Recalcati, il maniglione antipanico di mamma Rai

L’Italia sull’orlo di una crisi di nervi? Qui ci vuole Recalcati. La visione di Massimo Recalcati immerso nell’oscurità è un maniglione antipanico in forma di lectio magistralis. Un’intemerata recalcatiana è più di una mascherina, è una mascherona piazzata sull’angoscia collettiva, mica sul viso di Attilio Fontana. Senza contare che le mascherine non si trovano, mentre per vedere Recalcati basta sintonizzarsi su Rai3. Dopo il Lessico famigliare e il Lessico amoroso, ecco il Lessico civile, registrato prima del coronavirus con ammirevole preveggenza. Come tutti i terapeuti molto telegenici, Recalcati ha una risposta per ogni quesito della psiche. A volte sembra acqua calda, ma è solo tiepida. Primo lemma, il confine, giacché “la psicanalisi può essere vista come una grande scienza dei confini”. C’è confine e confine, però, e guai a non vedere il confine che separa un confine dall’altro. Bisogna respingere “la sicurezza come oggetto libidico” e privilegiare “i confini porosi”, come quello tra Recalcati e l’uditorio femminile, che se lo mangia con gli occhi. Ineccepibile visione basaglian-chic, ottima per la prima pagina di Repubblica o per un collegamento a Piazzapulita. Un po’ meno attuale in tempi di quarantena, quando i confini porosi rischiano di fare felice il coronavirus. Ciò non toglie che da Recalcati ci sia sempre qualcosa da imparare, e soprattutto da ascoltare, per esempio come si pronuncia Lacan. Impossibile da rendere per iscritto: bisogna andare su Raiplay.

Il leghista tutto pane, cane e multa

“Ero a passeggio con il cane”. E? “Stavo andando a comprare il pane”. E? “No, non sono tornato a casa”. E? “Mi avevano segnalato la presenza di numerose persone a correre e allora sono andato a controllare. Sono consigliere comunale, io”. La spiegazione però non deve aver convinto i vigili urbani di Genova, che domenica mattina hanno fermato e multato Federico Bertorello, che per il Carroccio ha anche la delega agli Affari Legali. Delega che forse non deve averlo consigliato troppo bene nell’osservazione delle prescrizioni per il contrasto alla diffusione del Coronavirus.

“Controllavo che non ci fossero runners” ha provato a dire Bertorello, che – come tanti altri – è stato sanzionato con 280 euro di multa per il mancato rispetto del decreto ministeriale per contrastare il Covid-19 mentre camminava in Corso Italia. “Ho detto ai vigili che ero un consigliere e che tra i miei compiti rientra anche quello di verificare una segnalazione. Pagherò la multa, ma non ero lì a correre o a passeggiare. Abito in zona e in quanto consigliere se mi arrivano segnalazioni da parte di cittadini mi sembra che rientri nel mio ruolo verificare. Pagherò, ma poi farò i miei passi”. Proprio quelli che lo hanno inguaiato.

Giustiniano e i “falchi” del virus

“Per il momento, a Bisanzio, non era facile veder girare qualcuno per le strade, perché tutti coloro che avevano la fortuna di essere in salute rimanevano chiusi in casa, o a curare i malati o a piangere i morti… Ogni attività era ferma, tutti gli artigiani avevano abbandonato la loro arte, e così accadeva di ogni altra specie di lavoro che ciascuno avesse per le mani.

Di conseguenza, in quella città che era stata veramente sovrabbondante di ogni genere di beni, si era diffusa una spaventosa carestia”.

Tra i racconti di lockdown a tema epidemico spicca la fase iniziale e acuta (542-543 d.C.) della “peste di Giustiniano”, descritta dallo storico Procopio di Cesarea (Guerre 2, 23) con sinistra precisione sulle cifre dei caduti (cinquemila al giorno di media nella sola Costantinopoli, con picchi di diecimila), forse esagerate ma così terribili da essere citate con apotropaico sgomento all’inizio della Peste di Camus (l’equivalente – ragiona il protagonista Rieux – del pubblico di cinque cinema pieni). Procopio interpretava la pandemia come frutto della collera divina, e non sapeva ancora che essa, infuriando in varie ondate per altri due secoli, era destinata a mutare irreversibilmente i destini dell’Occidente, sul piano demografico e politico.

Due i problemi eterni posti dal morbo: gestire i contagiati e affrontare la carestia; problemi, nella sostanza, di solidarietà. Se oggi chiamiamo gli ospedali “nosocomi” lo dobbiamo a un termine del greco tardo (nosokomèin, “prestare soccorso ai malati”) che fa capolino in un’altra pestilenza, quella cosiddetta “di Cipriano” iniziata nel 249 d.C. In uno struggente racconto, lo storico Eusebio di Cesarea (Storia ecclesiastica 7, 22) narra come il morbo fu affrontato dalla comunità cristiana di Alessandria d’Egitto: “La gran parte dei nostri fratelli, per eccesso di carità e amore fraterno, non si risparmiarono e si tennero vicini gli uni agli altri, visitando i malati senza precauzioni, accudendoli senza posa, curandoli in Cristo, e andandosene insieme a loro in piena letizia… Molti, dopo aver assistito [appunto, nosokomèsantes] e guarito altri, decedevano essi stessi, trasferendo su di sé la morte di quelli… [ai morti] chiudevano gli occhi e la bocca, li trasportavano a spalla e li seppellivano, unendosi e abbracciandosi a loro, lavandoli e vestendoli, e finendo poco dopo per ottenere uguale sorte”.

Questa narrazione ci interroga ancora oggi, quando non ci diamo pace dei malati che arrivano nudi e senza affetti all’ora del trapasso, quando sappiamo che non avranno funerali, soprattutto quando apprendiamo con sgomento e rabbia delle dozzine di medici contagiati (talora con conseguenze fatali) in corsia, negli studi, negli ambulatori. Eusebio, anche nelle sue scelte stilistiche, sbandiera il martirio (lo chiama proprio così) dei caregivers cristiani come modello trionfale e alternativo rispetto a quello delle pestilenze pagane (da Atene a Cartagine a Roma), in cui – secondo gli storici antichi da Tucidide a Dionigi di Alicarnasso – ognuno pensava per sé, i malati venivano abbandonati a se stessi, i morti lasciati per strada o lanciati sulle pire o scaraventati nei burroni. Ma noi oggi, eredi consapevoli di un ideale di carità che è innegabilmente anche cristiano, siamo capaci di seguire quei valori di abnegazione e assistenza che Eusebio esalta come superiori, e nel contempo – se per le sepolture e l’ultimo addio non c’è rimedio – di sventare almeno un tristo destino di sacrificio per gli “angeli” di Bergamo, di Parma, di Torino? Chi ha amici o conoscenti tra medici e infermieri (o chi ha letto la terribile lettera dei medici bergamaschi al New England Journal of Medicine del 25 marzo) sa bene che in troppi casi – e non da ora – la risposta è negativa. Sventurato il Paese che ha bisogno di martiri. La carestia di cui parlava Procopio fu – nel breve termine – una mazzata per i piani bellici e politici dell’imperatore Giustiniano, il quale nonostante la desolazione “non usò alcun riguardo ai proprietari in rovina: il tributo annuo non smetteva d’esigerlo, non già nella misura imposta a ciascuno, ma con in più la parte dei vicini morti” (Storia segreta 23, 20). Assistiamo oggi, guardando a quel più vasto impero democratico chiamato Unione europea, a iniezioni di liquidità, sospensione del Patto di stabilità e consimili misure volte a tamponare l’emergenza. Tuttavia, come si è visto in questi giorni, le vere decisioni di lungo periodo circa la garanzia dell’enorme debito che la crisi sta provocando e provocherà non spettano a istituzioni comunitarie, ma primariamente al coordinamento dei ministri dell’Economia noto come Eurogruppo. Per singolare coincidenza, proprio la settimana scorsa il sito “euroleaks” del movimento Mera25 dell’ex ministro greco Yanis Varoufakis ha messo online gli audio delle riunioni “confidenziali” dell’Eurogruppo dell’estate 2015, l’epoca in cui il nuovo governo di Atene trattò con le istituzioni europee una parziale cancellazione del proprio insostenibile (e di fatto inesigibile) debito in vista di un rilancio del Paese secondo un percorso di rigore e cauta espansione.

Nei giorni dell’attuale reclusione, si tratta di un ascolto istruttivo: a fronte delle circostanziate proposte di Varoufakis (che non contemplano mai l’uscita dall’euro, e raccomandano anzi uno slancio di fiducia verso un nuovo spirito di condivisione continentale senza il giogo di misure depressive), si possono soppesare il tono sprezzante del tedesco Schäuble, la fredda direzione dell’olandese Dijsselbloem (quello per cui i popoli del Sud spendono a vino e donne), le minacce vagamente ricattatorie del ministro finlandese (che elenca come un automa le dieci conseguenze del rifiuto greco di firmare un accordo-capestro), le querimonie dei ministri di Slovenia, Austria e Paesi baltici che protestano di non poter portare ai loro Parlamenti alcun provvedimento che non contempli un poderoso memorandum contro la Grecia; e poi, gli imbarazzati richiami a più miti consigli (specie dinanzi all’“azzardo” democratico del referendum indetto da Tsipras nel luglio 2015) da parte di Padoan (Italia) e Sapin (Francia), e dulcis in fundo, i due protagonisti che sono ancora lì: Mario Draghi che protesta per le fughe di notizie e si nasconde dietro ai tecnicismi, e Christine Lagarde (allora capo del Fmi) che si sincera dell’aumento dell’Iva e dei ricavi dalle privatizzazioni – ma è pronta anche, tra le righe, a ironizzare sulla reale buona volontà della controparte.

Cinque anni dopo, sappiamo che le scelte di quell’Eurogruppo hanno approfondito in Grecia una già gravissima sofferenza economica e sociale (in solido: ospedali chiusi, stipendi crollati, assets pubblici svenduti ai privati spesso stranieri), e – se hanno rincuorato i popoli del Nord allergici all’inaffidabilità dei Mediterranei e perfino i Mediterranei timorosi del (suona oggi grottesco) “contagio greco” – hanno rappresentato un errore sul piano economico e un colpo durissimo alla credibilità del progetto di un’Europa come “casa comune”: lo attestano, a tacer d’altro, le lacrime di coccodrillo versate negli ultimi mesi dal Financial Times, da un contrito Juncker e perfino dallo stesso ineffabile Dijsselbloem. In confronto al virus, quelle della Grecia erano briciole: se lo stesso copione si ripeterà anche oggi (le premesse ci sono tutte, per quanto stavolta possa non essere una gang-bang di tutti contro uno), si confermerà l’analogia di questa Unione con l’inflessibile Giustiniano di Procopio, che anche a fronte della peste più devastante del millennio tirò dritto e non rispettò l’antica consuetudine “che chiunque detenesse l’Impero romano abbonasse non solo una volta, ma spesso, a tutti i sudditi i residui dei loro debiti verso lo Stato, perché chi era povero e non aveva di che pagare quegli arretrati non si sentisse sempre con l’acqua alla gola” (Storia segreta 23, 1).

Immunità. “Sono efficaci i test del sangue?” “Non molto, ma lavoriamo a un vaccino”

 

Caro “Fatto Quotidiano”, leggo sempre con interesse i vostri approfondimenti sul Coronavirus, in particolare quelli della dottoressa Gismondo. Avrei una domanda per lei, che è sempre molto chiara nelle spiegazioni, anche per chi, come me, non sa nulla di virologia. Dalle sue recenti dichiarazioni mi pare di aver capito che i test del sangue siano di dubbia utilità per sapere se si è immuni o meno alla malattia. Pare che l’immunità dopo aver contratto il virus non duri più di un mese. Sia perché non si sa se effettivamente si diventa resistenti e sia perché il Coronavirus, come tutti i virus, cambia continuamente. Se questo è vero, come è possibile sia imminente l’immissione sul mercato del vaccino? Se l’aver contratto la malattia non assicura l’immunità, come può, invece, assicurarla il vaccino? Il vaccino innesca più immunità della malattia stessa?

Elena Maria Scopelliti

 

Gentile signora, sono lieta di apprendere che i miei articoli risultino chiari e suscitino interesse. La sua domanda, anche se lei non è una virologa, è molto pertinente. Il test di cui fa menzione è la ricerca di anticorpi. Al momento, non abbiamo elementi sufficienti, benché sul mercato ce ne siano circa 200, per essere sicuri della loro efficienza. Detto questo, per quanto riguarda la loro esecuzione, per conoscere se una persona è immune (ha superato l’infezione o la malattia) il test ha una validità abbastanza modesta. Non sappiamo come si comporti questo virus nei confronti del nostro sistema immune e per quanto tempo gli anticorpi, mi riferisco alle Igg, saranno rilevabili nel sangue. La sua comprensibile riflessione rispetto alla produzione di un vaccino sarebbe perfetta se fossimo ancora ai tempi di Pasteur e Koch. Oggi i vaccini sono ingegnerizzati e capaci di essere prodotti ad hoc: poco hanno di anticorpo naturale. Le metodiche utilizzabili sono diverse, ma tutte poi da verificare nell’uomo. Per questo motivo nutriamo la speranza che si riesca ad averlo, ma non dobbiamo illuderci che ciò avvenga domani. Non escludiamo che, malgrado l’avanzata tecnologia, ci sono infezioni che ancora non sono prevedibili con un vaccino. Speriamo non accada per Sars-Cov2.

Prof. Maria Rita Gismondo

Effetti collaterali dell’incontinenza mediatica online

 

“…la verità è una nozione pericolosa, nessuno ne ha bisogno per vivere. La verità avvelena l’esistenza”

(da “Il cielo in gabbia” di Christine Leunens – Sem, 2019 – pag. 170)

 

Tra gli effetti collaterali dell’epidemia di coronavirus – economici, sociali e anche psicologici – colpisce l’incontinenza mediatica stimolata a livello collettivo dall’emergenza sanitaria e alimentata in Internet dai social network. È noto che la Rete, interattiva per sua natura, suscita la bulimia comunicativa: tutti sappiamo tutto, tutti parliamo di tutto. Ma questa volta sembra quasi una reazione istintiva di sopravvivenza, una produzione intellettuale di anticorpi o magari un esorcismo contro il contagio. Negli ultimi giorni, ne abbiamo avuto tre esempi assai rappresentativi: l’ipotesi di un nuovo governo guidato da Mario Draghi; la proposta dei tamponi a tappeto contro l’epidemia di coronavirus; gli eurobond chiesti dall’Italia, e da altri Paesi europei, contro la minaccia della recessione. Un’eruzione vulcanica di tesi e controtesi, con un fall out di parole in libertà. A questo punto, forse non guasterebbe un po’ di austerità verbale, anche per risparmiare la Rete che – al pari dell’acqua – non va assolutamente sprecata.

Draghi sì o Draghi no? S’è scatenato sul web un diluvio di pareri e di opinioni, quasi che il responso dovesse essere affidato a un referendum online. Ma, a parte la legittima e rispettabile ritrosia del personaggio, come si fa a ipotizzare un cambio di governo (e quindi di maggioranza parlamentare) in piena emergenza sanitaria? Un “governissimo”, semmai, si può immaginare per il dopo, come prospettiva per la ripresa e per la ricostruzione nazionale. E comunque, in questa drammatica temperie, è del tutto prematuro e inopportuno parlarne per non destabilizzare ulteriormente la situazione.

Tamponi sì o tamponi no? Anche qui, piuttosto che rimettersi alle valutazioni degli scienziati, è venuta giù un’alluvione mediatica di notizie e fake news; di verità, semiverità e menzogne. Quasi che i tamponi si potessero fare contemporaneamente a 60 milioni di italiani, mentre si sa che non sono disponibili per tutti e che – in ogni caso – l’esito di un tampone prelevato oggi non resta valido domani, dopodomani e neppure una settimana.

Eurobond sì o eurobond no? Qui il nazionalismo italico s’è combinato, in una miscela esplosiva, con una diffusa isteria collettiva. Un conto è invocare giustamente la solidarietà europea e rivendicare il sostegno dei nostri partners; un altro conto è dichiarare guerra alla Germania per “fare il kulo alla kulona Merkel e ai Crucchi”, come s’è scritto su alcune “chat” di gruppo.

Ma il peggio è che, in questa sarabanda virtuale, s’è verificata un’esplosione pirotecnica di foto, fotomontaggi, video, audio, canzoni e canzonette. Va bene dare sfogo alla propria creatività, tanto più quando si tratta di ingannare il tempo durante l’isolamento domiciliare. Ma la Rete è stata sovraccaricata di messaggi e messaggini sull’intera costellazione dei social media, compromettendo così il traffico con la Pubblica amministrazione, le banche, le Poste, gli studi medici e quelli professionali, per non parlare del caos che ha mandato in tilt il sito dell’Inps.

Non sprecare la Rete, nell’attesa che tutto il Paese venga dotato della banda ultra larga, non è soltanto una questione tecnica né economica. È una regola di convivenza civile. Soprattutto al tempo del coronavirus, quando si deve utilizzare questa straordinaria risorsa della comunicazione moderna per esigenze essenziali o addirittura vitali. E magari per scongiurare la profezia biblica della Torre di Babele.

Tv, TG e fiction: il Vaticano regna ma si nasconde

I dati che la Fondazione Critica liberale raccoglie ogni anno sulla presenza delle confessioni religiose nei telegiornali, nelle trasmissioni di approfondimento, nelle fiction o nei film stanno rivelando che è in corso una mezza rivoluzione. Sia in Rai sia nelle televisioni private. Precedentemente i risultati dimostravano con chiarezza il servilismo a favore della Chiesa cattolica, nonché le gravi violazioni della libertà religiosa. Le cifre raccolte hanno confermato la straripante egemonia del Vaticano sulla televisione. Però gli ultimi anni è comparsa una apparente contraddizione. Evidentemente in tempi meno burrascosi il lavoro in televisione doveva essere più semplice: bastava inondare le trasmissioni e lavorare molto sulla quantità. Da un paio di anni il meccanismo si è dovuto raffinare. La quantità non basta più, anzi può rivelarsi controproducente, perché la gerarchia romana è stata travolta da scandali d’ogni tipo. Allora è meglio censurarsi.

Ci troviamo di fronte a una guerra aperta tra due fazioni, quella conservatrice che vinse con Ratzinger e quella più “moderna”, più gesuitica. Quando fu evidente che la Chiesa di Benedetto XVI era incapace di affrontare la crisi proveniente dal massiccio avanzamento della secolarizzazione soprattutto nei Paesi europei e andava al massacro, si cercò, con Francesco, di mutare radicalmente linea.

Noi rimaniamo convinti che Francesco ha potuto mascherare la faccia profonda del cattolicesimo con eclatanti mosse sul piano pragmatico dell’azione pastorale, ma sta fallendo sui quattro punti che porterebbero la Chiesa romana al passo coi tempi. Il nuovo papa a capo dell’ultimo Stato assoluto non è riuscito a dargli una governance mondiale meno accentratrice. E sembra averci rinunciato. Ugualmente ha potuto fare poco per la riforma della curia romana. Nel frattempo la destra della gerarchia ecclesiastica è sempre più aggressiva e gioca a viso aperto contro il Papa. In questa fase delicata anche le tv hanno dovuto riposizionarsi. Avevamo già fatto notare che 2-3 anni fa le tv erano giunte a un punto di esagerazione. D’altronde la Chiesa romana non si preoccupa di salvare almeno la faccia. Ricordiamo che la libertà religiosa non esiste là dove non c’è uguaglianza di trattamento tra tutte le confessioni religiose. Ma questo principio è estraneo al cattolicesimo.

Fino al penultimo nostro Rapporto aveva sempre prevalso il dato quantitativo; invece già nel penultimo rapporto si rintracciavano novità: le trasmissioni chiamiamole di propaganda avevano gli stessi dati altissimi dell’anno precedente, i telegiornali rimanevano stabili, anche perché già avevano percentuali altissime. Mentre nelle trasmissioni di approfondimento, dove si dovrebbero dare le notizie e discuterle, c’era stato un brusco arresto o un calo sensibile. Constatavamo che il servilismo e il conformismo si dimostrano anche censurando, non solo facendo propaganda. Nello stesso tempo le confessioni minori continuavano a essere penalizzate. Soprattutto evangelici i musulmani.

Nel nostro ultimo rapporto si può registrare un forte consolidamento della diversificazione tra generi: da una parte, una forte propaganda stabile; dall’altra, una grande diminuzione della discussione su fatti religiosi.

Mentre, prima, il monopolio cattolico televisivo era dimostrato coi dati, oggi siamo arrivati all’ostentazione, all’esibizione anche teorica dell’abbattimento del pluralismo confessionale. Il nuovo presidente della Rai, Marcello Foa, eletto con i voti di Salvini, Di Maio e Berlusconi, al Festival della Tv a Dogliani il 5 maggio 2019 si è lasciato andare a una vera provocazione: “Bisogna incrementare la presenza di giornalisti opinionisti cattolici in Rai”. Queste sue dichiarazioni hanno ricevuto solo sberleffi e il peggiore presidente della Rai di tutti i tempi si è preso anche l’accusa di non conoscere neppure le sue competenze, giacché si stava occupando di materie che non gli sono affidate. Aveva solo dimostrato di non sapere che le assunzioni spettano all’amministratore delegato e di non conoscere nemmeno il contratto di servizio, né la Costituzione italiana che prevede l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (e quindi nei concorsi pubblici), “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Andiamo più nel dettaglio. Più clamorosi sono quelli dei programmi di approfondimento: Porta a Porta, in quanto a presenze di soggetti confessionali, è passato da 52 del 2015 a 15 (di cui 14 cattolici e un musulmano) del 2018, Uno mattina dai 178 del 2016 ad 80; Agorà da 169 a 58, Omnibus da 44 a 4, Otto e mezzo da 8 a 1, Di martedì da 20 a 12. Nel totale di 234, 208 sono cattolici. Se manca informazione, non si lesina nella propaganda: negli ultimi 8 anni si è passati da 57 a 616 fiction. Nei telegiornali continua il monopolio quasi assoluto. Nei tempi di notizia dei soggetti confessionali il Tg1 affida ai cattolici “solo” la percentuale del 98,80 (ai musulmani lo 0,38, agli evangelici lo 0,58), e fa una figuraccia di fronte al berlusconiano Tg4 col suo 99,49 dei cattolici. Due parole su Francesco: non gli va tanto bene: nel Tg1 dell’annata 2014-15 gli dettero voce per il 7,1%, nell’ultimo rapporto è calato fino al 3,8%.

*Ricerca apparsa su “Critica liberale”

La sanità, Formigoni e i ladri di galline

L’imperturbabile assessore lombardo alla Sanità, Giulio Gallera, assicura la sera che tutto va bene. Contemporaneamente muoiono medici e infermieri, anziani e meno anziani, e il presidente Attilio Fontana chiede aiuto gridando di “essere stato lasciato solo”. L’impoverimento e il concomitante ipersfruttamento privatistico di patrimoni tipicamente collettivi come quello delle reti sanitarie nasce in Lombardia dal potere esercitato per più legislature dal prima dc e poi berlusconiano Roberto Formigoni detto “il Celeste”, acriticamente ammirato e portato ad esempio anche fuori dal bel ciel di Lombardia.

Ricordate nel film di Nanni Moretti la nave della Lega che discende un Po ormai maestoso verso la foce? Un’idea di forza e di potenza impressionante. Dietro la quale, per fortuna, c’era ben poco se qualche ora più tardi bastò una signora veneziana a sbertucciare l’Umberto sventolando il tricolore da una finestra sulle Rive e lui non trovò di meglio che dirle di cacciarlo nel cesso.

Dietro a quel Bossi c’era in Lombardia, non più come dc ma come berlusconiano, el Virginùn, il vero potente di Comunione e Liberazione, il Roberto Formigoni, il Celeste, sempre casto e però come pochi vocato a feste, crociere, lussi, ad apericene con improbabili giacche rosa o arancio, e agli affari sostanziosi. Celeste, un soprannome datogli da amici brianzoli, intanto azzurro come i Berluscones e poi un po’ orientaleggiante no? Lui è stato il vero “inventore” della privatizzazione della sanità pubblica lombarda già ottima in realtà prima delle Regioni. “Che differenza c’è”, chiede ancora Matteo Salvini protervo dal video, “se i meridionali vengono a curarsi in Lombardia e vanno chi negli ospedali e chi nelle cliniche private?” Non conosce, o finge di non conoscere, la differenza fra politica sociale e mercato? Fra gratuità e profitto?

“Il sistema sanitario lombardo è al collasso. Ci hanno lasciati soli”, continua a ripetere pateticamente il presidente (lasciamo perdere i “governatori”) della Lombardia, Attilio Fontana, varesotto. L’ospedale civile della sua città – sul quale feci una inchiesta prima della regionalizzazione – era uno splendido ospedale. Come quello della vicina Lecco. Nulla avevano da invidiare per la parte generale ai Policlinici Universitari. Sanità al collasso per tante ragioni. Ma anche perché ha dato troppo spazio ai privati ovunque c’era del “burro” da portare a casa. Formigoni è stato già condannato per corruzione (dalla Cassazione) a 5 anni e 10 mesi, ma è stato domiciliato in convento dove possa pregare ed espiare. Anche se gli pende sul capo un altro processo: ha davvero dirottato 200 milioni a strutture private? Un ladro di galline sarebbe in galera. Viva l’Italia garantista.

Le case per anziani convenzionate con la Regione ieri erano pascoli grassi. Oggi – non isolate per tempo come fortini – forniscono bollettini funebri agghiaccianti e ai loro operatori mancano persino le mascherine. Alla faccia dell’efficienza della sanità lombarda e di tante altre efficienze così ostentatamente vantate. Non volevano forse un altro bel po’ di autonomia per distinguersi meglio nel “buongoverno”?

C’è da rabbrividire.

Chiarezza sulle date, non serve un mago

L’inevitabile sgomento provocato dal capo della Protezione civile Angelo Borrelli con quel “16 maggio” (poi corretto) che estendeva di un altro mese quel “14 aprile” indicato da Giuseppe Conte, appena sabato scorso, come possibile inizio della cosiddetta fase 2 della quarantena, ripropone il tema della comunicazione di governo. Che non può apparire confusa, o peggio ancora, contraddittoria con un Paese in tensione dopo tanta clausura.

Avevamo almeno una certezza: che le decisioni su tutto ciò che non si può e si può fare sono di competenza del governo, sentito il comitato tecnico-scientifico. E che i conseguenti annunci spettano al presidente del Consiglio. Punto. Nessuno ritiene che il bravissimo Borrelli abbia inteso correggere in peggio le già cautissime previsioni del premier, ma ci si renda conto che sul terreno minato dell’attesa ogni frase fuori dal seminato può diventare il classico cerino acceso.

Esiste poi il problema dell’assenza di comunicazione, che riguarda chi è preposto all’attuazione delle misure di pronto intervento. A cominciare dal decreto Cura Italia, approvato oltre due settimane fa con interventi per 11,5 milioni di lavoratori. Ma che, scrive la stampa unanime, non avrebbe prodotto ancora un euro. Possibile che l’erogazione dei soldi sia già cominciata ma che l’accesso alla riscossione sia impedito da misteriose forze della natura? È accettabile leggere frasi come: ho diritto al beneficio, ma non riesco a ottenere la sospensione delle rate del mutuo? Oppure: ho fatto tutte le richieste di aiuti che potevo fare, a cominciare dalla decurtazione dell’affitto, ma non ho avuto ancora alcuna risposta?

Non si pretende la bacchetta magica, ma per comunicare almeno il motivo dei ritardi e le possibili date per ricevere quanto promesso non occorre Mago Merlino.

“Via Fox, musica e trucco: sono rimasto solo io”

C’è chi sostiene di aver visto Giancarlo Magalli, all’uscita della sua trasmissione, I Fatti Vostri, accanto ai vigili e durante i controlli: “Ma no, mi sono solo fermato per vedere come andava”.

E come va?

Più si va avanti e più e dura, ora c’è anche il sole; (cambia tono) sono anni che a Pasquetta piove, anzi diluvia e adesso è previsto bel tempo.

Molte persone escono…

E per trovare una giustificazione si sono inventati di tutto, tra un po’ vanno a scippare i bimbi negli orfanotrofi, o li strappano alle balie.

Gli anziani no…

Ieri in trasmissione c’era una signora di 102 anni, guarita.

A “I Fatti Vostri” niente pubblico…

Per fortuna resistono gli spettatori, ma la situazione non è allegra, sembra di vivere nel libro Dieci piccoli indiani (di Agatha Christie): un po’ alla volta sono andati via tutti.

L’hanno rimasta solo…

Prima Paolo Fox, poi l’orchestra e Morselli; a seguire trucco, parrucco e costumi.

E lei?

Ho tre giacche nel camerino; (ride) chi va in crisi sono le donne.

Che succede?

Non sono capaci di truccarsi da sole, sono improvvisamente invecchiate di vent’anni.

Mentre lei…

Al massimo mi devo tagliare i capelli.

In generale, è preoccupato?

Adesso dobbiamo affrontare le questioni grosse, ma con il successivo rimbalzo economico saranno altri guai.

Le chiedono prestiti?

Non hanno mai smesso, e in tanti! C’è Marco Baldini che ricorda sempre quanto sono stato carino a dargli 5.000 euro, ma non li ho mai rivisti.

Difficile…

Ha creditori peggiori di me.

Giudizio sul governo.

All’inizio sembrava incerto, poi è diventato un modello internazionale, e quelli che prima ridevano, ora stanno a casa con il virus.

Quindi…

Abbiamo dimostrato che tanto stupidi non siamo.

Un “però”.

Dovrebbero imparare a prendere uguali decisioni nello stesso momento.

L’opposizione?

In Italia è sempre quella che grida “avete sbagliato” o “non siete capaci”; mi piacerebbe avere un ruolo alla Casalino e suggerire.

Cosa?

Ammettere una volta che l’altro ha presentato una buona idea. Sarebbe da ovazione.

Le mancano gli applausi?

Insomma (un secondo di silenzio); mi mancano le reazioni, le risate, il brusio o il silenzio durante le interviste. Così mi sento in ghiacciaia.

I collegamenti?

La linea cade in continuazione, poi quando rallenta e parlano sembrano balbuzienti.

Dolore.

E spesso gli ospiti non sono abituati al fai-da-te: ieri un ricercatore è riuscito a far cadere per tre volte il cellulare.

La D’Urso ha pregato con Salvini. Lei?

Prego che cessino queste preghiere.

Malena ha denunciato al Fatto un crollo maschile nell’eros…

La vicinanza può risultare pericolosa, e poi c’è un vecchio detto sempre valido: l’uccello non vuole problemi.

Comunque, prosegue in tv.

È consolatoria, specialmente in questo momento, solo che un giorno mi dicono “sei troppo allegro, ci sono i morti”, e quello dopo “troppo triste, va tirato su il morale”.

Difficile.

In alcune situazioni non ci capisco niente; però vogliamo essere di conforto, offrire compagnia.

Cosa sta imparando?

È come avere il cancro e guarire: metti in ordine i valori, capisci quali sono le priorità.

Una fregatura inedita?

Prima potevi bluffare con il telefono: “Non ci sono!”; oggi no, niente bugie e ti beccano con le video-chiamate pure quando sei al bagno.

Precauzioni contro le “cazzate” e disegni per far sognare i figli

Visto che dobbiamo “stare a casa”, chi vuole condividere con gli altri la sua vita in quarantena può farlo sulle pagine del Fatto. Siamo una comunità e mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto, raccontateci cosa fate, quali libri, film e serie tv consigliate all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.

 

È assurdo lamentarsi per qualche sacrificio

Sono in smart working da lunedì 9 marzo. L’impatto con questa decisione per me non è stato così traumatico. Per chi, come me, fa un lavoro di ricerca, lavorare significa soprattutto pensare, studiare, conoscere, elaborare. È un lavoro concettuale, facile da gestire in ogni ambiente.

Il resto del tempo è dedicato alla cura della casa, alle letture, alla visione dei film, all’ascolto di musica, ai social e alle telefonate. Insomma, condizione di privilegio certamente. Ma il pensiero va a coloro che non sono nella stessa condizione: spazi più piccoli, figli, persone in stato di necessità, reddito precario. Ma soprattutto va a chi ha subito le conseguenze più gravi: i contagiati, le vittime, i loro parenti, i medici e il personale sanitario. Una delle cose che sopporto meno sono le lamentele di chi, pur in condizione di privilegio, non riesce a sopportare il piccolo sacrificio di rispettare poche semplici regole.

Anna Ancora

 

Come il Boccaccio, anche noi scriviamo 100 storie

Con i miei studenti della 3 B del Liceo Einstein di Milano abbiamo “cercato di fare qualcosa del nostro buio”. Abbiamo cercato di rendere la distanza, anche quella della didattica, più vicina, perché educare significa “tirare fuori” e in questo momento bisogna “tirare fuori” dai ragazzi paure, dubbi e tristezza, ma anche sogni e, tra tutti, quello che se ne possa uscire insieme e forse un po’ migliori.

Ispirati dal Decameron, abbiamo raccolto cento racconti su quattro temi: io, tu, noi, loro. Così è nato il Tessalogos. Abbiamo voluto che anche il nostro libro fosse cognominato Galeotto, un messaggero di speranza, dedicato a tutti coloro che credono che sentirsi noi, vicini o distanti, sia il modo più bello di essere umani.

Anna Del Viscovo

 

Una contromisura anche per le peggiori sparate

Voglio offrire il mio piccolo omaggio al cazzaro verde! (vedi foto)

Alessandro Colombera

 

Lezioni, cucina e giochi: in casa coi bimbi piccoli

Sono Alessia, una mamma a casa con i propri bimbi, Gabriele, 6 anni, e Anna, 4 anni. Dall’8 marzo non usciamo, rispettando i dettami del governo e del senso civico, tenendo conto di quanto lo staff sanitario sta facendo. Le giornate non si può dire che passino lentamente tra lezioni, compiti, giochi e manicaretti, ma ovviamente ci manca il sole e la quotidianità! L’altro giorno i due nanetti hanno costruito, coi vari giochi, un percorso a ostacoli e così hanno trascorso un’oretta facendo attività.

Oggi, invece, abbiamo pitturato: Anna ha disegnato la casa in montagna dove trascorriamo il periodo estivo, mentre Gabriele un campo da calcio con un arcobaleno dove vorrà presto tornare a giocare. Ho letto della vostra iniziativa e vorrei partecipare facendo sentire i miei bimbi un po’ come quei giovani al tempo di Boccaccio. (vedi foto).

Alessia