Abusi, l’ex prete Inzoli ai servizi sociali (a casa sua)

Mauro Inzoli, l’ex sacerdote cremasco, amico di Roberto Formigoni, condannato a quattro anni e sette mesi in via definitiva per abusi sessuali su minori, mercoledì scorso è uscito dal carcere di Bollate e sarà affidato ai servizi sociali del Comune di Milano dove è tornato a vivere nel suo appartamento. Sconterà il residuo della pena facendo volontariato da casa come segretario per un’associazione internazionale. Don Inzoli, 70 anni quest’anno, ex parroco della “Santissima Trinità” nel centro storico di Crema, leader carismatico di Comunione e Liberazione, fondatore e presidente del Banco Alimentare, animatore della Onlus “Fraternità” e rettore del liceo linguistico “Shakespeare”, il 20 maggio 2017 era stato ridotto da Papa Bergoglio allo stato laicale.

Il potente sacerdote condannato in primo grado a 4 anni e 9 mesi aveva ottenuto in appello la riduzione della pena di due mesi grazie alla prescrizione rispetto a due fatti contestati. Infine era stato definitivamente condannato in Cassazione alla pena di 4 anni 7 mesi e 10 giorni per otto episodi di violenza sessuale ai danni di cinque minori, consumati fra il 2004 e il 2008. Le sue vittime avevano un’età compresa fra i 12 e i 16 anni. L’uomo adescava i ragazzini proprio più vicini a lui e avrebbe commesso gli atti sia nel suo ufficio durante gli esercizi spirituali sia nei luoghi di villeggiatura dove Cielle portava i minori in estate: baci, carezze, abbracci, toccamenti nelle parti intime e masturbazioni.

“Negli anni – scriveva il gup Letizia Platè nelle venti pagine di motivazione della condanna di primo grado – don Inzoli ha approfittato con spregiudicatezza della propria posizione di forza e prestigio per ottenere soddisfazione sessuale, tradendo la fiducia in lui riposta dai giovani nei momenti di confidenza delle proprie problematiche personali e anche nel corso del sacramento della confessione, ammantando talora le proprie condotte di significato religioso, così confondendo ulteriormente i giovani”.

Mauro Inzoli aveva fatto parlare di sé anche in occasione di un convegno sulla famiglia tradizionale organizzato dalla Regione Lombardia nel 2015: l’ex prete accusato di pedofilia aveva ricevuto dal Vaticano una lettera nella quale v’era scritto che “in considerazione della gravità dei comportamenti e del conseguente scandalo, provocato da abusi su minori, don Inzoli è invitato a una vita di preghiera e di umile riservatezza, come segno di conversione e di penitenza. Gli è inoltre prescritto di sottostare ad alcune restrizioni, la cui inosservanza comporterà la dimissione dallo stato clericale”.

Obbligato dal Vaticano a ritirarsi a vita privata si era comunque presentato facendo bella mostra di sé seduto in seconda fila dietro l’allora presidente Roberto Maroni, Roberto Formigoni, il presidente del consiglio regionale Raffaele Cattaneo e l’assessore alla Cultura, Cristina Cappellini.

“Queste scarcerazioni peggio di un indulto. È la resa dello Stato”

“Il diritto alla salute di tutti i cittadini, anche quelli detenuti in carcere, è importante”, premette Nino Di Matteo, magistrato antimafia e membro del Consiglio superiore della magistratura. “Ma non possiamo tollerare quello che sta accadendo con le scarcerazioni in corso: un indulto mascherato”.

Che cosa sta succedendo nelle carceri italiane? C’è l’emergenza coronavirus e due giorni fa, a Bologna, un detenuto è morto per il Covid-19. Il 17 marzo è stato emesso un primo decreto per favorire le scarcerazioni e gli arresti domiciliari; e secondo altre proposte potrebbero uscire di cella anche detenuti che hanno ancora da scontare addirittura fino a 3 o 4 anni di carcere.

Sono misure accettabili, dottor Di Matteo?

La tutela della salute dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria viene prima di tutto. Ma non è detto che l’unica strada per garantirla sia scarcerare. Innanzitutto dovremmo essere molto attenti alla salute degli agenti che entrano ed escono regolarmente dal carcere e dunque sono quelli che possono portare dentro l’infezione. Non mi risulta che questi servitori dello Stato siano stati dotati di mascherine e di tutti gli strumenti di protezione necessari, esattamente come i medici e gli infermieri negli ospedali, o anche peggio.

E i detenuti, costretti a vivere in cella, spesso in carceri sovraffollate?

Del sovraffollamento si discute da decenni, ma resta un tabù la soluzione più semplice: costruire nuove carceri. Nell’immediato, la scarcerazione non è comunque l’unica soluzione. Prima si potrebbero percorre altre strade. Mi risulta per esempio che esistano strutture penitenziarie e padiglioni oggi inutilizzati, che potrebbero essere impiegati come luoghi di isolamento per i detenuti eventualmente contagiati dal virus. Poi ci sono molte caserme dismesse che potrebbero essere rapidamente riconvertite, prima d’imboccare la strada delle scarcerazioni anche di detenuti di elevata pericolosità sociale.

Per i condannati per mafia, terrorismo, stupro e altri gravi reati le scarcerazioni sono escluse.

Non è detto. Il meccanismo del cosiddetto “scioglimento del cumulo” fa sì che potrebbero goderne detenuti condannati per mafia, ma anche per altri reati, che stiano scontando un residuo di pena per reati minori.

Parlando al plenum del Csm ha criticato duramente il decreto del 17 marzo che permette lo snellimento delle carceri.

Ho detto che è un indulto mascherato. Rende possibile la scarcerazione di migliaia di detenuti senza permettere al magistrato di sorveglianza una adeguata istruttoria su chi viene scarcerato, senza che possa valutare se esiste il pericolo di fuga e di reiterazione del reato. È stato creato un automatismo analogo a quello dell’indulto. Anzi, questo è peggio.

Perché peggio?

Perché almeno l’indulto è una decisione dei politici che se ne assumono la responsabilità. Qui invece la scaricano formalmente sui magistrati di sorveglianza, che però non possono decidere niente.

Le scarcerazioni sono state precedute da proteste e rivolte nelle carceri, con un bilancio di 13 morti e 35 milioni di euro di danni.

Questo è gravissimo. Un provvedimento preso a pochi giorni dalle rivolte anche violente e sincronizzate in decine di istituti in tutta Italia rischia di apparire come un cedimento dello Stato a un ricatto violento e organizzato.

Chi ha partecipato alle rivolte è escluso dalla possibilità di essere scarcerato.

È escluso chi è stato individuato, ma quanti non lo sono stati? Così il cedimento dello Stato è anche nei confronti di chi ha organizzato le rivolte, magari in contatto con organizzazioni mafiose. Le istituzioni non devono dare neppure l’impressione di cedere davanti ai ricatti violenti. Dovrebbero rispondere all’emergenza sanitaria in corso garantendo il diritto alla salute di tutti, ma senza cedimenti e senza infliggere un vulnus agli obiettivi di certezza della pena. Senza un indulto mascherato. Cercando, prima delle scarcerazioni di massa, altre soluzioni, come l’utilizzo di padiglioni oggi inutilizzati o di caserme dismesse.

“Dopo 32 morti ci siamo pagati i test da soli”

Alla 32esima vittima in meno di un mese scatta lo sfogo. “Le case di riposo sono state abbandonate”. Giuliano Tirelli è il presidente di una Rsa a Verolanuova, nel Bresciano, provincia dove il coronavirus sta generando bollettini da tempi di guerra. Qui a marzo i morti sono stati 3.750, di cui solo 1.349 riconosciuti come decessi Covid. Un anno fa, nello stesso mese, erano stati 1.033. C’è una zona grigia di 1.500 persone a cui nessuno ha fatto il tampone e che sono venute a mancare con la stessa rapidità e con gli identici sintomi di chi è stato stroncato dal coronavirus. In questa “guerra” nel Bresciano, dove sono stimati 1.800 infettati, più di 200 vittime sono ospiti delle case di riposo. “Ci siamo inchinati al Covid, ma ci siamo sentiti abbandonati”, ammette il presidente della Rsa “Gambara Tavelli” a Verolanuova. Oltre ai 32 anziani morti uno dopo l’altro, una decina di operatori hanno contratto il virus. Eppure i tamponi non sono mai stati eseguiti. “L’Ats non ci autorizza”, spiegano i vertici della struttura. “Non è stato possibile nemmeno indirizzare i malati nelle strutture ospedaliere per fare terapie più specifiche. Li teniamo il più possibile nelle loro stanze”. La casa di riposo si è dovuta muovere in autonomia per provare a bloccare il contagio, pagando gli accertamenti di tasca propria. “50 euro a persona, abbiamo sottoposto tutti gli ospiti a esame sierologico così riusciamo a scoprire chi ha avuto il coronavirus e chi no, in modo da riorganizzare la nostra Rsa”. Anche per guanti e mascherine tante case di riposo si sono dovute attrezzare da sole.

Fino a metà marzo però nella casa di riposo entravano anche anziani da fuori per partecipare ai corsi del centro diurno e avevano contatti anche con gli ospiti. Nessuno potrà dire se e quanto questi incontri hanno inciso sul contagio, ma a un certo punto, davanti ai primi morti, la Rsa è stata chiusa. “Ho visto mio padre l’ultima volta settimane fa. Quando telefona mi dice: ‘Qui stanno morendo in tanti e molti infermieri sono malati’”, racconta la figlia di un 92enne che respira solo con l’aiuto dell’ossigeno. Le Rsa sono blindate anche di fronte ai decessi, con gli ospiti che muoiono senza nemmeno essere cambiati. Nudi, con le vestaglie macchiate, come sono al momento del decesso, così vengono avvolti in sacchi bianchi e messi in bare che vengono subito chiuse. Se anche i loro parenti sono in quarantena, le famiglie neppure sanno dove viene sepolto il congiunto. Tanto che un’agenzia funebre ha scelto di fotografare ogni luogo di sepoltura per inviare lo scatto ai parenti con le indicazioni su dove trovare il loculo.

“Errori di Ricciardi e Oms: perso un mese sugli asintomatici”

“A Vo’ abbiamo trovato una percentuale spaventosa di asintomatici, quasi il 50 per cento degli infetti. E la loro carica virale è risultata la stessa dei sintomatici. Se questi soggetti non vengono tracciati e isolati nella popolazione generale, l’epidemia continuerà ad alimentarsi”. Andrea Crisanti è virologo e direttore della Microbiologia dell’Università di Padova. Ha una lunga esperienza nel controllo delle malattie infettive ed è stato richiamato da poco in Italia “per chiara fama” dall’Imperial College di Londra. La Regione Veneto ha puntato su di lui dopo che è riuscito a spegnere completamente il focolaio di Vo’ Euganeo (Padova), il Comune di 3.300 abitanti dove il 21 febbraio scorso è stato registrato il primo morto in Italia per Coronavirus. Quell’esperienza sarà oggetto di una pubblicazione su Nature, uno studio a cui hanno lavorato circa 40 autori dell’Università di Padova e dell’Imperial College.

Perché l’Oms continua a dire che la trasmissione avviene da soggetti sintomatici?

Penso che sia un atteggiamento irresponsabile. Noi abbiamo condiviso questi dati con il governo 30 giorni fa, tramite la Regione Veneto. Ma per il consigliere del ministro della Salute, Walter Ricciardi, senza una pubblicazione scientifica non potevano essere presi in considerazione. Ora l’articolo è pronto, attende la revisione di una delle più prestigiose riviste del mondo. Ma con questo approccio a Roma hanno perso tempo prezioso: non è così che si affronta un’epidemia. Contano le ore e anche i minuti.

Che cosa rimprovera al governo italiano?

Non voglio far polemica col governo. Come scienziato mi sento in dovere di dire se qualcosa è sbagliato e non ho riverenze nei confronti di nessuno. Penso che la responsabilità principale della situazione in cui siamo adesso sia dell’Oms. I cinesi hanno mentito al mondo e non hanno comunicato il tema fondamentale della trasmissione del virus da soggetti asintomatici. Ma l’Oms, che è andata in Cina a fare ispezioni con una task force, che controlli ha fatto? Guardi che adesso i cinesi, da quando hanno saputo di questo studio su Vo’, hanno cominciato a dire che hanno una grande percentuale di asintomatici.

Quanti asintomatici avete trovato a Vo’?

Circa il 41 per cento, che nel secondo campionamento sale al 45 per cento. Un’enormità.

Una fonte continua in grado di ricaricare l’epidemia.

È un problema serissimo. Anche perché è emerso che hanno la stessa identica carica virale dei sintomatici. Se non affrontiamo questo tema non ne usciremo. Occorre un piano di interventi e di logistica senza precedenti, tamponi, diagnostica veloce, mascherine, sistemi di tracciamento. Non vedo nulla di tutto ciò.

Vo’ almeno dimostra che fermare l’epidemia da Sars-Cov-2 è possibile.

Sì, l’esperienza di Vo’ dimostra che nonostante la capacità di questo virus di agire silenziosamente, di nascondersi e di diffondersi, la trasmissione del Sars-Cov-2 può essere completamente eliminata in una comunità.

Quali sono gli strumenti?

Bisogna intervenire rapidamente, circoscrivere i focolai, identificare tutti i positivi. E poi c’è un secondo passaggio: tornare a campionare, per vedere se è sfuggito qualcuno a distanza di qualche tempo. A Vo’ abbiamo fatto due campionamenti a distanza di 14 giorni. È chiaro che non si può fare su un’intera città, ma una città non è mai completamente infetta, ci sono anche lì dei cluster, delle piccole Vo’. Il modello può essere applicato al raggruppamento urbano, al quartiere, al gruppo di case. Ma bisogna andare a fare indagini e sorveglianza attiva.

Quello che l’Italia non è stata ancora in grado di fare.

Se l’Italia fosse stata preparata, con la capacità di fare 100 mila tamponi al giorno, l’avremmo stroncata questa epidemia. Così a Vo’ l’R0, il tasso di riproduzione dell’infezione, è stato abbattuto di più del 90 per cento.

I test sierologici rapidi?

Se fossimo sicuri che funzionano sarebbero indubbiamente utili, ma sarei molto cauto. Sappiamo ancora molto poco di questa malattia.

Il governatore veneto Zaia conta su di lei. Ma all’inizio non sono state rose e fiori.

Mai avuto problemi con il presidente Zaia, ma con un funzionario della Regione che non voleva farci fare i test sugli asintomatici: il nodo è sempre quello. Poi Zaia ha capito le mie intenzioni e ha dato fiducia alla mia impostazione. Ma voglio chiarire: lo faccio solo perché è giusto, non voglio essere tirato per la giacchetta, il mio contributo è puramente scientifico e non politico.

Covid-19: entro fine mese esami di massa sul sangue

Il ministero della Salute lancerà una grande campagna nazionale di test sul sangue per verificare tramite gli anticorpi quanti italiani si sono infettati con il coronavirus “entro la fine di aprile”. Lo ha detto il presidente del Consiglio Superiore di Sanità Franco Locatelli rispondendo a una domanda in conferenza stampa. Lo screening di massa sarà utile anche per capire chi ha maturato gli anticorpi stabili e potrebbe (secondo gli ottimisti) essere immune e tornare al lavoro.

Entro “pochi giorni”, ha spiegato sempre Locatelli, il ministero farà sapere finalmente quali sono i test del sangue più affidabili tra i 180 presenti sul mercato. Da una risposta del presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro, nella medesima conferenza stampa, sembra di capire che potrebbero essere privilegiati i test tipo ‘Elisa’ che si servono di campioni di sangue e macchine (a chemilumineschenza o enzimatiche) dunque non kit ma laboratori di analisi. Brusaferro infatti ha detto che bisognerà “usare macchine comuni e standardizzate”.

Alla fine quindi, sorpassato a destra e sinistra dalle Regioni e persino dai Comuni, l’Iss e il Css, cioè i massimi organi consultivi del ministro Roberto Speranza, si sono risvegliati dal torpore.

Ieri alla conferenza stampa, convocata per fare il punto sull’epidemia, c’erano con il professor Franco Locatelli (presidente del Css e Direttore del dipartimento di Oncoematologia del Bambin Gesù di Roma), il professor Gianni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Iss e appunto il presidente Iss, Brusaferro.

I giornalisti hanno tempestato il terzetto di domande sui test del sangue. E Locatelli ha dovuto dare qualche vago accenno ai tempi della validazione dei test (“pochi giorni”) e dello screening nazionale (‘entro fine aprile’).

Le Regioni però non hanno atteso gli studi di Roma e da settimane fanno i test per rintracciare nel sangue gli anticorpi specifici del Covid-19.

La Campania ne ha già comprati un milione, il Veneto 700 mila, l’Emilia per ora ne 30 mila ma arriverà a quantitativi simili, la Toscana mezzo milione. Ogni regione un kit diverso. Alla faccia della validazione.

I kit sono venduti con marchio CE per uso in laboratorio. Locatelli ha spiegato che la validazione e la standardizzazione dei tanti test tarda perché “è importante che alla celerità corrisponda la valutazione di specificità e sensibilità per evitare falsi positivi e falsi negativi”. Locatelli ha poi chiesto alle Regioni: “Lavoriamo insieme”.

Il rischio è che la cooperazione e la validazione arrivino quando i mattoni per fare il lavoro (pur non validati) sono stati già comprati. Non solo: il secondo rischio, come riconosciuto ieri dal presidente dell’Iss Brusaferro, è che quando finalmente gli scienziati romani avranno deciso quali sono i ‘mattoni’ validati dal ministero, quelli in commercio non si trovino più in quantità sufficiente.

Mentre Roma valida, infatti, il resto del mondo compra. Ieri il Dipartimento Prevenzione del ministero della Salute ieri ha inviato a tutte le Regioni la sua circolare sui test. L’impostazione resta la stessa: sì ai tamponi rino-faringei che vengono resi più facili, estendendo la rete dei laboratori e snellendo le procedure. No ai test del sangue come esame diagnostico.

La circolare firmata dal direttore generale Claudio D’Amario stabilisce le priorità per fare i tamponi. In testa, dopo gli ospedalizzati gravi, entrano i sanitari esposti a rischio anche con pochi sintomi e gli operatori delle residenze sanitarie per anziani, teatro in queste settimane di una vera strage, anche se non presentano sintomi. Poi ribadisce che i tamponi dovranno essere comunicati “al massimo entro 36 ore”. I test del sangue sarebbero utili proprio per individuare gli asintomatici in contesti in cui il tampone non è possibile. Non la pensa così il ministero: i test del sangue “non possono sostituire il test molecolare” mai. No secco anche al fai da te. Si ribadisce che i kit marchiati CE per laboratorio, non per autodiagnosi, non possono essere venduti al pubblico in farmacia come accade con i test di gravidanza.

Quei test sono utili sì, ma solo “nella ricerca e valutazione epidemiologica”.

Russi in Italia: sullo scontro di Mosca con “la Stampa” interviene il governo

“Per quanto riguarda i rapporti con i reali committenti della russofobia de La Stampa, i quali sono a noi noti, raccomandiamo loro di fare propria un’antica massima: Qui fodit foveam, incidet in eam (Chi scava la fossa, in essa precipita)”. Firmato: il portavoce del ministero della Difesa russo, il maggior generale Igor Konashenkov.

A Mosca l’articolo del collega de La Stampa Jacopo Iacoboni, critico sulla vera utilità degli aiuti inviati dalla Russia a favore dei cittadini bergamaschi, non è piaciuto e per farlo sapere hanno scelto una comunicazione un po’ forte. Tanto che ieri anche la Farnesina e il ministero della Difesa hanno voluto precisare in un comunicato la propria attenzione alla “libertà di stampa”. Non prima però di aver ribadito la propria riconoscenza alla Russia.

“In questa fase di difficoltà l’Italia sta ricevendo aiuto e supporto da molti Paesi, ed è evidente il meccanismo di solidarietà scattato da parte della comunità internazionale” recita la nota dei ministeri diretti da Luigi Di Maio e Lorenzo Guerrini: “Il nostro Paese, oggetto di tale solidarietà, non può che esserne riconoscente”.

“Nell’essere grati per tale manifestazione concreta di supporto, continua la nota, non si può, allo stesso tempo, non biasimare il tono inopportuno di certe espressioni utilizzate dal portavoce del Ministero della Difesa russo nei confronti di alcuni articoli della stampa italiana. La libertà di espressione e il diritto di critica sono valori fondamentali del nostro Paese”. “In questo momento di emergenza globale il compito di controllo e di analisi della libera stampa rimane più che mai essenziale”.

Insomma, il governo non ci sta a essere schiacciato sul fronte dell’est semplicemente perché ha accettato gli aiuti (tra cui 150 ventilatori polmonari, 330.000 mascherine, 10.000 tamponi veloci, 100.000 tamponi normali, un laboratorio di analisi e altro ancora).

Nei giorni scorsi La Stampa ha scelto di portare avanti una campagna molto pretestuosa contro la presenza dei russi in Italia accusati non solo di voler incrinare l’alleanza con la Nato, ma anche di chissà quali intenti pericolosi. L’ambasciatore russo in Italia, Sergej Razov, ha scritto una lettera infuocata al direttore Maurizio Molinari. Ieri Di Maio e Guerrini hanno ribadito: la lealtà alla Nato non è in discussione.

“Scudo per i medici? Se esteso alle aziende sarà un boomerang”

“Lo scudo penale? Mi sembra un modo comprensibile di dare concretezza a uno stato di necessità, per togliere preoccupazione agli operatori sanitari”. Raffaele Guariniello, ex procuratore aggiunto di Torino, ha dedicato la sua vita professionale alla tutela della sicurezza sul lavoro e della salute e in questi giorni – di certo come pochi altri – sta studiando tutte le proposte di emendamento al decreto “Cura Italia”.

Dottor Guariniello, è necessaria questa deroga? Il nostro ordinamento non prevede già la scriminante dello stato di necessità?

Sì, la prevede. Questo ‘scudo’, come lo chiamano i giornalisti, è una risposta a un personale sanitario che sta dando delle grandi prove. Ma attenzione, cerchiamo di capire bene quali sono le responsabilità penali escluse e soprattutto quali sono i soggetti interessati, perché da quel che leggo una tutela per medici e infermieri rischia di indebolirsi.

In che senso?

Tra le proposte di emendamento al decreto vedo quello di maggioranza (primo firmatario Marcucci del Pd) che parla di ‘equilibrata limitazione delle responsabilità degli operatori del servizio sanitario’ e fa salvo il principio della colpa grave e dell’art. 590 sexies codice penale, la responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario. Spetterà al pm, nel caso, verificare se la condotta sia stata o meno giustificata dallo stato di necessità. Diverso potrebbe essere l’emendamento dell’opposizione, che pur si prefigge le stesse finalità.

Perché?

Be’, leggo testualmente: ‘Le condotte dei datori di lavoro di operatori sanitari e sociosanitari operanti nell’ambito dell’emergenza Covid-19, nonché le condotte dei soggetti preposti alla gestione della crisi sanitaria derivante dal contagio non determinano, in caso di danni agli stessi operatori o a terzi, responsabilità personali di ordine penale, civile, contabile e da rivalsa, se giustificate dalla necessità di garantire, sia pure con mezzi e modalità non sempre conformi agli standard di sicurezza, la continuità dell’assistenza sanitaria’. Si parla espressamente di ‘datori di lavoro’. Insomma se un medico o un infermiere si infetta o, come purtroppo sta accadendo troppo spesso, muore, il suo datore di lavoro non potrà essere chiamato a risponderne se non per le condotte necessarie per ‘garantire la continuità del servizio’. Però lo stesso non potrà concedersi a un datore di lavoro di altro settore che, per esempio, non doti gli operai della sua fabbrica delle necessarie misure di protezione durante l’emergenza Covid-19 e provochi così l’infezione polmonare dei suoi dipendenti. Insomma, il Servizio sanitario nazionale, o privato, sarebbe l’unico soggetto a cui viene fatta una deroga ai principi generali del codice penale.

Quindi lo scudo studiato per tutelare il personale sanitario rischia di essere un boomerang?

Occorre fare estrema attenzione a quali siano le responsabilità escluse e soprattutto a quali soggetti ci si riferisce. Altrimenti del caso di un datore di lavoro accusato di aver causato il contagio in corsia di un infermiere – un infortunio sul lavoro dunque –, dovrebbe occuparsene l’Inail per determinare un indennizzo, ma non sarebbe possibile accertare una responsabilità penale. Difficile pensarlo.

Lo scudo, tuttavia, è pensato a tutela del personale sanitario, per arginare il pericolo di un’ondata di denunce direttamente proporzionale al numero dei decessi e alle difficoltà di cura che un tale afflusso di pazienti provoca. Si pensi alla scelta su chi intubare prima…

Ed è una giusta preoccupazione dare esplicitamente tranquillità a chi sta fornendo una dura e necessaria prova. Quanto all’esempio della scelta in corsia o di casistiche simili, andiamo su un terreno troppo scivoloso. In ogni caso, però, alla fine dovrà sempre essere l’autorità giudiziaria a decidere se procedere o se archiviare, se nel caso specifico ci sia stata colpa grave o se la condotta fosse giustificata dallo stato di emergenza. Chi altri se non un giudice può riempire di contenuto una formula? Ecco perché lo scudo totale non è accettabile.

Il 16 maggio e le altre date “senza senso”: ora cabina di regia per gestire la fase 2

Il bollettino delle 18, il format video che accompagna il lockdown degli italiani, continuerà. Nonostante gli scivoloni comunicativi del capo della Protezione civile e il cortocircuito di informazioni che rischia di disorientare gli ascoltatori: Palazzo Chigi non ha intenzione di creare ulteriore instabilità, tanto più che – ben prima dell’emergenza – il premier ha già difeso Angelo Borrelli dalle mire di alti dirigenti della presidenza del Consiglio che per quel dipartimento avevano in mente altri nomi. Il capo della Protezione Civile resta al suo posto, magari con qualche accortezza in più nelle interviste che si è abituato a rilasciare. Gestite, va detto, non proprio con la necessaria dose di arguzia che si addice alla faccenda. Ieri mattina, prima a Radio Capital poi su Radio1, si è lasciato andare a previsioni sulle date della “ripresa” che vanno ben oltre quel 13 aprile al momento messo in agenda dal governo. E a una domanda specifica sulla scadenza del “16 maggio” ha risposto affidandosi al solo buon senso: “Potrebbe essere plausibile, come potrebbe essere prima o dopo: dipende dai dati”.

Ma il buon senso non è roba per questi giorni fatti di morti e malati, di file per comprare il pane, di autocertificazioni e di conti correnti allo stremo. E quell’orizzonte temporale di un altro mese e mezzo chiusi in casa non si può dare in pasto agli italiani che ascoltano la radio, compulsano i siti e passano le giornate davanti alle tv. Così, ieri, ancora prima che glielo richiedessero, Borrelli ha spiegato che si era trattato di un equivoco e che “al momento c’è una sola data, il 13 aprile”.

Nessuno, ma questo è di nuovo buon senso, crede che il martedì dopo Pasquetta le nostre vite ritorneranno a girare oltre la soglia della sopravvivenza. Ma la strategia di Giuseppe Conte e del governo è quella di comunicare la durata del lockdown a piccole dosi, quindici giorni alla volta, in modo da non mettere a rischio la tenuta dell’ordine pubblico. La verità, spiegano da Palazzo Chigi, è che “le date non hanno senso in questa fase”, perché nessuno ancora sa quando l’epidemia sarà sconfitta.

Il punto piuttosto è un altro. Ovvero quando ritenersi soddisfatti della curva in discesa dei contagi da coronavirus. Da una parte c’è la linea di chi crede che “si ricomincia a uscire quando i positivi sono a zero, punto”, dall’altra quella di chi ritiene che “se si ascoltano solo gli scienziati, magari non moriremo di Covid-19 ma di fame sì”. Il tema è la composizione del comitato tecnico scientifico istituito dalla Protezione civile per decidere le misure da adottare per arginare la diffusione del virus: al momento si tratta di tredici dirigenti del settore sanitario, ma ieri è stato lo stesso Borrelli a ricordare che il comitato “può essere integrato” da altri specialisti. Un’esigenza caldeggiata ieri dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, secondo il quale serve una “cabina di regia” che metta insieme “le teste migliori dell’Italia, dalla scienza alle attività produttive, al lavoro, alla cultura, alle università” per costruire lo schema della cosiddetta “fase 2”. Quella in cui si uscirà di casa, ma con lo spettro della ricaduta dietro l’angolo: ieri sera, nella riunione con le regioni, è arrivato il via libera. Oltre al comitato scientifico e al governo, ne faranno parte sindaci, governatori e specialisti.

Il vero “paziente 1” ricoverato a Milano prima di Mattia

Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, un signore che vive e lavora a Milano inizia ad avere febbre e tosse. Il 10 febbraio viene ricoverato in un importante ospedale del capoluogo lombardo. Diagnosi: “Coinvolgimento polmonare bilaterale con opacità del vetro smerigliato, che ha richiesto cure intensive”. È Covid-19. La sua positività sarà però identificata il 20 febbraio, giorno in cui all’ospedale di Codogno il tampone rinofaringeo certifica in un 38enne del posto il primo paziente Covid in Italia. Si chiama Mattia. Da ieri, però, il primato non spetta più a lui, ma al signore di Milano, la cui storia clinica è coperta da uno stretto riserbo. Il dato, che il Fatto è in grado di svelare, implica diverse conseguenze decisive. Le vedremo.

La scoperta di un nuovo paziente 1, che retrodata con certezza il contagio, arriva da uno studio scientifico messo insieme dai ricercatori di diversi enti, dall’Istituto superiore di sanità al Laboratorio di microbiologia del Sacco di Milano diretto dalla professoressa Maria Rita Gismondo. Il rapporto è stato pubblicato sulla rivista Eurosurveillance. I ricercatori hanno così analizzato le sequenze complete di due ceppi di Sars-Cov2 isolati in due pazienti. La prima risale alla fine di gennaio e riguarda un turista cinese di Wuhan, la seconda e più importante è di un milanese che mostra un contagio autoctono senza collegamenti diretti né con la Cina né con persone rientrate da quel Paese. L’analisi delle sequenze ha dato una prima certezza: l’ingresso multiplo della nuova Sars in Europa e anche in Italia. Il virus del cittadino di Wuhan, infatti, è sovrapponibile ad altri due riferibili a turisti cinesi ricoverati in gennaio allo Spallanzani di Roma. Queste tre sequenze, si legge nel documento, “sono situate in un cluster con genomi principalmente dall’Europa (Inghilterra, Francia, Italia, Svezia), ma anche uno dall’Australia”. La sequenza del signore di Milano invece si trova “in un diverso cluster comprendente due sequenze di genomi provenienti dalla Germania (Monaco di Baviera e Baden-Württemberg) e una sequenza del genoma dal Messico”. Di più: dall’analisi sulla composizione degli amminoacidi del virus, i ricercatori hanno individuato alcune differenze tra il ceppo del paziente milanese e il virus di Wuhan. Questo potrebbe ipotizzare la mutazione verso una maggiore aggressività.

Il dato che al momento appare però rilevante è la retrodatazione del cosiddetto “paziente 1” ai primi giorni di febbraio con una dislocazione geografica che da Codogno ci conduce alle porte di Milano. Un dato in linea con il recente studio dell’Unità di crisi della Regione Lombardia che indica in 385 i sospetti casi di Covid-19 prima dell’inizio formale dell’emergenza. Gli esperti delle Ast regionali collocano persone sintomatiche a partire dal primo gennaio con un andamento prima lieve e poi sempre più veloce. Le mappe allegate indicano attorno alla metà di gennaio due primi casi, uno individuato nell’area di Codogno, il secondo invece proprio a ridosso della periferia nord-ovest di Milano. L’obiettivo ora è comprendere se il genoma del paziente milanese sia sovrapponibile o meno a quello dei ceppi isolati sempre all’ospedale Sacco nei primi tre pazienti arrivati da Codogno. Il dato è rilevante perché un mancato match indicherebbe in Lombardia un secondo ingresso del virus che in parte giustificherebbe la diffusione esponenziale registrata in oltre un mese di emergenza.

Il virus dei tre pazienti del Lodigiano mostra un primo errore di replicazione il 26 gennaio, data che al momento viene fissata come ingresso in Lombardia di Sars-Cov2. Questo grazie al lavoro dell’equipe coordinata dal professor Massimo Galli. Le tre sequenze di Codogno sono poi sovrapponibili a una isolata in Baviera attorno al 22 gennaio. Oggi le sequenze complete sono diventate almeno 30. Alcune arrivano dalla zona di Bergamo ed è su queste che i ricercatori stanno lavorando. Anche qua l’obiettivo è capire se il virus circolato in Val Seriana sia lo stesso di Codogno o rappresenti un ennesimo ingresso autonomo. Allo stato dunque, il paziente zero italiano resta un cittadino lombardo, forse del Basso lodigiano che, contratto il virus in Germania, lo ha portato qua. Quello che invece si può dire con certezza, seguendo lo studio pubblicato su Eurosurveillance, è che il nuovo paziente 1 è di Milano e non di Codogno.

La Via Crucis di Borrelli, tra gaffe e gente in giro

“Per la fase 2 c’è una sola data, quella del 13 aprile annunciata dal presidente del Consiglio”. La precisazione arriva subito dopo la conta dei numeri. Molto in alto nella scaletta del consueto punto stampa delle 18, Angelo Borrelli prova a sopire la bufera nata dopo un’intervista rilasciata in mattinata, il cui titolo aveva riempito in poche ore le bacheche social e i cellulari di mezza Italia: “Staremo a casa anche il 1° maggio. Possibile fase 2 dal 16”. Un’indicazione netta sul fatto che la quarantena avrebbe inghiottito Pasqua, 25 aprile e Festa del Lavoro, arrivata in un momento in cui gli italiani non attendono che di sapere quando potranno ricominciare a uscire di casa, sulla quale però la parola finale spetta al governo.

Apriti cielo. Borrelli “ha diffuso informazioni confuse, allarmiste e capaci di gettare nell’ansia milioni di cittadini”, ha dato fuoco alle polveri Giorgio Mulè di Forza Italia. “Chiunque anche in buona fede si lanci in comunicazioni inopportune, non aiuta gli italiani”, ha sentenziato Bobo Giachetti di Italia Viva. Seguito da una nutrita schiera di forzisti, da Anna Maria Bernini a Franco Dal Mas, fino a Licia Ronzulli che in serata arriva a chiedere “un passo indietro”. Ma cosa aveva detto Borrelli? Alla domanda “La fase 2 può partire dal 16 maggio?” posta da Massimo Giannini su Radio Capital, il capo dipartimento aveva risposto: “Se le cose non cambiano potrebbe essere, come potrebbe essere prima o dopo. Non vorrei dare date. Il 16 maggio è un periodo di tempo lungo. Da qui al 16 maggio potremmo avere risultati positivi che ci consentirebbero di aprire la fase 2” ma “la decisione va presa dagli esperti che stanno coordinando la parte tecnico-scientifica”.

“Non ho mai parlato di date”, si è difeso poi il capo della Protezione civile. Che ha chiuso l’argomento nel punto delle 18: “Avevo detto che le misure sarebbero state calibrate in base alla situazione. Il titolo non ha reso bene questo ragionamento”. Non basta, il tema è caldo, i cronisti in sala vogliono sapere e una di loro chiede indicazioni sulla fase 2, la ripresa delle attività: “C’è un comitato tecnico-scientifico che fa le sue valutazioni – si blinda il commissario–. Sul come effettuare la fase 2 deciderà il governo”.

Sopita, forse, la bufera sul tavolo restano i numeri dell’emergenza. Parlano di 766 decessi in 24 ore: erano stati 760 giovedì e 727 mercoledì. La nuova bandierina segna altri 4.585 casi totali, che portano il numero complessivo malati, morti e pazienti dimessi a 119.827: +3,98%, il 3° incremento più basso in 16 giorni.

Anche gli ospedali cominciano a respirare, sebbene i letti continuino a riempirsi: sono 28.741 i pazienti non critici, 201 più di giovedì, trend in linea con quello degli ultimi giorni. Meglio pure le terapie intensive, i cui ospiti sono aumentati di 15 unità: da 4.053 a 4.068. Nelle 24 ore precedenti gli ingressi erano stati 18.

“Il picco non si è esaurito, anche se c’è una tendenza in calo – ha commentato Massimo Antonelli, direttore del dipartimento Emergenza e rianimazione del Policlinico Gemelli, in conferenza con il commissario –, le misure di contenimento hanno avuto efficacia”. Un concetto espresso in mattinata anche dall’Istituto superiore di sanità: “Abbiamo osservato il loro impatto positivo dopo l’istituzione della zona rossa nel Basso Lodigiano del 22-23 febbraio, le misure a livello nazionale del 4 marzo e il lockdown completo dell’11”, aveva spiegato Gianni Rezza.

Intanto le misure di contenimento cominciano a scricchiolare: ieri i multati per la violazione delle misure sono stati troppi: 7.659. E non sono mancate le immagini di strade piene di persone, soprattutto a Napoli.