Conte sbotta: “Ursula, basta proporci il Mes”. Ma l’Italia è sola

Stavolta, se non altro, il presidente del Consiglio ha visto per tempo l’esito dei lavori dei tecnici dell’Eurogruppo, cioè dei tecnici dei ministeri delle Finanze dell’eurozona. E avendo visto, ieri ha scritto un’irrituale risposta alla lettera di generica solidarietà che Ursula von der Leyen aveva pubblicato su Repubblica giovedì: “Purtroppo – ha scritto Giuseppe Conte – alcune anticipazioni dei lavori tecnici che ho potuto visionare non sembrano affatto all’altezza del compito che la storia ci ha assegnato. Si continua a insistere nel ricorso a strumenti come il Mes che appaiono totalmente inadeguati rispetto agli scopi da perseguire”.

Parole in cui la forma non cela l’irritazione: l’Italia continua a proporre una forma di eurobond, un modo – in sostanza – per evitare che le ingenti spese una tantum necessarie al contrasto del coronavirus e della relativa recessione finiscano per pesare sui conti pubblici (il livello del debito sul Pil) quando il Patto di Stabilità tornerà in vigore, costringendoci a manovre di rientro suicide.

Com’è noto, i Paesi del Nord non ci pensano nemmeno e propongono – con nomi nuovi o vecchi – soldi in cambio delle “rigorose condizionalità” previste dai Trattati oppure strumenti inutili e/o inadeguati come il “Sure” o i prestiti delle Bei (pochi soldi e solo dopo che gli Stati avranno fornito le garanzie in denaro). La promessa per addolcire la pillola è che di eurobond si parlerà in futuro (ma, si sa, del doman non v’è certezza).

Il problema di Conte è che il fronte del Sud parrebbe aver perso l’appoggio francese: il ministro dell’Economia di Macron, Bruno Le Maire, s’è detto disponibile a un Mes “con condizionalità light”, cioè esattamente la proposta uscita dai tavoli tecnici dell’Eurogruppo che ha irritato il premier italiano. Resta una curiosità: cos’hanno detto in quelle riunioni i tecnici del Tesoro italiano?

L’improbabile mega-partito degli “spingitori” di Draghi

Alla fine, forse, farebbe bene lo stesso Mario Draghi a stare alla larga dal partito di Mario Draghi. Che a vedersi, assomiglia a una combriccola di mattacchioni, a una truppa scombiccherata, a un’orchestra di paese stonata, dove non si capisce chi tira in ballo il suo nome perché ci crede o perché gli fa comodo, magari per attaccare Giuseppe Conte o invece proprio per tenersi Giuseppe Conte.

In quest’ultima categoria sembra rientrare Matteo Salvini. Che continua a elogiare l’ex presidente della Bce, evocando il suo nome in ogni dove, pure in Parlamento. Ma i toni e i contenuti del leader leghista sembrano quelli dell’agitatore di acque in favore dello status quo. Che è il governo Conte, per l’appunto, che il leader leghista, come ha confidato a più interlocutori, gli fa comodo lì, a Palazzo Chigi. Perché ora, in piena emergenza virus, è molto più facile stare all’opposizione. Arma a doppio taglio, certo, perché se poi l’esecutivo ne uscirà dignitosamente, Salvini se la rischia grossa, come già si evince dal calo della Lega nei sondaggi. Chi invece sperava davvero in un governo Draghi è Giancarlo Giorgetti. “Draghi premier? Perché no? Ci vorrebbe un esecutivo con largo sostegno che affronti tre o quattro questioni…”, diceva il numero due della Lega già in dicembre, provocando la prima vera crepa nel suo rapporto col Capitano.

Il partito di Draghi, però, inizia a scricchiolare. Ieri, per esempio, sono arrivate due importanti bocciature. La prima di Massimo D’Alema. Che, su Repubblica, sostiene di avere “una grande stima di Draghi” ma di vederlo più come civil servant. Ergo “gli si fa un danno se lo si evoca per operazioni di basso profilo o come uomo della provvidenza”. L’altra di Silvio Berlusconi. “Draghi? Non credo sia questo il momento di cambiare governo. Ora dobbiamo tutti quanti stringerci intorno a chi prende le decisioni”, ha detto l’ex Cavaliere. Confermando quel che s’intuisce da tempo, ovvero la sua voglia di saltare sul carro di Conte, magari con un appoggio esterno all’esecutivo in carica.

Per il resto, le brigate pro-Draghi sono assai variegate. Divise tra chi lo vorrebbe subito al posto di Conte e chi dopo, a pandemia conclusa, per un “governo di ricostruzione”. C’è Pier Ferdinando Casini, con tutta una micro galassia centrista; ci sono pezzi di Forza Italia sparsi (nonostante Berlusconi); c’è un pezzo di Confindustria; c’è Luca di Montezemolo; c’è una parte di sindacato come la Cisl di Anna Maria Furlan; ci sono anche diversi esponenti del Pd, che sussurrano il nome a bassa voce altrimenti Zingaretti s’arrabbia. Non c’è Giorgia Meloni, ma ci sono i giornali di destra. Che usano Draghi come clava anti-Conte. “Chiamate Draghi”, titolava il Giornale di Sallusti la scorsa settimana. “Super Mario adesso è la nostra migliore chance”, gli facevo eco Belpietro su La Verità. “Mettiamoci nelle mani di Draghi”, ha scritto Franco Bechis sul Tempo.

Poi ci sono i cosiddetti “giornaloni”, che non si gettano pancia a terra, ma dispongono le vele in favore di quel vento. “Gli va dato il governo, poi può pensare al Quirinale”, dice Roberto D’Alimonte, firma del Sole 24 Ore. Senza strappi improvvisi, però, perché “un futuro governo Draghi dovrebbe nascere al di fuori da ogni negoziato coi partiti e con uno spazio di manovra senza precedenti, con un appoggio straordinario e continuo, dietro le quinte, del presidente della Repubblica”, ha spiegato Stefano Folli su Repubblica.

Dovrebbe andare in scena, dunque, un remake del 2011, con Mattarella al posto di Napolitano e Draghi al posto di Monti. Possibile? Tra i suoi fan, infine, c’è pure Matteo Renzi. “Le parole di Draghi sul Financial Times andrebbero imparate a memoria. Ci ha indicato la strada da seguire…”, ha detto alla Camera. Ci crede davvero? Parrebbe di sì, dicono i boatos di Palazzo, con la speranza, magari, di far parte della squadra, magari alla Farnesina. Visti gli attori, gli converrebbe davvero, a Mario Draghi?

“Così la rete dei territori è inefficiente. La sanità lombarda va revisionata”

“Una riflessione sulla sanità lombarda deve essere fatta. La rete dei territori è fortemente inefficiente”. Davide Galimberti è il sindaco di Varese, uno dei 7 primi cittadini lombardi del Pd che qualche giorno fa hanno scritto una lettera al presidente della Regione, Attilio Fontana. E ieri hanno rincarato con una nuova missiva. Ponendo domande su quando arriveranno i dispositivi di protezione individuale, a partire dalle mascherine, su cosa stia facendo la Regione per proteggere il personale sanitario e gli ospiti delle Rsa, sul perché dei mancati tamponi a tappeto e sul ritardo della sperimentazione dei test sierologici. “Ci ha dato delle risposte. Ma i fatti non si vedono”. La provincia di Varese finora è stata risparmiata dall’esplosione del contagio. Si contano circa 1000 positivi. E i decessi? “Non sono quantificabili. Ma la mortalità è del 40% in più rispetto agli stessi mesi dell’anno scorso”.

Sindaco, cosa non ha funzionato nella sanità lombarda?

Manca la rete di coordinamento tra l’Ats e le amministrazioni. La settimana scorsa con 62 sindaci della provincia di Varese, di tutti gli schieramenti, abbiamo scritto una lettera per chiedere un coordinamento reale. È importante sapere chi è in quarantena, ma non abbiamo un’adeguata informazione né per aiutarli, né per ridurre il contagio. Non abbiamo la ramificazione territoriale di altre Regioni.

Quali gli effetti?

Le cose in Lombardia sono andate male anche perché le persone vanno tutte al Pronto soccorso e non dal medico. Servirebbe un coordinamento tra i medici di base, l’ospedale e l’Ats. Fermo restando che in Regione ci sono alcuni poli di eccellenza privati che devono essere conservati, è emersa la ferma necessità di avere dei presidi sul territorio.

Perché i tamponi non vengono fatti a tappeto?

Semplicemente non ci sono, questa è la motivazione che c’è stata data. Ma i numeri di quelli somministrati nelle Rsa e negli ospedali sono veramente troppo bassi.

In particolare a Varese, perché sono importanti?

Prima di tutto per evitare focolai. Ma tra qualche settimana i tamponi mirati saranno finalizzati alla ripresa. Sarà essenziale avere un quadro di chi ha superato la malattia e chi no, per stabilire un ingresso progressivo nella vita produttiva. Serviranno anche gli esami sul siero.

A che punto siamo su quello?

Mentre in Lombardia e Veneto li hanno avviati, da noi c’è solo una sperimentazione a Pavia.

Quando il Pd in Regione ha fatto richiesta di accesso agli atti per i dati, la risposta è stata che se ne sarebbe parlato dopo l’emergenza.

L’ho sentito anche io. E penso che in questo momento serva collaborazione istituzionale.

Perché Fontana è andato allo scontro con il governo?

Spero non sia per ragioni politiche. Anche se la sua appare una presa di posizione.

Non sarà anche per coprire la Caporetto della Regione?

Ora portiamo a casa la pelle. Poi si aprirà una seria riflessione sulla sanità lombarda.

Cosa pensa dell’idea di riportare la sanità a livello nazionale?

Le scelte devono essere fatte a mente lucida. La sanità lombarda ha degli elementi di grande pregio. Ma i modelli necessitano di una revisione.

A Varese le attività produttive sono ferme?

Tranne quelle “strategiche” sì. Ma in una provincia che fa della manifattura un elemento di traino importante la preoccupazione è tanta. Ecco perché è importante individuare le strategie sanitarie che diano una via d’uscita per la ripresa. Noi abbiamo attivato subito i buoni spesa. E abbiamo avuto molte richieste. Significativo, in un territorio ricco.

Tamponi e dottori: ecco perché Gallera dovrebbe scusarsi

Potremmo aspettare che tutto finisca e tirare le somme quando l’ultimo mucchietto di cenere sarà consegnato, quando avremo un vaccino che ci restituirà gli abbracci e i Pronto soccorso torneranno a essere affollati di malati immaginari. E invece, spiegare cosa c’è che non va a chi ha il compito difficile di tirarci fuori da questo inferno, è qualcosa che va fatto oggi, perché è oggi che siamo appesi ai bollettini, alle speranze, alle buone a alle cattive notizie. È oggi che quello che si fa, che quello che si dice, fa la differenza. Domani, al massimo, sarà tutto un esercizio di memoria. Un chiedere il conto a pranzo finito da troppo tempo, quando ci sarà stato il tempo di digerire, di assolvere, di voltare pagina. Gallera, Fontana, Borrelli e chi oggi interpreta grafici, chi ci parla alla tv e taglia nastri, perfino, deve sapere cosa avrebbe potuto dire – non dico fare – per rendere tutto meno penoso a chi sta a casa.

Quel qualcosa è la trasparenza, perché il gioco delle tre carte è stato fatto troppe volte. Lo studio, perché saper interpretare i grafici o dare consigli sanitari è solo questione di studio. Il coraggio, perché certe volte bisogna ammettere di non avere sempre il controllo del timone, per essere credibili. Non si è mai visto, in chi sta gestendo l’emergenza in Lombardia, nulla di tutto questo. Anziché dire “Siamo stati fortunati che sia accaduto in Lombardia, chissà cosa sarebbe accaduto se tutto questo fosse successo altrove”, cercando il confronto col compagno di classe che ha la media del 3, Gallera avrebbe potuto dire: “Senza una prevenzione e col virus che si è diffuso senza che ce ne accorgessimo, la sanità lombarda si trova adesso ad arginare qualcosa di troppo grande perché nei prossimi mesi possa esserci spazio per vantarsi di qualcosa. Una sanità di cui vantarsi è quella che anticipa la corsa all’ultimo respiratore, non quella che ne compra a centinaia mentre tanti cittadini che potevano essere salvati stanno morendo”.

Avrebbe potuto dire, Gallera, la verità sui tamponi, sulle mancate mappature dei contatti, sulle difficoltà nel contenimento anziché andare in tv a raccontare che i tamponi in Lombardia si fanno anche a quelli con sintomi lievi. Bastava dire la verità: “Vorremmo fare i tamponi a tutti, soprattutto ai sintomatici, ma la Lombardia ha 10 milioni di abitanti e per quello che ne sappiamo i contagiati potrebbero essere anche il 25% della popolazione, ovvero 2 milioni e mezzo di persone, di cui molte con sintomi. Non abbiamo tamponi per tutti, e sì, lo sappiamo, tra quei ‘tutti’ ci sono anche persone che stanno male e che non riusciamo ad aiutare come vorremmo. E anche se li avessimo, i tamponi per tutti, non ci sarebbero neppure laboratori a sufficienza per elaborare così tanti dati in un numero di giorni accettabile per una diagnosi. E se pure ci fossero tamponi e laboratori, non avremmo così tanti medici disponibili ad andare nelle case dei malati perché non ci sono dpi e non vorremmo mai che chi fa i tamponi si ammalasse a sua volta, o facesse ammalare persone magari già debilitate per altre ragioni. Ce la metteremo tutta, faremo del nostro meglio, salveremo più vite possibili, ma avverranno cose tante ingiuste quanto ineluttabili. Cercheremo di aggiustare il tiro più velocemente possibile, almeno nella seconda fase in cui avremo imparato dagli errori e la situazione sarà più gestibile. Perdonateci”.

Avrebbero dovuto, Gallera o Fontana, non definire medici e personale ospedaliero “eroi”. Dire “eroi” a medici, infermieri, oss, addetti alle pulizie degli ospedali spettava a noi cittadini, al limite. Gallera e Fontana avrebbero dovuto dire “Chiediamo scusa ai medici per averli resi eroi. Dovevano essere solo persone che facevano il loro mestiere in una situazione di massima emergenza e invece li abbiamo mandati allo sbaraglio, talvolta a morire, senza protezioni, senza linee guida, senza protocolli omogenei ed efficaci fin dalla vigilia di questo orrore”. Avrebbero dovuto dire, Gallera e Fontana, anziché quei “sono molto preoccupato” o “vedo segnali positivi” a 24 ore di distanza, un qualcosa che somigliasse a una frase così: “I numeri che noi o Borrelli vi leggiamo ogni giorno sono imprecisi e alterati. Quelli dei morti non tengono conto delle persone morte in casa o altrove senza aver fatto il tampone. Quelli dei contagiati non tengono conto degli asintomatici e di chi avrebbe i sintomi, ma non riesce ad avere un tampone e variano perché ci sono giorni in cui facciamo più tamponi. I guariti non sono guariti ma sono i dimessi, positivi o negativi che siano. Quelli della terapia intensiva, in definitiva, sono sempre gli stessi non perché la situazione non vada migliorando, ma perché quando si libera un posto o cento, ci sono cento persone che attendevano di avere una possibilità in più per sopravvivere. Scusateci, se i nostri numeri non riescono a fotografare la realtà con nitidezza, ma ci sono così tante macchie scure in un’epidemia che per imparare leggerle ci vuole tempo. Scusate se vi abbiamo detto ‘state a casa’ anche quando sareste dovuti essere in un letto d’ospedale. Non ce l’abbiamo fatta”.

E invece, un mucchio di alibi, bugie, rimpalli e manipolazioni.

Tutte cose imperdonabili. Perfino più dei morti.

Fontana “offre” letti a Cirio in cambio di medici in Fiera

I toni ieri erano più bassi, lo stesso Giuseppe Conte in video conferenza coi governatori ha chiesto di non alimentare “scontri che non ci sono e non devono esserci”, ma la guerra a bassa intensità tra governo e Lombardia prosegue. Ora in ballo ci sono i medici – che scarseggiano e specie per l’ospedale appena inaugurato in Fiera di Milano – e i numeri: questi ultimi sono quelli degli aiuti consegnati ai vari territori e che la Protezione civile ha deciso di mettere online col sistema “Ada”. Nonostante quei dati siano stati certificati dalla stessa Regione per il mese di marzo (con una email di domenica 29 marzo dell’assessorato al Welfare, quello di Giulio Gallera) e ora si basino sulle consegne giornaliere effettuate con aerei militari, Attilio Fontana ha i suoi numeri: secondo la Giunta a guida leghista, da Roma sono arrivati 2,5 milioni di mascherine e non gli 8,4 milioni certificati al 2 aprile dal sito.

Dopo le settimane buttate da Fontana nell’acquisto di milioni di mascherine rivelatesi poi inesistenti, almeno questo fronte dovrebbe però essere chiuso: ieri l’Istituto superiore di sanità, dopo le prove tecniche, ha certificato come “chirurgiche” quelle della ditta Fippi di Rho che – in collaborazione col Politecnico di Milano e, per la Regione, con l’assessore all’Ambiente Raffaele Cattaneo – ha riconvertito i suoi impianti dalla produzione di pannolini a quella, appunto, di mascherine. La capacità teorica è di 900 mila al giorno, superiori alle necessità della regione: 300mila al giorno per il sistema ospedaliero e sanitario, a cui aggiungere le Rsa, i medici di base, le farmacie, i luoghi di lavoro, eccetera (altre 200mila circa).

Se la situazione dei Dispositivi di protezione individuale (Dpi) inizia a farsi meno drammatica, al momento nelle regioni più colpite – e quindi soprattutto in Lombardia – quel che manca sono i medici, nonostante il centinaio già arrivato grazie alla Protezione civile: sarà difficile, ad esempio, aumentare i letti dell’ospedale “gioiello” creato in Fiera e affidato al Policlinico di Milano dai 30-35 attuali agli oltre duecento teorici se non arriveranno medici e infermieri. Curiosamente, la difficoltà di Fontana e soci è venuta fuori grazie a un’offerta avanzata al presidente del Piemonte, Alberto Cirio, centrodestra anche lui: in sostanza, giovedì la Lombardia ha messo a disposizione del Piemonte 53 posti nel nuovo ospedale – pronti tra 10-15 giorni – per sgravare le terapie intensive, a patto però che medici e infermieri per gestirli fossero trovati dai piemontesi. Giusto, ha pensato Cirio, che s’è subito rivolto al governo per avere il personale dalla task force di volontari dalle altre regioni (domani, per dire, arrivano altri 100 infermieri nelle aree più colpite). Qui, però, la faccenda s’è complicata.

In una riunione ieri mattina, infatti, i lombardi hanno preteso – per consentire alla cosa – uno staff composto anche da sei anestesisti ogni 7 letti: un numero enorme e per una categoria difficilissima da reperire in questo momento (ad oggi in Regione ne sono stati inviati una quindicina). Il governo s’è detto disposto a fornire al Piemonte circa 30 medici e 50 infermieri: insomma, sei o sette anestesisti per 53 posti, non certo cinquanta. Basti dire che l’ospedale della Fiera di Bergamo (quello degli Alpini) aprirà lunedì i primi 35 posti gestiti da 14 medici e 45 tra infermieri, Oss e fisioterapisti.

Il risultato è arrivato in serata: Cirio s’è sentito preso in giro e ha risposto un perfido “no, grazie per il bel pensiero”, ma ce la facciamo da soli; medici e infermieri in più andranno direttamente in Piemonte e si troverà il modo, nel caso, di aumentare i letti direttamente lì. Fontana dovrà trovare altrove i professionisti necessari a far funzionare il suo ospedale spot: non fa prima a chiederli anche lui al governo o il problema è che poi non può più lamentarsi?

Liberi tutti

Partiamo dai numeri, che non sono né di destra né di sinistra, né garantisti né giustizialisti. Ieri mattina risultavano in Italia 101.327 contagiati dal coronavirus (su 60,5 milioni di abitanti) e 13.915 morti per o con coronavirus su 60,5 milioni di abitanti. Nel sottoinsieme della popolazione carceraria, su 57.097 detenuti, si registravano 32 contagiati (di cui 4 ricoverati in ospedale) e 1 morto (in ospedale). Dunque i dati ufficiali (che ignorano i contagiati asintomatici, inconsapevoli e non certificati dal tampone) dicono che il Covid-19 infetta lo 0,16% dei non detenuti e lo 0,05% dei detenuti e uccide (come causa o concausa) lo 0,02% dei non detenuti e lo 0,001% dei detenuti. Anche uno sciocco capisce che: a) oggi stare in carcere è molto più sicuro che stare fuori; b) chi sta fuori rischia il contagio tre volte di più e la morte 20 volte di più di chi sta dentro; c) l’ultima cosa da fare per mettere i detenuti al riparo dal contagio è scarcerarli. Ma, incurante dei numeri e della logica, la compagnia di giro dei sedicenti “garantisti” continua imperterrita a chiedere scarcerazioni di massa con la scusa del coronavirus che – dati alla mano – non c’entra nulla. E addirittura imputa a Bonafede i pochissimi contagi e l’unico morto in carcere (Il Riformista: “I disastri di Bonafede. Volevano il morto in carcere. Eccolo”), nonché le troppo poche scarcerazioni (il solito buttafuori Luigi Manconi, che se la prende pure con me parlando di “morale”, dall’alto della cattedra di ex capo del servizio d’ordine di Lotta continua).

Abbiamo già scritto che la vita dei detenuti vale quanto quella dei non detenuti: dunque se i dati dei contagi intra-carcere si avvicinassero a quelli extra-carcere, sarebbe doveroso adottare misure di clemenza. Ma per ora i dati dicono che la situazione, almeno per i contagi, è sotto controllo: i detenuti contagiati sono in isolamento o in ospedale; gli agenti penitenziari contagiati (145 su 38mila) sono fuori servizio; i colloqui personali con parenti e avvocati sono sospesi e sostituiti con quelli via Skype (6mila facinorosi hanno preso a pretesto quella misura salva-vita per scatenare rivolte con morti, feriti e devastazioni); i “nuovi giunti” vengono sottoposti a pre-triage e trascorrono i primi giorni in quarantena isolata; agenti e amministrativi sono visitati ogni giorno in pre-triage e dotati di mascherine; in base a una norma inserita da Bonafede nel Cura Italia, i semiliberi la sera non rientrano, ma dormono a casa e chi deve scontare un residuo-pena di 18 mesi può farlo a domicilio se ne ha uno (come da legge Alfano FI-Lega-An, ora snellita nelle procedure).

Ma a condizione che: non sia molto pericoloso, non abbia in casa le sue vittime, indossi il braccialetto elettronico (disponibile in circa 5mila esemplari) e non abbia partecipato alle rivolte. Purtroppo molti giudici di sorveglianza si arrogano il potere di concedere i domiciliari e misure alternative anche a chi non ne avrebbe diritto, il che spiega il calo dei detenuti dai 61.235 di fine febbraio agli attuali 57.097. Ma ai fautori del “liberi tutti” non basta ancora e, siccome i dati sul Covid li smentiscono, fanno leva sull’impossibilità, per i detenuti, di rispettare il distanziamento di un metro nelle celle sovraffollate. Altra solenne sciocchezza: la regola del metro di distanza riguarda, per i non detenuti, i luoghi pubblici e non certo le abitazioni private. Altrimenti ogni giorno verrebbe violata dalle centinaia di migliaia di persone stipate in 4 o 5 in monolocali o bilocali; o lavorano nelle terapie intensive affollate di malati, infermieri e medici; o abitano in spazi più ampi, ma fanno vita famigliare e non passano certo le giornate a distanza di sicurezza. Ripetiamo, a scanso di equivoci e a prova di coglioni (che proliferano più del Codiv): la vita di un detenuto vale tanto quella di un non detenuto. Ma non vale di più. A nessuno viene in mente di chiudere gli ospedali e mandare a spasso medici, infermieri e malati perché lì muoiono come le mosche, né di chiudere gli ospizi e mandare a spasso gli anziani perché lì ne muoiono migliaia. Non si vede perché spalancare le carceri e mandare a spasso (o, peggio, a casa) migliaia di detenuti perché ne è morto uno su 57mila. Ieri è uscito ai servizi sociali don Mauro Inzoli, il prete di Cremona condannato a 4 anni e 7 mesi per abusi sessuali su minori, dopo averne scontati meno di 2. Chi vuole il “liberi tutti”, per coerenza, dovrebbe dargli in custodia i suoi figli.

Ps. Johnny Riotta, detto l’Attila dei Direttori per essere riuscito nell’ardua impresa di devastare il Tg1 e il Sole 24 Ore (che si pensavano, prima del suo arrivo, indistruttibili), mi accusa di “militare con Cremlino e Putin”. E così dimostra che, oltre a non saper scrivere, non sa neppure leggere. Io ero anti-Cremlino fin dai tempi in cui i suoi padroni della famiglia Agnelli erano pappa e ciccia col regime sovietico dopo il patto Agnelli-Kruscev del ’66 per lo stabilimento di Togliattigrad. Ed ero anti-Putin quando B. era culo e camicia col presidente russo e Riotta si voltava dall’altra parte, anzi si scorticava le ginocchia intervistandolo e premiando Tremonti come Uomo dell’Anno a nome dell’ignara redazione del Sole. E non diceva una parola quando il suo adorato Matteo R. incontrava Putin promettendo la fine delle sanzioni europee. Quanto a me, ho solo sbertucciato i ridicoli articoletti de La Stampa contro gli aiuti inviati all’Italia dalla Russia, perché a caval donato non si guarda in bocca. Neppure i governi cinese, albanese e cubano sono fari di democrazia, eppure li ringraziamo per gli aiuti. Ma per Johnny vale il motto di La Rochefoucauld: “In questi tempi difficili è opportuno concedere il nostro disprezzo con parsimonia, tanto numerosi sono i bisognosi”.

Gipi e gli altri: una tavola al giorno per contribuire a battere il virus

Se non ci fossero tragedie più serie, bisognerebbe osservare un minuto di silenzio per quel fragile ecosistema che è il fumetto italiano, ricco di creatività e talenti ma povero di risorse finanziarie, sempre in bilico tra trionfo e collasso, con i pochi Gipi e Zerocalcare che vendono e vanno in tv e i tanti che si arrabattano in un contesto sempre (purtroppo e per fortuna) artigianale. Ecco, su questo castello di tavole, matite e pennelli si è abbattuto l’uragano coronavirus che ha bloccato librerie, abbonamenti, spedizioni. C’è già chi riparte e chi – come Sergio Bonelli Editore – regala un fumetto al giorno in pdf dal sito. Perché il fumetto italiano è capace di un’incredibile resilienza e generosità, come dimostra COme VIte Distanti, un graphic novel prodotto da Arf – il festival del fumetto di Roma con PressUp – che si costruisce sul web: una tavola al giorno, regalata da uno dei grandi autori. Non sappiamo quante pagine avrà o come sarà la trama, però i lettori possono già acquistarlo (almeno 15 euro). Il ricavato andrà all’ospedale Spallanzani: siamo alla tavola numero 9 e già il progetto ha permesso di versare allo Spallanzani 10mila euro. È un fumetto di mascherine, di vite domestiche spiate dall’alto, di genitori che invecchiano e di abbracci mancati, di solitudini e convivenze forzate. Dalla prima tavola di Gipi a quelle di Gigi Cavenago (Dylan Dog) a Stefano Caselli e Stefano Simeone: disegni e dialoghi che trasmettono un senso di urgenza e un desiderio di condividere – di passione civile, si sarebbe detto una volta – che segneranno il fumetto italiano del dopo-virus. Per uno spunto di ottimismo: il crowdfunding è sempre più diffuso ed efficace, il fumetto italiano ha un appoggio in più per ripartire. COme VIte Distanti lo trovate qui: https://www.arfestival.it/covid/.

 

Eterno Kavafis: il futuro di tutti è nel passato

Se è vero che i cuori ribelli, coloro che desiderano cambiare le cose nella necessità del presente, leggono l’inquieto Arthur Rimbaud, che in soli cinque anni di creazione e peripezie (tra cui fughe da casa, colpi di pistola, denunce, prigionia e altre amenità di tal foggia) genera la poesia moderna; allora le menti rivoluzionarie, coloro che colgono il tempo nella sua intera rotondità, leggono il ponderato e affilato Konstantinos P. Kavafis (1863-1933), autore di versi immortali all’incrocio tra cronaca ed epitaffio. Niente, per Kavafis, ha più futuro del passato e per questo, dalle sue parole, trasluce una forza mitica che coglie la modernità nella riflessione del remoto. Per strano che sembri e seppure il greco inizia a poetare quando il veggente di Charleville già abbandona il taccuino, quasi coevi che sono stati, entrambi hanno il luogo della loro straordinaria iniziazione in comune: Parigi. Per il giovanissimo Arthur, che vi fugge a soli sedici anni, è già il fine della sua carriera; per Konstantinos, a qualche decennio di distanza, la città-demiurgo da cui tutto ebbe origine in modo del tutto inavvertito e lontano. Nella Ville Lumière, genius loci della cultura europea e patria della libertà sessuale, un trentenne Kavafis affronterà il proprio destino di poeta e di uomo: si abbandona finalmente alle sue fantasticherie omoerotiche – le labbra carnose di un ballerino russo conosciuto in hotel, gli uomini di cui incrocia lo sguardo nei ristoranti – e decide di non fuggire più dalla propria omosessualità e dal proprio talento poetico. E nel 1897, di ritorno proprio dalla Capitale francese, scrisse una delle sue prime poesie, Cose impossibili: “Disse il poeta: ‘è più amata/ la musica che non si può suonare.’/ Così io credo che sia assai più eletta/ la vita che non ci è dato vivere”. Versi che oggi possiamo rileggere in Tutte le poesie (a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli editore, pp. 700, euro 35) che oltre alle 154 poesie riconosciute da Kavafis in vita, contiene 74 componimenti segreti (ritenuti impubblicabili per il contenuto osceno) e altre 27 poesie residue.

“Di un’inconsueta filosofia” per Edward Morgan Forster e “dall’inconfondibile tono di voce” per Wystan Auden, Kavafis tornerà profondamente cambiato ad Alessandria d’Egitto, che per lui è “la città letterale”, ove condurrà una vita esemplarmente priva di grandi avvenimenti. Di giorno, funzionario al ministero dell’Irrigazione, abitava tra un bordello e una chiesa ortodossa, di fronte a un ospedale; di notte, sgusciava tra i viali bui del centro per incontrare i suoi ragazzi di vita, come racconta in Una notte: “La camera era povera e volgare,/ nascosta sopra l’equivoca taverna […] E là su quel misero e squallido letto/ ebbi il corpo d’amore, ebbi le labbra sensuali e rosate dell’ebbrezza”.

Alla poesia si votò tenacemente, senza curarsi di difenderla dai detrattori né di pubblicarla. Sarà Forster a divulgarla in Europa. Come Rimbaud inventò un francese inaudito, l’unica preoccupazione di Kavafis era la sua lingua: un greco di una semplicità perfetta e radicale. Versi come “E se non puoi la vita che desideri,/ cerca almeno questo/ per quanto sta in te: non la svilire/nei troppi contatti con la gente,/ con traffici e discorsi./ Non la svilire portandola/ troppo in giro, esponendola/ alla quotidiana insipienza/ dei rapporti e degli incontri,/ fino a farne una stucchevole estranea” sembrano provenire in linea retta dal nostro domani. E ciò perché quello che solo all’apparenza sembra un ostinato e malinconico dissotterrare il rimosso della memoria e della Storia è in realtà il tentativo salvifico di custodire la bellezza e l’amore, il corpo e il desiderio, la miseria e la gioia della vita, cosicché la loro fine terrena venga eternata dal margine di splendore mai sciupato ancora possibile solo nella poesia.

 

 

Diavolo d’un Bosch: usa pure l’ossimetro, che misura l’ossigeno nel sangue

Stavolta il sacro fuoco di Harry Bosch comincia da un raccoglitore blu. La Bibbia di ogni detective di Los Angeles: il fatidico quaderno dell’omicidio, che contiene elementi e cronologia di un’indagine. Ogni nuovo prezioso manoscritto di Michael Connelly offre sempre spunti di ammirazione per il suo talento narrativo. Al punto che finanche le descrizioni – di solito noiose, illeggibili e contorte negli altri autori di thriller o gialli – sono illuminate dalla chiarezza. “Entrò nel piccolo ufficio con scaffali su due pareti e la scrivania contro la terza, sotto la finestra. Il divano dal lato opposto della finestra c’era ancora. Su un sottomano verde sopra la scrivania c’era un raccoglitore blu con dentro quasi dieci centimetri di documenti. Era un quaderno dell’omicidio”.

Bosch è a casa del suo “maestro” della Omicidi della LAPD, Los Angeles Police Department, John Jack Thompson, appena morto. È il giorno dei funerali e Bosch deve prendere “qualcosa da parte sua”, come gli ha detto la vedova. Il quaderno dell’omicidio, appunto. Una storia vecchia di trent’anni. Un tossico ventenne, John Hilton, ucciso in auto, in una zona di spaccio sotto il controllo di una gang. Un crimine come tanti e rimasto senza colpevoli. Il detective vuole onorare la memoria del suo “maestro” e indaga. Con lui, per la seconda volta, compare la giovane e misteriosa Renée Ballard, poliziotta che lavora alla Divisione Hollywood. Bosch è ormai in pensione e dà pure una mano come investigatore privato al fratellastro avvocato, Mickey Haller. L’inchiesta principale incrocia altri casi e in uno è risolutivo l’ossimetro, che misura l’ossigeno nel sangue, di moda in questo tempo pandemico. Diavolo d’un Bosch.

 

Il sorpasso di Risi sul socio Gassman e il genio di Fellini

“Indifferente, impaziente, esigente, sarcastico, rompiscatole, simpatico, allegro”: è come Marco Risi descrive suo padre in Forte respiro rapido – La mia vita con Dino Risi. E il libro rispecchia alla perfezione gli otto aggettivi.

Si ride. Si riflette. Ci si commuove. Si ricorda. Si scopre qualcosa. Ci si stupisce. E di nuovo si ride, o magari si prova un po’ di malinconia per ciò che è stato il nostro Paese, la cultura, lo scambio d’idee, la forza e la violenza delle liti per un’idea o un ideale, i suoi rappresentanti, personalità come Fellini, Sonego, Age, Scarpelli, Flaiano, Fellini, Monicelli e ancora, e ancora; perché, come spiega Marco Risi, “non è solo un libro su mio padre, è anche uno spaccato della nostra storia”.

Ha ragione. E quando racconta de Il sorpasso, dei luoghi, dei segreti, della goliardia alta, affresca un “come eravamo” importante, un bianco e nero al quale la nostra fantasia assegna e assegnava il colore, senza fretta; quando si poteva indugiare sui primi piani o i piani sequenza, quando un contadino preso a caso ai bordi di una carreggiata si tramutava in una maschera decennale (“Ma nun gore co ’sta maghina?”, si lamenta ne Il sorpasso seduto sulla spider tra Gassman e Trintignant). E restano sublimi alcune pennellate umane, come il rapporto tra Dino e Vittorio Gassman, “due che fuori dal set non si sono quasi mai frequentati. Tanto giravano sempre insieme, hanno condiviso ben 16 film”, continua Marco Risi.

Ecco un passaggio:

Si amavano tantissimo i due e in tante cose si assomigliavano. Ogni film che facevano insieme era una gara a chi riusciva a conquistare per primo la protagonista femminile e in parecchi casi ne hanno condiviso i favori, qualche volta l’uno all’insaputa dell’altro. Hanno anche avuto una nuora o, per Gassman quasi tale, in comune. Sì perché la mia ex moglie Francesca era stata fidanzata per parecchi anni con suo figlio Alessandro. Quando si lasciarono, ci fu un incontro tra lei e Vittorio, che non l’aveva presa bene, come se fosse finita anche fra loro. Al momento di salutarsi, con una certa enfasi, lui le disse: “E ricordati una cosa: fra i Risi e i Gassman hanno sempre vinto i Gassman!”. Quando lo raccontai a mio padre, si fece una bella risata allegra: “Non è vero!”.

Oppure Monicelli:

“Era quello che più di ogni altro scherzava sulla morte. L’ho visto con i miei occhi nella Chiesa Nuova di corso Vittorio, al funerale di Pasqualino Festa Campanile, cercare con lo sguardo quel regista o quello sceneggiatore più malridotto e fargli cenno che il prossimo sarebbe stato lui: lo indicava, roteava l’indice e poi indicava la cassa da morto”.

E poi Dino Risi con Federico Fellini. “Ma la telefonata tra i due che per me resta mitica è un’altra. ‘Ma tu ci pensi al grande traguardo?’ gli chiese papà. ‘Eh, certo che ci penso!’ rispose Fellini.

Continuarono così per una ventina di minuti ma qualcosa non tornava, e infine se ne accorsero: Fellini alludeva alla fica e papà alla morte. Strano che non fosse il contrario, qualcuno potrebbe dire, ma andò proprio così”.

Insomma, la maghina Italia nun gore più come prima, alla fine ha ragione il contadino, e Marco Risi ce lo ricorda con un bel sorriso e una lacrima.