“Freud”, pillole di psicoanalisi in un (inutile) bagno di sangue

Scrivere una lettera accorata e metterci il nome di un’altra donna, al posto di quello dell’amata: il lapsus, detto anche “alibi”. Precipitare – o sognare di – dalla propria finestra spiaccicandosi sul marciapiede e trovando al proprio fianco… chi altri, se non la madre. Tremare al pensiero di compiere un atto dopo aver rimosso, in maniera più o meno conscia, il trauma da cui quel tremore è stato generato. Se volete fare bella figura al bar illustrando la psicanalisi senza saperne una mazza, allora Freud è la serie che fa per voi. Altrimenti, non fatevi abbagliare dal gusto fine-ottocentesco per la monarchia austro-ungarica corredata di sesso, horror e crimini efferati.

Se nelle intenzioni l’opera austriaca arrivata sulla piattaforma il 23 marzo – e presentata alla Berlinale – ha il mirabile intento di riportare sullo schermo la vita di un giovane “Sighi”, studente di medicina alle prese con l’isteria e la cocaina, nei fatti il regista Marvin Kren e gli sceneggiatori Stefan Brunner, Benjamin Hessler, Marvin Kren infarciscono la psicanalisi di luoghi comuni e, soprattutto, di una trama prêt-à-porter. Freud, che nella vita pare fosse appassionato di gialli, è chiamato a risolvere una serie di efferati omicidi con l’aiuto di una giovane finta medium, manipolata ipnoticamente dai genitori adottivi, due nobili ungheresi che tentano di portare avanti la causa anti-imperatore. Contornato da occhi cerchiati di nero, uomini ricoperti di sangue e tenori cannibali, il Nostro lavora a stretto contatto con un ispettore di polizia e guarda caso, oltre alla medium, psicanalizza anche lui. Bella l’ambientazione (ma finta: i dintorni di Praga anzi che Vienna), bella la fotografia (con qualche sbavatura, crediamo voluta, rosso sangue), belli i costumi (comprese le mascherine di una scena che cita il Doppio sogno dell’amico Schnitzler), ma il racconto potrebbe fermarsi qui. Perché non solo la battaglia di Freud contro il “sistema” della vecchia medicina non sta in piedi, ma l’incrocio con il metafisico splatter accompagna il sonno e fa rimpiangere il caro, vecchio Dylan Dog. Almeno lì si ride con Groucho.

 

Neve e delitti: quanto ci piace il Nord Europa

C’è del marcio in Islanda. Un serial killer va in giro per Reykjavík e dintorni ad ammazzare la gente a coltellate e a cavar loro gli occhi. Kata e Arnar, gli investigatori incaricati del caso, scoprono che tutte le vittime hanno qualcosa in comune: trent’anni prima erano educatori alla Valhalla, una casa di accoglienza per bambini con famiglie difficili. Secondo un rapporto del Governo, la Valhalla era un posto magnifico. Ma chi ci ha vissuto racconta una storia diversa: botte, molestie sessuali, un ragazzino scomparso di notte e mai più ritrovato. Che cosa succedeva davvero in questa casa di accoglienza a nord della capitale, lontana da tutto e da tutti? E chi ha deciso di vendicare le vittime degli abusi?

I delitti di Valhalla è la prima produzione islandese di Netflix. Più che la trama, piuttosto classica, i suoi punti di forza sono l’ambientazione e le atmosfere. Distese infinite di neve, lunghi silenzi, il buio che incombe su tutto. Molto spazio viene concesso alla storia dei detective che danno la caccia al killer: Kata, una mamma divorziata alle prese con i problemi del figlio adolescente, e Arnar, tornato da Oslo dopo che per anni non ha avuto contatti con la famiglia d’origine. I delitti di Valhalla è una serie profondamente islandese, che non fa nulla per imitare i prodotti americani e, anzi, insiste proprio sugli aspetti più locali (per usare le pistole i poliziotti devono chiamare in centrale e farsi dare un codice: una cosa impensabile negli Stati Uniti!). Il consiglio, per sentirsi davvero come dentro un romanzo di Arnaldur Indriðason, è guardarla in lingua originale con i sottotitoli.

Da sempre l’Islanda e i suoi paesaggi mozzafiato sono una location apprezzata dai produttori: sono state girate qui molte scene de Il Trono di Spade, di Vikings e quasi tutta Fortitude, serie di Sky ambientata alle Svalbard. Negli ultimi anni anche le produzioni locali hanno cominciato ad affacciarsi all’estero. Una delle prime a superare i confini è stata Trapped, thriller che inizia con il ritrovamento di un corpo mutilato su un traghetto; trasmessa in Germania, Francia e Regno Unito, nel 2018 è arrivata anche in Italia su TimVision. Ha riscosso un discreto successo pure il legal-drama Réttur, che ha ispirato un remake americano. L’originale islandese è disponibile nel nostro Paese su Netflix, con il titolo Il caso.

Se l’isola di Thor è l’ultima in ordine di tempo, sono anni che il vento del nord soffia forte sul panorama della serialità internazionale. Alcuni casi hanno fatto scuola. In The Bridge, coproduzione fra Danimarca e Svezia, i resti di un cadavere vengono ritrovati al centro del ponte che collega Copenaghen e Malmö, esattamente sul confine tra i due Paesi. Una trovata che ha stimolato la fantasia degli autori di mezzo mondo: a seconda della situazione geografica, nei remake il corpo è stato collocato nel tunnel subacqueo che corre sotto la Manica (The Tunnel) o in una galleria che collega Germania e Austria (Der Pass). Sono danesi anche Borgen, sulla storia di una politica che diventa inaspettatamente primo ministro, l’apocalittica The Rain che è tornata in auge di recente perché racconta di un’Europa decimata da un misterioso virus e il poliziesco Forbrydelsen, esportato con il titolo The Killing.

C’è poco da fare: in Scandinavia thriller e noir vanno per la maggiore e ogni Paese ha le sue serie poliziesche da vantare. Se la Svezia ha Modus, Beck e Il commissario Wallander con Kenneth Branagh, la Finlandia risponde con Deadwind e Bordertown. Più varia la produzione norvegese: spazia dal teen drama Skam, imitato in tutto il mondo Italia compresa, a Lilyhammer in cui Steven Van Zandt – famoso per I Soprano e per essere il chitarrista di Bruce Springsteen – interpreta un mafioso newyorchese che comincia una nuova vita a Lillehammer. Gli ultimi titoli norvegesi in ordine di tempo sono Ragnarok e Bloodride, disponibile dal 13 marzo. Quel giorno su Netflix sono comparse tre nuove serie provenienti dal Nord Europa: se non è un record, poco ci manca.

 

L’uomo è invisibile, ma la donna ci vede benissimo

Sempre sia lodata Elisabeth Moss. Americana, classe 1982, femminista e adepta di Scientology, l’abbiamo ammirata – da Mad Men a The Handmaid’s Tale, tra gli altri – per le innegabili doti attoriali, l’assoluta facilità e felicità interpretativa, la capacità di sparigliare premesse e promesse increspando le labbra, aggrottando le sopracciglia, mettendo il broncio.

Un momento è vittima, l’altro carnefice, o poco meno: non dà alcun punto di riferimento, si riserva la licenza di stupire, di liberare tra occhi e bocca l’impossibile.

Nella sua ultima prova cinematografica, L’uomo invisibile, straccia a distanza il correligionario Tom Cruise. Vi ricordate il tremendo La mummia del 2017? Interpretato da Cruise e Sofia Boutella, fu un flop di critica e botteghino, mettendo a repentaglio le sorti del Dark Universe, ovvero l’inteso rilancio (reboot) degli Universal Monsters, gli horror, i thriller e i fantasy tenuti a battesimo dallo Studio dagli Anni Venti ai Cinquanta del secolo scorso. Dal conte Dracula al mostro di Frankenstein, dall’uomo lupo al fantasma dell’Opera e il mostro della Laguna Nera, questi mostri irretirono pubblico e conquistarono immaginario: si son detti all’Universal, perché non fare come Marvel e Dc e mettere in piedi il nostro universo cinematografico?

Messo tra parentesi il Dracula Untold del 2012, ascritto solo ex post al Dark Universe, per ora la ri-creazione registra un pareggio sofferto: all’iniqua Mummia, risponde questo più che convincente Uomo Invisibile, che causa Coronavirus salta la prevista uscita in sala e arriva direttamente in streaming, su piattaforme quali Chili o Rakuten Tv.

Scrive e dirige l’australiano classe 1977 Leigh Whannell, chiamato a tenere fede al romanzo omonimo di H. G. Wells e pure al primo, celeberrimo adattamento, quello del 1933 con l’invisibile Claude Rains: in realtà, fa di testa propria, ovvero declina al femminile, sposta il focus dal predatore alla preda e, soprattutto, intercetta lo Zeitgeist, alla voce #MeToo.

Girato in Australia ma ambientato nei dintorni di San Francisco, ha in Cecilia (Moss) l’eroina che – non – t’aspetti: la incontriamo mentre scappa nottetempo dalla casa ipertecnologica del fidanzato Adrian (Oliver Jackson-Cohen), uno scienziato ingegnoso (fisica ottica), affluente e maniaco del controllo.

Trova riparo da un amico poliziotto che vive con la figlia adolescente, incassa il sostegno della sorella e, insomma, se la cava, eppure la minaccia è costante, l’insicurezza assillante: udite, udite, la povera Cecilia non si affranca dal timore e dal pericolo nemmeno quando le arriva la notizia che l’ex è morto e le ha pure lasciato un sacco di soldi…

Il criterio uditivo non è peregrino, al contrario, è centrale: all’uomo invisibile si oppone la donna inascoltabile, inascoltata, ovvero, non credibile. Che siano affetti o autorità o entrambi (il poliziotto), l’uditorio è refrattario, scettico, miscredente: se non vedo non credo, se parli non ti ascolto, se denunci non ti reputo attendibile. Non è forse quello che è successo, e che continua a succedere, alle tante proclamate e peraltro asseverate vittime di molestie, abusi e violenze sessuali che hanno trovato riparo sotto l’ombrello del #MeToo?

Non c’è solo il villain invisibile, ci sono – volenti o nolenti che siano – i fiancheggiatori, e questi si vedono benissimo, dentro e fuori lo schermo: affonda Whannell con evidenti addentellati sociopolitici, è così difficile credere a una donna, una donna che si proclama vittima di violenza, e violenza maschile? Di risposte, retoriche e pletoriche insieme, ne è piena la cronaca.

Ma The Invisible Man non è lodevole unicamente per l’ancoraggio ideologico al qui e ora: se la Moss da sola vale il biglietto, pardon, il noleggio, gli effetti visivi sono sorprendenti, ancor più data la ristrettezza del budget (9 milioni di dollari). E anche questi veicolano bene la metafora: Cecilia lotta contro un nemico invisibile. Contro nessuno, dunque, contro tutti. Da vedere.

 

“Stoici come Seneca, rileggiamo l’Odissea”

C’è una espressione che ricorre nella letteratura greca antica per descrivere il principio delle catastrofi: archè kakòn, l’inizio delle cose brutte. Ma gli antichi sapevano che tutto ha un inizio e una fine. Ricorriamo al loro conforto per superare questo momento, e ci facciamo guidare da Maurizio Bettini, classicista, docente di Filologia Classica all’Università di Siena.

Professore, gli antichi erano abituati ad affrontare le avversità, i rovesci della sorte, le calamità naturali e le malattie. Quale autore può aiutarci a mettere in prospettiva questo evento inatteso e a lenire la nostra angoscia?

Due autori classici, e due dottrine: l’epicureismo, cioè Lucrezio, e lo stoicismo, cioè Seneca. Il primo ci esorta a ficcare a fondo lo sguardo nella natura: nell’epicureismo l’amore per il pensiero scientifico (in opposizione a quello di carattere religioso) è fortissimo. Lucrezio vuol “capire” perché certi fenomeni si verificano: alla fine del VI libro del De Rerum Natura lo fa anche con le malattie quando si pone il problema del perché si scatena la pestilentia. Proprio come facciamo noi oggi. Lo stoicismo e Seneca, invece, ci esortano alla sopportazione del dolore e della morte, all’amore per il genere umano, alla ricerca della “vera” libertà, quella che si conquista a partire dall’interno dell’uomo. Sono due atteggiamenti coraggiosi, preziosi, oggi più che mai.

C’è un libro che le ha salvato la vita e a cui ricorre oggi?

Il classico della mia giovinezza è stato l’Odissea, mi ha salvato tante volte. In questi giorni ci sono tornato, e sa perché? Perché è una narrazione che procede calma, come un fiume che scorre sicuro di sé. Dà un senso di serena certezza. Sono esametri che si soffermano sulle cose minute dell’esistenza con la stessa divina grazia con cui danno vita al mondo dei Feaci o l’isola di Circe. Forse il libro più grande che sia mai stato scritto.

Crede sia salutare un atteggiamento stoico, così come lo definiva Marco Aurelio nei Pensieri, un “non lasciarsi trascinare totalmente dalla rappresentazione” della tragedia?

Certo, guai se il buon senso ha paura di mostrarsi per paura del senso comune, come diceva Manzoni. Non credo ai profeti di sventura, quelli che dicono “dopo la fine dell’epidemia nulla sarà più come prima, tutto cambierà, saremo divenuti altri”. Forse che un paio di mesi di isolamento possono mutare abitudini e costumi consolidati da secoli? Quando tutto questo sarà finito saremo tristi per i nostri morti, saremo preoccupati, e ahimè anche in sofferenza, per la nostra economia: ma continueremo a vivere più o meno nello stesso modo di prima.

Lei ha dedicato un libro al dio Vertumno, che è il dio del mutamento, dell’impulso delle cose a trasformarsi. Riflettere sull’impermanenza può aiutarci?

Impermanenza, che bella parola! Beh, quella di Vertumno, sì. Perché è un dio allegro, simpatico, mattacchione, capace di assumere tutte le forme che vuole, come se vivesse dentro una sorta di perpetuo carnevale. Questa è l’impermanenza della vita che vive, quella di chi ama essere altro, cercare altro.

In situazioni di pericolo biologico e di isolamento fisico la dimensione erotica sembra silenziata. Montaigne diceva che bastano il naso otturato o i calcoli renali per smettere di pensare all’amore.

Beh, non dimentichiamo che Montaigne (non faccio pettegolezzi, lo racconta lui) soffriva terribilmente del “mal della pietra” e aveva sperimentato l’impotenza. Insomma, ognuno ha la sua percezione del proprio corpo, così come dell’amore.

Eppure, leggere Ovidio, l’Ars amatoria o le Eroidi, riporta al periodo in cui la vita rinasce, prepara al risveglio di una primavera che ci spetta, magari attardata. Qual è il suo libro preferito di Ovidio?

Proprio l’Ars amatoria, per la grazia e la leggerezza con cui il poeta prende in giro tutto e tutti: Augusto con le sue leggi sul matrimonio e l’adulterio, la letteratura, l’amore stesso. Si può fare un parallelo con il modo in cui Lucrezio, nel IV libro, parla dell’amore: lo odiava, e odiava il sesso. È pesantissimo, quasi volgare. Probabilmente nasce da qui la leggenda che fosse impazzito in seguito a un filtro d’amore. Ovidio no, gioca, si diverte, i suoi versi hanno la trasparenza dello zampillo di una fontana, può parlare di ciò che vuole, come vuole. L’amore è gioia.

Niente mascherine per gli ospedali, ma Airbus le ottiene

Problema: a metà gennaio, con meno di 80 milioni di mascherine “chirurgiche” (e altre 80 milioni ordinate, ma non ancora consegnate) e nessuna di tipo FFP2, gli stock di mascherine in Francia sono quasi inesistenti. In effetti, nel 2013, l’allora ministro della Salute, Marisol Touraine, aveva deciso di sopprimere le “scorte strategiche di Stato”. Allora i responsabili politici, che non osano confessare alla popolazione che le mascherine rischiano di mancare, preferiscono dire che sono inutili. Eppure l’unità di crisi del ministero della Salute è in allerta: “A fine gennaio ci siamo messi in assetto di battaglia per acquistare mascherine in modo massiccio”, ci dice uno dei suoi membri. Due settimane dopo, i risultati sono catastrofici: al 12 febbraio, dei 28,4 milioni di mascherine FFP2 ordinate, ne arrivano solo 500 mila, mentre dei 160 milioni di mascherine “chirurgiche” previste, ne mancano ancora 30 milioni. Come spiegare questo fiasco? Diversi errori sono stati commessi: ordini in ritardo, di volume limitato, mancanza di coordinazione tra ministeri, procedure di appalto pubblico inadatte all’emergenza. “Eravamo consapevoli del fatto che l’onda ci avrebbe sommerso ma non pensavamo che sarebbe stata così violenta”, ci dice un membro dell’unità di crisi.

Il 3 marzo il governo decide di confiscare per decreto tutte le scorte di mascherine sul territorio. “È stato peggio – dice la stessa fonte –. La misura ha prosciugato i circuiti di approvvigionamento tradizionali per due settimane, danneggiando in particolare gli istituti sanitari e le farmacie”. Il risultato più deludente riguarda gli acquisti all’estero: meno di 20 milioni di mascherine sono state importate tra i primi di marzo e il 21. Dall’inizio della crisi il governo ripete: “Nella distribuzione di mascherine bisogna privilegiare il personale medico e i più fragili”. Eppure, per preservare quanto possibile l’economia, non ha mai smesso di rifornire le imprese. Quando finalmente il 20 marzo è stato deciso di liberalizzare le importazioni, il ministero dell’Economia ha creato un’unità apposita per aiutare le aziende a importarne. Una decisione discutibile, data la carenza di mascherine che affligge gli ospedali. Soprattutto se in più queste mascherine non sono destinate solo ai settori “essenziali”. Il caso più emblematico riguarda Airbus. Con la crisi del covid-19 e l’80% della flotta aerea mondiale a terra, non c’è nessuna urgenza di assemblare aerei, eppure Airbus riapre le sue fabbriche in Francia il 21 marzo. Sembra che in materia di mascherine il costruttore abbia goduto di un certo favoritismo: il 20 marzo, il produttore 3M fa circolare un documento confidenziale intitolato “comunicazione covid” in cui, da istruzioni del governo, sono indicati i settori prioritari per le consegne. E Airbus figura nei settori in “priorità 2”, quelli giudicati “essenziali”, come l’alimentare e l’energia. Avrebbe dovuto figurare in “priorità 3”, vale a dire tra i settori “non essenziali”. “Non siamo noi a decidere le priorità”, ci è stato risposto dalla 3M. Secondo un documento interno Airbus è rimasto in “priorità 2” fino al 25 marzo prima di passare in “priorità 3”, insieme alle altre aziende aeronautiche. Il 22 marzo è stato annunciato l’arrivo a Tolosa di un A330 con 2 milioni di mascherine cinesi. Ma è stato dimenticato di dire che una parte del carico era destinato proprio a Airbus: “Dobbiamo garantire la sicurezza del personale che lavora nei nostri siti”, ha confermato l’azienda. Il costruttore si è dunque servito di una spedizione a titolo umanitario per rifornirsi discretamente. Sappiamo che per gran parte degli operai di Airbus portare la mascherina è obbligatorio. Ne servono diverse migliaia ogni giorno, l’azienda non lo nega. “Non ha senso – dice un dipendente di Airbus –, dovrebbero essere donate agli ospedali”. Invece nei 39 ospedali di Parigi e della sua regione, dove lavorano 100 mila professionisti, risultavano in stock al 31 marzo solo 2,4 milioni di mascherine. E 1200 tra medici e infermieri della regione sono contagiati, “quasi il 40%”.

(traduzione Luana De Micco)

Giornalista racconta le carenze nelle corsie e viene arrestata

Prima arrestata, poi rilasciata. Il caso della giornalista Anna Lalic la dice lunga su quanto sia difficile in alcuni Paesi raccontare l’emergenza. Lalic era stata fermata due giorni fa per aver scritto sul portale Nova un articolo critico sulla situazione sanitaria nel principale ospedale di Novi Sad, dove si registra una penuria di materiale necessario alla cura dei malati di coronavirus. Il legale della reporter ha confermato che ieri mattina Lalic è stata rilasciata, ma la polizia non le ha ancora restituito il computer e il telefono. Nell’articolo si sottolineava che medici e personale sanitario al Centro clinico di Voivodina (Kcv) di Novi Sad non dispongono di materiale adeguato a garantire la loro sicurezza. La direzione del nosocomio l’aveva denunciata per aver incentivato la “diffusione del panico”. L’associazione dei giornalisti serbi ha detto che lo stato d’emergenza non può essere un pretesto per soffocare la libertà dei media e accusa il presidente Vucic di voler imbavagliare i media soffocando la libertà e l’indipendenza dei mezzi di informazione. In Serbia vi sono stati al momento 31 morti e 1.171 contagiati.

Aumentano i morti e le critiche a Johnson: contromisure lente

Cresce la pressione su Boris Johnson, ancora isolato con sintomi da coronavirus a Downing Street: ieri i quotidiani principali, compreso l’alleato Daily Telegraph, condannavano duramente i ritardi nell’incrementare i test e nel fornire materiale protettivo al personale medico. Critiche che aumentano con il numero di morti, 2,921, più 569. Ieri il ministro della Salute Matt Hancock ha illustrato un nuovo piano di testing in 5 punti, annunciato la cancellazione dei 13 miliardi di debito del servizio sanitario e confermato uno sforzo logistico per fornire il necessario agli ospedali. Nuove linee guida della British Medical Association chiariscono che, in caso di picco incontenibile, ai pazienti con minori possibilità di sopravvivenza saranno staccati i ventilatori. L’impatto economico: centinaia di migliaia in cassa integrazione, compresi 35mila dipendenti di British Airways. Oltre un milione di richieste di sussidi. Il governo risponde con soldi pubblici a tutti, piano di prestiti agevolati anche alle piccole imprese, con appelli etici della Bank of England ad azionisti e manager: rinunciate a dividendi e bonus.

Putin: “Tutti a casa fino al 30 aprile, ma stipendi assicurati”

Il presidente Putin annuncia il prolungamento dell’auto-isolamento mentre la curva del contagio russo continua a salire e raggiunge nuovi picchi: quasi 4.000 ammalati, 30 morti e 800 nuovi casi registrati ieri. La settimana non lavorativa precedentemente annunciata dal capo di Stato durerà in realtà un mese: non il 6, ma solo il prossimo 30 aprile i russi potranno tornare a circolare. Scuole chiuse, come uffici e università in una Mosca deserta, epicentro dell’epidemia. “Ho deciso di prolungare il periodo di isolamento, ma voglio sottolineare: mantenendo gli stipendi ai lavoratori; il reddito dei cittadini è priorità del governo” ha detto Putin. La Russia “deve collaborare con lo Stato per affrontare l’epidemia nel modo più efficiente, usando sia la nostra esperienza sia quella di altri Paesi”. Il sindaco della Capitale, Sobyanin, impone misure più restrittive che altrove: fino a 500 mila rubli di multa per chi viola le sue disposizioni. Il 2020 potrebbe essere il primo anno in cui la Russia rimanderà la leggendaria parata del 9 maggio sulla Piazza Rossa per celebrare la vittoria nella Seconda guerra mondiale.

Scorta al virologo che nega l’epidemia come complotto

Anthony Fauci, il massimo esperto americano in malattie infettive e un volto della task force contro il coronavirus della Casa Bianca, è stato sottoposto a una sicurezza rafforzata dopo avere ricevuto minacce. Fauci era finito nelle ultime settimane nel mirino dei commentatori di destra e dei blogger che influenzano parte dei sostenitori di Donald Trump: la sua colpa, avere spesso contraddetto pubblicamente il magnate presidente.

Nei suoi briefing, specie nei primi tempi dell’emergenza coronavirus, Trump ha spesso alimentato teorie complottiste, avallando ad esempio la tesi che l’epidemia fosse una macchinazione cinese e che i democratici ne ingigantissero l’impatto per metterlo in difficoltà. Illazioni senza fondamento, che, riprese sui social e da alcuni media di area conservatrice come la Fox, hanno creato ‘discorsi dell’odio’ contro chi, scienza e dati alla mano, lo contraddiceva. Le minacce e la scorta non hanno smosso Fauci. “Si tratta del mio lavoro – ha detto -: questa è la vita che ho scelto di fare e la sto facendo”. Il virologo di origine italiana guida dal 1984 il National Institute of Allergy and Infectious Diseases. Ora, le vittime negli Usa superano le 5.100 e i contagi sono oltre 215 mila, le guarigioni oltre 8.500, secondo i dati aggiornati della John Hopkins University, Gli Stati Usa che hanno invitato i cittadini al ‘tutti a casa’ sono finora 37: ultimi, Florida, Georgia e Mississippi. Ron DeSantis, governatore repubblicano della Florida, ha ieri dato l’ordine, convinto dall’aumento dei casi e da una telefonata di Trump: la Florida resta cruciale dal punto di vista elettorale. La stasi da epidemia ha creato, nell’ultima settimana, 6,6 milioni di disoccupati – fa dieci milioni nelle ultime due –, dieci volte di più che il peggior dato mai registrato prima, 695 mila nel 1982. A New York il governatore Cuomo avverte: i ventilatori polmonari sono disponibili solo per i prossimi sei giorni, se il numero dei pazienti che ne hanno bisogno si manterrà costante. Altrimenti, vi saranno pazienti che moriranno senza aiuto. Cuomo insiste nella richiesta, rivolta al governo federale, di fornire un numero maggiore di equipaggiamenti medici. C’è un settore che trae vantaggio dall’emergenza: è quello delle armi. Le pistole vendute a marzo sono state quasi 2 milioni. Intanto, la convention democratica di metà luglio a Milwaukee è stata rinviata al 17 agosto.

A Perugia c’è chi vorrebbe Cantone, ma il Csm si spacca di nuovo in tre

Raffaele Cantone, ex presidente Anac, ex pm anti camorra potrebbe diventare il nuovo procuratore di Perugia, ma la strada è ancora in salita. Archiviata la tormentatissima nomina del procuratore di Roma, il Csm in piena quarantena da coronavirus affronta un’altra rogna legata strettamente alla prima: la Procura di Perugia, infatti, è competente a indagare sui magistrati della Capitale. Ha in mano pure l’inchiesta che ha spinto nel baratro il Csm, quella sulla presunta corruzione di Luca Palamara, il pm sospeso da funzioni e stipendio, ex potente consigliere del Csm che, con un trojan piazzato nel suo telefono, ha involontariamente registrato un incontro notturno del maggio 2019 in un hotel di Roma con l’amico e collega in aspettativa Cosimo Ferri, deputato renziano, con Luca Lotti, alter ego di Matteo Renzi e imputato a Roma per Consip e con 5 togati del Csm, costretti poi a dimettersi, per le intercettazioni sulla pianificazione della nomina di Roma. Ieri, la Quinta commissione si è divisa in tre. Il presidente Mario Suriano, togato di Area (sinistra) e i laici Alberto Benedetti (M5s) e Michele Cerabona (FI) hanno votato per Cantone, mentre Piercamillo Davigo di AeI e Loredana Micciché di MI (destra) hanno votato per Luca Masini, procuratore reggente di Salerno che ha coordinato l’inchiesta incandescente sui numerosi magistrati del distretto di Catanzaro.

Si è invece astenuto il consigliere Marco Mancinetti, di Unicost, segno che la corrente centrista, passata, come Mi, dopo lo scandalo, da 5 a 3 consiglieri, non ha ancora deciso da che parte stare. Potrebbe seguire Area, che ritiene Cantone l’uomo giusto al posto giusto proprio per gestire il caso Palamara mentre prima non era in cima alla lista per il suo lungo fuori ruolo. Oppure potrebbe seguire AeI, come Mi, che spinge per Masini, con la fama di pm di ferro. Ritiene Cantone troppo politicizzato, dato che fu nominato presidente dell’Anac da Renzi, incarico che lasciò con il governo giallo-verde per tornare al Massimario della Cassazione. Inoltre, è la considerazione ulteriore, Cantone non fa più il pm dal 2007 quando lasciò Napoli e i suoi anni durissimi per disarticolare il clan dei Casalesi che lo voleva morto, tanto che è costretto a vivere sotto scorta.

La corsa, dunque, è aperta anche perché i laici non sono compatti. Si dice che i due della Lega, Stefano Cavanna ed Emanuele Basile non sarebbero per Cantone dopo la sua uscita polemica dall’Anac.