le abbiamo pagate noi, ce le ha offerte il Banco Azzoaglio, la banca della zona, che ha fatto il grosso del lavoro. Io sono passato di persona in tutti i negozi di alimentari aperti per spiegare come si usano e come si portano i guanti. Visto che sono un medico.

Quando era ministro, nel 2009, dilagava l’influenza suina. Quell’esperienza le è servita?

Sì. Mi ha aiutato molto. Tutto quello che so sulle epidemie l’ho imparato allora. Covid-19 e H1N1 sono diversi. Quello della suina è un virus influenzale dalla superficie liscia e non coronata, ma c’è da dire che era molto aggressivo. Meno contagioso del Covid-19 ma forse più mortale. Per fronteggiarlo creammo la rete Ecmo in Italia. Quella battaglia la vincemmo col vaccino. Ed è così che stopperemo anche il coronavirus.

Senza vaccino quindi non ci libereremo del virus?

Senza vaccino non ne usciremo e ce la tireremo avanti per mesi. Forse per anni.

“C’è chi ha usato quest’emergenza per farsi notare”

La crisi corre veloce e i problemi che ha scatenato anche di più, così tenere il passo è complicato. “Il quadro cambia di continuo in base anche ai riscontri che abbiamo dall’Europa, ci sono mille fronti da seguire” conferma dalla sua casa di Milano il viceministro allo Sviluppo economico, il 5Stelle Stefano Buffagni.

Tanti fronti, ma quello che occupa sempre le cronache è lo scontro tra Stato e Regioni. E la miccia spesso è la sua “Lombardia”…

Qualcuno ha voluto spettacolizzare e descrivere come scontro politico un confronto necessario, in cui tutti devono fare la loro parte.

Il governatore lombardo Fontana si lamenta spesso delle presunte mancanze del governo centrale. E non è l’unico dei presidenti di Regione a farlo.

Tutti hanno commesso sbagli. Ma, ripeto, qualcuno ha sfruttato mediaticamente la situazione. C’è chi, mentre gestiva questa emergenza, si è detto disponibile a fare il sindaco di Milano (l’assessore alla Sanità lombardo Giulio Gallera, ndr).

Alcuni 5Stelle, tra cui il capo reggente Vito Crimi, sostengono che le competenze sulla sanità andranno nuovamente centralizzate. E sempre Crimi è molto critico verso la gestione della Regione Lombardia.

La Lombardia ha commesso certamente errori, muovendosi con lentezza nella fase iniziale della crisi. Ma non credo che centralizzare la sanità sia la soluzione a tutti i mali. Bisogna pensare a un modello omogeneo che tenga conto delle differenti gestioni e valorizzi i sistemi che funzionano. Per esempio quello dell’Emilia-Romagna, con una sanità impostata sui presidi territoriali, ha funzionato meglio di quello della Lombardia che è ospedale-centrico. E allora va imitato. Dopodiché se qualcuno non lavora bene si può anche commissariare.

Cioè si può anche commissariare la sanità di una Regione?

Sì. Ma nel caso vanno definiti con attenzione i poteri del commissario.

Lei ha spesso lamentato lo scarso peso del Nord in questo governo.

È un problema che si sta certamente manifestando anche in queste settimane. E andrà affrontato.

Si discute molto anche del ruolo dei tecnici. Hanno troppo peso?

Su alcune decisioni hanno avuto troppo peso, sì. Su altre la politica deve prendere decisioni in fretta, basandosi sui dati.

Tirano in ballo Mario Draghi come sostituto del premier Giuseppe Conte, e si riparla di rimpasto: chiacchiere?

Guardi, Conte non si tocca. Sta gestendo nel modo migliore una crisi sanitaria ed economica mai vista prima. Dopodiché se ci sono cose da valutare andrà fatto a crisi finita. Ora le priorità sono salvare la vita delle persone e tutelare i posti di lavoro.

A livello di governo c’è irritazione verso Bruxelles: ma lo stop al patto di stabilità e i cento miliardi del Sure non sono già un segnale concreto della Ue?

Le risposte finora date a livello europeo sono del tutto insufficienti. Di fronte agli Stati Uniti e alla Cina che mettono in campo misure enormi l’Europa deve alzare l’asticella o verrà schiacciata.

Germania e Olanda continuano a fare muro.

La Germania rischia di diventare la regina di un continente in declino. Quanto agli olandesi, bisognerà agire contro il loro dumping fiscale, che fa perdere tanto gettito a tutti i Paesi: Italia compresa, visto che alcune nostre società hanno la sede fiscale in Olanda.

Ma perché i falchi del Nord non recedono? Per il consenso interno?

Per quello, e perché il desiderio inconfessato di certi Paesi è costringerci a fare ricorso al nostro grande risparmio privato per sostenere il maggiore debito.

Il viceministro dell’Economia Misiani ha proposto “un patto con i risparmiatori”, facendo riferimento ai conti correnti.

Noi abbiamo un debito sostenibile e un sistema produttivo solido. Possiamo seguire altre strade.

Le piccole e medie rischiano di collassare. Cosa farete in concreto?

Stiamo preparando nuove misure da inserire nel decreto liquidità. L’obiettivo è dare fino a 25mila euro alle piccole imprese e sostenere anche le aziende più grandi con prestiti garantiti fino al cento per cento dallo Stato. È fondamentale essere veloci e dare liquidità, subito.

Quanti soldi metterete?

In questa fase il tema non sono tante le risorse, che stiamo definendo, ma come rendere più funzionali le norme per accelerare i tempi e renderle un efficace moltiplicatore.

“Bergamo, la Regione vietò la serrata alle case di riposo”

Alla fine di febbraio, l’Associazione delle case di riposo del Bergamasco (Acrb) chiese all’azienda sanitaria di Bergamo, l’Ats, di chiudere le residenze sanitarie assistenziali di città e provincia. Alcune – come la Casa Ospitale Aresi, a Brignano Gera D’Adda – avevano già chiuso il centro diurno: le aveva guidate la prudenza, la paura di fronte all’avanzata dei contagi. Eppure, alla richiesta dell’associazione la Regione Lombardia oppose un netto rifiuto: le case di riposo dovevano restare aperte. Un ordine impartito all’azienda sanitaria, che si era fatta da tramite dopo aver raccolto l’appello di Acrb.

Solo dopo più di un settimana, e a contagio ormai sfuggito, sarebbe arrivato il dietrofront, con una circolare che invitava i vertici delle Rsa a valutare la necessità di sbarrare gli accessi a chiunque provenisse dall’esterno. Intanto, però, il virus si era già insinuato tra gli anziani delle case di riposo. In assenza del tampone, non è dato sapere quanti ne abbia effettivamente uccisi. Ma è un fatto che nei primi venti giorni di marzo si siano contati oltre 600 decessi tra gli ospiti delle residenze nella sola provincia di Bergamo. Se guardiamo all’intero mese di marzo – secondo Cesare Maffeis, medico e presidente di Acrb – sarebbero più di 820 le vittime. Circa il 15-20% degli ospiti che le Rsa del Bergamasco complessivamente accolgono (5.500 anziani). O meglio, accoglievano. “Quando ci siamo rivolti all’Ats per far presente che non si poteva controllare l’accesso dei parenti, anche ai centri diurni, con gravi rischi, l’azienda sanitaria ha subito interpellato la Regione, che però ha risposto di no, che non si poteva chiudere”, dice Maffeis: “Una sottovalutazione del pericolo di contagio”. “Nessuno a Milano si è reso conto della portata di quanto stava accadendo a Bergamo: un uragano. Così abbiamo tutti obbedito”, prosegue Maffeis. “Solo dopo una settimana c’è stato il contrordine. Forse quello che è successo qui non era prevedibile. Ma la Regione avrebbe anche potuto chiudere tutto, senza tergiversare”.

Invece no. Il 23 febbraio, due giorni dopo lo scoppio del “caso Mattia” a Codogno, la casa di riposo Aresi aveva deciso di sbarrare il proprio centro diurno su disposizione del direttore sanitario, preoccupato dall’evolversi dell’epidemia. “Ma l’Ats ha mandato una lettera a tutte le strutture – ricorda Marco Ferraro, presidente della Aresi – disponendo che rimanessimo aperti fino a nuove disposizioni della Regione”. È così che il centro viene riaperto. Ed è proprio qui, a Brignano Gera D’Adda, che arriva anche una ispezione dell’azienda sanitaria. “Ci hanno detto che potevamo anche essere accusati di interruzione di servizio pubblico, con conseguente revoca dell’accreditamento – dice Ferraro – ci hanno fatto un verbale. Così siamo rimasti aperti fino alla fine della prima settimana di marzo, quando ci è stato detto che avevamo la possibilità di chiudere. Una disposizione tardiva…”.

Alla Casa ospitale di Aresi, in fondo, è andata meglio di altre strutture: due anziani del centro diurno risultati positivi, quattro decessi di cui non si conoscono le cause (perché non sono stati eseguiti i tamponi) e un ospite della Rsa stroncato dal virus. Altrove, è andata molto peggio. “Tutte le strutture della Bergamasca hanno avuto tanti decessi e alcune – prosegue Ferraro – si ritrovano anche con trenta posti liberi”. E dire che, come raccontato dal Fatto, la Regione Lombardia sta indirizzando proprio verso le Rsa e gli hospice parte dei pazienti Covid che vengono dimessi dagli ospedali perché “clinicamente guariti”, ovvero senza più sintomi, ma con una possibile carica virale ancora attiva, dato che non vengono sottoposti al tampone.

A Bergamo, l’azienda sanitaria si limita a dire: abbiamo obbedito. “Applichiamo la programmazione regionale”, spiega il direttore sanitario Giuseppe Matozzo. Ma la Regione si è rivelata impreparata anche per Paola Ferrari, legale della Federazione medici di medicina generale: “C’è stata una sottovalutazione della pandemia e una mancata predisposizione di misure di sicurezza minime, sia per il personale sanitario che per i medici di base”. Senza contare, aggiunge Ferrari, che proprio nelle Rsa “tante persone sono morte senza che quei decessi siano stati registrati come vittime del coronavirus”.

Lo studio pugliese: già il 38% degli italiani infettati dal Corona

C’è uno studio realizzato in proprio da un’azienda che commercializza kit del sangue per la ricerca degli anticorpi Igm-Igg al coronavirus che dimostra un contagio della popolazione pari al 38 per cento e merita di essere spiegato.

Lo studio è della Meleam di Bitonto (Bari), impresa che tratta anche il kit Viva Viag Covid-19 (quello sulla goccia da puntura del dito), già acquistato da varie Regioni. Lo studio a prima vista dimostrerebbe una penetrazione del Sars-Cov 2 più ampia di quanto appaia dai primi studi sugli operatori sanitari effettuati da molte Regioni.

L’amministratore delegato di Meleam, il professore di Igiene del lavoro e medico legale, Pasquale Mario Bacco, spiega: “Su un campione di 1.731 persone di 9 regioni, Campania, Puglia, Sicilia, Sardegna, Veneto, Lombardia, Basilicata, Lazio e Liguria, diviso tra 1.113 uomini e 618 donne, sottoposte al test tra il 25 febbraio e il 2 aprile, ci risulta che le persone entrate in contatto con il virus sono 668, circa il 38 per cento”.

In Liguria il Policlinico San Martino ha registrato su 1.800 sanitari un tasso di contagio del 2 per cento. In Toscana, su un campione di 1.165, la percentuale sale al 4,6 per cento e in Basilicata, su un campione esiguo si arriva a 20 operatori positivi su 150 test del sangue. Ad Avellino, l’altroieri, è iniziato lo screening di massa con 5 mila test rapidi Technogenetics comprati dal sindaco Gianluca Festa di concerto con l’Ordine dei medici locale. Il progetto è curato dall’infettivologo Nicola Ocone, che spiega: “Preleviamo un cc di sangue e lo analizziamo in dieci minuti e il risultato è più sicuro rispetto alla ‘puntura del dito’. Abbiamo iniziato coi medici di base. I primi 30 sono tutti negativi: nessun anticorpo né Igm né Igg”.

Nella ricerca della Meleam, invece, quasi un soggetto su due ha sviluppato gli anticorpi Igm (quelli della fase iniziale) e Igg, quelli stabili che dimostrano una reazione dell’organismo e annunciano guarigione e immunità, almeno secondo i più ottimisti nei limiti degli studi su un virus che ha solo 4 mesi di vita. I cittadini comuni sarebbero stati contagiati molto più dei sanitari. Forse perché i primi sono meno attenti a proteggersi?

In realtà esiste una seconda spiegazione: lo studio della società pugliese non è stato effettuato su soggetti totalmente asintomatici, come i sanitari. L’Ad Bacco di Meleam spiega: “Erano persone apparentemente sane, che stavano lavorando, che non hanno mai avuto febbre o sintomi tali da attivare i protocolli sanitari anti Covid-19, ma che nell’anamnesi immediatamente precedente al prelievo hanno detto di aver avuto qualche mal di testa, mal di gola, affaticamenti muscolari, dai quali si erano pienamente ripresi. Abbiamo quindi escluso dal campione le persone che ci avevano detto di non aver avuto nulla”. Cioè poco sintomatici e non asintomatici. La statistica è stata costruita “prima raccogliendo gli esami di donatori del sangue, e poi quelli di aziende private che ci hanno incaricato di mettere in sicurezza il loro personale, più altri gruppi di familiari o associazioni varie”. Il dato riguarda per il 27 per cento i dipendenti aziendali, per il 73 per cento il resto del campione. Meleam ha disaggregato le statistiche per sesso e fasce d’età. Gli uomini dai 18 ai 25 anni registrano il 47 per cento che scende di appena un punto dai 26 ai 40 anni. Invece dai 51 ai 70 anni il tasso è molto più basso: il 31 per cento, a conferma che di questo virus muoiono gli anziani ma a veicolarlo sono spesso i soggetti attivi. La ricerca conferma i numeri delle donne sono più bassi. Dai 18 ai 25 anni per loro il tasso di infezione è il 34 per cento, scende al 28 e al 24 nelle due fasce d’età successive. Per gli uomini il dato è dunque il 44 e per le donne è il 29. Tutte queste persone stanno bene e secondo Bacco continuano a lavorare. “Non ci risultano positivi al tampone rinofaringeo, ne saremmo stati informati”.

Gli studi sulla cittadinanza finora sono pochi. Un’altra società privata, la Caam di Latina, ha testato con i kit rapidi sul sangue 240 soggetti sia sintomatici che asintomatici in città come Parma, Napoli, Roma o Bergamo. I soggetti che hanno incontrato il virus e sviluppato l’anticorpo ritenuto “immunizzante” Igg sono 22, meno del 10 per cento.

Più basso il dato registrato dal gruppo Sant’Agostino di Milano che ha effettuato uno screening per fini di ricerca circa tre settimane fa (prima del picco di contagio) tra i dipendenti dei suoi laboratori di analisi, questi tutti asintomatici. In questo caso, solo il 4 per cento aveva l’anticorpo Igg. Proprio ieri il sindaco Vincenzo Cascini, di Belvedere Marittimo, provincia di Cosenza, ha iniziato i test-drive con puntura del dito sulla popolazione del Comune. Su 80 cittadini, asintomatici anch’essi, sono stati trovati cinque soggetti positivi a Igm e Igg. Quindi appena il 6 per cento.

Solo un vero studio nazionale con un campione rappresentativo potrà chiarire la vera penetrazione del contagio. Il Consiglio Superiore della Sanità promette di farlo entro aprile. Meglio tardi che mai.

Un’altra mutazione è possibile: potrebbe arrivare Sars-CoV-3

All’origine del virus. Potrebbe essere questo il titolo di un studio dell’Università Statale di Milano pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Virology. In realtà il rapporto scientifico si intitola: “Inferenza computazionale della selezione alla base dell’evoluzione del romanzo coronavirus, SarsCov2” e porta la firma del Dipartimento di fisiopatologia medico-chirurgica dei trapianti che fa riferimento al professore Mario Clerici. Si tratta della prima ricerca internazionale che, dopo lo scoppio della pandemia, torna indietro per comprendere le caratteristiche filogenetiche di questo patogeno respiratorio confrontandole con il virus individuato nei pipistrelli che a loro volta lo hanno ricevuto da un animale allo stato sconosciuto. Lo studio dà conto per la prima volta di un dato: SarsCov2, presente originariamente in un animale non identificato, potrebbe modificarsi e produrre un ennesimo salto di specie verso l’uomo portando sullo scenario mondiale un coronavirus simile ma non uguale, che potremmo chiamare SarsCov3. Oltre a questo, lo studio specifico dell’area complessiva del virus ha portato i ricercatori a identificare alcune proteine, tra 3 e 5, che non cambiano mai. Un dato confortante per la ricerca vaccinale. Lo vedremo. Torniamo però allo Spillover, termine che abbiamo imparato a conoscere nelle ultime settimane anche grazie all’omonimo libro del saggista scientifico David Quammen.

Che i coronavirus abbiano una passione per il salto di specie è stato già spiegato nel 2015 in uno studio pubblicato sulla rivista Nature. Qui si prendeva atto che questi tipi di patogeni hanno più di altri una forte tendenza allo spillover, ovvero al salto di specie. Questo anche perché sono virus a Rna, ovvero formati da un solo filamento genetico, e hanno una frequenza di replicazione molto più rapida e soggetta ad errori che li rendono decisamente più instabili e sfuggenti. Il lavoro dell’equipe del professor Clerici parte dalla comparazione filogenetica di SarsCov2 e di BatCoVRaTg13, ovvero il virus isolato nei Rhinolophus affinis, specie di piccoli pipistrelli presenti anche in Cina. Da qua emerge solo una minima differenza posizionata su tre proteine, per il resto viene certificato un match tra i due patogeni che va ben oltre il 95%.

Il dato è fondamentale per prevedere in futuro un nuovo salto di specie verso l’uomo. Per i coronavirus sarebbe il quarto. Il primo, nel 2003, si è verificato con la Sars, poi nel 2012 c’è stata la Mers diffusa attraverso i cammelli in Egitto e infine l’attuale SarsCov2. Un quarto e prossimo salto di specie viene messo sul tavolo delle ipotesi anche perché al momento, è spiegato nello studio e ci viene confermato dal professor Clerici, non si conosce il progenitore del virus del pipistrello e di quello umano. Di certo, si legge nello studio, “il comune antenato dei due virus era” già “pronto per l’infezione umana”. Il che implica una ulteriore riflessione. Al momento sappiamo che il virus del pipistrello e SarsCov2 sono pressoché uguali. Non sappiamo però se il salto è stato diretto oppure c’è stato un passaggio intermedio prima di arrivare all’ospite umano. “Di sicuro – si legge nel rapporto dell’università Statale – ampi dati indicano che, oltre all’uomo, il virus può infettare le cellule dei pipistrelli, piccoli carnivori e suini”. Dunque data per scontata la presenza del virus nei pipistrelli non sappiamo con certezza né da dove arriva né come è saltato nell’uomo.

Il passaggio potrebbe essere stato diretto o mediato. Sappiamo, ci spiega il professor Clerici, che un animale attualmente sconosciuto è oggi serbatoio del virus già propenso a infettare l’uomo. È evidente, quindi, che questo rappresenta il nuovo concreto orizzonte per un quarto spillover. Lo studio inoltre mette sul tavolo un dato positivo per la ricerca vaccinale. SarsCov2, infatti, mostra sul proprio profilo genetico alcune proteine che non cambiano. Queste, spiega lo studio, rappresentano dei target ideali per nuove terapie e nuovi vaccini. L’esempio contrario lo si ha con il virus dell’Hiv, anche questo a Rna. Uno dei motivi principali per il quale da oltre vent’anni non si è ancora trovato un vaccino e che tutte le sue proteine sono soggette a continui cambiamenti e nessuna, quindi, può essere presa come obiettivo certo per impostare una profilassi vaccinale. SarsCov2 invece mostre aree più stabili e questa può essere la strada giusta da seguire.

Contagi stabili, morti in calo. In rianimazione 74 in meno

Il picco non è finito. Tra piccole risalite e quasi impercettibili discese, l’andamento dei contagi in Italia continua su quel “pianoro” individuato dal presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro. Nel bollettino pomeridiano della Protezione civile i casi totali di Covid-19 in Italia – comprensivi di persone positive, morti e pazienti dimessi o giudicati guariti – ha toccato quota 124.632: 4.805 in più in 24 ore (+4,01%), in rialzo sui 4.585 di venerdì e ai 4.668 di giovedì.

In una giornata in cui le ombre accennano a rischiararsi, ma non a dissolversi, un flebile spiraglio arriva dalle terapie intensive. Se venerdì i letti occupati nei reparti di rianimazione di tutta Italia erano 4.068, ieri il numero era sceso a 3.994, 74 in meno (1,82%). “È una notizia importante perché consente agli ospedali di respirare. È il primo valore negativo da quando abbiamo avviato la gestione dell’emergenza”, ha spiegato il coordinatore dell’emergenza, Angelo Borrelli. Buona parte dei posti si è liberata in Lombardia: “Siamo a -55 rispetto a ieri (venerdì, ndr) – aveva spiegato poco prima da Milano l’assessore al Welfare, Giulio Gallera – il numero dei dimessi, 222 in più, e dei decessi è superiore a quello dei nuovi ingressi”. Non si arresta, invece, la conta nazionale dei morti. “Ci sono 681 nuovi deceduti (ora sono 15.362, ndr) – ha proseguito Borrelli – ma il numero è in discesa: il 26 marzo avevano raggiunto il massimo con 969 unità”. Dati che Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, in conferenza definisce “largamente incoraggianti”, perché “dal 27 marzo siamo passati da più di 120 accessi nelle terapie intensive a un saldo negativo di 74 soggetti. E i deceduti erano 12% più del giorno prima, oggi siamo al 5%. Ma non abbiamo scampato proprio nulla. È solo la dimostrazione che quanto è stato fatto è servito a ridurre la diffusione. Secondo uno studio autorevole, le misure di contenimento hanno evitato 30 mila morti”.

Una strada sulla quale accelera la Lombardia, dove un’ordinanza introduce l’obbligo per chi esce di casa di coprirsi il volto con la mascherina. “In questo momento non l’abbiamo ancora data come indicazione – ha commentato Locatelli – La misura fondamentale è quella del distanziamento sociale”.

Morto l’agente della scorta di Conte colpito dal coronavirus

Perfino l’assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, ha voluto precisare che “è stato fatto di tutto per salvarlo”. Ma Giorgio Guastamacchia, ricoverato due settimane fa nel reparto di terapia intensiva del Covid Hospital di Tor Vergata, non ce l’ha fatta ed è morto ieri, a 52 anni. Poliziotto, attualmente era in servizio nella scorta del presidente del Consiglio: ieri, la notizia della prima vittima nel cuore dei palazzi è caduta come un fulmine su Palazzo Chigi. Giuseppe Conte ne ha voluto ricordare “la dedizione professionale, i gesti generosi, i sorrisi ravvivati da un chiaro filo di ironia” e a lui si sono uniti molti suoi predecessori, da Matteo Renzi a Enrico Letta a Paolo Gentiloni, e i colleghi, a cominciare dall’ufficio del cerimoniale di Palazzo Chigi che con lui hanno “condiviso alcuni presidenti e diversi anni di lavoro”.

La notizia del contagio si era diffusa il 21 marzo. Subito, la Presidenza del Consiglio aveva chiarito che nelle settimane precedenti non c’era stato “alcun contatto diretto con lo stesso Presidente, non avendo mai viaggiato neppure sulla stessa auto”. Conte già nei giorni precedenti si era comunque sottoposto al tampone, risultato negativo, e aveva garantito il rispetto di tutte le misure di sicurezza necessarie a evitare contagi. Una condizione che, va detto, non tutta l’amministrazione di palazzo Chigi si era sentita di confermare: a metà marzo, quando l’epidemia era già ampiamente diffusa e le sedi del Parlamento già semi-blindate, nelle sedi della presidenza ancora non si vedevano termoscan, mascherine e protezioni per il personale più a stretto contatto con i visitatori.

Ora qualcosa si è mosso sul fronte della tutela dei lavoratori. Mentre per quanto riguarda la stretta attività del premier, oltre alle misure di distanziamento, c’è da dire che le occasioni di rischio sono ormai ridotte al minimo: niente più incontri, viaggi, auto e aerei. Solo chiamate e videoconferenze.

Dalla filiera italiana zero dispositivi medici

“Nessuna delle 30 aziende i cui investimenti sono stati approvati dall’incentivo Cura Italia producono attualmente mascherine Ffp2 o Ffp3, bensì le cosiddette mascherine non sanitarie. Progressivamente produrranno quelle chirurgiche”. L’aggiornamento di fine settimana del commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri si cristallizza su questa notizia che rende evidente quella che qualche settimana fa era solo una previsione: non sono ancora in circolazione dispositivi medici prodotti dalla filiera italiana messa in piedi per sopperire alla carenza di dispositivi e le Ffp2 e le Ffp3 non sono quasi contemplate. Cosa fanno dunque le aziende tessili che si sono messe insieme in consorzio? “Le due filiere del settore della moda e dell’igiene personale stanno producendo – assicura Arcuri – Una ieri ha ricevuto dall’Istituto superiore della Sanità l’autorizzazione a metterle in commercio. Auspichiamo che nei prossimi giorni molti altri non solo le producano ma le possano mettere in commercio”.

Il decreto “Cura Italia”, infatti, consente di produrre tre tipi di protezioni: le prime sono quelle non chirurgiche che, non destinate all’assistenza sanitaria, possono costituire una mera misura igienica per cittadini. Su queste non ci sono grossi problemi di produzione e di fatto sono quelle su cui il consorzio e le aziende procedono più speditamente.

Ci sono poi le mascherine chirurgiche, destinate agli ospedali e agli operatori sanitari e di cui c’è forte carenza in Italia. Queste vanno prodotte con particolari requisiti e validate dall’Iss. Si possono produrre a con autocertificazione, ma non per metterle in circolo. Dopo la produzione devono essere sottoposte a test di laboratorio (ce ne sono diversi su tutto il territorio nazionale) e poi devono essere verificati dall’Iss. È qui l’intoppo: il 43 per cento delle migliaia di richieste arrivate hanno avuto parere non favorevole, 35 per cento favorevole solo per la produzione in attesa delle prove dai produttori a supporto, solo il 21 per cento ha avuto l’ok ed è ancora in lavorazione. La terza categoria sono le ffp2 e ffp3, che però sono ben lontane dall’essere disponibili e che servono a proteggere l’utilizzatore dalle aggressioni esterne. Queste sono autorizzate dall’Inail con una procedura analoga a quelle sanitarie.

Come se non bastasse, in nove giorni a Invitalia sono arrivate 447 proposte di investimento per riconvertire la propria produzione in dispositivi medicali o di protezione individuale (il decreto Cura Italia prevede contributi per 50 milioni di euro). Di queste, 217 sono state rigettate, 200 sono in valutazione e solo 30 sono state approvate (16 riconversioni delle linee di produzione e 14 ampliamenti con un investimento di 13,6 milioni). Ma per produrre le mascherine ci vorrà del tempo.

L’unica buona notizia del commissario è l’arrivo della produzione in tre carceri: Bollate, Salerno e Rebibbia. Otto impianti automatizzati che nell’arco di 15 giorni consentiranno di produrre 400 mila mascherine al giorno, che potranno progressivamente aumentare”.

Così truffiamo pure i cinesi: 500 dollari per le certificazioni

Anche se con il decreto Cura Italia del 17 marzo ogni azienda può auto-certificare di essere in linea con i requisiti richiesti dall’Ue, c’è un mercato che il coronavirus non ha mandato in crisi. É quello degli enti che quelle certificazioni le hanno emesse nelle settimane scorse e continuano a emetterle: analizzano i documenti delle aziende che si vogliono immettere sul mercato per vendere mascherine e dispositivi medici e danno il proprio ok. Si tratta di enti riconosciuti dal governo che, come raccontato al Fatto da diversi imprenditori, ora si propongono alle aziende estere ignare della possibilità che basti solo quella che viene definita “dichiarazione di conformità europea” per poter far arrivare i dispositivi in Italia (poi sottoposti al controllo dell’Istituto superiore di sanità o dell’Inail).

A. C. è un consulente di un gruppo di imprese italiane che da anni lavora con il mercato asiatico nel settore dei dispositivi di protezione individuale. Spiega al Fatto che negli ultimi tempi in Cina c’è stato un boom di questo tipo di certificazioni. I cinesi sono convinti che quel foglio di carta basti a certificare il possesso di requisiti in linea con quelli richiesti dall’Europa, ovvero la certificazione CE. “Il fenomeno che si sta verificando riguarda molte aziende cinesi – racconta A. C. – che finora hanno prodotto solo per il fabbisogno interno. A Pechino, l’emergenza coronavirus è per il momento sotto controllo e quindi queste società si sono affacciate al mercato estero, in particolare a quello italiano che necessita di mascherine e dispositivi di protezione”. Si sono così affidati ad alcuni enti, incluso uno emiliano, che hanno fornito certificazioni che, secondo il consulente, “sono ingannevoli”. “Nei documenti che ci sono arrivati – spiega ancora A. C. – si legge che l’ente ha ricevuto e analizzato la documentazione dell’azienda e in base a quei documenti ha quindi dato il proprio via libera”. Si dice, insomma, che quell’azienda può avere una certificazione “ma, attenzione, – precisa il consulente – non europea, bensì dell’ente stesso. Nella dicitura del documento viene infatti specificato che deve essere responsabilità della società stessa procurarsi la certificazione europea”. In sostanza siamo di fronte a una mera consulenza. “Il punto è che in Cina c’è ormai un mercato di certificati: c’è una società a Shenzhen che promuove gli enti italiani e il rilascio di certificati per 500 o più dollari. Le aziende cinesi così vengono ingannate: quelle documentazioni sono inutili”.

A. C. non è l’unico professionista che si è ritrovato a lavorare con società che gli presentavano certificati inutili. Il fenomeno viene confermato al Fatto da altre fonti. “Le aziende cinesi – spiega un intermediario – al di là di una sparuta minoranza, non avevano un mercato europeo. Lo scoppio dell’epidemia ha fatto sì che si rivolgessero in fretta e furia, coscienti o meno, ad asseriti enti certificatori che sistematicamente, nel momento in cui fanno controlli, non risultano essere abilitati a rilasciare quel tipo di certificazione, pur essendo magari riconosciuti come enti certificatori dal ministero”.

In sostanza, capita ad esempio che gli enti certifichino come medici dispositivi che invece possono essere destinati alla protezione individuale civile o il contrario. “Oppure – spiega un altro intermediario – vengono spacciate come certificazioni CE documenti che invece hanno solo un valore ‘consultivo’ o che non servirebbero neanche più dal momento che c’è il Cura Italia”, che prevede l’autocertificazione. Entrambi ci confermano che in alcuni casi il costo di queste certificazioni può arrivare anche a 25mila euro. I controlli, ad ogni modo, sembrano esserci. Invitalia è in contatto con gli enti certificatori autorizzati, che poi verificano se le certificazioni inoltrate siano veritiere e se le dichiarazioni corrispondano al prodotto indicato sui documenti e alla corrispettiva azienda. Le verifiche sono lunghe e complesse e, nel frattempo, c’è chi ci guadagna.

In troppi in giro: mascherine obbligatorie in Lombardia

Il calo dei contagi, e poi le giornate soleggiate e le festività alle porte. Sono circostanze che potrebbero spingere gli italiani a non rispettare le misure imposte per il contenimento del coronavirus. É successo in Lombardia dove rispetto a una settimana fa si è registrato un aumento della mobilità: 38% è il dato di venerdì, contro il 28% di domenica scorsa e il 36% medio degli altri giorni. “Non avevamo un dato così alto dal 20 di marzo – ha detto il vicepresidente della Regione Lombardia, Fabrizio Sala –. Negli ultimi giorni la mobilità è salita di più di 2 punti, che vogliono dire decine di migliaia di persone”. Il picco si registra da mezzogiorno alle quattro del pomeriggio. “Possiamo escludere – ha aggiunto Sala – che parte di quelle persone vanno a lavorare, perché dalle 12 alle 16 è chiaro che è una mobilità che riguarda anche persone comuni”. E pure il sindaco di Milano ammette: “C’è più gente in giro”. Non in tutte le Regioni però si è registrato un aumento della mobilità, come ad esempio nel Lazio, stando alle verifiche in Regione.

 

Oltre 8 mila sanzionati, triplo di venerdì scorso

In tutta Italia venerdì su 254.959 controlli effettuati, sono state sanzionate 8.187 persone, mentre 30 sono coloro che, contagiati, non hanno rispettato la quarantena e per questo sono stati denunciati. Il numero dei sanzionati – che dovranno pagare multe dai 400 ai 3 mila euro – è leggermente superiore a quello del giorno prima (giovedì ci sono state 7.659 multe), ma è triplicato rispetto allo stesso giorno della scorsa settimana quando su 210.365 controlli sono sanzionate 2.783 persone. Previsti dunque più controlli nel weekend, con posti di blocco all’uscita di tutti i caselli autostradali per fermare quanti si spostano per raggiungere le seconde case, come molti piemontesi e lombardi che nei giorni scorsi sono andati in Riviera.

“Dobbiamo evitare di cominciare a pensare che stiamo vincendo. Gli indicatori ci dicono solo che stiamo contendendo la portata”, ha detto il commissario straordinario Domenico Arcuri. E ha aggiunto: “Astenetevi dal pensare che sia già arrivato il momento di modificare o se volete tornate a normalizzare i vostri comportamenti”. Anche il ministro della Salute Roberto Speranza lancia l’allarme: “Il distanziamento è l’unica arma” finché “non si otterrà un vaccino” e i tempi “non saranno immediati”.

 

Il governatore Fontana: nuove regole da oggi

Intanto a livello regionale si introducono nuove regole. La principale novità arriva dalla Lombardia. Una nuova ordinanza del governatore Attilio Fontana introduce da oggi l’obbligo di indossare mascherine. “Ogni qualvolta ci si rechi fuori dall’abitazione – è scritto nell’ordinanza – vanno adottate tutte le misure precauzionali consentite e adeguate a proteggere sé stesso e gli altri dal contagio, utilizzando la mascherina o, in subordine, qualunque altro indumento a copertura di naso e bocca”. Così sarà dunque fino al 13 aprile, poi si vedrà. Nell’ordinanza di Fontana si stabilisce la chiusura nei giorni festivi e prefestivi, quindi anche il sabato, dei negozi che vendono computer, elettronica ed elettrodomestici, ma anche gli ottici e le ferramenta. Mentre i negozi di alimentari e di prima necessità dovranno fornire ai clienti “guanti monouso” e disinfettanti “per l’igiene delle mani”.

L’obbligo di indossare mascherine per ora non viene condiviso a livello nazionale: non verrà imposto alle altre Regioni. “La mascherina è importante se non si mantiene la distanza”, ha ribadito ieri il capo della protezione civile Angelo Borrelli. Il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli ha aggiunto: “Quello delle mascherine è un argomento in cui non esistono evidenze fortissime, sappiamo che sono utili per prevenire il contagio da parte di un soggetto che positivo al Covid-19 considerando anche l’esistenza di una quota di asintomatici infettanti. La misura fondamentale rimane il rispetto del distanziamento sociale”.

 

Indice di contagiosità: raggiunto valore uno

Ieri Locatelli ha anche spiegato: “Ci avete sentito spesso parlare dell’indice di RO, l’indice di contagiosità”, cioè quante persone infetta un positivo. L’obiettivo era abbassarlo a 1. Valore raggiunto, dice Locatelli, “ma vogliamo ridurlo sotto 1 per avere l’evidenza che la diffusione epidemica nel Paese si è quantomeno arrestata come incremento giornale”. È presto per alleggerire le misure finora adottate.