Mascherine con sorpresa 600mila pezzi “sbagliati”

Seicentoventimila mascherine che sarebbero dovute essere FFP2 (tra le più protettive) ma che, invece, si sono rivelate un flop, inadatte al servizio sanitario, perlomeno a quello italiano: a comunicarlo, in una email indirizzata agli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri di tutte le Regioni, è stato il presidente della Federazione nazionale (Fnomceo), Filippo Anelli chiedendo di sospendere immediatamente la distribuzione e l’utilizzo di quanto ricevuto “informando nel contempo eventuali medici o strutture che ne fossero già in possesso”.

L’allarme è scattato nella serata di martedì, l’ordine dei dispositivi di protezione era stato come di norma inviato dalla Protezione Civile e, secondo quanto raccontato da Anelli, è stato il commissario straordinario per l’emergenza, Domenico Arcuri, (che si occupa degli acquisti e degli approvvigionamenti) ad avvisare del problema. La gestione della comunicazione e la sua tempestività ha evitato che l’incidente si trasformasse in un caso mediatico. Ieri, infatti, lo stesso Anelli ha scritto una lettera formale ad Arcuri accettando le scuse espresse a voce dal commissario il giorno precedente e invitandolo “anche in un’ottica di gestione e prevenzione del rischio” a una seria indagine volta ad accertare i fatti. Poi ha aggiunto: “Ci attendiamo che a breve si possa rimediare e che tutti i nostri medici possano contare finalmente su dispositivi idonei ed adeguati all’esposizione professionale” e ha ringraziato il ministro della Salute, Roberto Speranza “che ci ha confermato la volontà del governo di garantire le mascherine ai medici, sollecitando la Protezione civile a una nuova fornitura in tempi brevi”.

Nel pomeriggio di ieri, poi, è arrivata la conferma che non più tardi della settimana in corso arriverà lo stock di presidi mancante. “Da oggi, d’intesa con Angelo Borrelli (il capo dipartimento della Protezione Civile, ndr), le forniture oggetto di donazioni verranno sottoposte a un controllo a campione – ha risposto in serata il commissario Arcuri –, per essere certi della corrispondenza tra bolla di consegna, indicazioni stampate sulla confezione e prodotti donati. Voglio rassicurarla che ho dato disposizioni di consegnarvi, al più presto, un nuovo stock di mascherine Ffp2. Sulla base del quadro degli approvvigionamenti saremo certamente in grado di rifornirvi entro questa settimana”.

Poco prima era stata la stessa Protezione Civile a spiegare l’accaduto attraverso la conferenza stampa di Borrelli: un problema logistico su una donazione. In pratica, si trattava di una prima tranche di una donazione cinese di un milione di pezzi “convogliati dall’ambasciata italiana in Cina” che avrebbero dovuto essere una riserva straordinaria per gli ordini provinciali per colmare eventuali carenze e per i medici di base. Il carico è arrivato nella tarda mattinata di martedì e portato dai corrieri, ma nonostante riportasse sulle scatole la scritta Ffp2 mentre dentro c’erano mascherine non all’altezza degli standard degli operatori sanitari italiani. Una svista, che secondo le spiegazioni, è stata dovuta al mancato controllo della corrispondenza tra il reale contenuto delle scatole e la bolla di accompagnamento e che ha tolto all’Italia la speranza di poter contare su un m ilione di dispositivi “professionali in più”. Le 600mila mascherine consegnate, intanto, “potranno comunque essere destinate a uso collettivo”, ha detto in conferenza stampa Borrelli.

La passione di Renzi per la farmaceutica

Ieri il senatore Matteo Renzi è intervenuto a Palazzo Madama durante l’informativa sul Covid-19 di Roberto Speranza, ministro della Salute. Per alcuni minuti ha persino elogiato il governo che ha contributo a fondare e che continua a sostenere e da cui spesso tenta di distinguersi, ha celebrato infermieri e medici coinvolti nell’emergenza sanitaria, ha citato gli Stati Uniti, la Statua della libertà, la riapertura graduale, ha reclamato una commissione d’inchiesta parlamentare sui decessi per il virus.

Poi si è esibito in una apologia dell’industria farmaceutica: “Dovremmo riflettere ancora su come la farmaceutica aiuta lo sviluppo: l’Italia è un Paese che ha alcune tra le più grandi aziende farmaceutiche al mondo e per anni abbiamo detto che erano brutte e cattive, che erano Big Pharma, che erano potenti e da ignorare. Abbiamo tutti fatto una scommessa sul farmaco generico, quando in realtà la vittoria contro questo terribile virus, come ha spiegato il ministro, verrà dal vaccino, cioè dalla ricerca, dagli investimenti in questo settore. In questa ottica, il progetto Human Technopole a Milano, che si è un po’ arenato, come potrà cercare di dare un futuro, nei prossimi venti, trenta, quarant’anni, nel rapporto tra allungamento dell’età media della vita e contemporaneamente qualità della vita?”.

Il salto logico dai farmaci generici alla ricerca di un vaccino per il Covid-19 è impresa da funamboli. I farmaci generici si producono dopo la scadenza di un brevetto, si presume ben remunerato nel tempo, e ciò non danneggia la ricerca del vaccino, semmai intacca i profitti.

Renzi non ha una conoscenza scientifica della farmaceutica, ma una assidua frequentazione politica delle multinazionali del settore. Quelle che si sono adontate perché definite – da chi? – “brutte e cattive” o “potenti e da ignorare”. Resta memorabile la visita a Berlino da premier, prima di un bilaterale con Angela Merkel, alla sede tedesca della Menarini per la gioia di Lucia Aleotti, esponente della famiglia proprietaria dell’antico gruppo.

Nel 2018 gli Aleotti – come persone fisiche, dunque non la società – hanno finanziato la fondazione renziana Open con 300mila euro. Forse Renzi ha maturato un sapere sugli emoderivati e l’utilizzo del plasma nelle infinite riunioni di partito con Andrea Marcucci, fedelissimo che non l’ha seguito in Italia Viva.

Il senatore Marcucci, capogruppo del Pd, è consigliere del cda di Kedrion – Big Pharma, si può dire? – che tra i suoi azionisti, oltre alla famiglia Marcucci, ha il fondo Fsi, controllato al 77 per cento da Cdp Equity, cioè dal Tesoro. Non c’è neanche bisogno di suggerire allo Stato di investire denaro in aziende private della farmaceutica. È già successo.

“Regioni e tagli: sulla sanità abbiamo sbagliato anche noi”

“Il nostro sistema sanitario sta dimostrando la forza dell’universalismo, ma anche i suoi limiti: è stato un settore che ha subìto tagli continui negli ultimi dieci anni e manca una guida nazionale che sappia uniformare la sanità su tutto il territorio”. L’ex ministro della Sanità, Rosy Bindi, non lesina critiche anche al centrosinistra: “Oltre ai tagli alla sanità, il sistema regionalizzato ha prodotto esempi positivi, ma anche dei limiti e non scordiamoci che alla vigilia di questa pandemia stavamo parlando di un’autonomia sempre più differenziata…”.

Il nostro Sistema sanitario nazionale è sotto pressione e forse non era preparato all’emergenza: perché?

Premesso che qualsiasi sistema sarebbe stato messo a dura prova da una pandemia di queste dimensioni, sono venuti al pettine due nodi. In primo luogo, c’è una forte carenza di personale medico e infermieristico, insufficiente non solo da ora ma da molto tempo. E poi, l’altro aspetto critico nasce dal sistema regionalizzato: ogni regione fa le proprie scelte e il governo centrale fatica a rendere uniforme il sistema. C’è carenza di una guida nazionale che obblighi le regioni non solo al pareggio di bilancio ma anche alla qualità dei servizi. I conti non sono l’unico problema: molte regioni sono state carenti nei servizi territoriali.

Quindi il Titolo V approvato dal centrosinistra nel 2001 va rimesso in discussione?

In parte, comunque applicato in maniera diversa. È giusto un sistema regionalizzato, ma sulla sanità serve una politica nazionale in grado di armonizzare tutte le regioni. Auspico una programmazione nazionale che possa indicare gli obiettivi alle regioni e obbligare a rispettarli: non ci dimentichiamo che alla vigilia di questa tragedia stavamo pensando a un regionalismo differenziato, una strada opposta rispetto a quella a cui ci dovrà portare questa pandemia.

Per anni si è parlato di modello lombardo, ma questo ha mostrato grossi limiti.

Sicuramente i limiti più evidenti della sanità lombarda sono stati quelli del mancato sviluppo dei servizi territoriali e quello della sanità privata che pesa troppo rispetto a quella pubblica. Anche se non sono mancate carenze nelle altre regioni e a livello centrale.

Per esempio?

Pensiamo alle incertezze iniziali: prima ci avevano detto che le mascherine non servivano mentre adesso probabilmente le dovremmo mettere per mesi. E i tamponi? Non si sa ancora se vanno fatti a tutti o solo ai sintomatici. L’altra lezione che dobbiamo imparare è quella di avere un piano di emergenza pronto a scattare in caso di pandemia.

Secondo la fondazione Gimbe, negli ultimi 10 anni i governi hanno tagliato 37 miliardi alla sanità pubblica. Che responsabilità ha il centrosinistra?

Dopo la stagione dei governi dell’Ulivo a fine anni 90 e a parte la parentesi del 2006-2008, il sistema è stato sottofinanziato: le responsabilità maggiori sono quelle del centrodestra ma le ha anche il centrosinistra, che spesso ha guardato solo al pareggio di bilancio. È stato un errore: da questa tragedia dobbiamo imparare che la sanità è un settore essenziale e al quale non possono mancare le risorse.

Vista la crisi, le mafie hanno praterie soprattutto al Sud. Lei è stata anche presidente della Commissione Antimafia.

Sì, è un tema sottovalutato: le mafie ne approfitteranno perché garantiscono lavoro sporco dove lavoro non c’è, sanità clientelare dove non è assicurata. E non possiamo permetterlo, sia ora sia quando proveremo a ripartire: nessuno si sogni di mantenere la legislazione di emergenza perché le mafie, soprattutto nel settore degli appalti, si assicureranno la fetta più grossa della ripresa economica: hanno grande disponibilità di denaro liquido che potranno mettere nel mercato. Questo è un intervento che spetta all’Unione europea.

In Olanda prime crepe nel fronte del rigore: “Rutte & C. solo egoisti”

Non si può certo dire che i dogmatici olandesi abbiano abbandonato il loro granitico principio che i debiti sono cattivi e ognuno se li paga a casa propria. Ma qualcosa si muove nell’opinione pubblica olandese. E soprattutto nel governo di Mark Rutte. L’uscita “ripugnante” – come l’ha definita il premier portoghese Antonio Costa –, del ministro delle Finanze olandese Wopke Hoekstra, ha prodotto i suoi effetti. All’ultimo Eurogruppo (i ministri delle Finanze dell’euro) del 24 marzo, il rappresentante del partito olandese di centrodestra (cda) aveva chiesto quali misure di bilancio Italia e Spagna prevedevano per rientrare dai debiti passata la crisi del coronavirus, lasciando tutti i presenti di stucco. Due giorni dopo, al summit europeo, il premier Rutte aveva rincarato la dose, ribadendo che “non ci saranno mai coronabond”.

Eppure questo fronte comincia a incrinarsi. Due giorni fa, 60 eminenti economisti e banchieri olandesi hanno scritto un appello al governo per fargli accettare i coronabond, non tanto per solidarietà, ma per un mero calcolo economico. Se il mercato unico va a picco – è la tesi – l’economia olandese crolla insieme all’Europa.

Sul piano sanitario, scrivono gli economisti, “la salute degli olandesi dipende dalla situazione sanitaria degli altri Paesi con cui siamo in contatto. I Paesi Bassi non saranno liberi dal virus se saranno circondati da Paesi con persone malate. E il contatto è vitale per una nazione votata al commercio come i Paesi Bassi”. Sul fronte economico “è ora importante aderire a un approccio europeo. È nel nostro interesse che Paesi come l’Italia, la Spagna e il Portogallo, possano affrontare la crisi”. Universitari e banchieri olandesi avvertono Rutte: “La lotta contro un nemico comune, il virus, non deve far sprofondare l’eurozona in una crisi. La Bce è ancora una volta in testa, con la sua decisione di acquistare i titoli di stato. Ma non può farlo da sola. Ha bisogno del sostegno dei leader dell’Ue e dei Parlamenti nazionali. Devono garantire la legittimità democratica combattendo la crisi con una gamba di bilancio comune”.

Insieme agli economisti le pressioni arrivano dai banchieri centrali, che chiedono con insistenza al premier Rutte di accettare l’idea dei coronabonds. “È auspicabile che emerga una risposta europea alla crisi. A turno, possiamo acquistare Coronabond o nuove obbligazioni emesse dal Mes (l’ex fondo salva-Stati, ndr)”, ha detto qualche giorno fa Klaas Knot, il governatore della Banca centrale dei Paesi Bassi. E prima di lui il suo predecessore, Nout Wellink: “Non saremo più un Nord ricco se il Sud cadrà”.

E adesso si muovono anche pezzi del governo. Il leader del partito liberal-sociale D66, Rob Jetten, ha scritto ieri un articolo durissimo contro la posizione olandese: “Nella tradizione del suo predecessore Jeroen Dijsselbloem del PvdA – si legge – il ministro delle Finanze Hoekstra approfitta di questa crisi umanitaria per dare lezioni di disciplina di bilancio agli europei del Sud gravemente colpiti. Un contabile nel bel mezzo di una desolante sofferenza umana. Ora è il momento della solidarietà. Governo smettila di bloccare. Assumiti la tua responsabilità. Pensa in modo costruttivo. Per gli altri e per noi stessi”. Il D66 è una parte importante della coalizione di governo, con 4 partiti (i liberali Vvd di Rutte, i cristiano democratici di Hoekstra, il D66 e l’unione dei cristiani). Suoi i ministri di Interno, Lavoro ed Educazione.

E Rutte? Ieri, in un acceso dibattito al Parlamento, ha mantenuto la sua linea di chiusura: “I bond europei sarebbero un trasferimento di soldi dal Nord verso il Sud dell’Europa”. “Rutte è un pragmatico, può fare marcia indietro”, spiega Sophie In’t Veld, eurodeputata del D66 ed esperta di materie economiche. “Noi olandesi – prosegue – non dobbiamo fare gli stessi errori fatti con la Grecia. Ora si cercherà di far passare un ‘fondo comune corona’ con soldi da tutti i Paesi europei, ma non è la strada giusta. È una questione psicologica, il pregiudizio contro i fannulloni del Sud, da noi è più forte dell’interesse economico. Almeno finora”. Ieri il ministro delle Finanze ha chiesto scusa per le sue parole e la mancanza di empatia verso chi soffre. Un primo passo.

* Investigate Europe

Bruxelles prova a mediare, ma il Mes rimane in campo

A una settimana dal Consiglio europeo della discordia non c’è ancora un accordo sulla risposta comune dell’Eurozona alla crisi economica innescata dalla pandemia. Italia e Spagna, insieme ad altri Paesi appoggiati dalla Francia, continuano a chiedere uno strumento di debito comune (i “coronabond”), mentre la Germania e i suoi satelliti aprono solo all’utilizzo di strumenti già esistenti, come il Meccanismo europeo di stabilità, l’ex fondo salva-Stati che è stato al centro dello scontro dell’eurosummit di venerdì scorso.

In questo scenario, Bruxelles prova a mediare. Oggi Ursula von der Leyen annuncerà due nuove misure. La prima è un fondo attraversi cui la Commissione europea emetterà titoli garantiti dagli Stati membri sui mercati fino a un massimo di 100 miliardi per sostenere i sussidi di disoccupazione dei singoli Paesi, innovazione che l’Italia ha sostenuto da tempo. Non è però una vera mutualizzazione del debito, ma uno schema finanziario per mettere a leva un capitale iniziale di 25 miliardi che sarà stanziato a garanzia dai Paesi: i fondi saranno raccolti e poi prestati a tassi molto bassi agli Stati membri. La seconda proposta è di eliminare l’obbligo per i Paesi di restituire i fondi strutturali europei non spesi e di doverli co-finanziare con fondi nazionali.

Le misure sono state accolte positivamente dall’Italia. “Le considero parte di un più ampio piano complessivo”, ha detto ieri Giuseppe Conte. Il grosso, però, arriverà dalla vera risposta comune. Il premier ha detto che l’Italia è pronta ad accettare l’utilizzo del Mes, ma solo senza condizionalità. “Così com’è è inadeguato, questo è uno choc simmetrico che colpisce tutti i Paesi – ha spiegato –. Solo se verrà snaturato con l’assegnazione dei soldi a tutti i Paesi senza condizioni successive o preventive diventerà utile”.

Attualmente il Mes ha una potenza teorica di 410 miliardi. Ha messo a disposizione le linee di credito precauzionali, con cui può prestare fino al 2% del Pil di ogni Paese beneficiario (36 miliardi per l’Italia) ma dietro pesanti condizionalità, la messa sotto tutela della politiche fiscali per rientrare dal debito ( agli di spesa e aumenti di tasse sul modello già visto in Grecia). L’offerta di Berlino & C. di far scattare le condizionalità solo a crisi finita è stata bocciata dall’Italia e dal “fronte del Sud” (tanto più che al momento basta il maxi programma di acquisti di debito messo in campo dalla Bce). Per evitare questi severi paletti serve modificare lo Statuto del Mes o mettere in piedi uno strumento nuovo, ma che, sulla scia del Mes, consenta ai Paesi del Nord di evitare una vera forma di debito comune.

Ieri il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, ha proposto dalle colonne del Financial Times la creazione di un fondo comune di salvataggio europeo, con una durata limitata di 5-10 anni.

La “bomba” dei contagiati: a spasso in 311 in sei giorni

Trecentoundici contagiati che non hanno rispettato la quarantena e quasi 29 mila sanzionati negli ultimi sei giorni. Solo ieri su 230.951 persone controllate su tutto il territorio nazionale, in 6.608 sono stati “sorpresi” in strada senza alcuna “comprovata necessità”, ossia non si stavano spostando per andare al supermarket o in farmacia, ma magari passeggiavano anche lontano da casa. Quello dei sanzionati è un numero che da domenica scorsa è rimasto più o meno costante: oltre 6 mila persone al giorno dovranno pagare multe da 400 a 3.000 euro. E poi ci sono i contagiati che non rispettano il divieto di uscire di casa. In un momento in cui una parte della politica auspica l’apertura quantomeno di alcune attività produttive, è questo un fenomeno che – seppur fortunatamente non particolarmente diffuso – preoccupa moltissimo il Viminale. “Sono bombe a orologeria sul territorio” spiegano dal ministero dell’Interno. Martedì 31 marzo ne sono stati identificati 39, più del doppio dei 15 di lunedì. Sono coloro che escono di casa sprezzanti del pericolo che rappresentano per gli altri.

Nei giorni scorsi molti casi sono finiti sulle cronache dei giornali. Come il 50enne di Anzio che il 21 marzo è stato denunciato perché portava fuori il cane senza indossare alcuna protezione nonostante fosse in isolamento da ormai sette giorni perché positivo al Covid-19. Lo stesso giorno, a Milano, i carabinieri hanno fermato anche una donna senza fissa dimora scappata dal Policlinico dove era ricoverata. E di casi di contagiati che escono di casa, magari per andare a fare la spesa, ce ne sono a decine. Sono stati tutti denunciati in base all’ex articolo 260 del testo unico delle leggi sanitarie e che ora prevede l’arresto da 3 a 18 mesi e un’ammenda da 500 a 5.000 euro.

Le loro denunce sono finite in fascicoli ora in mano ai magistrati, molti dei quali sono convinti che, per questi casi, sia impossibile dimostrare il reato di epidemia colposa. I pm infatti dovrebbero innanzitutto provare che il soggetto era positivo al coronavirus e questo lo si può fare avviando dei controlli magari nei database delle strutture ospedaliere. Poi però bisogna anche dimostrare la diffusione del contagio e capire quante persone abbia infettato. Facendo un esempio concreto, se un positivo al Covid-19 va in un supermercato e viene fermato mentre torna a casa, bisogna rintracciare le persone che ha contagiato mentre faceva la spesa. É una verifica troppo complicata. Per questo in alcune Procure, come quella di Roma, si sta riflettendo anche sulla possibilità di contestare il reato di lesioni.

Non si riducono intanto i controlli delle forze dell’ordine. E nei prossimi giorni partiranno anche con i controlli a campione sulle auto-certificazioni. Bisognerà capire se quanto dichiarato dai fermati corrisponde al vero, ad esempio facendo verifiche incrociate con i datori di lavoro.

Non solo hacker: in dubbio il sistema della rete

Che qualcosa non andasse con i sistemi dell’Inps, il presidente Pasquale Tridico lo aveva capito già nella serata di martedì quando ha sospeso una teleconferenza con i sindacati perché convocato dal comitato di crisi dell’istituto. Da quel momento, in poi, infatti c’è stato il caos.

Già nella notte gli utenti, pronti a compilare moduli e a cliccare tutti insieme per il timore di non rientrare nei rimborsi (ampiamente suffragato dalla opaca comunicazione politica) non riuscivano a portare a termine le pratiche. In molti si sono trovati davanti utenze e informazioni di altri cittadini in quello che il garante della Privacy, Antonello Soro, ha definito “un data breach gravissimo”. All’atto pratico, sono insomma accadute due cose: la piattaforma è andata in tilt e ci è rimasta a lungo costringendo a scaglionare le entrate e sono state esposte, per un tempo non delimitato, le informazioni riservate di un numero di persone non ancora identificato. Quale che sia l’entità, però, è un fatto grave tanto che nelle ore successive è stato tutto un correre ai ripari: Tridico ha prima detto che da giorni l’istituto era obiettivo di pesanti attacchi hacker, in un incontro a palazzo Chigi con le opposizioni, lo ha ribadito anche il premier Conte. Ma ad occhio attento è una nota dei Cinque Stelle a dare forse la giusta lettura: “All’Inps sono giunte 100 domande al secondo, con più di 300mila richieste ad oggi: è evidente che questo potesse creare dei problemi. L’Inps ha fatto in poco tempo un lavoro enorme ma, con questi numeri, un po’ di intasamento dei sistemi, come confermato dallo stesso presidente Pasquale Tridico, era inevitabile”.

Gli esperti consultati dal Fatto sono arrivati alla conclusione che quanto accaduto escluda che i disservizi possano derivare esclusivamente da un attacco hacker. Tra le ipotesi più probabili, c’è un errore nella configurazione della rete Cdn, la Content Delivery Network, che è responsabile di presentare i contenuti agli utenti senza caricare troppo il sistema. Evitando eccessivi tecnicismi: è possibile che proprio una configurazione pensata per “alleggerire” il sito nell’ottica di una improvvisa mole di contatti sia stata eseguita male (inserendo nell’area di memoria temporanea dei dati pubblici, anche i campi dei dati privati degli utenti che venivano così visti dagli utenti successivi) o comunque non adeguatamente testata, quindi non sottoposta – nella fretta e nell’emergenzialità del caso – a stress test adeguati, a cui si sottopongono di norma anche per almeno un mese i nuovi applicativi e con ipotesi di contatti molto più alte di quelle che si prevedono. L’errore del sistema, infatti, se adeguatamente controllato, sarebbe stato facilmente identificabile e risolto. Volendo poi dare per buona l’ipotesi dell’attacco hacker, che andrà comunque verificato, si dovrà chiarire se sia stato la causa o la conseguenza dei disservizi. La configurazione, infatti, potrebbe essere anche stata un tentativo di respingere un attacco Ddos (improvvisa ondata di contatti contemporanei, utilizzata dagli hacktivisti per far collassare i sistemi) come però l’istituto ne riceve continuamente.

Di sicuro, per l’Inps sarebbe potuta essere d’aiuto la collaborazione dell’Agenzia delle Entrate che dispone già delle informazioni fiscali dei cittadini (e pare che nei giorni scorsi sia arrivata piena disponibilità in proposito) anziché caricarsi da sola della gestione di tutte le misure.

300 domande al secondo: il sito dell’Inps va in tilt

“Una partenza da incubo. Tutto quello che sarebbe potuto andare male, è andato peggio”. Un consulente del lavoro di uno dei maggiori studi romani riassume così la lunga giornata di ordinaria follia vissuta dagli italiani che hanno provato ad accedere al sito dell’Inps per richiedere i servizi previsti dal Cura Italia – l’indennità da 600 euro per gli autonomi, il bonus baby sitter e il congedo parentale – diretti a sostenere il reddito di oltre 5 milioni di lavoratori (3,6 milioni di artigiani e commercianti, 340 mila partite Iva e co.co.co, 500mila professionisti senza cassa, 660 mila lavoratori agricoli, 170 mila stagionali del turismo e 80 mila lavoratori dello spettacolo). Alle 8.30 di ieri mattina erano già 300 mila le persone che, collegandosi dall’una di notte, erano riuscite a presentare la domanda. Poi il crollo totale. L’accesso al sito dell’Inps diventa prima inaccessibile per il boom di connessioni simultanee e poi viene bloccato alle 13 dopo che centinaia di utenti hanno segnalato in massa di essere entrati nel sito dell’Inps con il proprio Pin, ma di essere finiti nell’area riservata di altri..

La prova è sotto gli occhi di tutti: i social si riempiono di foto degli account di Marco B., Alessandro N. o Bruno A., le vittime inconsapevoli di questa gravissima falla. Tanto che uno di loro, Luciano V., diventa addirittura trend topic con centinaia di meme che lo ritraggano anche come il misterioso Mark Caltagirone. All’ora di pranzo la vicepresidente dell’Inps Maria Luisa Gnecchi ammette la falla: “Che si vedano dati di altri non è accettabile. A quanto mi risulta il disguido è avvenuto solo per 5 minuti. È un fatto gravissimo e stiamo verificando”. Ma che si tratta di 5 minuti è da dimostrare: le segnalazioni sull’account Twitter dell’Inps dimostrano che è dalle 10 alle 12,30 che si denuncia la falla. E sempre via Twitter, l’Inps risponde di essere a “conoscenza della problematica”. Al Tg1 delle 13,30 il presidente dell’Inps Pasquale Tridico spiega che si tratta di un fenomeno eccezionale: all’istituto arrivano 100 domande al secondo con picchi di 300. E parla di attacchi hacker: “Ne abbiamo ricevuti nei giorni scorsi e anche stamattina (ieri, ndr)”. Il sito viene così chiuso alle 13 e riaperto solo alle 17.48 con l’accesso che resta comunque molto difficile. Un caos totale che oggi dovrebbe essere contenuto: l’accesso al portale sarà garantito dalle ore 8 alle 16 solo a patronati, commercialisti e consulenti. Poi agli altri cittadini. Ma nel pomeriggio il presidente Tridico è costretto a difendersi anche da altri attacchi, quelli politici. “Non ci voleva uno scienziato per capire che sarebbe andata così”, attacca la Lega, mentre Forza Italia e Fratelli d’Italia chiedono le sue dimissioni. Il Pd parla di caso “intollerabile”.

Resta il problema della comunicazione sbagliata. La circolare pubblicata dall’Inps martedì pomeriggio (e poi cancellata) sulle modalità di erogazione del bonus aveva infatti alimentato il dubbio che i fondi stanziati, 203,4 milioni di euro, non bastassero per tutti e che fosse necessario affrettarsi. “Se io so che 3 milioni di lavoratori autonomi comunque con la copertura finanziaria avranno la prestazione, probabilmente l’ansia della fretta non avrebbe portato centinaia di migliaia di persone a presentare la domanda alla mezzanotte del 1° aprile”, ha commentato il presidente del Civ dell’Inps, Guglielmo Loy. Non è, quindi, bastato che alle 21.30 di martedì Tridico abbia escluso che l’Inps avrebbe considerato la valutazione delle domande in ordine cronologico, praticamente lo stesso meccanismo del clic day. Ieri ha ribadito che il pagamento dei 600 euro ci sarà per tutti e comincerà il 15 aprile. Solo per la cassa integrazione sono arrivate già domande dalle imprese per 1,4 milioni di lavoratori. Oggi intanto è un altro giorno.

Il grande freddo sul taglio agli stipendi

L’hanno lanciato lunedì tramite il classico megafono, il blog delle Stelle. Ma l’ennesimo monito o appello alla casta dei Cinque Stelle sembra già evaporato, tra i no sbrigativi del Pd e di Italia Viva e il silente disappunto anche di tanti di loro, dei grillini. Ergo, ad oggi sono in pochi ad avere davvero voglia di dare seguito alla proposta lanciata tre giorni fa dal capo politico reggente del m5S, Vito Crimi: “Dimezziamo le indennità di tutti i parlamentari da qui a fine legislatura, risparmieremo 60 milioni all’anno da destinare a un’emergenza sanitaria senza precedenti”.

Un’iniziativa, sempre secondo Crimi, da estendere anche “a tutte le Regioni” a imitazione di quanto i 5Stelle fanno già dal 2013, cioè da quando hanno messo in piede in Parlamento, con le celeberrime restituzioni. Teoricamente semplice, da allargare a tutti gli eletti: “Basta una delibera degli uffici di presidenza, poche ore di lavoro”. Ma semplice non è in termini politici, anche se lo stesso senatore ieri ha insistito a Radio Anch’io: “Il taglio degli stipendi? Credo che i parlamentari se lo possano auto imporre: sono quelli che fanno le leggi, sono quelli che impongono e a se stessi lo possano auto imporre”. Mentre dai piani alti del M5S precisano: “Questo non è uno stendardo grillino, ma una proposta di buon senso, per tutti”. E per questo, assicurano, non verrà abbandonata: “La proporremo appena possibile negli uffici di presidenza delle due Camere”. Ma la strada pare stretta. Perché Pd e renziani sono irritati da un annuncio che hanno trovato fuori tono, quasi una pressione indebita.

Basti ricordare la reazione su Repubblica del capogruppo del Pd alla Camera, Graziano Delrio: “Ognuno di noi sta facendo donazioni senza fanfare e ogni gruppo ha attivato iniziative, tutto il resto è propaganda”. O le poche sillabe del presidente di Italia Viva, Ettore Rosato: “Il solito comunicato grillino”. E per le opposizioni si può citare la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: “Noi di FdI abbiamo già deciso di devolvere l’intera indennità di marzo”. Difficile trovare sponde, in questo scenario. Per questo, il M5S dovrà attendere che Crimi sondi a fondo gli altri partiti prima di presentare una proposta di delibera agli uffici di presidenza. Anche perché la mossa ha suscitato musi lunghi anche in diversi grillini. “In una fase così abbiamo tirato fuori la solita solfa del taglio degli stipendi” riassume un senatore di peso. Piuttosto, “meglio sostenere e diffondere la proposta del viceministro all’Economia Alessio Villarosa di garantire prestiti senza interessi a imprese e famiglie, restituibili allo Stato in 30 anni”. Lo stesso provvedimento annunciato dal ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli al Fatto, martedì scorso.

La carta con cui ora il Movimento vorrebbe rilanciare per non rimanere schiacciato sul piano mediatico tra i due big di governo in prima linea, il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. “È dura, bisogna trovare le risorse e convincere le banche, ma questa dei prestiti è una battaglia fondamentale” conferma una fonte di governo del M5S.

E il taglio delle indennità? Pausa, risposta: “Dovevamo dirlo, se non lo avessimo proposto magari lo avrebbe fatto qualcun altro. In un momento come questo…”.

 

Complotti da virus: le scoperte dei cazzari

Come l’amico etiope del personaggio di Ecce Bombo, anche i virocomplottisti hanno amici esotici che li informano di miracolosi ritrovati contro l’epidemia che “qui in Italia ci nascondono”. L’apripista è il video del giovanotto Cristiano (l’Arena), con il centro di Tokyo animato come se niente fosse grazie all’Avigan (mentre in Italia non riusciamo a contare i morti). Farmaco del resto testato da Red Ronnie (inquadrato con alle spalle uno scintillante juke-box), mentre mi sono perso purtroppo il parere del luminare Panzironi, quello della dieta che ci fa vivere fino a 120 anni. Al che il sempre cauto Massimo Giletti ha riferito di aver trascorso una notte insonne a verificare “con il Giappone” l’attendibilità della scoperta, ma traspariva che gli amici nipponici nutrivano qualche perplessità in materia.

In un altro talk dell’Accademia dei Lincei, Alessandro Meluzzi (psichiatra e primate metropolita della chiesa ortodossa autocefala con il nome di Alessandro I) ha rivelato che il farmaco contro il Covid-19 esiste, “ma purtroppo ce lo nascondono perché costa troppo poco”. Lui lo ha saputo dagli “amici russi di criminologia” e questo dovrebbe bastarci. Dal canto suo, Alessandra Mussolini nutre forti dubbi sull’innocenza dei laboratori cinesi che, come da documento Rai, da anni trafficano coi pipistrelli, e lo ha autorevolmente spiegato a Giovanni Rezza, direttore dell’Istituto Superiore di Sanità.

Eppure c’è poco da scherzare visto che oltre al cazzeggio da intrattenimento anche nel mondo della ricerca si assiste a un’esondazione di pubblicazioni “che consistono in ipotesi più o meno interessate, supportate da dati di pessima qualità” (Enrico Bucci sul Foglio). Per cui la posizione più onesta appare quella di Ilaria Capua, scienziata sul serio, che sere fa a DiMartedì ha intessuto le sue risposte di “non sappiamo”.