Pochette Party

Fa sempre piacere guadagnarsi una citazione da Luigi Bisignani, purché – si capisce – sia negativa. Stiamo parlando di uno dei più preclari figuri della storia repubblicana. Un enfant prodige che a 23 anni era già con Andreotti, a 28 era già nella P2, a 36 era già con Montezemolo a organizzare Italia 90, a 39 era già nel gruppo Ferruzzi a riciclare allo Ior i fondi neri delle mazzette di Gardini, a 41 era già in galera per Tangentopoli, a 45 era già pregiudicato con una condanna a 2 anni e 6 mesi, a 49 era già radiato dall’Ordine dei giornalisti, a 55 era già a Palazzo Chigi con B.&Gianni Letta, a 58 era già riarrestato per la loggia P4 (si era perso solo la P3 per un attimo di distrazione), a 59 era già bi-pregiudicato patteggiando 1 anno e 7 mesi, a 61 era già triarrestato per una frode fiscale sull’appalto dell’informatizzazione della Presidenza del Consiglio e tripregiudicato per il patteggiamento di altri 2 mesi, dunque era pronto per diventare opinionista fisso di Virus di Nicola Porro su Rai2 ed editorialista dei giornali di Angelucci, Il Tempo e Libero. E qui, su Libero, ha piazzato uno scoop dei suoi: “Il partito di Conte è pronto. Il piano segreto del premier”. Che, malgrado le apparenze, non si sta mica occupando del coronavirus. No, si sta facendo il partito: “dovrebbe chiamarsi ‘Insieme con Conte’”.

E indovinate insieme a chi altri? Ad Andrea Scanzi e a me. Non da soli, ci mancherebbe: sono della partita un certo Gianluca Rospi, che ha “un ufficio in via della Pigna”, e un “fidatissimo collaboratore, Gerardo Capozza”. Due trascinatori di folle mica da ridere, senza contare che il premier ha “stretto alleanze sempre più operative con i gruppi vicini alla figura di San Francesco d’Assisi” (santa Chiara e il lupo di Gubbio), “i ciellini di Giorgio Vittadini, il volontariato, la Comunità di Sant’Egidio e gli intransigenti di Civiltà Cattolica”. Ma non solo: ci sono pure “i manager pubblici che gli scodinzolano attorno in attesa di nomine” (quelli, si presume, che fino a due governi fa scodinzolavano attorno a Bisignani allo stesso scopo) e, tenetevi forte, “pezzi dell’intelligence che fanno capo al generale Vecchione capo del Dis”. L’altroieri, per dire, ci siamo riuniti clandestinamente nell’ufficio di Rospi (lontano cugino di Giovanni Rana): c’erano Conte, Capozza, Vecchione, un gesuita intransigente di Civiltà Cattolica, un francescano, un ciellino, Sant’Egidio in persona, 2 coccodrilli, un orangotango, 2 piccoli serpenti, un’aquila reale, un gatto, un topo e un elefante, ciascuno scortato da un manager pubblico che scodinzolava come un cane per dare agli altri la scusa di uscire di casa.

Lì Conte, dopo aver confabulato con Vecchione del rapporto Barr sull’affaire Mifsud di imminente pubblicazione in America (dove non si parla d’altro), ci ha spiegato come – per dirla con l’informatissimo Bisignani – “zitto zitto si costruisce il partito”: “ha iniziato a prendersi tutta la scena, sfruttando ogni e qualsiasi media (sic, ndr), grazie anche l’inconsistenza di maggioranza e opposizione, con la sola eccezione di Matteo Renzi”. In effetti, è molto preoccupato per la solida consistenza dell’Innominato, che l’altra sera, per dire, ha mostrato tutta la sua impressionante potenza di fuoco con una diretta Instagram seguita da ben 610 spettatori, poi ridottisi dopo 5 minuti al ragguardevole zoccolo duro di 480 anime. La “strategia mediatica” del premier è “ben precisa”, a botte di “orazioni televisive notturne per drammatizzare ancor di più la narrazione e, al tempo stesso, evitare commenti scomodi a caldo”. Furbo, lui: non fa una mazza tutto il giorno, poi la notte appare in tv e zac!, il gioco è fatto. Ora ha 2,4 milioni di follower su Facebook che, se tenesse orazioni diurne, se li scorderebbe. Voi direte: ma che c’entra Scanzi? C’entra, c’entra. Anche lui, quatto quatto, su Facebook “si fa pubblicità in piena notte”, così non trova nessuno sveglio e ad aprile ha “raggiunto 821 mila seguaci” diventando “il quarto giornalista italiano più seguito dopo Saviano, Travaglio e Mentana” (che però di notte dormono, ma fa lo stesso). Come faccia, a parte le orazioni notturne, non è dato sapere, perché “per i giornalisti non vale lo stesso sistema di trasparenza al quale devono sottostare i politici”. E Bisignani sulla trasparenza – come dice la sua biografia – transige ancor meno della Civiltà Cattolica. Almeno quando si leva il cappuccio.

Ma non ci sono soltanto i social. Gli house organ del partito di Conte sono già schierati: “La tv di Stato, Corriere della Sera, Repubblica, La7 e il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio”. Senza spoilerare i tanti segreti di cui sono depositario, posso assicurare che siamo a buon punto. Il nome “Insieme con Conte” è suggestivo, ma un po’ cacofonico, tant’è che Rospi e Capozza propongono il più stringato e immediato “Con-te”; mentre il fronte francescan-gesuitico-ciellino preferirebbe la giaculatoria “Gesù, Giuseppi e Maria”; e il generale Vecchione, Barr e Mifsud – i soliti esterofili – insistono per “Pochette Party”. Per il logo indiremo un concorso pubblico come ha fatto per Iv l’Innominabile, che purtroppo ci ha fregato il simbolo più accattivante su piazza: l’assorbente con le ali sui colori del Vagisil, disponibile anche nella versione da uomo. Ma i nostri grafici stanno lavorando sulla pochette a quattro punte. Poi decideremo la nostra Leopolda o Pontida: si pensava al santuario di Padre Pio, che è in zona Volturara Appula (San Francesco e Sant’Egidio permettendo). Infine distribuiremo gli incarichi. E sia io sia Scanzi abbiamo ottime chance perché con Conte si fa sempre notte: e io vado a letto tardi, Andrea resta sveglio per farsi pubblicità su Fb, gli altri non so. Magari chiedo a Bisignani, finché è a piede libero.

Altro che Eduardo: il vero De Filippo fu Peppino, attore tra Totò e Kafka

I quarant’anni da che Peppino De Filippo ci ha lasciato dovrebbero indurre a una nuova valutazione della sua figura. Egli è stato sempre da molta critica, anche per pregiudizio ideologico, tenuto in ombra dal fratello Eduardo, reputato autore e attore “filosofo”.

L’autore, se si prescinde da certe farse anteguerra scritte per una compagnia delle quale i tre fratelli erano l’asse, come lo straordinario Sik sik l’artefice magico, era un Pirandello dei miserrimi. L’attore era diventato sempre più lezioso, manierato, assumendo pur egli pose filosofiche e indulgendo in sempre più lunghe pause. Eduardo attore era grande non nelle opere proprie, quanto in quelle del padre naturale Eduardo Scarpetta: là egli sa abbandonarsi a fantastiche doti comiche; e si veda Lo curaggio ‘e nu pompiere napulitano. Ma nemmeno sempre: in Miseria e nobiltà non è all’altezza del sommo testo, che attori meno titolati, come Enzo Cannavale e Rino Marcelli, hanno portato alla perfezione; e non parliamo della metafisica del film di Totò. Quando poi ha voluto fare il vero Pirandello, come nel suo adattamento de Il berretto a sonagli, fa cascare le braccia.

Peppino autore, per cominciare. Un capolavoro assoluto come Don Rafele ‘o trombone, atroce riflessione su una delle realtà più tenacemente negate e più misteriosamente reali che esistano, la jettatura. Ch’è il risvolto dell’altra realtà chiamata disgrazia, sfortuna. Lo jettatore volontario non esiste; lo jettatore può anche essere uomo o donna d’eletto sentire; e solitamente è un disgraziato. Su simile tragedia Peppino riesce far meditare e insieme a far irresistibilmente ridere. Questa è opera del genio.

Quando si parla dell’attore si pensa subito alla “spalla” di Totò. Ma pensiamo prima al resto. A una tecnica di recitazione fra le più consumate che si siano viste. Tempi teatrali perfetti. La capacità di far scorgere i più varî, e a volte fra loro contrastanti, stati d’animo, dall’intonazione della voce e da una mimica ch’era una complessa partitura musicale. L’avaro e Il malato immaginario di Molière hanno pochi paragoni. Si è misurato anche nel surreale Pinter.

E veniamo a Totò. Nulla di meno appropriato che definire Peppino “spalla”. “Spalla” di Totò sono stati persino giganti come Nino Taranto, Mario Castellani o Aroldo Tieri. Peppino è stato l’unico capace di tenersi alla stessa altezza del più grande attore del Novecento. I pezzi da antologia non si contano. Sebbene Antonio Anile, autore dei migliori libri su Totò, affermi che nei films l’improvvisazione fosse molto più ridotta che la leggenda non voglia, basta ascoltare il “sonoro” non doppiato di alcuni famosi duetti per rendersi conto che i due concreavano. Peppino creava alla pari con Totò, non gli porgeva le battute. Le due “dettatura della lettera” mostrano la fulminea rapidità con la quale dalla situazione scaturiscono battute inanellate l’una nell’altra per un processo creativo che può definirsi solo miracoloso. Quando, in Totò, Peppino e la malafemmena, Peppino cancella col fazzoletto i suoi errori di scrittura e poi, sudando copiosamente, si asciuga collo stesso fazzoletto e si copre la faccia d’inchiostro, ci si può solo inchinare reverenti come di fronte al Padre e allo Spirito Santo.

Peppino aveva un talento particolare per dar volto anche a un tipo italiano abietto e meschino. La fortuna lo fece incontrare con un altro genio supremo, Federico Fellini, che lo comprese e che nel film a più mani Boccaccio ’70 firma Le tentazioni del dottor Antonio. Uno dei capolavori assoluti della storia del cinema, nel quale, oso dire, Fellini rivela un lato kafkiano di Peppino che altri non avrebbe intuito.

Pazzi, raccomandati da Dio, maniaci: vade retro grafomani

I libri nel cassetto? È meglio lasciarli nel cassetto: la smania di esprimersi, di aver qualcosa da dire, di scrivere pensierini pensosi qualifica solo i “cattivi poeti”, al più gli psicotici. Contro i grafomani compulsivi torna ora il muriatico pamphlet di Fabio Mauri (1926-2009), scrittore “melancomico” e guru dell’editoria: 21 modi di non pubblicare un libro è uno spassosissimo “vade retro” alla nutrita tribù di aspiranti romanzieri, ancor più affollata oggi, in tempi di reclusione, da blogger, twittaroli, instapoet, social-stalker e whatsappisti.

Vent’anni dopo la prima edizione del 1990 (con i tipi del Mulino), Longanesi ha ripescato questo libello con prefazione di Umberto Eco, collega di Mauri in Bompiani per circa vent’anni, entrambi afflitti dall’“odio incondizionato che ogni redattore prova verso i manoscritti: chi li manda a una casa editrice è condannato ipso facto alla non pubblicazione. In letteratura, ahimé, non c’è democrazia”. Ecco una cernita di (non ancora) libri da ardere e dei loro autori, ritratti dalla penna biforcuta di Mauri.

I Pazzi. “La percentuale di stravaganti”, che gravita attorno alle case editrici, “è alta, mediamente più che attorno a una clinica per schizoidi”. L’unica attenuante per costoro è che non siano veri e propri “pazzi, ma sciocchi” che hanno “l’intenzione di esprimersi. L’espressione, in chi non ne fa professione, dà il negativo immediato dell’uomo minore oltre che patologico”. Come insinuava il cinico Fortini: “Mai così bene come nell’attività pseudo-artistica la personalità nevrotica si prende per autentica”. E a quanti minacciano il suicidio, è bell’e pronta la risposta: “Le rinviamo il suo dattiloscritto e, a parte, una corda e un chiodo”.

Nessuno escluso. Medici, avvocati, casalinghe, contadini, politici, giornalisti…. Tutti, prima o poi, diventano portatori sani (ma anche no) di manoscritto. Non ci sono solo i “pirla”.

Sentimentali. A costoro “il manoscritto appare quale forma sensibile dell’anima”. Ad avercela, l’anima. Un vero autore dovrebbe tenere sempre per sé “il miserabile mucchietto di segreti” (© Malraux). Sono proprio “le nevrosi, o le ‘anime’, l’intera Corte dell’Inedito a generare la distruzione delle case editrici. Vi insinua soffi di angoscia, per motivi di semplice analogia”.

Zero tituli. La gabbana, “romanzo rosso, ma anche verde”; Verremo domani o dopo; Note bianche come pétule; Il Piloro, firmato da un medico omeopatico; La tiratura è amore, opera di un cronista; La Merde, “un testo che non si nasconde la realtà”; “quattro poesie lunghe, dal titolo rilkiano, La giovinezza, se tra i quaderni”.

Pigri. Chi ha il romanzo “tutto in testa” si premura di mandare intanto la scaletta, assicurando l’acquisto in massa del libro da parte delle Biblioteche del Pomeriggio e l’assegnazione di diversi blasoni già concordati, come il Premio Femminile di Alta e Media Cultura.

Sequel. I pennivendoli di scarsa fantasia, ma grande autostima, tentano di emulare gli Antichi maestri, cimentandosi nei seguiti di Pinocchio o del Don Chisciotte, dei Promessi sposi o del Vangelo, affabulato da punti di vista diversi. Barabba è il più gettonato. E pensare che aveva poche battute.

Di genere. Gli aspiranti giallisti propongono succosi retroscena sulla “Vercelli più nera e la verità più esplosiva su una certa società che gira attorno alle drogherie”. Gli erotomani mandano invece minute descrizioni di orge in collegio, deflorazioni di belle educande e autoerotismo nel tinello.

Raccomandati. I più si fanno accreditare da personalità note, ma solo a loro: il professor Zappullo, famoso “per i suoi studi su Il Rinascimento e lo Ionio”; il dottor Calisi, primario di Oftalmica a Bari; illustri professionisti di Nuoro; la nipote Silvia; il dottor Cilli, i cui 45 impiegati si candidano per un’opera collettiva… Ma la raccomandazione più efficace resta quella di una ex suora di clausura, sulla cui fascetta promozionale suggerisce di scrivere: “Questo libro è piaciuto moltissimo a Dio”.

“Il popolo della notte sopravvive sempre”

Le discoteche e i club nell’era della serrata per pandemia. E chissà quando potranno riaprire, e in che modo, oggi che l’assembramento è assurto a tabù. In questo tipo di strutture ci si ammassa per definizione, e sarebbe davvero arduo far rispettare le distanze, a meno che non diventi di moda “la danza del droplet”. Non sono state mai inquadrate come servizi di prima necessità, anzi scontano antichi pregiudizi: gli addetti ai lavori, dagli artisti ai baristi, temono perciò il ruolo del parafulmine, agnelli sacrificali del blocco totale da Covid-19. Paria tra i paria dello spettacolo, figli di un dio del decibel minore.

Il primo problema è di ordine economico. Maurizio Pasca, presidente del Silb, ha scritto una lettera aperta al premier Conte: “Il decreto Cura Italia si è rivelato inadatto a fronteggiare la grave crisi economica e di liquidità che ha colpito le imprese del settore”. Tra i punti del suo cahier de doléances, il sindacato italiano del ballo chiede, per tutto il 2020, la pace fiscale, il dimezzamento dell’Iva e l’accesso facilitato al credito. Luca Guazzotti, tra i gestori del Mia Clubbing di Porto Recanati, gli dà ragione: “Mi auguro che il governo prenda misure adeguate. L’intrattenimento serale e notturno crea un indotto unico in termini turistici, e coinvolge varie filiere produttive”. E così, chiusi a tripla mandata i dancefloor, è il tempo dei dj-set domestici in streaming. Facebook e Instagram come consolle, qualche aggeggio vagamente stroboscopico sulla scrivania, niente animatrici e animatori alle spalle, ma al massimo il cammeo di mogli e mariti, compagne/i, prole, gatti.

Il mondo della notte reagisce come può. Cambia radicalmente l’esistenza dei deejay in quarantena, come ci spiega Joe T. Vannelli, tra i pionieri dell’house music tricolore: “Sono sempre online per cercare di sviluppare nuove formule di lavoro. In anticipo sull’emergenza, mi ero già organizzato per le dirette web dalla mia Sound Faktory. Adesso vado in onda tutti i giovedì alle 18, da casa, con il mio programma radiofonico Slave To The Rhythm”. Claudio Coccoluto è un’altra autorità assoluta della nostra club culture da esportazione, forse il suo libero pensatore massimo. E ci rivela: “Erano trent’anni che mettevo i dischi ogni weekend: una sorta di liturgia, che mi manca a un livello quasi epidermico. Stiamo provando a sublimarla sui social con un surrogato di normalità dove non c’è traccia, inevitabilmente, di rapporti diretti, di quello scambio prodigioso di energia che avviene in pista. Ciò premesso, questi tentativi digitali funzionano, servono a tenere alto l’umore e il morale degli appassionati”. Roberto Buffagni, uno dei soci del Matis di Bologna, del Peter Pan di Riccione e del Villa Delle Rose di Misano Adriatico, specifica: “Noi trasmettiamo ogni venerdì e sabato, in streaming dalla pagina Facebook del Peter Pan, i set dei nostri resident e di altri dj nazionali e stranieri”. Un po’ come succede a Berlino: grazie alla locale Club Commission e alla sua piattaforma United We Stream, lì “le dirette dai migliori club cittadini, ovviamente a porte chiuse, sono quotidiane, e con annessa raccolta fondi” ci racconta Daniele Spadaro, press-agent dei locali più importanti.

Non resta che riorganizzarsi la giornata. La musica è la medicina, la medicina è la musica, da continuare a produrre con gli studi portatili di registrazione e da godersi in cuffia o allo stereo. “Ne ascolto tantissima, vado a caccia del suono perfetto” dice Joe T. Vannelli. “Sto dando finalmente una sistemata ai miei vinili, ne posseggo a migliaia. C’è la possibilità di fare quello a cui la velocità a cui stavamo vivendo non ci permetteva di dedicarci. E poi mixo e mi confronto con mio figlio, che ha 25 anni e sta per laurearsi in Sound Design, ha ricalcato le mie orme. Mia moglie non ne sarà felicissima, ma ognuno si attacca alla sua ancora di salvezza”. Quando il lockdown terminerà, entro l’estate si spera, nulla potrebbe essere più come prima. “Ci sarà una rivoluzione, con tante nuove opportunità” prevede con ottimismo Vannelli.

“Le discoteche saranno le ultime a riaprire, soprattutto a Ibiza, dove sono e suono io, con la capienza che arriva anche a 10 mila persone” scommette Ale Zuber. “Ogni volta che la nostra società ha attraversato un momento oscuro, di clausura casalinga per cause di forza maggiore, il rimbalzo psicologico ha generato un entusiasmo colossale – conclude Coccoluto –. Io ho vissuto il periodo post-anni di piombo, che sfociò nei favolosi Ottanta. L’edonismo reaganiano, i ristoranti e le discoteche piene fino al mattino, una gioia incontenibile. Ci sarà una grandissima voglia di ritrovarsi, magari con eventi spontanei”. D’altronde (cit.), “la gente della notte sopravvive sempre”.

Siriani, russi, turchi: una guerra “mondiale”

C’era vento e tanti droni in cielo. Ho visto arrivare una camionetta con siriani a bordo. L’ho seguita con lo sguardo. Non appena si è fermata, un missile di Haftar l’ha centrata”, racconta al Fatto un combattente sul fronte di Ain Zara: “Erano una trentina”. Nonostante l’invito dell’Onu a un cessate-il-fuoco, in Libia negli ultimi giorni i combattimenti si sono intensificati. Un anno fa gli uomini fedeli ad Haftar uscivano allo scoperto nella città di Gharyan, sulla montagna Nafusa nell’Ovest della Libia, per liberare la capitale, a detta del generale, dal giogo delle milizie e dei terroristi islamici.

Un anno dopo l’80% del paese e nelle loro mani: a Serraj sono rimasti Tripoli, Misurata e una lingua di terra che vi corre in mezzo per circa 300 chilometri, la città di Zawiya, alcune città sulla montagne di Nafusa, in stragrande maggioranza berbere, così come Zuwara, al confine con la Tunisia.

Nei primi mesi Haftar aveva al suo fianco Egitto, Emirati Arabi Uniti e Giordania che lo rifornivano di armi e munizioni, mentre la Francia contribuiva con forze speciali nelle retrovie. Poi, a due mesi dall’inizio dell’operazione Vulcano di Rabbia, Haftar ha dato il via a una massiccia campagna di raid aerei colpendo spesso aree residenziali, e senza effetti decisivi, mentre a sud si inseriva nelle diatribe tra le tribù locali, conquistando un pezzo di terra dopo l’altro.A ottobre sono poi arrivati i mercenari russi la cui tecnologia ha portato alla rapida avanzata su Tripoli. Ricevuto il due di picche dall’Europa, Serraj ha perciò bussato a Erdogan, da sempre al fianco di Tripoli. E a gennaio l’arrivo a Tripoli dei rinforzi turchi ha sancito il passaggio da una guerra per procura regionale a una internazionale.

La conferenza di Berlino è tutt’altro che risolutiva sul terreno, e anzi la presenza dei turchi inizia a dare i frutti sperati: Haftar arretra di qualche chilometro. Ma con una mossa a sorpresa le conquista poi Sirte, la città cinghia tra la costa a nord e il deserto nel sud. Misurata, la città stato da cui provengono la maggior parte di uomini ed armi sul fronte di Tripoli, finisce sulla linea del fronte.

Intanto il presidente della società petrolifera (Noc), Mustrafa Sanalla, dichiara che il Paese ha pochi mesi d’autonomia senza i proventi dell’oro nero. A febbraio registra circa 515 milioni di euro di perdite, il 68% in meno rispetto al febbraio 2019.

Sempre a febbraio e a favore di camera, il Ministro degli Interni di Tripoli Fathi Bashaga distribuiva agli uomini sul fronte mascherine per contrastare il virus Covid-19. Preludio all’operazione “Tempesta di Pace” lanciata la scorsa settimana quando Haftar ha perso decine di uomini sul fronte di Sirte.

Ma, nonostante la veemenza dei combattimenti, si è tornati a una guerra di posizione dove nessuno dei due pare avere la forza per vincere. Così, mentre La ue ha lanciato la missioni Irini contro l’arivo di armi in Libia, una fregata turca martedì ha lanciato un missile su un drone di Haftar a Ovest di Tripoli. Rahman Al-Swahili, presidente del Consiglio di Stato libico a Tripoli, ha avvertito che se l’Europa non fa un passo indietro sulla missione Irini Tripoli potrebbe anche rivedere gli accordi con Roma e Bruxelles.

In tutto ciò sono saliti a 11 in casi di Covid-19. Tripoli ha annunciato un piano di 75 milioni di dinari da destinare a 119 municipi per affrontare l’emergenza: anche città nell’Est sotto il controllo di Haftar.

Un anno dal blitz incompiuto. Ora Haftar medita di mollare

All’alba del 4 aprile 2019, il generale Khalifa Haftar diede l’ordine di avanzare alla conquista di Tripoli, la capitale libica controllata dal governo legittimo di Fayez Al Serraj. Veniva da est, da Bengasi, aveva con sé un manipolo di soldati, un paio di caccia Mig di remota fabbricazione, il supporto logistico di egiziani, emiratini e sauditi, l’amicizia degli astuti francesi, le risorse accumulate durante la lotta al terrorismo in Cirenaica. Il vecchio Haftar, classe ‘43 (o più anziano, si dice), ruggì al mondo con una spettacolare operazione più mediatica che bellica mentre Antonio Guterres, il Segretario generale dell’Onu, stava per atterrare a Tripoli con l’utopia di organizzare libere elezioni. Il generale s’illuse di riuscire a entrare a Tripoli danzando su tappeti di fiori, di fondere la collera di Bengasi e dell’intera Cirenaica – di cui s’era fatto interprete – con l’insoddisfazione per il governo di Serraj, Per una notte e un giorno l’illusione fagocitò la comunità internazionale e la vicina Europa, abbagliate dall’opportunità di sedare l’eterno conflitto con un po’ di artiglieria e di scorribande. È l’unica previsione che non si è verificata. Un anno dopo il generale è un uomo stanco e malato, non ha eredi e non è il tipo che ne designa, ma potrebbe ritirarsi, andare presto in esilio negli Usa o dai confinanti egiziani e tunisini e forse, anche se può sembrare un paradosso, condannare la Libia a maggiori tumulti.

Il fronte di Haftar è fermo a circa 15 chilometri dal centro di Tripoli, la guerra ha ucciso almeno 3.000 libici, in Cirenaica i corpi giacciono nelle fosse, 200.000 sfollati solo a Tripoli. Ancora oggi l’acqua costa più della benzina; circolano 20 milioni di armi, 3,3 per cittadino, inclusi i bimbi; i pozzi sono bloccati, il petrolio scarseggia e s’è deprezzato. L’arrivo di turchi a Tripoli e di russi a Bengasi, allenatori dell’una e dell’altra fazione, Ankara con l’esercito e gruppi siriani, Mosca con la milizia privata Wagner, ha prodotto un sussulto in Europa e in Italia, che s’è risolto con la conferenza di Berlino, archiviata dal patema pandemia e dalla missione Irene per l’embargo in mare delle armi. L’effetto (indiretto) di Berlino sono le dimissioni del libanese Ghassan Salamé, inviato speciale dell’Onu, che si è arreso ai problemi cardiaci e alle delusioni dei negoziati.

Giuseppe Buccino, l’ambasciatore insediatosi a Tripoli il 1° febbraio 2019 per la seconda volta, spera che l’allarme Covid-19 possa aiutare i libici a fermare le atrocità: “Per la pace il primo passo è una tregua immediata, su basi umanitarie, su cui costruire un cessate il fuoco strutturato. Una diffusione di massa del virus – spiega al Fatto – è un grave pericolo per l’Africa e l’Europa. Il Paese non è preparato ad affrontare la pandemia. I libici seguono con serietà le indicazioni del governo, il coprifuoco si estende dalle 14 alle 7. La Libia non può permettersi una doppia crisi, sanitaria e bellica. Una interruzione degli scontri è vitale per rimuovere la cappa di rassegnazione che comincia a opprimere la popolazione”. Buccino evidenzia l’importanza di riprendere le trattative sotto l’egida Onu: “L’eredità di Berlino è la presa d’atto che la crisi è sia interna sia internazionale. La pace dipende pertanto anche dai Paesi che agiscono in Libia sostenendo apertamente o meno le parti del conflitto. Il lavoro di Salamé ha prodotto risultati incoraggianti, sebbene parziali. L’attuale reggente Williams prosegue il lavoro con efficacia in attesa del successore di Salamé. Chi persegue la guerra cercherà di ritardarne la scelta”. Oggi per l’Italia c’è solo un antidoto alle tensioni: “L’assemblea intralibica – cioè il coinvolgimento di tutti gli attori, come da piano Onu – è il presupposto per la nascita di un governo transitorio che guidi il Paese verso le elezioni”.

Il silenzio sopra Berlino: “Meno applausi, più mascherine”

Sono migliaia i medici e gli infermieri contagiati dal Covid-19 in Germania. 2300 in tutto il Paese, 89.838 totali e 1.230 morti, ma secondo il Robert Koch Institut sarebbe una stima per difetto e il numero sommerso dei contagi tra il personale sanitario sarebbe molto più alto. Soltanto ieri l’ospedale Ernst von Bergmann di Potsdam, comune del Brandeburgo alle porte di Berlino, ha denunciato contagi da coronavirus in 78 pazienti e 63 membri del personale sanitario (su un totale di 1.342 collaboratori), a cui si aggiungono 8 morti e 14 pazienti in terapia intensiva. L’esito dei test, decisi dalla direzione dell’ospedale e condotti su personale medico e pazienti, ha fatto scalpore: un ospedale-focolaio. Ma la direzione ha gettato acqua sul fuoco: “Non conosco ospedali in Germania che testino tutti i pazienti – ha detto alla Bild la direttrice Dorothea Fischer – se lo facessero, avrebbero tutti lo stesso problema”. Storie come questa si moltiplicano in queste ore. La prima a fare notizia era stata la vicenda di un’infermiera di Berlino che aveva replicato a una delle tante manifestazioni di solidarietà diffuse spontaneamente in città. Per settimane alle 21 in punto per le strade di Berlino si sentiva fischiare, applaudire, suonare campanacci, mentre le macchine che passavano rispondevano con un colpo di clacson, soprattutto nei quartieri di Kreutzberg e Neukoelln. Un giorno un’infermiera ha pubblicato un post su Facebook, poi ripreso da un quotidiano locale, in cui ha chiesto di smetterla con gli applausi. “Ficcateli in quel posto…” ha scritto. “In un lavoro come il nostro sottopagato per anni, dove tutti lavorano oltre al limite”, dove una mascherina deve essere usata per tanti pazienti, dove bisogna continuare a lavorare anche dopo aver avuto contatto con un Covid-19, dove un infermiere può occuparsi fino a 50 pazienti, adesso ci chiamate eroi?”. Da allora alle nove regna il silenzio a Berlino. Il ministro della Salute Jens Spahn ha promesso un bonus pasquale al personale infermieristico, ma il vero problema non è solo, come ovunque, la mancanza di materiale protettivo in misura sufficiente (ieri il ministero ha annunciato l’arrivo di 20 milioni di mascherine) quanto la storica mancanza di personale infermieristico. “Non ci aiuta avere i respiratori se il personale non è in salute” ha detto la dottoressa Susanne Johna in un noto talk-show.

 

Usa – A marzo persi 700 mila posti di lavoro

Record di vittime in un giorno. Crolla il gradimento di Trump. Fauci: “Bisogna chiudere tutto”

Con il numeratore dei decessi che corre all’impazzata e con i dati dell’economia e dell’occupazione che peggiorano giorno per giorno, cala il consenso sulla gestione dell’emergenza da parte di Trump: una maggioranza degli americani, il 52%, disapprova l’operato del presidente e solo il 47% l’approva (a metà marzo, i giudizi positivi erano il 55%): L’opinione pubblica è ondivaga, come l’atteggiamento di Trump sul coronarivus, sottovalutato all’inizio e mai preso di petto. Anthony Fauci, il massimo esperto negli Usa di malattie infettive e una figura iconica della task force della Casa Bianca contro il contagio, dice alla Cnn di non capire perché l’ordine di stare a casa non venga dato da tutti gli Stati – attualmente, riguarda comunque oltre il 90% degli americani –. “Se guardiamo a quanto sta avvenendo nel Paese, non capisco perché non lo facciamo”, ammette il virologo. Un messaggio che contraddice quello del presidente, che ha sempre escluso un lockdown a livello nazionale. Intanto, le vittime superano le 6000 unità e i contagi 250 mila, secondo i dati costantemente aggiornati della John Hopkins University. Con 1169 vittime giovedì, gli Stati Uniti hanno stabilito il triste primato del maggior numero di vittime in un giorno dall’inizio della pandemia, superando l’Italia dei 969 morti del 27 marzo. Al calo di gradimento dell’operato del presidente contribuisce l’andamento economico: S&P vede una contrazione del Pil dell’1,3% nel 2020 e una ripresa solo nel 2021. A marzo, sono stati persi 701.000 posti di lavoro, molti più del previsto. È il dato peggiore dal maggio 2009. Il tasso di disoccupazione s’impenna dal 3,5% di febbraio al 4,4% – peggiora cioè per la prima volta dal settembre 2010 –. In questo contesto, non mancano assurdità logistico-organizzative: le navi ospedale militari Confort e Mercy sono alla rada a New York e a Los Angeles, ma hanno finora accolto soltanto 35 pazienti (rispettivamente, 20 e 15), perché le norme di ammissione a bordo sono troppo rigide. E l’esercito metteva in conto fin da febbraio 150 mila vittime potenziali causa contagio, ma un suo documento non suscitò il giusto allarme.

Giampiero Gramaglia

 

Grecia – Tricolore esposto in Parlamento

Atene solidale con l’Italia. Preoccupa la malattia nel campo profughi di Ritsona

La bandiera italiana sventola sul Parlamento greco al posto centrale, tra quella ellenica e l’europea e ci resterà fino a domenica. Un messaggio di solidarietà che non è passato inosservato. Anche la Grecia sta affrontando l’ondata di contagi; 53 morti, i malati salgono a 1.584, tra cui 23 nel campo profughi di Ritsona, a nord di Atene. Il campo è stato messo in isolamento. Altri 119 casi sono stati rilevati sul traghetto Eleftherios Venizelos, che si trova al Pireo dal 21 marzo. L’infettivologo SotirisTsiodras, che ogni giorno conduce i briefing al ministero della Salute e fornisce i dati ha evidenziato che è stata giusta la scelta di fermare il Paese prima che l’epidemia prendesse il sopravvento: “Se avessimo fatto le scelte della Spagna, avremmo 2.265 morti in Grecia”, ha affermato un paio di giorni fa. Il blocco degli spostamenti e le altre misure saranno esaminate di pari passo con l’evolversi dei contagi. La situazione che più preoccupa è quella dei migranti nei campi di accoglienza. Il fatto che nel campo di Ritsona siano stati trovati 20 profughi positivi al test del Covid-19, “è un forte segnale d’allarme” ha dichiarato un portavoce della Commissione europea, annunciando che l’Ue sta predisponendo un piano per l’emergenza in modo da aiutare le autorità greche.

 

Francia – Ora si teme l’esodo di Pasqua

La tragedia degli ospizi: morti in 1.400 e la conta prosegue. Strasburgo è stata la più colpita

L’elenco dei morti in Francia per il Covid-19 non si arresta. Da giorni l’attenzione si concentra sulle case di riposo (circa 7.000 in tutto il Paese), dove si teme un’ecatombe. Finora sono stati registrati oltre 17 mila contagi e almeno 1.416 decessi, di cui 570 solo nelle case di riposo della regione di Strasburgo, tra le più colpite dall’epidemia. Ma il bilancio per ora è ancora parziale, perché circa la metà degli istituti non ha ancora comunicato i suoi dati. Contando i decessi in ospedale (5.091 ieri) il bilancio sale dunque a 6.507 morti dall’inizio dell’epidemia. Intanto ieri sono cominciati controlli a tappeto sulle strade e nelle stazioni con 160 mila poliziotti mobilitati per tutto il fine settimana. Più di 8.200 solo a Parigi e 38 posti di blocco alle porte della capitale. Il prefetto di Parigi Didier Lallement ha minacciato multe per ogni passeggero presente in auto “senza giustificazione”. Un importante dispositivo spiegato dal fatto che ieri sera sono iniziate le vacanze scolastiche di Pasqua e le autorità temono nuove fughe dalla città, come quelle che si erano verificate nelle ore prima del lockdown, scattato alle 12 del 17 marzo. Già 1,2 milioni di parigini sono partiti per le località della costa atlantica. “Il virus non va in vacanza”, ha ammonito il premier Edouard Philippe. “Le persone ricoverate oggi, sono quelle che ieri non hanno rispettato le regole”, ha detto tra l’altro il prefetto di Parigi, già molto criticato per la gestione della sicurezza nella capitale, facendo una gaffe enorme, di cui si è dovuto scusare due volte. Proprio a Parigi e nella sua regione, con più di 10 mila pazienti ricoverati e più di 2.300 in rianimazione, gli ospedali, 39 in tutto, sono al collasso. Circa 500 malati sono già stati trasferiti verso altre regioni. Il picco dell’epidemia è atteso per il 6 aprile. Di fronte al numero dei decessi, un padiglione del mercato internazionale di Rungis, alle porte di Parigi, è stato trasformato in obitorio.

Luana De Micco

“La pandemia era prevedibile. Ora pensiamo alla prossima”

Pensava di fare lo scrittore, e alla fine l’ha fatto. E anche se si occupa di scienza, è sempre William Faulkner a guidarlo. Perché “le persone, pure quando leggono di scienza, vogliono prima di tutto leggere storie”. David Quammen è “uno dei più brillanti scrittori americani di non fiction, anzi – come ha scritto il New York Times – uno dei più brillanti scrittori americani, punto”. Dal suo primo articolo sulle zanzare (“animali insopportabili, ma qualcuno prima o poi bisognava ne parlasse bene”), Quammen ha lavorato sul campo al seguito di scienziati in posti remoti, dalle foreste tropicali al Mare Artico. Ha scritto reportage e libri. Tra questi Spillover, tornato best-seller in tempi di coronavirus. Ci risponde dalla sua casa in Montana, dove ha scelto di vivere “per quella prossimità tra cose, bestie, posti, animali, forze della natura capaci di assassinarci con sublime indifferenza”.

Nel suo libro scriveva che la prossima grande pandemia sarebbe arrivata da uno spillover, in un mercato degli animali cinese, con un salto di specie da un pipistrello… è preveggente?

Ho solo riportato le parole di scienziati che da anni studiano questi fenomeni. Mi dicevano che la prossima pandemia sarebbe stata causata da un virus trasmesso da un animale, probabile un pipistrello; che sarebbe stato un coronavirus perché questi si evolvono e adattano rapidamente; e che il salto di specie – lo spillover – sarebbe avvenuto in una ambiente in cui esseri umani e animali selvatici sono prossimi. Dove? Verosimilmente, in un wet market cinese. Tutto prevedibile.

Siamo stati egualmente impreparati.

Non siamo stati in grado di implementare, e integrare, i sistemi di sorveglianza. Né a livello locale né a livello internazionale. Non abbiamo investito risorse nella sanità pubblica: più posti letto, più terapie intensive negli ospedali, più formazione del personale. Perché non lo abbiamo fatto? Perché come cittadini siamo poco informati e tendenzialmente apatici, mentre i nostri leader sono cinici e avari, concentrati solo su loro stessi. Questa pandemia è il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo. Ne siamo responsabili tutti.

Che caratteristiche ha questo virus?

Sars-Cov-2 appartiene alla famiglia dei coronavirus, virus più capaci di trasferirsi a “ospiti” umani e più veloci nel proliferare. In questo caso, anche senza che si presentino sintomi. È come un proiettile che ti colpisce: non senti il colpo, perché il proiettile arriva prima, il suono dopo.

Perché il nostro Paese è stato colpito più degli altri?

È un mistero. Me lo sono chiesto più volte. Il Nord Italia è ricco di risorse mediche, strutture e personale. Non è l’Africa. Mi ha sorpreso… Temo sia stata sfortuna. Qualcuno ha portato il virus nel vostro Paese, pur non mostrando sintomi, e ha contagiato molte persone prima che si capisse cosa stava accadendo? Ma perché così tanta sfortuna nella diffusione del contagio? Per questo voglio tornare in Italia: per studiare.

Crede che le misure di contenimento funzioneranno?

Faccio lo scrittore. La mia idea è però che la chiusura, di per sé utile, non sarà sufficiente. È necessario mappare e isolare i contagi e i loro contatti, incoraggiare la quarantena domiciliare, concentrare i casi in ospedali dedicati, proteggere gli operatori sanitari… allora forse l’Italia si salverà dal collasso.

In che modo i cambiamenti che l’uomo impone all’ambiente rendono la vita facile ai virus?

Diciamo che ogni volta che distruggiamo una foresta estirpandone gli abitanti, i germi del posto svolazzano in giro come polvere che si alza dalle macerie. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali, offrendoci a nostra volta come ospiti alternativi. Il virus così vince la lotteria! Ha una popolazione di quasi 8 miliardi di individui attraverso cui diffondersi.

È possibile che Sars-Cov-2 abbia trovato in Lombardia, così come a Wuhan, un ambiente simile e particolarmente ospitale?

L’ospite serbatoio di questo virus è il corpo umano. L’inquinamento dell’aria può essere stata una variabile. Per i danni che provoca ai polmoni e alle vie respiratorie ha reso le persone più vulnerabili al virus.

Alla fine il virus, come l’uomo, cerca solo di sopravvivere più a lungo…

Le persone e i gorilla, i cavalli e i maiali, le scimmie e gli scimpanzé, i pipistrelli e i virus: siamo tutti sulla stessa barca. È la cara vecchia evidenza darwiniana. Siamo legati indissolubilmente gli uni agli altri. Nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia. Sembra ovvio, ma non lo è.

Fake news e proliferazione ossessiva delle notizie sono un’altra epidemia…

Dimentica le teorie cospirazioniste! Io le chiamo lo “zucchero del web”. Alcuni più ne leggono più ne vorrebbero leggere. È come una droga. Noi dobbiamo resistere all’ossessione di sapere l’ultimo dato, l’ultima notizia. È giusto prestare attenzione al virus, ma abbiamo bisogno anche di altre storie.

Cosa possiamo imparare da questa pandemia?

Quando finiremo di preoccuparci per questa, dovremo già preoccuparci della prossima.

Sconfiggeremo Sars- Cov-2?

Non credo ce ne libereremo. Questa epidemia è talmente diffusa che potrebbe non scomparire. Ma possiamo metterla sotto controllo, anche grazie a vaccini e terapie.

Cosa dobbiamo aspettarci?

Ci attendono molti spillover di virus pericolosi che si trasformeranno, se non migliorerà la nostra preparazione nell’affrontarli, in pandemie. Anche peggiori di questa.

Chiusa per Covid: sospesa la trasparenza della Pa

Il paradosso è gustoso: mentre l’Italia in emergenza si chiede se sia giusto o meno cedere parte della privacy in nome della tutela della salute, la Pubblica amministrazione chiude i cancelli alla trasparenza per i cittadini. Lo prevede un articolo del decreto Cura Italia: le risposte a richieste di accesso civico e civico generalizzato (il cosiddetto Foia, Freedom of infomation act, ndr) che non abbiano carattere di “indifferibilità e urgenza” sono sospese fino al 31 maggio. Se fino a qualche tempo fa ogni cittadino poteva quindi chiedere di consultare gli atti della pubblica amministrazione e aveva diritto a riceverli o a ricevere un rifiuto motivato (da poter impugnare) entro 30 giorni, a causa dell’emergenza questo diritto è stato sospeso. La spiegazione dalla Pa e dai suoi tecnici è che la scelta sia in linea con l’interruzione di tutte le pratiche della Pa perché la riduzione dei ranghi dei dipendenti e lo smart working rendono difficile fornire il servizio – soprattutto in assenza di un’adeguata digitalizzazione – o farlo nei tempi stabiliti dalla legge. Di fatto, però, la trasparenza nei confronti dei cittadini non viene considerata un servizio essenziale.

Per spiegare quali siano i diritti in gioco, si può fare l’esempio dei giornalisti. Per verificare una notizia, un giornalista può aver bisogno di confrontare e analizzare documenti della Pa che non vengono pubblicati autonomamente. Possono chiederne conto agli addetti stampa e ai portavoce, ma non sempre riescono ad ottenere quanto chiesto da chi ha il compito di gestire l’immagine dell’ente. In questo caso, resta l’opportunità di appellarsi a un diritto previsto per legge e dopo molte battaglie – il Foia – che, però, proprio quando in nome dell’emergenza saltano molte tutele normative e c’è una corsa allo sciacallaggio, viene sospeso. Il dibattito (e la decisione) non è solo italiano, ma si sta aprendo in tutto il mondo. Ieri, la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, ha lanciato un appello contro le leggi “adottate in alcuni Stati tra cui Ungheria e Russia, dove i giornalisti rischiano fino a 5 anni di prigione per la diffusione ‘di false informazioni’”. Ma ha anche sottolineato la necessità di “garantire che le misure per combattere la disinformazione siano necessarie, proporzionate e sottoposte a controlli regolari da parte dei parlamenti e degli organi nazionali per la difesa dei diritti umani”. La trasparenza, insomma, deve essere garantita, ora ancora di più.

Tutto mentre Facebook annuncia un progetto pilota insieme all’Agcom, contro la disinformazione sul Coronavirus che viaggia via Whatsapp: si chiamerà Facta e farà capo alla squadra di analisti di bufale con cui Facebook già lavora da due anni. Gli utenti potranno inviare a Facta, sempre tramite Whatsapp, i messaggi che gli arrivano “in modo che il fact-checker possa verificarne l’accuratezza” si legge in una nota. Poi Facta pubblicherà sul suo sito i risultati, creando così “un database di fatti e miti sul Covid-19”. Ma viene il dubbio: e se Facta non potesse accedere ad atti necessari e verificare le notizie che le arrivano? Sul Foia non potrà contare.

Mail Box

 

Le tante (ir)responsabilità delle nostre istituzioni

Bisogna ricordare che questa pandemia era annunciata da anni, che tutte le istituzioni non hanno provveduto a dare seguito e creare le condizioni ottimali a combattere il nemico il giorno del suo arrivo; ricordare che queste istituzioni, per recuperare un po’ di dignità, avrebbero dovuto chiedere perdono ai morti, alle loro famiglie, a tutta la Nazione e provare vergogna nel seguire la logica del “dio denaro”, facendo arricchire la Sanità privata a scapito di un’efficiente e razionale sistema sanitario su tutto il territorio nazionale. Ricordare che, in un Paese dove regna impunita la corruzione e il malaffare, dobbiamo celebrare come “eroi” chi fa onestamente il proprio lavoro, mentre alcuni “professionisti dell’informazione” oscurano le vere responsabilità. Sono certo che voi del “mio giornale” continuerete a ricordarlo, oggi e per sempre!

Enrico De Matteo

 

Il Reddito di emergenza utile per far venire a galla il ‘nero’

Mi rendo conto della necessità di adottare misure urgenti che vanno incontro alle famiglie che con il blocco delle attività hanno perso ogni reddito, ma non accetto di pagare chi domani riprenderà, come se nulla fosse accaduto, quelle attività che realizzava con la violenza o in nero (per cui l’Italia è particolarmente famosa). Il Reddito di emergenza è urgente, ma lo è anche l’azzeramento o la riduzione drastica del tetto della circolazione del contante e delle commissioni bancarie, costringendo così tutti a usare la carta di credito: misura prioritaria per stroncare l’economia della grande e piccola criminalità, insieme a quella in grigio o nero che si voglia. Inoltre, misura mai più opportuna in tempo di contenimento del contagio da virus.

Francesco Falanga

 

Ho pagato 9 euro per un litro di alcool: neanche in guerra

Abito a Reggio Emilia e vorrei raccontarvi la mia piccola disavventura. Ero in farmacia per ritirare una delle diverse medicine che mia moglie deve assumere, quando ho appreso dal cliente di fianco a me che erano disponibili le mascherine sia chirurgiche che di altro tipo. Quindi decido di acquistarle e chiedo se per caso fosse arrivato anche l’alcool denaturato. Dopo tre settimane di assoluta mancanza sia nelle farmacie che nei supermercati a sorpresa ottengo risposta positiva. Non altrettanto successo ho ottenuto richiedendo l’Amuchina: “Non ci allarghiamo troppo”, ha scherzato il farmacista. Ma la sorpresa incredibile è arrivata quando ho avuto il conto: prezzo pagato per un litro di alcool 9 euro. Non so dove si è annidato il macro guadagno lungo la catena produttiva e distributiva che certamente non sta soffrendo la crisi economica dovuta al Covid-19 ma è da delirio. Ho letto tanto sulla tessera annonaria e sul mercato nero durante il periodo dei grandi fasti – no, erano fasci –,ma ero certo non che non avrei avuto più il tempo di viverli in prima persona. Anche così si esprime la solidarietà di un popolo che si racconta stia combattendo per continuare a esistere.

Gino Cabassi

 

Esame di Stato: va fatto, lo impone la Costituzione

Il 5° comma dell’articolo 33 della nostra Costituzione recita testualmente: “È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”. Parole chiare e limpide che anche in presenza di eventi di particolare gravità non possono essere cancellate. Per farlo occorre una riforma costituzionale da attuarsi con il previsto procedimento aggravato. Tutto il dibattito di oggi sulla possibilità di non tenere la annuale sessione di esami si scontra con la nostra Carta. Certo con provvedimenti di legge urgenti e necessari si possono variare le modalità di svolgimento, ma mai eliminarlo.

Oreste Ferri

 

DIRITTO DI REPLICA

Da sempre sicurezza e salute di tutti sono di primaria importanza per noi e abbiamo introdotto da subito precauzioni a tutela di clienti, ristoranti e rider. Il modo in cui è stata riportata la notizia fa intendere che Just Eat sia stata condannata con sentenza a conformarsi a quanto disposto dal Tribunale. Al contrario, è stato emanato un decreto cautelare “inaudita altera parte”, senza di contraddittorio e quindi senza aver ascoltato le ragioni di Just Eat. Un provvedimento di natura provvisorio e potrà essere oggetto di conferma, modifica o revoca successivamente, dopo aver ascoltato le nostre ragioni. Anche il provvedimento di conferma, modifica o revoca del decreto cautelare sarà provvisorio e potrà essere impugnato, salva in ogni caso la decisione che il Tribunale assumerà. Precisiamo la totale correttezza del nostro operato. In linea con il nostro approccio responsabile, a prescindere dalla normativa legale e contrattuale, ci siamo attivati da subito per acquistare e distribuire mascherine e guanti monouso, che sono in continua consegna ai rider. Stiamo lavorando per mettere a disposizione gel e prodotti disinfettanti e abbiamo previsto un supporto economico per i rider in caso di COVID-19, oltre a misure per la sicurezza delle consegne. Continueremo a fare tutto il possibile per garantire un servizio utile e sicuro per tutti.

Ufficio stampa Just Eat

 

Grazie per l’intervento, ma non abbiamo usato il termine “sentenza”, parlando di provvedimento d’urgenza emanato a poche ore dall’arrivo del ricorso. A parte la forma, è inequivocabile che il Tribunale, citando le tutele del lavoro dipendente, abbia ordinato a Just Eat di fornire dispositivi di protezione al rider.

Rob. Rot.