“Al numero 6 non basta più l’ossigeno, chiama la famiglia”

In un angolo, nove sacchi trasparenti che neppure noti tra le attrezzature ancora imballate di questa terapia intensiva allargata d’urgenza. Ma poi, dentro, intravedi delle Nike da corsa, un Twix. Un orologio. Sono gli effetti personali dei 10 ricoverati: uno è stato appena consegnato alle pompe funebri. Perché ora che i funerali sono sospesi, questo è tutto quello che la tua famiglia rivedrà di te.

Muori solo, a Bergamo, senza avere accanto i tuoi cari. E solo vai al cimitero, con un prete che benedice la tua bara con un iPhone sopra perché a casa possano sentire. Fino al 10 marzo, il Policlinico San Pietro, parte del Gruppo San Donato, quello del San Raffaele di Milano, era rinomato per altro: fecondazione assistita e ortopedia. Non aveva mai avuto un reparto Malattie Infettive: ora, invece, i suoi 254 posti sono tutti Covid-19. E i 4 di terapia intensiva sono diventati 10. Ma quella che un tempo era l’area dei malati più critici, ora è riservata a quelli con più probabilità di sopravvivere.

Mentre scrivo, in Italia siamo a 92.472 contagiati e 10.023 morti, e la Lombardia, con le sue 5.944 vittime, resta la zona più rossa. Tra i positivi, qui si ha un decesso ogni 3 minuti e 35 secondi. “E un po’ è anche l’effetto dell’ordine di curarsi a casa il più a lungo possibile. Di telefonare al 118 solo quando proprio si fa molta fatica a respirare”, dice Bruno Balicco, il medico che attualmente è tornato dalla pensione a dirigere il reparto, perché il primario si è ammalato di Covid-19. Un ordine inevitabile, perché gli ospedali sono intasati. E le bare così tante, che è l’esercito a portarle via. O si avrebbe un’epidemia nell’epidemia. “Ma così i malati arrivano qui allo stremo. Con i polmoni ormai compromessi”, dice. Come il paziente 6, che nonostante i tubi, cerca aria. Disperatamente. Ha 67 anni, e nessun’altra patologia. Alla sua sinistra, un monitor indica frequenza cardiaca, pressione, temperatura e livello di ossigeno nel sangue. Ora che ai parenti è vietato entrare, questo è tutto quello che si sa di una vita: cifre, diagrammi, percentuali. Su un ripiano, accanto a due boccette di medicine, non c’è che un foglio fitto di tabelle, ma non c’è il nome.

A un tratto, il corpo ha come un sussulto. E si accende una luce rossa. Un’infermiera si precipita, gli armeggia intorno. Fino a quando la luce si spegne. Dopo un paio di minuti, inizia a lampeggiarne un’altra. “I malati sono tutti uguali – dice Balicco –, hanno tutti lo stesso virus, ma sono tutti diversi. L’evoluzione varia. E quindi, varia l’effetto dei farmaci con cui tentiamo di trovare una cura. Per cui la mortalità non è alta, è vero, rispetto all’altissimo numero dei contagiati. Ma ti senti sopraffatto, perché dimesso uno, arriva un altro: e sostanzialmente, ricominci da zero”.

Polmoniti così, qui erano tipo cinque l’anno. Ora anche 50 al giorno. E al momento la terapia più avanzata consiste nel somministrare ossigeno, e intanto, alleviare il senso di asfissia con antidolorifici. O il coma indotto, nei casi più estremi. Perché l’organismo abbia più tempo di reagire e arrivare da sé dove i farmaci ancora non arrivano.

Ha l’aria stravolta Balicco, come tutti i medici e gli infermieri. Da quando si sono imbattuti nelle prime polmoniti anomale, verso febbraio, è stato tutto rapido, un giorno era un malato, e il giorno dopo dieci: e da piccolo ospedale di provincia, si sono ritrovati al fronte.

Il paziente 6 cerca aria, ancora, boccheggia, si agita, benché sedato. Scosso da fremiti. E a ogni fremito, reclina un po’ il capo, schiude gli occhi, questi occhi rovesciati. Bianchi. Un’infermiera gli aspira la saliva, mentre sullo schermo il numero blu del livello dell’ossigeno nel sangue, che dovrebbe essere 100, scende a 93, poi a 90. Poi risale, 91. Scende di nuovo. Sembra non assorbire l’ossigeno. Si avvicina un’altra infermiera. “Chiamo il dottore”, dice. “Chiama la famiglia”.

Intanto hanno rintracciato la figlia della signora di 70 anni morta ieri. Continuavano a chiamare il marito: che intanto, è finito in ospedale anche lui. “Arrivo subito”, dice la figlia. E Silvia Vanalli resta un momento in silenzio. “No, in realtà… No, non può”, dice. “Neppure adesso”. E la voce si schianta in frantumi. “Abbiamo tentato di tutto. Di tutto. Fino all’ultimo”, dice. “Con la sua mano nella mia. Come… Come fosse stata la sua, giuro. La sua”, dice, e a ogni parola, sembra sparire un po’ di più nella sua tuta bianca tipo Chernobyl, con il nome scritto a pennarello per distinguersi dagli altri, perché questo virus ci ha reso tutti uguali. “E ora?”, ripete la figlia. “E ora? E ora bisogna organizzarsi con le pompe funebri”, dice. E resta così, a singhiozzare con il telefono a mezz’aria.

Mentre il resto del Paese si scambia ricette di torte e consigli contro la noia, qui è trincea. Con il rimorso con cui convivono tutti i veterani: il rimorso di avere la guerra addosso, e trascinarci dentro anche chi si ama. E non l’ha scelta.

“A casa parlo con il mio compagno da dietro una porta”, dice un’infermiera. “Ma onestamente, se posso non parlo proprio. Perché sono qui, pronta a rischiare tutto per degli sconosciuti: ma poi lascio solo chi non mi ha mai lasciato sola”, poi mi fissa e non dice niente e prepara una siringa. E torna dal paziente 6. Che ancora cerca aria. Ancora si agita.

“Tranquillo” gli dice, ma le luci rosse continuano ad accendersi, e il numero blu continua a scendere: e a ogni fremito, sembra quasi volersi liberare dai tubi. Da un angolo, sembra avere lacrime. Chi è? Di dov’è? E cosa fa, nella vita? Quale sarà il suo sacco, all’ingresso? Quello con le Nike da corsa? Chi lascia? E quanto comprende di tutto questo? Quanto sente? Quanto vedono, questi occhi che sembrano guardarti? “Tranquillo. Tranquillo”, gli ripete, con la voce che si fa un sussurro, sempre più, mentre gli asciuga via le lacrime e lo accarezza, piano. E fermo, lo accompagna via.

Rallenta la pressione sugli ospedali, ma i morti sono altri 760 in 24 ore

Sono ancora tanti, troppi. I 760 registrati nelle ultime 24 ore portano la conta dei morti a quota 13.915. Mercoledì erano stati 727. Istituto superiore di sanità e Protezione civile lo avevano previsto: abbiamo raggiunto il plateau dell’epidemia, spiegano da giorni i tecnici, ma la discesa non è ancora iniziata. I numeri comunicati ogni pomeriggio oscillano, e continueranno a farlo. Eppure qualche spiraglio di luce comincia a bucare qui e lì la coltre di buio che il Covid-19 ha gettato sul sistema sanitario, specie nell’Italia del nord.

I dati comunicati ieri dicono che in 24 ore i casi totali sono saliti a 115.242, compresi i decessi e i pazienti dimessi o giudicati guariti (18.278): mercoledì erano 110.574, martedì 105.792.

Il trend si conferma quindi in calo: dal 23 marzo, quando il loro numero era aumentato per la prima volta di una percentuale inferiore al 10 per cento (quel giorno era stato dell’8,10%), si è passati al 4,22% di ieri. Se gli si va a guardare dentro, poi, si scopre che nelle ultime 24 ore sono state 2.477 le persone trovate positive al tampone, che portano il totale a 83.049: mercoledì l’incremento era stato di 2.937 unità, martedì di 2107. Un dato che fa ben sperare in prospettiva, visto che è cresciuto, e non di poco, il numero dei test, arrivati a quota 581.232: solo ieri ne sono stati eseguiti 39.809, circa 5mila in più di mercoledì. Di pari passo la pressione sugli ospedali comincia a far intravedere segnali di decrescita. “Il 61% del totale dei contagiati è in isolamento domiciliare senza sintomi o con sintomi lievi, numero aumentato anche percentualmente, e si riduce quello degli ospedalizzati”, ha spiegato il capo della Protezione civile Angelo Borrelli nella conferenza quotidiana. Tabelle alla mano, i ricoveri sono saliti a 28.540, ma la crescita rispetto a mercoledì è stata di 137 unità, a fronte delle 211 delle 24 ore precedenti. “Dal 27 marzo registriamo anche una riduzione delle persone in terapia intensiva – ha proseguito il commissario – nelle ultime 24 ore abbiamo avuto solo 18 ingressi in più”. In tutto sono 4.053, di cui 1.351 soltanto in Lombardia. È iniziata la discesa, quindi? “I valori si stanno stabilizzando – non si sbilancia Borrelli – ma dobbiamo mantenere alta l’attenzione sui comportamenti: basta nulla e si riavvia il contagio”.

Spiragli di luce arrivano anche dalla Lombardia, dove si concentra la metà dei contagi registrati nel Paese. “Nei dati di oggi troviamo una conferma del trend che va valutato in un arco di 4-5 giorni”, ha detto Fabrizio Sala, vicepresidente della Regione e assessore all’Innovazione, che nel consueto punto pomeridiano ha sostituito Giulio Gallera, ma la velocità con la quale il virus si sta diffondendo è più bassa. Esempio: “Abbiamo 1.292 casi positivi in più di ieri, un dato che porta il totale a 46.065”. Mercoledì erano aumentati di 1.571 unità, martedì di 1.047.

Le notizie migliori arrivano dal fronte dei ricoveri: le persone in ospedale “sono 11.762, 165 in meno di ieri. In terapia intensiva ci sono 1.351 pazienti, nove in più”. Stabile è, poi, il conteggio dei decessi: “Siamo a 7.960, di cui 367 in un solo giorno – ha detto ancora Sala – Mercoledì erano stati 394”. Martedì 381. “Purtroppo è il numero che scende più lentamente”.

Le rianimazioni si alleggeriscono anche altrove. In Toscana, ad esempio, salgono i decessi (268, +15) e i contagi: 5.273, 406 in più complice anche l’aumento dei tamponi (4.149 in 24 ore, record giornaliero), in particolare nelle Rsa: tra il 29 marzo e il 1° aprile sono stati fatti 4.873 test, e 667 (509 ospiti e 158 operatori) sono risultati positivi. Pare stabilizzarsi, invece, il numero dei ricoveri: in totale 1.430, con un aumento di soli 13 casi. Di questi 295 sono in terapia intensiva: 2 in meno.

Ancora meglio fa il Veneto, dove i pazienti in area non critica sono ormai 1.719 (+49), ma quelli in rianimazione scendono di 10 unità a 335. Il numero resta stabile in Piemonte: 456, esattamente come mercoledì.

Guarita da Covid si è riammalata: la prima recidiva

Ricoverata una prima volta, positiva al Covid-19. Poi dimessa, guarita, dopo l’esecuzione di due tamponi risultati entrambi negativi. Dopo una decina di giorni, la recidiva. Febbre, anche se non elevata, e tosse. E il test che conferma: è nuovamente positiva. “Un caso raro”, dice ora Zeno Bisoffi, direttore del dipartimento Malattie Infettive e tropicali dell’Irccs Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, in provincia di Verona. “L’unico caso capitato da noi – prosegue Bisoffi –. Per quanto ne sappiamo solo in Cina sono state descritte alcune eccezioni simili”.

È in questa struttura sanitaria accreditata dalla Regione Veneto che è tuttora ricoverata una giovane donna milanese, proprio di origini cinesi, che si è ammalata di nuovo dopo essere guarita. Occupa uno dei cento posti letto del reparto Covid dell’ospedale, dei quali 14 in terapia intensiva. Non è mai stata grave, mai nelle condizioni di essere intubata per insufficienza respiratoria. E clinicamente sta meglio, potrebbe essere prossima a essere dimessa un’altra volta se l’esito del nuovo test sarà negativo. Ma il suo caso è il classico rebus. “Sono in corso le analisi sul genoma virale, solo quando avremo gli esiti ne sapremo di più”, spiega Bisoffi. La donna ha scelto questo ospedale, istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, quando ha manifestato per la prima volta sintomi che erano riconducibili al coronavirus. Tosse, febbre. Seppure in forma lieve. Era il 4 marzo. Entrava al pronto soccorso, le veniva effettuato il tampone che dava esito positivo, scattava il protocollo previsto e veniva ricoverata. Una settimana così, nel reparto Covid. Senza che, nel corso dei giorni, le sue condizioni si aggravassero o dessero ulteriori preoccupazioni. Al contrario il suo quadro clinico migliorava. “L’abbiamo dimessa non prima di aver eseguito i due tamponi previsti, che ne hanno confermato la guarigione”, ricorda Bisoffi. Tutto sembrava filare liscio. Fino a quando non è di nuovo sopraggiunta una febbriciattola. Ha atteso due giorni poi è tornata al pronto soccorso della clinica veneta.

Era il 23 marzo, erano passati solo dodici giorni dall’ultimo giorno di ricovero. Ed essendo stata dimessa da poco, le veniva nuovamente eseguito il tampone, che risultava positivo. Ma come è stata possibile la ricaduta? Le spiegazioni possono essere tante, come spiega lo stesso Bisoffi. “La prima ipotesi – dice –, è che il virus appartenga a un ceppo virale diverso, anche se dobbiamo attendere gli esami sui due genomi: quello del primo ricovero e quello del secondo. È però un’ipotesi che io ritengo improbabile. Questo virus al momento non sembra soggetto a particolari mutazioni. E considero difficile che una persona guarita, che ha sviluppato gli anticorpi, se esposta a un altro ceppo possa ammalarsi nuovamente. Questo, in assoluto, non vuol dire che non possa essere nuovamente infettata”. Più probabile sembra essere un’altra ipotesi, basata sull’esperienza clinica. È possibile, infatti, che i tamponi eseguiti durante il primo ricovero, prima di dimetterla, non abbiano rilevato la positività perché la donna aveva una carica virale talmente bassa da non essere individuata. “I tamponi – aggiunge Bisoffi –, sono molto sensibili ma non al 100%. Anche per questo, per i casi con un alto sospetto clinico, seppure in presenza di una risposta negativa, per prudenza ripetiamo il test prima indirizzare il paziente eventualmente a un reparto pulito anziché al reparto Covid”.

“Il nostro vaccino-cerotto può esserci già in autunno”

“Siamo in costante contatto con la Food and drug administration per accorciare il più possibile i tempi della sperimentazione”. Da Pittsburgh il professor Andrea Gambotto spiega la corsa contro il tempo del suo team per realizzare il vaccino in grado di spazzare via il coronavirus Sars-Cov2. Gambotto, 53 anni, barese, da venticinque anni in terra americana, lavora su ingegneria genetica, immunoterapie e virus da una vita: Zika, Ebola, Hiv, Mers. Alle 15.37 di ieri il lancio Ansa firmato dalla giornalista Paola Mariano potrebbe rimanere nella storia: “Creato vaccino-cerotto: ok i primi test sui topi”. Lo studio della University of Pittsburgh School of Medicine è stato pubblicato su EBiomedicine della rivista Lancet. “È il primo e unico studio fino oggi, con dati provenienti da sperimentazione animale già effettuata, pubblicato da una rivista scientifica. Il vaccino costerebbe poco e sarebbe facilmente riproducibile su larga scala”.

Professor Gambotto, nell’ipotesi più ottimistica che tempi servirebbero?

Con Fda stiamo appunto valutando la possibilità di accorciare molto la tempistica standard per facilitare il trail clinico. Quindi, saltare il passaggio della sperimentazione su scimmie, ed essere pronti fra uno, diciamo due mesi, alla sperimentazione sull’essere umano.

E si tratterebbe non di una puntura, ma di un cerotto…

Esatto, il PittCoVacc è una specie di cerotto, grande quanto l’impronta di un dito, con quattrocento microaghi che in tre minuti si sciolgono nella pelle senza alcun dolore o sanguinamento: rilasciano l’antigene che scatena la risposta immunitaria, la subunità S1 della proteina virale Spike.

Rimaniamo sull’ipotesi più ottimistica. Tra uno, due mesi parte la sperimentazione sulle persone. E poi?

Correndo, se tutto fila liscio, tra l’autunno e la fine dell’anno potrebbe essere pronto. Sei, sette mesi. E sarebbe un miracolo, ma un miracolo in questo momento possibile rispetto a quanto fatto fin qui e ai dati in nostro possesso.

Ma rispetto agli altri vaccini allo studio qual è la caratteristica vincente del vostro lavoro sul “cerotto”?

È basato, come si può leggere sulla pubblicazione scientifica, su una proteina facilmente trattabile e riproducibile su larga scala, in tempi brevi, dalle case farmaceutiche. Per milioni e milioni di persone. Per tutti i governi del mondo. A prezzo decisamente basso: non potrà costare più di 10 euro a vaccino. Dunque, l’accessibilità a questo tipo di medicinale sarà massima. Per capirci, è un vaccino molto semplice, in qualche modo simile a quello attuale dell’influenza: siamo certi che possa essere efficace.

Perché?

Vede, non è che abbiamo fatto prima degli altri perché siamo più bravi. Ma perché è frutto di un lavoro di anni su un altro coronavirus, Mers, che era arrivato a compimento. Da quello studio nasce questa nuova elaborazione per contrastare Sars-Cov2. E le prime risposte dei test sui topi sono davvero più che incoraggianti.

Vive da 25 anni negli Stati Uniti, le manca l’Italia?

Qui a Pittsburgh la pandemia possiamo dire che stia arrivando adesso. Il mio Paese mi manca, ci torno ogni anno e sono ovviamente preoccupato per i miei affetti, a Bari ho la mamma, che ha 85 anni. E mia sorella. I miei amici. Però voglio essere ottimista e concludere anche sorridendo. In realtà sto facendo tutto questo per un motivo specifico, sono un tifoso sfegatato della Bari: cerco di far riprendere il campionato di Serie C in modo che i ragazzi possano essere promossi (sorride, ndr). Scherzi a parte, possiamo farcela.

“Il contagio si può bloccare: già trovati due asintomatici”

Vincenzo Cascini, sindaco di Belvedere Marittima (Cosenza), paese di 8.000 abitanti circa sul Tirreno si è messo alla testa dei primi cittadini che, senza aspettare la Regione e lo Stato, anche mettendo a disposizione il suo laboratorio di analisi, ha deciso di testare praticamente tutti i suoi concittadini con il kit del sangue per l’individuazione degli anticorpi al Covid-19.

Sindaco, come procede lo screening?

Abbiamo iniziato da due giorni con tutti i dipendenti comunali. Poi andremo avanti con tutti gli altri residenti del mio Comune. Su circa 100 test, abbiamo individuato due persone risultate positive agli anticorpi Igg e Igm.

Cosa significa?

Significa che hanno avuto un contatto con la malattia ma ne stanno venendo fuori in autonomia, perché sono totalmente asintomatici. Ora sono in auto-isolamento, secondo i protocolli sanitari. Li ri-testeremo tra una settimana, il cosiddetto periodo finestra. Ma sono convinto che li troveremo completamente guariti.

Quanto ha pagato i test?

Circa dieci euro l’uno, Iva esclusa.

Come state eseguendo i test?

I dipendenti sono stati analizzati in uno studio attrezzato apposta. Entrano uno alla volta, mantengono le distanze di sicurezza con gli operatori. Invece per i cittadini saranno fatte delle postazioni in strada, come i test-drive che abbiamo visto in tv (in Corea o a Bologna, ndr). I cittadini arriveranno con la propria automobile e si infileranno sotto il gazebo. L’operatore si avvicinerà con tutte le protezioni alla vettura, senza contatto e pericolo quindi. Poi pungerà il cittadino che proseguirà e andrà a casa.

Poi trasmetterete i risultati a casa?

Sì, ai cittadini che hanno aderito alla nostra iniziativa abbiamo chiesto di dare un nome solo per ogni nucleo familiare, il soggetto più esposto per i suoi contatti. Li convocheremo telefonicamente e coinvolgeremo i medici curanti per la comunicazione della diagnosi.

Ha sentito la presidente della Regione Calabria Jole Santelli? E altri sindaci? C’è uno scambio di informazioni sulla sua iniziativa?

Si stanno muovendo oramai tutti. Ho prestato 300 kit a un paese dell’Alto Jonio calabrese, Oriolo. Ho clienti di quelle parti che si appoggiano alla mia clinica. Mi hanno chiesto aiuto e gliel’ho dato.

Oriolo è diventata ‘zona rossa’, c’è stato un picco di contagi e anche il sindaco è risultato positivo. Stanno facendo i test lì?

Credo che abbiano svolto i primi 30 test. Non ho notizie di quali siano i risultati precisi.

E la Regione Calabria come si sta muovendo?

Sta maturando nei vertici regionali la consapevolezza che bisogna procedere con lo screening tramite i test del sangue. E molti Comuni vicini al mio li stanno cercando in autonomia. Solo che i kit ormai sono finiti ed è difficile approvvigionarsi sul mercato mondiale. Per fortuna mi ero mosso con un certo anticipo.

Quali Comuni del comprensorio l’hanno chiamata?

I kit li cerca Praia a Mare, in maniera ostinata, mi hanno chiesto una mano. Poi San Marco Argentano, Acquappesa. Pensi che mi chiamano cittadini dal Lazio per chiedere a me di fare loro il test. C’è un passaparola. I test ora scarseggiano e per averli ci vuole più tempo.

Il test del sangue c’è, ministero della Salute assente ingiustificato

Sono una delle poche armi che abbiamo per lottare contro il coronavirus eppure per il Ministero della Salute restano inaffidabili come test diagnostici. Sono i test del sangue per rilevare la reazione dell’organismo al Coronavirus. Non sono validati come il tampone che resta l’unico esame diagnostico certificato da Oms e Ministero ma possono essere utilissimi per inseguire e mappare il contagio.

Giovanni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive Istituto Superiore di Sanità, frena: “Ancora non siamo in grado di dare una risposta. Non c’è una vera validazione del prodotto che ha il marchio CE ma non sappiamo quale sia la specificità del test. Ci sono 100 prodotti diversi e sia l’Oms che noi ci stiamo lavorando con Spallanzani e San Matteo di Pavia. Bisogna essere cauti”.

Anche il direttore generale della Prevenzione del Ministero della Salute Claudio D’Amario frena: “il limite di questi test anticorpali è che non ci dicono né se il paziente è malato né se sia portatore del virus. Con questo test non facciamo né la sorveglianza né il rintraccio dei contatti”.

Se gli si chiede perché il Ministero non intervenga visto che le Regioni hanno già comprato milioni di test D’Amario replica: “Con quale finalità? Quel test non serve né a fare la gestione né la riammissione nella comunità del paziente perché la guarigione è certificata solo da due tamponi positivi”. Ma se i tamponi non si fanno e le Regioni sopperiscono con i kit del sangue, il Ministero cosa fa? Sta a guardare? D’Amario replica: “Stiamo lavorando a una standardizzazione anche sui test sierologici e faremo una circolare domani (oggi, Ndr) in cui tratteremo anche questo tema dei test sierologici”.

I kit sono sul commercio da poco più di un mese. Sono stati sviluppati da società cinesi e poi anche sud-coreane o americane. Uno dei primi laboratori italiani ad acquistarli e a sperimentarli il centro CAAM di Latina lancia un allarme: “Si annuncia – spiega Adriano Mari del CAAM -un caso mascherine-bis. Il nostro fornitore americano, la Biomedomics, ci ha risposto che non ci può fornire più i test sierologici.Gli Stati Uniti, sono il paese con più contagiati al mondo ed è entrato nel mercato con la sua forza politica. Sarà sempre più difficile comprarli”.

L’aspetto sorprendente è che i test sono venduti in Europa e certificati con marchio IVD-CE ma sono stati testati su poche centinaia di pazienti, talvolta decine.

Paradossalmente la vera sperimentazione la stanno facendo gli ospedali italiani e non sotto l’egida del ministero o della Regione Lombardia, ma delle altre regioni che si stanno ‘sporcando le mani’ per capire il funzionamento dei test.

Il Governatore del Veneto Luca Zaia ha annunciato una campagna di test sierologici e ha comprato 700 mila kit. Anche se il capo della task force sul coronavirus, Andrea Crisanti, sta puntando molto anche sui tamponi: “ne facciamo 3 mila al giorno con il 2-3 per cento di positivi, il picco dei ricoveri è in discesa”.

Liguria e Toscana permettono ai laboratori di fare i test e molte altre Regioni hanno comprato i kit per farli in proprio. In ordine sparso, ognuno compra il suo kit da una società diversa e nessuno comunica i risultati dei test al Ministero. Un Far West.

Il professor Giancarlo Icardi, direttore dell’unità operativa di igiene dell’ospedale San Martino di Genova sta lavorando da settimane su questo fronte. “Abbiamo già testato 1800 operatori sanitari del Policlinico San Martino. Tutti asintomatici. Finora – prosegue Icardi – siamo partiti da quelli più esposti al Covid-19, quelli in trincea. I dati sono confortanti: abbiamo solo il 2 per cento circa positivi. Solo 41 positivi al test degli anticorpi e di questi 34 hanno solo l’IGG, cioè gli anticorpi stabili”. Conclusione di Icardi: “Il kit sierologico non sostituisce il tampone ma è un test che ha un significato molto importante”.

In Toscana il professor Gian Mario Rossolini direttore dell’Unità di Virologia e Microbiologia dell’ospedale di Careggi dice: “Finora ne abbiamo fatti duemila sugli operatori sanitari. Il trend è che poco meno del 5 per cento sono positivi o dubbi perché hanno un segnale debole del dato Igm, cioé l’anticorpo che segnala l’infezione agli inizi. Certamente avere dei protocolli uniformi a livello nazionale potrebbe essere molto utile. Ci sono moltissimi prodotti e noi abbiamo fatto un’analisi di paragone tra due sistemi diversi e i risultati non sono uguali”. A Careggi sono stati trovati 1.113 sanitari negativi al test e solo 54 operatori(4,6% su 1.167) positivi o dubbi dei quali 10 con solo l’anticorpo IgG, quello che dimostra una sorta di immunità. Ennesima conferma che chi va cianciando di immunità di gregge non sa quel che dice.

A parte il caso di un paese come Castiglione d’Adda, focolaio del paziente 1 vicino a Codogno: qui i test sierologici su 60 donatori di sangue dell’Avis hanno mostrato che ben 40, cioé il 70 per cento, avevano incontrato e sconfitto il virus. Nel resto d’Italia le percentuli sono molto più basse.

In Emilia Romagna i test sierologici sono stati avviati da Pierluigi Viale, direttore del reparto malattie infettive del Policlinico Suor Orsola di Bologna e Vittorio Sambri, professore di Microbiologia all’Università di Bologna. Qui sono in arrivo 100 mila kit ma poi ne compreranno “diversi milioni, siamo una regione ad alta penetrazione virale e poi l’unica cosa che non ci manca in questo momento sono i soldi, stiamo ricevendo donazioni generosissime” dice Viale.

Prima di procedere all’acquisto massiccio di kit però hanno comparato una decina di prodotti per arrivare a quello reputato migliore. Per Viale “il test del sangue può essere utilissimo per calcolare il grado di penetrazione del virus”. Finora sono stati fatti solo 100 test su personale sanitario delle malattie infettive. I negativi al tampone sono risultati negativi anche al test sierologico. Gli otto positivi al tampone sono risultati positivi anche al kit del sangue, ma non tutti al primo test.

Nelle Marche è stato acquistato ma non ancora consegnato dall’Azienda Ospedaliera Universitaria Torrette di Ancona il kit che usa il sistema di chemiluminescenza.

La Campania ha comprato un milione di kit del sangue, del tipo “puntura al dito”. Alcuni kit, ma non tutti, sono distribuiti da una società pugliese ma prodotti a Hagzhou in Cina. Il primo prescreening sull’attendibilità dei prodotti è stato fatto su un centinaio di persone che erano già state sottoposte ai tamponi. L’indice di attendibilità sui positivi è pari al 98 per cento e sui negativi scende al 94. Durante lo screening di medici e infermieri dell’ospedale Cardarelli il team trasfusionale diretto dal dottor Michele Vacca ha scoperto tre positivi alla Igg, che ora sono sottoposti a protocolli precauzionali e in attesa di tampone. Dopo i sanitari, spiega Enrico Coscioni, consigliere del Governatore De Luca, “attiveremo uno screening per le categorie professionali più a rischio perché più esposte al pubblico: farmacisti, cassieri di supermarket, lavoratori del trasporto pubblico, forze dell’ordine”.

La Sicilia è più indietro. Il Policlinico di Catania è partito con una iniziativa di acquisto di un quantitativo modesto: 40 kit per 800 euro, cioé 20 euro a kit. Nunzio Crimi, professore di Malattie dell’apparato respiratorio Policlinico di Catania, lo ha testato su sé stesso poi su medici e pazienti e dice: “Può essere uno strumento molto valido per indirizzare l’ospedalizzazione del paziente, capire subito se è un Covid o una normale polmonite per evitare il rischio di infezione ospedaliera”.

In Puglia sono già stati effettuati 480 test sierologici. Il presidente Michele Emiliano ha annunciato uno studio epidemiologico che partità, sotto la vigilanza del professor Luigi Lo Palco, dall’ospedale Oncologico di Bari Giovanni Paolo II.

Anche in Basilicata sono partiti i primi esami sui sanitari con i kit dei test del sangue. Il Direttore generale della Regione, coordinatore della task forse regionale Coronavirus, Ernesto Esposito spiega: “Finora abbiamo fatto 150 test su 600 che abbiamo programmato. Ci risultano finora il 12 per cento circa di casi con entrambi i valori positivi sia Igg sia Igm. Quindi parliamo di una ventina di casi che ora sottoporremo ai tamponi. In questa fase, anche un solo caso individuato tra gli asintomatici va benissimo”.

Oggi dovrebbe arrivare finalmente il parere del Ministero della Salute però il rischio è che ormai sia un po’ troppo tardi.

La visita col sacco nero e il tampone impossibile

“Il medico ha indossato un sacchetto dell’immondizia per visitare mia madre. Poveri medici di famiglia, non hanno mezzi”. L’avvocato Stefano de Bosio racconta così la storia dei suoi genitori, due novantenni soli ad affrontare il virus nel cuore di Milano. Fino all’ultimo capitolo: la diffida presentata alla Regione Lombardia perché effettui un tampone. Prescritto dal medico.

De Bosio agisce per difendere i propri cari, ma anche perché “la loro storia è la stessa di migliaia di anziani chiusi in casa con il virus. Gente che deve poter fare le analisi a domicilio perché ha i sintomi e se uscisse potrebbe infettarsi”. Eppure a tre settimane dai primi sintomi Marta Egri, 88 anni, non sa ancora se ha il virus. De Bosio ne è consapevole: i suoi genitori, pur nella tragedia, hanno più mezzi di altri per affrontarla. Possono cercare sostegno nella sanità privata che in Lombardia fa la parte del leone. Suo nonno, Erno Egri Erbstein, era direttore tecnico del Grande Torino e morì a Superga. Sua madre e sua zia, Susanna Egri, sono coreografe di fama. Marta vive con il marito Gianfranco de Bosio, 95 anni, lui pure noto regista. Una vita lunga e fortunata in una casa affacciata su corso Magenta, uno dei simboli di Milano. Fino a tre settimane fa. “Ho un freddo terribile”, ha cominciato a dire Marta. Poi, la settimana scorsa, un sintomo ancora più allarmante: “Non riesco a respirare”. Arriva il medico coperto con il sacco della spazzatura. Tenta una diagnosi: “Probabile Coronavirus” e prescrive tampone e analisi del sangue. Niente. Chiamare l’ambulanza per un ricovero? “No, in ospedale è più pericoloso. Se non avesse il virus, rischierebbe di prenderlo. A quest’età, in questa situazione, a volte non possono fare altro che sedarla”. Meglio restare a casa, anche se così si rischia di infettare il marito e la donna che assiste la coppia. Unica terapia: antibiotici, perché potrebbe anche essere una polmonite non dovuta al virus. Così passa il tempo e cresce l’angoscia. “Alla fine – racconta de Bosio – dopo decine di telefonate sono riuscito a procurarmi un concentratore, una macchina che produce ossigeno”, già perché una bombola di questi tempi è più rara del platino. De Bosio va a ritirarlo in fabbrica. Ma cosa sarebbe successo a una donna anziana senza un figlio che può procurarle il concentratore, senza i mezzi per pagarlo?

Marta da giorni è appesa all’ossigeno. In condizioni stazionarie. Intanto il figlio chiede alla pubblica assistenza se sia possibile effettuare le analisi del sangue a domicilio: niente. Non ci sono infermiere disponibili. Alla fine ottiene un appuntamento con un laboratorio privato. De Bosio allora chiede al servizio pubblico se si possa fare una lastra: niente. Di nuovo la salvezza arriva da una struttura privata, a domicilio. Il responso è parzialmente rassicurante: i polmoni non sono compromessi. Impossibile, però, sapere se Marta abbia il Covid 19. La donna, il marito e la signora che li assiste restano nell’incertezza assoluta. Beffa nella beffa: l’unico centro di assistenza pubblico che risponde all’appello della famiglia richiede che sia stato effettuato un tampone con esito positivo.

“Degno di Kafka”, sospira de Bosio che alla fine tenta le vie legali: “Ho presentato una diffida alla Regione e, se non avremo risposta, ci rivolgeremo al Tribunale del Lavoro che si occupa di questioni di salute”. Chissà se il virus aspetterà la risposta.

Mancata zona rossa di Alzano: la storia e le responsabilità

“Questo è un tentativo di scaricare su di noi”, ha detto, rispondendo alla stampa ieri mattina, il governatore Attilio Fontana. Il riferimento è al premier Conte, “fine giurista”, e al centro della singolar tenzone c’è ancora una volta la mancata zona rossa per Alzano Lombardo e Nembro, nella Bergamasca, divenuti epicentro del contagio. A differenza di Codogno e del Lodigiano, i due comuni della Val Seriana non verranno mai dichiarati zona rossa. Una decisione che, secondo diversi scienziati, avrebbe ridotto notevolmente la diffusione del contagio, e quindi i decessi. “A marzo abbiamo avuto 110-120 morti: nello stesso periodo dello scorso anno, 14. Basta questo per capire”, ha detto il sindaco di Nembro Claudio Cencelli.

L’epidemia qui è iniziata nel pomeriggio di domenica 23 febbraio, quando il pronto soccorso dell’ospedale “Fenaroli” di Alzano verrà chiuso per tre ore – con tanto di carabinieri e di nastri segnaletici per vietare gli ingressi – e poi subito riaperto. Senza alcuna sanificazione. Quella stessa mattina a qualche centinaio di chilometri di distanza, polizia ed esercito stanno cinturando la zona rossa del Lodigiano, in seguito alla decisione del governo. Ma nel pronto soccorso di Alzano – secondo TPI, Il Post e Chi l’ha visto?, e secondo quanto scritto dal Fatto – qualcosa non torna già prima. Racconteranno alcuni familiari dei pazienti: medici e infermieri indossavano mascherine già dalla mattina del 22 febbraio. Quello stesso giorno era arrivato l’esito del tampone eseguito il 21 – il giorno del paziente 1 di Codogno – all’83enne Tino Ravelli, pensionato di Villa di Serio. Positivo al Covid, il buon Tino morirà la sera del 23: sarà la prima vittima della zona. Nessuno, dall’ospedale, comunica alcunché. Né al ministero della Salute, come vorrebbe una circolare del 22 gennaio, né ai pazienti ricoverati e ai loro familiari che, uno a uno, si ammaleranno. All’ospedale di Alzano, lunedì 24 febbraio, il centro prelievi è aperto e si eseguono gli interventi previsti. Come se nulla fosse. Il 25 febbraio, i casi riscontrati di Covid nella Bergamasca sono dieci: in sei erano passati dal pronto soccorso di Alzano. Il 26 febbraio è l’assessore al Welfare Giulio Gallera a dire: “In Val Seriana i numeri sono non trascurabili, ma è presto per dire se siano tutti legati al contagio di un medico del pronto soccorso di Alzano. Situazione, quest’ultima, che abbiamo già individuato e sottoscritto”. Confindustria Bergamo lancia il suo video-messaggio “Bergamo is running”. Gli amministratori locali ridimensionano l’emergenza. E intanto i positivi salgono in 24 ore del 100%. Il 29 febbraio Gallera ripete: “Nuove zone rosse non sono all’ordine del giorno nell’ordinanza che abbiamo preso, Alzano compreso”. La situazione precipita, il 2 marzo l’Istituto superiore di sanità invia la famosa nota al Comitato tecnico-scientifico in cui si raccomanda una nuova zona rossa per Nembro e Alzano. Il 3 marzo, come ricostruito ieri dal premier nell’intervista al Fatto, lo studio arriva sul tavolo di Conte, che chiede un approfondimento. Così i sindaci aspettano la Regione, la Regione aspetta il governo, il governo aspetta “il parere più articolato”. E arriviamo al 6 marzo. Centinaia di carabinieri vengono avvistati a Osio Sotto (Bg), pronti a predisporre la chiusura della Val Seriana. Ma Conte, nella notte tra il 7 e l’8 marzo, annuncia restrizioni per l’intero territorio nazionale. I carabinieri vanno via: l’Italia è diventata una grande “zona arancione”. Così il focolaio di Alzano resta attivo, e la gente continua a spostarsi e a lavorare in Valle.

Fontana ieri mattina ha detto: “Conte dovrebbe darmi due risposte. Primo, come faccio io che non ho titoli a bloccare un diritto costituzionalmente protetto. Secondo, con quali forze dell’ordine? Noi a Conte l’abbiamo chiesta la zona rossa. Inutile che cerchi di scaricare su di noi”. Ma da Palazzo Chigi ricordano come “sia prima dell’emergenza sia successivamente, i presidenti delle Regioni hanno il potere di emettere ordinanze di carattere urgente in materia sanitaria con efficacia limitata al territorio o parte di esso, secondo la legge 833/1978”. Un potere poi confermato anche dagli ulteriori recenti decreti emessi dal governo, e in base a cui “diverse Regioni hanno creato in autonomia zone rosse”. Come accaduto per Campania, Lazio e Calabria. Non per la Lombardia.

Ritardi e acquisti fantasma: le “mascherine” di Fontana

L’assessore lombardo Giulio Gallera ieri ha scoperto che “in questo momento le istituzioni devono lavorare insieme”. Alla Giunta a guida leghista non è piaciuta la lettera dei sette sindaci di capoluogo del Pd (da Sala in giù) che pongono domande sgradite sulla gestione dell’emergenza Covid-19. Una reazione che arriva dopo settimane in cui Attilio Fontana e soci ripetono come una litania “è tutta colpa di Roma”: ancora ieri il governatore, prima di ripensarci come spesso gli capita di questi tempi, sosteneva “da Roma stiamo ricevendo le briciole: se noi non ci fossimo dati da fare autonomamente, avremmo chiuso gli ospedali dopo due giorni”; per l’assessore al Bilancio Davide Caparini il governo è “sempre in ritardo di almeno tre settimane sui tempi dell’emergenza”.

Questo afflato di centralismo leghista è commovente, ma il punto è: stanno davvero così le cose? Non proprio. La reazione a livello centrale è stata di sicuro lenta e, soprattutto inizialmente, poco efficace, questo a non voler ricordare il mancato controllo sull’aggiornamento e l’applicazione dei piani pandemici regionali. Detto ciò, lentezza, confusione e inefficienza della Regione Lombardia, il territorio più colpito dal virus, sono state e sono di un livello superiore: ancora oggi, per dire, la distribuzione dei materiali sanitari arrivati da Roma non riesce a raggiungere ospedali, residenze per anziani e medici di base (che infatti protestano). Basti citare il virologo Giorgio Palù, che sta lavorando per il presidente veneto Luca Zaia, che ieri ha demolito le mosse della Lombardia con un’intervista sul Corriere della Sera: “Il Veneto ha ancora una cultura e una tradizione della sanità pubblica, con presidi diffusi sul territorio. La Lombardia molto meno”; questo ha fatto sì che tutti i malati lombardi finissero in pronto soccorso e trasformato il Covid-19 in un “virus nosocomiale”.

Prima di passare ai numeri, una premessa. La sanità in Italia è organizzata su base regionale: lo Stato finanzia, ma decidono le Regioni e anche la filiera degli acquisti si gestisce sui territori. Se non si comprende questo, non si comprende quanto paradossale sia la querelle di Fontana & C. contro “le briciole” di Roma.

I ritardi. Guardiamo le date: del 22 gennaio, ad esempio, è la prima circolare della Direzione generale della prevenzione sanitaria (il ministero della Salute) che invita le strutture sanitarie alla “stretta applicazione” dei protocolli stabiliti in casi di epidemia. Cose come “definire un percorso per i pazienti con sintomi respiratori” negli ospedali e negli studi medici in modo da non diffondere il contagio; definire le procedure per la presa in carico dei pazienti anche a casa; far “indossare DPI (dispositivi di protezione individuale) adeguati” al personale sanitario tipo “filtranti respiratori FFP2, protezione facciale, camice impermeabile a maniche lunghe, guanti” per evitare che si infettino. A questo proposito, la previsione era che sarebbero serviti dai 3 ai 6 set di DPI per caso sospetto, da 14-15 per ogni caso confermato lieve, dai 15 ai 24 per ogni caso grave.

Le circolari del ministero non fecero però effetto, come non lo fece la lettera che il 4 febbraio la FIMMG della Lombardia, un sindacato dei medici di famiglia, scrisse alla Regione per chiedere: avete fatto un inventario dei DPI esistenti come previsto dalle linee guida nazionali? Distribuirete le mascherine ai medici di base? Nessuna risposta e, soprattutto, nessun DPI.

Il caso mascherine. È l’argomento su cui la polemica tra la Giunta leghista e le strutture del governo (il commissario Domenico Arcuri su tutti) va avanti da settimane. La Regione, come detto, non ha fatto scorta quando doveva. E ora com’è la situazione? Il fabbisogno della Lombardia è calcolato in circa 300mila mascherine al giorno, 9 milioni al mese (è il 10% del fabbisogno italiano, calcolato in 90 milioni di pezzi mensili): sul sistema “Ada” – analisi distribuzione aiuti – della Protezione civile, i cui dati sono ufficialmente confermati dalla Regione tra 1 e 31 marzo a Fontana e soci sono state inviate da Roma circa 7,3 milioni di mascherine (quasi 5 milioni chirurgiche e 2,3 milioni Ffp2), l’80% dell’intero fabbisogno mensile oltre – tra le altre cose – a 470 ventilatori polmonari per terapia intensiva e sub-intensiva, cioè oltre il 60% dei nuovi posti letto vantati giusto ieri dal presidente Fontana, un centinaio di medici e due ospedali da campo. I DPI, però, continuano a non arrivare dove servono.

La commessa fantasma. E la Lombardia cosa ha fatto? La Regione non fornisce dati precisi, e già questo è un problema, ma le cose sono andate così. A metà febbraio la Giunta ha deciso di centralizzare tutti gli acquisti di DPI in Aria Spa, una società regionale. Risultato: primi ritardi e la scoperta, all’inizio di marzo, che un ordine da 4 milioni di mascherine era da annullare. Perché? “L’azienda si era rivelata inesistente”, ha raccontato il consigliere regionale M5S Dario Violi, circostanza ammessa poi anche dall’assessore Caparini. A quel punto, però, l’emergenza era scoppiata in tutto il mondo, trovare mascherine in giro era quasi impossibile e sono partite le accuse a Roma.

Bomb University

L’ora è buia, anche senza citare Churchill, ma si vede una luce in fondo al tunnel, anche senza citare Gallera (con due elle): “Da oggi – annuncia il dg Fabrizio Salini – la Rai ha una task force contro le fake news: a guidarla Antonio Di Bella, direttore di RaiNews”. Ora, noi non abbiamo nulla contro Salini e Di Bella, brave persone e bravi professionisti, né nulla a favore delle fake news. Ma siamo curiosissimi di conoscere i componenti della “task force”, per via di alcuni precedenti tutt’altro che rassicuranti. Ai tempi dell’Innominabile, i suoi trombettieri – tutti bufalari plurilaureati alla Bomb University – bollavano di “fake news” qualunque verità gli desse noia e ne cercavano freneticamente i mandanti e gli esecutori materiali in terre lontane, soprattutto in Russia, tra Mosca e San Pietroburgo, negli uffici sotterranei dei servizi segreti notoriamente popolati di troll putiniani che passano il tempo a inondare l’Italia di hashtag pro Lega e M5S. Fu allora che il vertice dell’Unione europea, convinto da questi squilibrati che la sua impopolarità fosse dovuta alle notizie false dalla Russia e non alle notizie vere da Bruxelles, decise di dotarsi – ci credereste? – di una “task force contro le fake news”. E di chiamare a farne parte, per l’Italia, due fra i più noti bufalari su piazza: Johnny Riotta e Federico Fubini. Riotta fu insignito di ben due Tapiri d’oro da Striscia la notizia per le fake news del suo Tg1 e definito dal premio Pulitzer americano Glenn Greenwald “l’opposto del giornalismo”. Il secondo, vicedirettore del Corriere della Sera, il 1° novembre 2018 sparò a tutta prima pagina: “Deficit, pronta la procedura Ue”, con tanto di data del lieto annuncio (“il 21 novembre”), mentre il suo corrispondente da Bruxelles, Ivo Caizzi, scriveva l’opposto, cioè la verità: infatti, a un anno e mezzo di distanza, la procedura la stiamo ancora aspettando e temiamo che non se ne farà più niente. Poi, anziché andare a nascondersi, il Fubini si vantò di aver taciuto la notizia dell’aumento vertiginoso della mortalità infantile in Grecia grazie alle politiche europee di austerità, per salvare la reputazione delle politiche europee di austerità. La settimana scorsa, a Prima pagina su RadioRai, vari lettori indignati ci segnalano che è riuscito a citare tutti i quotidiani tranne il Fatto, scambiando il servizio pubblico per il cortile di casa sua. Quindi, all’espressione “task force anti-fake news”, mettiamo mano alla fondina. E non solo noi. Sul web circolano commenti del tipo: “La Rai contro le fake news: temporaneamente sospese le trasmissioni di Rai1, Rai2 e Rai3”. A meno che la task force Rai non segua il motto “Esclusi i presenti”.

Anche Mediaset, fonte purissima e aulentissima di vero giornalismo, è in trincea: trasmette da mane a sera uno spot irresistibile che dice così. “Oggi più che mai l’informazione influenza la nostra vita e la nostra sicurezza” (ma va?). “Le notizie sono una cosa seria” (appunto, voi che c’entrate?). “Fìdati dei professionisti dell’informazione” (tipo la D’Urso, per dire). “Scegli gli editori responsabili, gli editori veri” (quindi, va da sé, Berlusconi). “Scegli la serietà” (e qui, per il principio di esclusione, appare il logo di Mediaset). Nel video gli acchiappafantasmi del Biscione bollano con la X rossa le terribili fake news sul Covid, il freddo e gli animali domestici. Poi fanno esempi di testate “serie”: quelle della ditta (Giornale, Tg5, Tgcom24, Studio Aperto) e alcune esterne che saranno orgogliose dell’accostamento (Corriere, Stampa, Messaggero e Avvenire). Noi, se Dio vuole, non ci siamo.

Ps. A proposito di fake: vi devo un aggiornamento sulle truppe di occupazione russe inviateci da Putin sotto le mentite spoglie di medici ed esperti per l’ospedale di Bergamo, meritoriamente svelate su La Stampa dal purtroppo inascoltato Jacopo Iacoboni. Ieri il nostro eroe ha intervistato uno che, fra nome, cognome e qualifica, occupa mezza colonna di giornale: tale Hamish De Bretton-Gordon, “ex comandante del Joint Chemical, Biological, Radiological and Nuclear Regiment, e del battaglione NATO’s Rapid Reaction” (rapid, poi, con tutta quella pappardella, si fa per dire). Il quale non ha preso per niente bene gli aiuti russi all’Italia, anche se non riesce a spiegare il perché. “È tutto molto strano e non torna”, scuote il capo l’ex comandante del Joint Chemical… insomma quello lì. E perché? Boh. “Gli italiani non hanno quasi bisogno dei consigli russi”. Quasi? Quasi. “Li vedremo nelle strade di Londra dopo?”. E perché mai dovremmo? Mah. “Si tratta di un’unità molto specializzata”. E allora, dov’è il problema? Chissà. “Vorranno scoprire il più possibile sulle forze italiane” e il nostro “dispiegamento di forze”. Ma quali forze? Gli ex alpini dell’ospedale da campo di Bergamo? Ah saperlo. “Senza dubbio ci sono ufficiali del Gru tra loro”. Apperò. “Istituiranno reti di intelligence, ci sarà un’enorme quantità di attività in corso proprio ora”. E chi te l’ha detto? “Non riesco a immaginare come sia potuto succedere, in un Paese Nato”. Se è per questo, pure gli Usa accettano aiuti dai russi, e senza dire niente a Hamish De Bretton eccetera: come sarà potuto succedere? Mah. “Non perderanno un’occasione come questa per raccogliere informazioni e informazioni”. Due volte informazioni? Massì, abbondiamo! “Si può prevedere che queste truppe potrebbero essere recuperate poi in patria”. Ah ecco, quindi non restano qui per sempre. E che tornano a fare? “Per aiutare i russi nella loro battaglia con questo virus”. Russi che aiutano la Russia a combattere il virus: ma vi rendete conto? E questi scoop La Stampa li relega a pagina 12 in basso, anziché spararli in prima? E nessuno ne parla? E le task force anti-fake news che fanno, si grattano? Signora mia, dove andremo a finire.