Converzioni un po’ pelose

Il fenomeno dei convertiti e dei flagellanti da telecamera è ciclico. L’ultimo episodio di Salvini&D’Urso che recitano il Santo Rosario su Canale5 ha fatto ricordare a Gigi Proietti un suo vecchio sonetto, composto nel 2003 e pubblicato in
Decamerino (Rizzoli, 2015). Gigi l’ha aggiornato e ce lo ha regalato.

 

Forse me sbajerò, caro Torquato,
Ma qui ’gni giorno c’é ’na converzione
De quarche peccatore concallato,
Che se pente e se mette a pecorone.

Nun è che se converte da privato:
Pe’ convertisse va in televisione,
Piagne e fa piagne tutto l’apparato;
Chiede consenso e tanta comprensione.

“Credevo solo ar bene materiale,
Nun meditavo su la trascendenza,
Oziavo dentro ar monno intellettuale.

Poi l’ho capito che nun c’era succo,
Materia secca senza quintessenza…
Ah, ‘n momento, che m’arifaccio er trucco”.

L’Istat: a Bergamo +294% e a Brescia +110% decessi

La discesa prosegue, ma è lenta. Ancora 727 morti ieri, erano stati 828 martedì, spiega la Protezione Civile. Il totale dei decessi attribuiti al Covid-19 sale a 13.155. Solo in Lombardia ne hanno contati 394 e 381 il giorno prima: siamo a 7.593 nella regione più colpita; 88 morti in Emilia-Romagna (totale 1.732), 32 in Piemonte (886), 22 in Veneto (499). I contagi rilevati sono 110.574, sono aumentati cioè di 4.782 pari al 4,5%, di poco superiore al 3,9% di martedì. “Il trend ci ha abituati a una decrescita ‘stop-and-go’” osserva il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri che sottolinea le “nuove strategie di testing” e i “circa 34 mila tamponi in più”. Insomma, le oscillazioni sono limitate.

Aumentano soprattutto i casi meno gravi, che non necessitano di ricovero, a riprova di come si riesca finalmente a testare le persone prima che arrivino in ospedale: nella prima fase, specie in Lombardia, era mancato proprio questo. Sono 80.372 i pazienti “attualmente positivi”, che si ricavano sottraendo i deceduti e gli 11.415 dichiarati guariti, con un aumento di 2.937. In isolamento domiciliare sono 48.134 (+2714, 5,9%) contro 28.403 ricoverati (+211, 0,74%) e 4.035 in terapia intensiva, solo 12 in più (0,3%). Andamento simile in Lombardia dove in totale gli attualmente positivi sono 25.765 (+1641, 6,3%), in isolamento a casa 12.496 (+579, 4,8%), nei reparti ordinari 11.927 (+44, 0,4%), in terapia intensiva 1.342 (+12, 0,9%). È così da giorni.

Resta però drammatico il bilancio dei decessi, per quanto diversi studi abbiano indicato che il tasso di letalità sarebbe molto inferiore a quello apparente (11,9% con i dati di ieri) per via di centinaia di migliaia di contagiati asintomatici, poco sintomatici o comunque non rilevati. La letalità si abbasserebbe così fino all’1,1% calcolato da Matteo Villa dell’Ispi, più vicino a quelli di altri Paesi. Se ne discuterà a lungo.

I morti oltre la media “sono quasi il doppio”

Resta l’inquietante eccesso di mortalità. Non solo a Bergamo e a Brescia, le città lombarde più colpite dove tanti anziani sono morti in casa o nelle Residenze sanitarie senza che nessuno facesse i tamponi. È successo, come riportato ieri dal Fatto, anche a Bari. Ora lo dice anche l’Istat, sottolineando in uno studio su circa mille Comuni che a gennaio e febbraio si moriva meno rispetto agli anni precedenti e questo per il “ridotto impatto dei fattori di rischio stagionali (condizioni climatiche ed epidemie influenzali)”. I decessi però aumentano “a partire dalla fine di febbraio e dalla prima settimana di marzo”, quando è iniziata l’epidemia: “Nei Comuni del Nord si registrano le variazioni più consistenti: in oltre la metà i decessi per il complesso delle cause sono più che raddoppiati nel mese di marzo in soli 21 giorni”. A Bergamo si è passati da 101 a 398 con un incremento del 294%, a Cremona (da 54 a 136) del 152%, a Brescia (da 134 a 281) del 110%. I morti ufficiali da Covid sono molti di meno.

Lo conferma uno studio dell’Istituto Cattaneo di Bologna, realizzato sul periodo tra il 21 febbraio (il giorno in cui si è avuta notizia del primo caso a Codogno, Lodi) e il 21 marzo, sempre elaborando la differenza fra la media dei decessi degli ultimi cinque anni e il numero di quest’anno su 1.080 Comuni, che corrispondono a 12,3 milioni di abitanti, poco più di un quinto della popolazione. Sono morte 8.070 persone in più, mentre, al 21 marzo, i deceduti positivi al Covid-19 erano 4.825. Lo scostamento è del 67,2% secondo Asher Colombo, presidente dell’Istituto e Roberto Impicciatore. “Siamo quasi al doppio – osserva Colombo –. È plausibile, quindi, che i decessi aggiuntivi riguardino persone decedute in casa, e sulle quali non è stato eseguito il test”. L’aumento percentuale è più alto nelle regioni più colpite dal contagio e riguarda in misura preponderante gli uomini – che muoiono molto di più per il Covid – rispetto alle donne, ma non al Sud dove si ripartisce in modo più omogeneo tra i due sessi. In Lombardia l’aumento è più che doppio, in Emilia-Romagna è vicino al 75%. Registra invece uno scostamento medio del 18%, su un campione diverso di città, il Sistema di sorveglianza della mortalità, gestito dal Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio per il ministero della Salute, per il periodo tra l’inizio dell’epidemia e il 21 febbraio: 105 morti (88%) sopra la media dell’ultimo quinquennio a Brescia, 289 (36%) a Milano, 70 (50%) a Bari. A Roma, invece, due morti in meno.

“Contagi: 15 province ancora non al culmine”

Ma c’è anche una buona notizia. Secondo l’analisi di Giovanni Sebastiani, matematico del Consiglio nazionale delle ricerche, in 92 province italiane i contagi rilevati quotidianamente scendono da almeno tre giorni e quindi può dirsi superato il picco a meno di choc più o meno rilevanti. Mancano all’appello 15 province che non sono tra le più colpite: Asti, La Spezia, Massa-Carrara, Ascoli Piceno, Rieti, L’Aquila, Benevento e Napoli, Rieti, Catanzaro, Taranto, Agrigento, Nuoro, Oristano e Sassari.

“Uno choc tutti questi morti. La stretta per ora non si allenta”

Presidente Conte, secondo molti scienziati si è raggiunto il picco. Lei ha prorogato le restrizioni fino al 13 aprile. E dopo? Quale schema seguirete?

Non c’è ancora una decisione per il dopo. Nei prossimi giorni ci aggiorneremo con gli esperti e, in presenza di un consolidamento di questi primi segnali positivi, cominceremo a valutare un allentamento graduale. Soprattutto per le attività produttive chiuse. Entreremo nella fase 2 solo quando gli esperti ce lo diranno e solo a partire da alcuni settori. Ma non diamo il messaggio che la stretta si allenta, sarebbe un errore. Per ora non cambia nulla. Penseremo più avanti, se ne ricorreranno le condizioni, a un allentamento per le famiglie, perché questa guerra ha un impatto anche psicologico. A tempo debito potremo pensare ad allentare anche le misure a impatto personale. Sempre mantenendo la logica del distanziamento sociale.

Con questi annunci graduali, “stop&go”, non si rischia di dare il messaggio sbagliato? Già sono molte le persone in giro. Le opposizioni la criticano per le passeggiate con i bambini.

Non abbiamo affatto istituito l’ora del passeggio per genitori e bambini., La circolare del ministero dell’Interno non aveva questo scopo ed è stato chiarito. Una mamma che scende per far prendere aria al proprio piccolo è un conto. Ma se poi questa diventa l’o l’occasione per andare a spasso, è un abuso. E non è consentito.

Preoccupa, ancor più dell’epidemia da contagio, quella che scoppierà a partire dalla crisi economica. Il fondo per l’assicurazione europea sulla disoccupazione da 100 miliardi proposto ieri da Ursula Von Der Leyen va nella direzione chiesta dall’Italia? È soddisfatto o servono gli eurobond?

Il vento in Europa sta cambiando. La presidente Von Der Leyen ha anticipato altre due misure che oggi vanno in approvazione alla Commissione. Gli Stati membri potranno attingere, fino a 100 miliardi, ai finanziamenti per sostenere lavoratori e imprese. Strumento finanziato dall’emissione di bon europei, senza richiedere alcuna condizionalità. E ci verrà consentito l’utilizzo di tutti i fondi strutturali europei: qui il Mes non c’entra nulla. Ma arriveranno anche altri strumenti.

Quali?

Le misure di cui abbiamo parlato ieri con Von Der Leyen andranno integrate con provvedimenti corposi, contro l’emergenza sanitaria e per il sostegno al reddito. Dobbiamo ragionare in ottica europea, come ho spiegato a olandesi e tedeschi. Non togliamo un euro a nessuno. Diciamo solo che, dovendo finanziarci tutti, avremo condizioni più vantaggiose in termini di tassi d’interesse, accesso ai finanziamenti, se costruiamo strumenti che esprimano una politica fiscale e monetaria europea. Immagini un imprenditore che chiede investimenti per sé e una cordata di imprenditori: chi otterrà condizioni più agevolate?

L’Italia finora ha messo in campo 25 miliardi per far fronte alla crisi, meno di altri paesi come Germania e Francia. Di quanto aumenterà i fondi il decreto Aprile?

Ieri abbiamo concordato di stralciare le misure per assicurare liquidità soprattutto alle imprese, come ha anticipato il ministro Gualtieri. Stiamo preparando un apposito decreto, spero di riuscire a portarlo già in Consiglio dei ministri venerdì, proprio per consentire alle imprese un più agevole accesso ai finanziamenti delle banche, fino a 200 milioni di euro, con la garanzia di Stato. Poi vareremo, mi piacerebbe prima di Pasqua, una sorta di manovra di nuove misure economiche di importi molto rilevanti.

Lo Stato avrà così un ruolo sempre più forte nell’economia del Paese…

Non intendiamo nazionalizzare nessuna impresa, piuttosto lavoriamo per tutelare i nostri asset strategici con lo strumento del golden power, da rinforzare anche a livello europeo per le operazioni intracomunitarie. Poi vogliamo abbassare la soglia per cui scatta l’obbligo di notifica alla Consob. Ripeto, non è importante solo uscire, ma come e quando uscire da questa crisi.

Ha detto che rifarebbe tutto ciò che ha fatto finora. Anche la mancata chiusura anticipata delle zone rosse di Alzano e Nembro nella Bergamasca, viste le dure polemiche della Regione Lombardia?

Mi permetta di ricostruire cronologicamente i passaggi. La sera del 3 marzo il Comitato tecnico scientifico propone per la prima volta la possibilità di una nuova zona rossa per i comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Ormai vi erano chiari segnali di un contagio diffuso in vari altri comuni lombardi, anche a Bergamo, a Cremona, a Brescia. Una situazione ben diversa da quella che ci aveva portato a cinturare i comuni della Bassa Lodigiana e Vo’ Euganeo. Chiedo così agli esperti di formulare un parere più articolato: mi arriva la sera del 5 marzo e conferma l’oppostunità di una cintura rossa per Alzano e Nembro. Il 6 marzo, con la Protezione civile, decidiamo di imporre la zona rossa a tutta la Lombardia. Il 7 marzo arriva il decreto. La Regione Lombardia, come tutte le altre, non è mai stata esautorata dalla possibilità di adottare ordinanze proprie, anche più restrittive, secondo la legge 833/1978. Peraltro la Lombardia, quando ha voluto introdurre misure più restrittive, lo ha fatto. Anche Lazio e Calabria hanno disposto altre zone rosse.

Lo scontro con le Regioni – mancato coordinamento e scaricabarile sugli approvvigionamenti – si sta riproponendo quotidianamente.

Non è il tempo delle polemiche, ma di collaborare per assicurare coordinamento di azione ed efficacia operativa

Migliaia di aziende, specie nelle province di Brescia e Bergamo, continuano a lavorare in deroga. Preferiamo, come dice il prof. Andrea Crisanti, il paese dei balocchi al salvataggio delle vite?

Il decisore politico, quando assume una decisione, deve farlo in scienza e coscienza, mettendo in conto tutti gli interessi. Il criterio che ci guida sono i valori costituzionali. La priorità è e resta la tutela della salute. Contemporaneamente cerchiamo di ottemperare all’esigenza di non compromettere definitivamente il tessuto economico. Abbiamo cercato di prendere tutte le misure con massima precauzione e massimo rigore.

Da quei territori oltre alla disperazione, inizia a levarsi rabbia.

Capisco perfettamente la loro rabbia. Stanno vivendo una situazione tragica, con angoscia e dolore per la perdita di tante vite umane. Mai avrei immaginato di vedere aggiornata continuamente la lista dei decessi. È uno degli aspetti più sinceramente dolorosi da quand’è iniziata questa guerra.

Prima del 20 febbraio (“caso Mattia”), l’Istituto di Sanità e, di concerto, il Comitato tecnico e il ministero della Salute avevano ricevuto diversi alert dall’Oms sulla diffusione di una pandemia dalla Cina e di polmoniti interstiziali. Perché non è stato aggiornato il piano pandemico nazionale? L’Iss ha, se non sottovalutato il rischio, almeno attuato misure di prevenzione insufficienti?

Le valutazioni a posteriori sono semplici. Ma lei si immagini se avessimo adottato all’ inizio, quando non avevamo ancora scoperto i focolai, misure restrittive e vincolanti per la popolazione. Nessuno le avrebbe accettate: avrebbero gridato al golpe. È ovvio che in un sistema democratico il concetto di adeguatezza e proporzionalità delle misure da adottare è alla base di tutto. È il metodo che abbiamo seguito. Se poi dovessimo inseguire il dibattito pubblico, un giorno dovremmo assumere misure restrittive e l’indomani fare il contrario. Abbiamo tentato di seguire un metodo chiaro e criteri certi, con responsabilità. E risponderemo delle decisioni assunte.

Lei ha detto alla tv tedesca: “Stiamo scrivendo una pagina di storia”.

Verremo tutti chiamati al giudizio della Storia. E a noi che abbiamo una responsabilità politica verrà chiesto di giustificare il nostro operato. Innanzitutto, se avevamo compreso la gravità di quanto stava accadendo. È la domanda cui saranno chiamati a rispondere tutti i leader europei. Me compreso.

(ha collaborato
Lorenzo Giarelli)

Tutto quel che si sa sul perché Sars-Cov2 colpisce meno le donne degli uomini

Osservando le percentuali di decessi nel mondo, sebbene i numeri siano ancora limitati per un’analisi scientifica, si nota comunque una diversità, seppur ancora modesta, nelle fasce d’età, nella territorialità e nelle abitudini alimentari (obesità soprattutto e diabete). Sarà tutto analizzato. Un dato è dappertutto così evidente che non può che essere dovuto alla fisiologia umana. Mi riferisco al fatto evidente che il numero di decessi in pazienti Covid-19 è in tutto il mondo più alto fra gli uomini. La malattia colpisce 2-3 donne su 10 contagiati.

Sono state avanzate diverse ipotesi. In realtà già nel 2017, studiando il coronavirus che aveva provocato la Sars e la Mers, cugine dell’attuale Covid-19, è stato pubblicato un importate lavoro: Sex-Based Differences in Susceptibility to Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus Infection, Rudragouda Channappanavar, University of Iowa and University Hospital Regensburg, Germany. Lo studio è stato condotto su topi e ha portato a risultati sorprendenti. I decessi, dopo una pari dose infettante del virus, sono stati intorno al 90% dei topi maschi. L’esperimento è stato ripetuto anche per fasce di età e ha evidenziato che tale differenza è molto marcata nella fascia di età di mezzo, mentre diventa meno rilevante nei molto giovani e nei molto anziani. Questo fenomeno si evidenzia anche nell’uomo, forse attribuibile al fatto che i giovani sono tutti, di entrambi i sessi, meno suscettibili alla malattia e gli anziani lo sono tutti anche per altre malattie concomitanti. Studiando il processo infiammatorio a livello polmonare la differenza fra i due sessi è importante.

Le cause sono attribuibili agli steroidi e a geni legati al cromosoma X (nelle donne i cromosomi sono XX, negli uomini YX). Questi geni modulano la risposta immunitaria alle infezioni virali e la produzione di sostanze naturali con attività antivirale. Appare peraltro che, dopo infezione con Sars-CoV, nei maschi ci fosse più produzione di citochine proinfiammatorie implicate nel quadro patologico delle polmoniti provocate dal virus. Il trattamento con estrogeni delle cellule nasali infettate sopprime Sars-Cov2. Una sola malattia colpisce più le donne che gli uomini, l’Alzheimer.

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Dopo il test non si può tornare a lavorare

Tutti ne parlano come fosse una delle possibili leve da usare per liberarsi dal lockdown. Il test del sangue sugli anticorpi potrebbe aiutare a far ripartire il paese. Come? I kit simili a quelli per la gravidanza, di fabbricazione spesso cinese, in vendita a circa 5 euro all’ingrosso, sono più rapidi ed economici del tampone, che resta l’unico test validato dal ministero. Secondo alcuni, se il soggetto sottoposto al test non presentasse anticorpi IgM (quelli dell’inizio dell’infezione) e avesse maturato invece gli anticorpi IgG, cioé quelli stabili che dovrebbero annunciare l’immunità (in teoria) allora si potrebbe considerarlo immune e mandarlo a lavorare. Matteo Renzi al Corriere della Sera ha detto: “Se hanno sviluppato gli anticorpi perché tenerli in casa?”. Per il suo virologo preferito, Roberto Burioni, possono essere messi in campo.

Prima di essere così ottimisti forse tutti dovrebbero fare un passaggio in uno degli studi di analisi più importanti d’Italia. Poi, invece di consigliare a quel paziente con IgG positivo di andare in corsia o alla catena di montaggio, gli consiglierebbero forse di andare in ospedale per fare accertamenti, su di sé. Uno dei maggiori gruppi del settore è il Sant’Agostino, decine di ambulatori per una quarantina di milioni di fatturato, partecipato anche dalla famiglia regnante del Liechtenstein. Il Sant’Agostino ha eseguito una ricerca, per fini non commerciali, usando i kit sierologici certificati dalla società Prima Lab svizzera. Test simili ma non uguali, prodotti in Cina, sono in commercio sul web. In Italia il ministero non li ritiene validi per la diagnosi ma le Regioni li usano perché sono una lucina nel buio lasciato dallo Stato che i tamponi non li fa . Toscana e Liguria hanno permesso ad alcuni centri privati di eseguirli. In Lombardia invece sono stati vietati per uso diagnostico il 26 marzo con una circolare del direttore generale Luigi Cajazzo che il 30 marzo è intervenuto pure sulla ricerca chiedendo ai privati di metterla sotto il cappello della Regione. Il Sant’Agostino si è fermato e ora cercherà un raccordo con le istituzioni. Aveva però già scoperto due cose importanti. Innanzitutto il contagio sembra essere meno diffuso del temuto. Il campione non è rappresentativo ma offre un dato da non disperdere: su 300 dipendenti e collaboratori asintomatici testati, solo due avevano una blandissima positività all’IgM. Quindi nessuno aveva un segnale vero di inizio della malattia. Mentre ben 12 pazienti avevano sviluppato l’anticorpo IgG, quello stabile che fa sognare Renzi e Burioni, perché segnerebbe la fine della malattia e il ritorno “sul campo”. In realtà il Sant’Agostino è andato avanti e ha scoperto che i presunti pazienti “immuni” presentano (almeno quelli finora sottoposti anche a tac e/o Rx) anche i segni di una polmonite interstiziale. Attenzione. Parliamo di 12 soggetti asintomatici, che non avevano mai fatto il tampone perché non sospettavano il Covid-19.

Finora solo quattro casi sono stati sottoposti a esami radiologici e quattro su quattro, a un primo esame, presentano danni silenti ai polmoni. La ricerca del centro milanese è embrionale e deve essere sviluppata ma già dimostra quanto siano utili i test del sangue. Anche perché quei pazienti asintomatici con probabili danni ai polmoni non è detto affatto che siano guariti e che non siano più infettivi. Bisognerebbe sottoporli almeno a un tampone rino-faringeo ma questo non può farlo un centro privato.

“Pochi tamponi e risultati in ritardo per noi medici”

Sei giorni in attesa del referto del tampone, a dispetto della circolare del ministero della Salute del 20 marzo che impone, per il personale sanitario, la comunicazione del risultato entro 36 ore. “Fortunatamente in quei giorni ero a riposo: una pura casualità – dice Mirko Schipilliti –. Ma a tanti miei colleghi è andata molto peggio, hanno atteso giorni il referto pur dovendo rimanere in corsia, senza sapere se erano positivi, mettendo a repentaglio, oltre ai pazienti, le loro famiglie”. Schipilliti è un medico del pronto soccorso dell’azienda ospedaliera dell’ospedale Sant’Antonio di Padova.

Il 17 marzo scorso, la delibera con la quale il governatore Luca Zaia ha disposto lo screening della popolazione, aveva anche indicato, per questa struttura, il tetto minimo di tamponi da eseguire ogni giorno: 3.500. “E adesso siamo a poco meno di 2.000 – dice Schipilliti –, nonostante già dal 1° marzo il ministero avesse diramato la diposizione di aumentare la capacità e il numero dei laboratori. Le aziende sanitarie dovrebbero allinearsi, cercare di ottenere i massimi risultati, dando la priorità al personale sanitario e al paziente con la febbre che deve essere ricoverato. Ma il ritardo non è un problema che si liquida indossando mascherine. Non possiamo più tollerare inerzie o sottostime del rischio, né giocare con procedure così delicate come la sorveglianza. Ogni giorno in più rappresenta un pericolo per il sanitario, i sui famigliari, i pazienti”.

In Veneto ci sono quasi 400 operatori sanitari infettati (dato aggiornato al 30 marzo). E tutto sembra essere costantemente disatteso. Non solo le circolari del ministero ma anche le direttive regionali. Come quella con la quale è stato disposto di procedere alla sorveglianza sanitaria – cioè all’esecuzione dei tamponi su medici, infermieri, operatori sociosanitari – ogni 48 ore fino al quattordicesimo giorno di distanza da quando sono venuti a contatto stretto con una persona a rischio o contagiata. Invece a Padova i tamponi si eseguono ogni cinque giorni, fino al quindicesimo. Altrove, in regione, va anche peggio: i controlli sono previsti addirittura a 0-7-14 giorni. “Abbiamo protestato con la direzione generale e il direttore sanitario senza ottenere risultati – prosegue Schipilliti –. Ci è stato solo detto che c’è un problema tecnico legato alla tipologia delle macchine che processano i tamponi e nulla di più. Personalmente ho dovuto recarmi in ospedale, per fare il terzo test, senza nemmeno sapere se il secondo era positivo. E tutto questo spalanca lo scenario di denunce alla magistratura”.

In questa situazione di limbo, secondo l’Anaao del Veneto (sindacato dei medici dirigenti) si genera anche un cortocircuito giuridico: i sanitari non sanno nemmeno come compilare le autodichiarazioni alle autorità giudiziarie perché ignorano le loro condizioni di salute. “Intanto sono tenuti a recarsi al lavoro – dice Adriano Benazzato, segretario regionale del sindacato –, dove, oltre alla carenza di personale, o mancano le mascherine protettive o mancano i reagenti per i tamponi: anche il governatore è stato costretto ad ammetterlo”. Intanto non c’è ancora traccia dell’indagine sierologica annunciata dal governatore Zaia, che dovrebbe coinvolgere in una prima fase sperimentale i 54mila dipendenti della sanità e delle case di riposo della regione. Test per verificare se un individuo ha sviluppato gli anticorpi. Danno una risposta rapida, in un arco di tempo che varia tra i 10 e i 15 minuti, anche se non hanno la stessa affidabilità del tampone, possono infatti dare falsi negativi o falsi positivi. “Ma per ora siamo solo alla politica degli annunci”, dice Benazzato.

Nel frattempo il numero degli operatori sanitari infettati, in tutto il Paese, continua ad aumentare. Sono saliti a 10.007, erano 9.512 il giorno precedente. La Lombardia è la regione più colpita (oltre 6 mila contagiati tra medici, infermieri, Oss, tecnici di laboratorio), seguita dall’Emilia-Romagna (944). Il Veneto è al terzo posto.

Kit sangue per gli anticorpi: non serve per ritornare fuori

Sul campo della battaglia anti-Covid arriva la diagnostica sierologica. Tradotto: un’analisi del sangue per andare a caccia degli anticorpi che hanno sconfitto il virus. La presenza o meno di questi dati potrà essere un lasciapassare di immunità da dare in mano a determinate categorie per tornare a lavorare.

A dar fuoco alle polveri è la Regione Veneto che ha già varato un progetto in questo senso, acquistando 700 mila kit rapidi da testare prima di tutto sugli operatori sanitari. Una scelta che, a quanto risulta al Fatto, viene concretamente valutata da giorni anche sui tavoli della Regione Lombardia. Qui la prossima settimana si riunirà una commissione per decidere come procedere. Ma non è tutto così semplice come appare. Il primo dato cruciale è capire quanto dura l’anticorpo. “Questo – spiega la professoressa Maria Rita Gismondo del Sacco di Milano – sarebbe un buon metodo per capire chi è immune. Le esperienze sugli altri quattro coronavirus ci dicono che gli anticorpi durano non oltre i 30 giorni”. E questo è un problema perché non sapendo la durata degli anticorpi si rischia di rimandare al lavoro persone che dopo poche settimane non sono più immuni. Il che pone un rischio rispetto alle politiche di riapertura delle attività economiche: una seconda ondata del virus che si sta già verificando in Corea del Sud e a Hong Kong.

Dall’analisi del sangue noi possiamo trovare due tipi di anticorpi collegati tra loro: gli IgM (immunoglobina M) che vengono sviluppati nella fase acuta della malattia e gli IgG che arrivano dopo con un picco a tre settimane dalla malattia. Sono gli IgG che, nella logica della diagnostica sierologica, ci permettono di dire che una persona è immune. La dottoressa Gismondo, oltre a partecipare al tavolo regionale per i kit rapidi, da settimane lavora sul sangue anche di pazienti non Covid che a dicembre hanno avuto polmoniti strane. L’obiettivo è individuare gli anticorpi e studiarli in una prospettiva farmaceutica e poi vaccinale. “Sulla comparsa degli anticorpi – prosegue Gismondo – la loro presenza dipende dalle singole sintomatologie dei pazienti”. Il mantra resta lo stesso: di questo virus sappiamo poco. “E quindi – prosegue la professoressa – anche i kit che ci vengono proposti sono basati sui casi recentissimi di Wuhan”.

Che, al massimo, tornano indietro di due mesi, tempo troppo breve per capire con certezza la durata dell’anticorpo. Sono oltre 200 i kit proposti. “Non tutti sono validi – spiega Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano – e questo può costituire un rischio nei risultati. Di certo la strada è giusta”. Quale kit usano in Veneto? A quanto risulta al Fatto si tratta di uno dei migliori e affidabili sul mercato. L’ultima parola a livello mondiale spetta però all’Oms che in queste ore sta scrivendo una lista non delle aziende che producono kit, ma delle caratteristiche diagnostiche essenziali.

La vera incognita resta sempre la durata dell’anticorpo. I recenti esperimenti sulle scimmie, infettate, guarite e subito esposte al virus, parlano di un’immunità di circa due mesi. Sempre comunque poco in una situazione dove allo stato manca un vaccino o una terapia certa. “A oggi – spiega Remuzzi – la cosa più sicura è che di questo virus sappiamo ancora pochissimo e poco sappiamo di quanto dura un anticorpo”. Sappiamo, però, quali sono i target da analizzare: non certo i sintomatici che di per sé sviluppano gli anticorpi, né i paucisintomatici, visto che a oggi (passato il periodo dell’influenza stagionale) anche un singolo sintomo è con buona certezza riconducibile al Covid.

I target sono gli asintomatici che hanno avuto contatti con infetti. Per questo le categorie che prima di altre devono essere testate sono gli operatori sanitari, ma anche i cassieri o gli autisti dei mezzi pubblici. Oggi, poi, i kit danno una risposta solo qualitativa. “Dicono cioè – spiega la dottoressa Ariela Benigni, coordinatrice delle ricerche al Mario Negri di Bergamo – se gli anticorpi ci sono o meno, non ci dicono in quale quantità sono presenti”. Particolare di non poco conto per prevedere la durata dell’immunità. “Quelli attuali – prosegue la scienziata – al passaggio del sangue mostrano una banda a seconda che trovino anticorpi IgM o IgG”. Gli IgG mostrano una immunità più lunga e restano nella memoria di alcune cellule del sangue che, stimolate anche a distanza di tempo, possono tornare a produrre anticorpi. Questo succederebbe quasi certamente con un vaccino, ma anche con Sars-Cov2 se però si ripresentasse identico, cosa improbabile visto che i virus a Rna, come tutti i coronavirus, sono soggetti a mutamenti costanti e sempre imprevedibili.

“Non ci siamo affidati a una onlus clandestina”

Anche le Marche affidano a Guido Bertolaso, come la Lombardia, e alla onlus dei Cavalieri di Malta, la realizzazione di un ospedale da 100 posti di terapia intensiva. Costo: 12 milioni di euro frutto di donazioni. Una decisione che suscita molti interrogativi, che abbiamo posto al governatore delle Marche, Luca Ceriscioli, tuttora in quarantena dopo l’incontro con lo stesso Bertolaso risultato positivo a Covid-19. “L’esperienza di Bertolaso nell’emergenza e la sua capacità di trovare soluzioni rapide è indiscutibile come dimostra l’ospedale alla Fiera di Milano realizzato in 12 giorni – spiega Ceriscioli –. Con il suo staff collaboreranno la dirigente generale dell’Asur, il direttore generale degli Ospedali Riuniti, il direttore delle Malattie Infettive, della clinica di rianimazione dell’Università di Ancona, il segretario generale, architetti e ingegneri della regione”.

Eppure di Bertolaso va anche ricordata l’esperienza non proprio esaltante della ricostruzione post sisma dell’Aquila: “Ombre che, sono certo, non scenderanno di nuovo su questo progetto che vorrei dedicare al personale medico e paramedico che sta affrontando con sacrifici disumani questa situazione. A giorni verrà rafforzato dall’arrivo di 22 medici, a cui ne seguiranno altri 46”.

Il magistrato Vito D’Ambrosio, già presidente della Regione Marche, si chiede perché la gestione della raccolta fondi di privati venga affidata alla onlus maltese: “Non siamo di fronte a un’organizzazione clandestina – ribatte Ceriscioli –. La onlus fa parte dell’elenco centrale delle strutture operative della Protezione Civile, tant’è che quando ne parlai con Angelo Borrelli non sollevò obiezioni, visto che le procedure a cui debbono sottostare, per quanto semplificate, richiedono tempi ben più lunghi delle onlus, che sono un patrimonio civile del Paese”. Perché non utilizzare, ad esempio, l’ospedale convenzionato Santo Stefano del Gruppo Kos (De Benedetti), appena inaugurato, che dispone di 100 posti letto? “Perché i posti letto sono frazionati su più piani, nessuna delle strutture esistenti possiede caratteristiche adatte a realizzare uno spazio di gestione di queste dimensioni, necessario a ospitare pazienti in terapia intensiva: occorreva una struttura da progettare, sicura e funzionale alla rete ospedaliera regionale”. E a fine emergenza di questo corposo investimento cosa resterà? “Tante vite salvate affette da Covid, e persone affette da altre patologie che, decongestionando gli ospedali, potranno riprendere in tempi brevi l’attività programmata. Inoltre gran parte del materiale donato – generatori elettrici, ventilatori, impianti di gas biomedicale, letti e monitor che resteranno patrimonio della Regione –, servirà per rinnovare e integrare l’esistente”. Grazie alle misure di contenimento sembra che il virus stia rallentando la sua folle corsa, non basta l’ospedale da campo della Marina militare che sorgerà a Jesi da oggi e quello cinese prossimamente? “L’ospedale militare essendo a bassa intensità di cura, sarà utile per alleggerire il carico dei ricoverati; quello cinese avrà un’intensità piu elevata, ma solo 10 posti letto di terapia intensiva. Ma in base ai dati elaborati dal Gores (Gruppo emergenza sanitaria regionale) sull’andamento dell’epidemia, che ipotizza il picco fra il 10 e 12 aprile, il fabbisogno di ricoveri crescerà di 65 posti di terapia intensiva e di 120 in semintensiva”. Come mai ad esempio l’Emilia-Romagna non ha avuto bisogno di ricorrere a Bertolaso? “L’Emilia-Romagna ha un’estensione diversa dalle Marche e in proporzione, un diverso impatto: mettendo in campo l’intero sistema regionale riesce a far fronte all’emergenza con una potenza di fuoco diversa dalla nostra”. O, forse, perché l’Emilia-Romagna ha ascoltato meno le sirene della sanità privata? “Le Marche contano su un esiguo peso della sanità privata che, grazie all’accordo con l’associazione Aiop, stanno utilizzando per pazienti no Covid”.

Due “casse” di milioni per il super ospedale di Fontana&Pazzali

L’unica cosa certa, oltre al bilancio tragico delle vittime è che nelle casse della Lombardia si sta riversando un fiume di denaro: per fronteggiare l’emergenza Coronavirus sono stati attivati non uno ma ben due fondi per reperire risorse private e tamponare le spese per la realizzazione dell’ospedale realizzato in Fiera. Il primo legato direttamente alla regione guidata da Attilio Fontana di cui non si conosce l’ammontare già totalizzato ma che ha sicuramente un donatore d’eccezione: Silvio Berlusconi che ha staccato un assegno da 10 milioni di euro. L’altro attivato dalla Fondazione comunitaria Milano a cui al 29 marzo erano arrivati oltre 21 milioni, tra cui i 10 offerti dall’imprenditore Leonardo Del Vecchio e gli altri 2 raccolti con una sottoscrizione lanciata da Libero e Il Giornale tutti destinati alla struttura che nel fine settimana ospiterà 12 pazienti.

Entro la fine del mese i posti a disposizione dovrebbero essere 205 gestiti direttamente dal Policlinico di Milano a cui la struttura è stata concessa in comodato gratuito dalla Fondazione Fiera di Milano che l’ha realizzata. “Tutto nella massima trasparenza: le singole spese le rendiconteremo una volta che saranno state verificate le singole fatture”, giura l’ad di Fondazione Fiera Enrico Pazzali, manager di lungo corso a cui si attribuiscono tanti sponsor: Forza Italia, ma pure il Pd che fu di Renzi e ora la Lega. Lui se la cava così: “Sono amico di tutti ma intimo di nessuno: una premessa, non sono ciellino” dice smentendo di aver conosciuto Roberto Formigoni prima che lo nominasse ai vertici di Fiera Milano e prima ancora come direttore centrale in regione dove era arrivato da Poste, assunto da Massimo Sarmi in persona.

In Fiera le cose per la verità erano finite malissimo perché dopo 8 anni era stato messo alla porta con un’accusa pesante: aver prodotto un buco da decine di milioni di euro a dispetto di uno stipendio stellare (5-600 mila euro) come pure fu lauta la sua buonuscita decisa dal cda di cui era membro l’attuale governatore Fontana, oltre un milione. Ma c’è pure un’altra ombra a Milano: l’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose in Fiera in cui in un’intercettazione si parlava proprio di lui: “Pazzali mi sa che a giugno lo mandano via. Pazzali è quello che ci ha dato l’ammuttune (la spinta, ndr)”. Un’intercettazione – precisa lui – per la quale non “Sono mai stato sentito dai magistrati”.

Quel che è certo è che Pazzali decide di cambiare aria: e dopo una manciata di mesi nel 2015 viene chiamato dal Ministero dell’Economia per risollevare le sorti di Eur spa di cui il Mef è azionista al 90 per cento. “Non riuscivano ad aprire la Nuvola e mi hanno chiesto aiuto” dice. Ma come ha fatto ad arrivare a Roma resta un mistero, specie senza santi in Paradiso, ancorché giusto ieri Papa Francesco ha voluto scrivergli per benedire simbolicamente il nuovo ospedale.

Da sempre ha ottime entrature, specie al Mef. Specie all’epoca di Pier Carlo Padoan, ministro di Matteo Renzi (e di Paolo Gentiloni poi) quando si pensa proprio a lui all’epoca dello scandalo Consip per la successione all’ad Marroni. Poi non se ne fece nulla, anche se a via XX settembre è sempre stato ben visto anche in tempi più recenti. Sono in molti, per esempio, ad attribuire a Pazzali un legame stretto con la Lega che nel 2018, quando è stato riconfermato come ad di Eur spa, contava eccome al Mef. Sicuramente un’amicizia che è disponibile a rivendicare è quella con Attilio Fontana, anch’egli un tempo in Fiera e che una volta divenuto governatore della Lombardia lo ha chiamato alla guida di Fondazione Fiera. Fontana si fida ciecamente di lui e proprio un suo consiglio è stato determinante per convincere il governatore lombardo a chiamare Guido Bertolaso che Pazzali conosce dall’epoca del terremoto dell’Aquila.

Rama, l’uomo delle contraddizioni albanesi

Cocainomane. Pazzo. La sua casa è un bunker inaccessibile, vive come un asociale. È il capo dei narcotrafficanti… È solo un piccolo assaggio dell’antologia di insulti che puoi raccogliere a Tirana se ti fermi a un caffè con i militanti del Pd, il Partito democratico d’Albania, eterni e feroci avversari dei socialisti al governo.

Oggetto di tante calorose attenzioni è Edi Rama, 56 anni, una laurea in Arti figurative, di mestiere primo ministro dell’Albania. Un personaggio divenuto familiare alla maggioranza degli italiani, pochi giorni fa, quando in un video sapientemente studiato ha annunciato in perfetto italiano l’invio di 30 medici e infermieri per aiutare il nostro Paese nella lotta alla pandemia. Aeroporto di Tirana, aereo pronto a partire sullo sfondo, il premier legge un breve discorso circondato da operatori sanitari protetti da tute bianche e maschere. “Laggiù è casa nostra. Noi non abbandoniamo l’amico in difficoltà”.

Poche parole e un grande gesto che hanno fatto guadagnare a Rama e al suo Paese la stima bipartisan del governo e del mondo politico italiano. Chi è davvero questo leader balcanico dai modi gentili e che parla perfettamente la nostra lingua, forse eredità di una nonna dalle origini italiane, è difficile capirlo. Se giri per Tirana trovi mille tracce lasciate da Edi Rama sindaco della città nel 2000. La città ha cambiato volto nel bene e nel male. Enormi centri commerciali hanno sostituito le vecchie e fatiscenti costruzioni del regime enverista. Piazza Scanderbeg, il cuore di Tirana, è risorta, il Parco della Gioventù è stato risanato con l’abbattimento delle costruzioni abusive nate dopo il crollo del regime. Tutto frutto del Piano regolatore varato dall’amministrazione Rama. Obiettivo: far uscire anche l’architettura della città dal grigiore di due regimi, quello fascista dell’occupazione italiana, e il lungo medioevo enverista. Vanto dei piani di risanamento “le case colorate”, come il Palazzo Arcobaleno, nei pressi della stazione di Biloku e l’edificio viola al Boulevard Bajram Curri, diventati ormai mete turistiche di pregio. Colori e street art, una corsa forsennata vero modelli urbani occidentali, che nascondono sotto il tappeto le contraddizioni delle periferie e dei vecchi kombinat.

L’Albania moderna è paese di contrasti forti. E somiglia per tanti aspetti alla vita politica di Edi Rama. Inizia da ministro della Cultura e della gioventù, nel 2000 diventa sindaco di Tirana, riconfermato col 61% dei voti nel 2003, nel 2005 conquista la guida del Partito socialista albanese del vecchio leader Fatos Nano. Nel 2011 guida le manifestazioni contro il governo di destra di Sali Berisha. La piazza è infuocata, la polizia spara e uccide quattro persone. Rama accusa il governo e il suo ministro dell’Interno, Lulzim Basha, di essere degli “assassini”. Due anni dopo vince le elezioni e diventa primo ministro. Crescita economica, attrazione di investimenti stranieri, soprattutto italiani, modernizzazione della corrotta macchina statale e del sistema giudiziario: sono questi i punti fermi della sua azione. La crescita che nel 2013 era dello 0,5% balza al 3,5 nel 2016, la disoccupazione è al 14,7%, fra i tassi più bassi dell’area balcanica. Successi e contraddizioni. Se parli con Sali Berisha, ex medico personale del dittatore Hoxha ed ex presidente della Repubblica albanese, Rama è “un golpista” e l’Albania “un narcostato” guidato dal partito socialista, ribattezzato “partito cannabista”. Accuse e scontri di piazza che non impediscono a Rama di essere rieletto nelle elezioni del 2017 col 48,34% dei voti.

Rama è capace di districarsi nella politica internazionale. La mossa di inviare aiuti in Italia vuole dimostrare più cose. In primo luogo che l’Albania è riconoscente (per gli aiuti italiani dopo il crollo del regime con le operazioni Pellicano e Arcobaleno) ed è cresciuta. Che vuole accelerare il percorso per entrare nella Ue (la procedura è in corso), e che ha abbandonato progetti come quello della Grande Albania, un unico Stato insieme a Kosovo e Macedonia del nord. “Noi vogliamo solo una cosa, aderire alla Ue”, ha ribadito Rama anche recentemente. E sempre guardando all’Italia.