Rai, meno Covid: Salini chiede di parlare d’altro

Contrordine, ragazzi. Meno Covid, più fiction e show. Come Musica che unisce, il concerto “tinello&cucina” delle star italiane andato in onda martedì sera. Un’idea originale, che però non ha dato i risultati sperati in termini di ascolti: 3 milioni e 600 mila telespettatori per il 14,1% di share, battuto da Harry Potter con 4 milioni e 400 mila. Ma ha raggiunto lo scopo solidale: quasi 1,7 milioni di euro sono stati raccolti per la Protezione civile e ieri Angelo Borrelli, in conferenza stampa, ha ringraziato pubblicamente la tv di Stato e i telespettatori.

La nuova linea di mamma Rai è stata illustrata lunedì pomeriggio da Fabrizio Salini in una lunga riunione con i direttori di rete e testata. Dove pure si è parlato di novità nel campo dell’informazione. In Viale Mazzini, infatti, si sta studiando un nuovo programma, una striscia di mezz’ora da mandare in onda tutte le sere intorno alle 20.30 su Rai3 condotta da Lucia Annunziata. Altra novità è la nomina di Antonio Di Bella al “coordinamento del flusso informativo di tg e programmi sull’emergenza Coronavirus”. La famosa direzione coordinamento news che all’epoca di Antonio Campo Dall’Orto era gestita da Carlo Verdelli, esperienza su cui il direttore di Repubblica ha scritto pure un libro (Roma non perdona. Come la politica si è ripresa la Rai), dove dedica pagine di perfida ironia agli alti papaveri di Viale Mazzini. E la nomina di Di Bella da molti in Rai viene vista come un modo di accontentare il Pd, che da tempo smania per avere più spazio.

Ma torniamo alla riunione di lunedì. Se un paio di settimane prima Salini aveva dato l’input di occuparsi della pandemia a ogni ora del giorno e della notte, due giorni fa c’è stato il dietrofront.

“Stiamo generando troppa ansia nella gente e rischiamo un corto circuito informativo. Del Covid si devono occupare i tg e le trasmissioni preposte, per il resto cerchiamo di alleggerire la tensione”, ha detto l’ad ai suoi interlocutori. Quindi va bene il Covid nei tg, negli speciali, come quelli del Tg1 (che però sono in calo di ascolti), a Porta a Porta, a Tg2 Post, a Report. Ma, ad esempio, Uno mattina, La vita in diretta e Italia racconta devono parlare d’altro.

Poi, per l’enorme platea televisiva degli italiani costretti a casa (quasi 4 milioni in più al giorno), si continua con le grandi fiction e con l’intrattenimento di qualità, come i programmi di Alberto Angela, sempre recordman di ascolti, sia che parli di Venezia o degli antichi Sumeri. Ma si stanno studiando anche novità e serate-evento per la solidarietà, sull’onda di quella di martedì scorso.

In questa chiave va inserito anche il via libera a un “tavolo sociale”, affidato a Giovanni Parapini (ex responsabile della comunicazione), con l’obiettivo di coordinare le attività che la Rai svolge in campo sociale, ma pure di proporre contenuti alle reti e campagne di sensibilizzazione in tema Covid-19.

Tornando all’informazione, in Rai questo è il periodo d’oro di Antonio Di Bella che, oltre al coordinamento news, è stato nominato a capo della task force anti-fake news, fortemente voluta da Salini. Mentre la sua Rainews si sta conquistando sempre più spazio all’interno dei normali palinsesti, dove è andata a sostituire alcune edizioni minori di Tg1 e Tg2, con vari travasi di bile all’interno delle redazioni. Per Rai2, invece, per l’estate potrebbe arrivare un nuovo programma d’informazione: per la conduzione si pensa a Gerardo Greco o alla giornalista del Tg2, Manuela Moreno. A bocca asciutta, per il momento, è rimasto Franco Di Mare. Nominato alla direzione day time ora congelata dall’emergenza, punterebbe alla direzione di Rai3 con l’appoggio dei 5 Stelle, dove però al momento è ben salda Silvia Calandrelli. Che dirige anche Rai Cultura. In Viale Mazzini è la stagione degli incarichi plurimi.

“Il virus ci cambierà e (forse) muterà anche l’alta finanza”

Alcuni eventi nella Storia sono delle costanti: le catastrofi naturali – terremoti, uragani, inondazioni – le epidemie, e poi, diceva Hegel, “la piramide degli esseri condannati a nutrirsi gli uni degli altri”, la violenza e l’ingiustizia, il destino creaturale di dolore, vecchiaia, malattia e morte. Cerchiamo di capire questo frammento di Storia che ci ha investito, la pandemia da Covid-19, con Alessandro Barbero, ordinario di Storia Medievale all’Università del Piemonte orientale.

La peste nera di metà del ‘300, quella del ‘600 a Milano, il colera a Napoli del 1884, la Spagnola, che fece 50 milioni di morti. Questa pandemia è come una iniezione di passato nel nostro presente apparentemente sterilizzato. Risiede in questo, lo choc che ha prodotto?

Sì. Con tanti colleghi storici abbiamo fatto la stessa riflessione: l’emozione che stiamo vivendo è un avvenimento storico, nel vecchio senso del termine. Ci siamo dentro, non siamo spettatori come eravamo nell’attentato delle Torri Gemelle. C’è qualcosa di elettrizzante, nel trovarci dentro questa esperienza. Non eravamo più allenati. La Spagnola era una somma di tragedie private, di persone che uscivano dalla Prima guerra mondiale e per le quali la morte era un’esperienza comune. Allora poi c’era la censura. Da generazioni non vivevamo niente del genere. Lo choc nasce da questo: ci troviamo ripiombati di colpo in un passato che sembrava lontanissimo.

La fine del XX secolo non era la fine della Storia, allora. Al contrario, questa piega della Storia sembra aver generato molto materiale per gli storici del 3000.

Io ho sempre preso in giro Fukuyama che, poveretto, voleva dire qualcosa di più sensato delle parodie che ne abbiamo fatto. In un senso aveva ragione: una Storia era finita, cioè la Storia del tentativo di ribaltare il capitalismo. Ma la Storia continuava, la crisi economica, le presidenziali degli Stati Uniti, il terrorismo. Però io a febbraio, davanti a una platea di studenti della Statale (e se ci ripenso mi vergogno profondamente), ho detto: in questi ultimi 20 anni non c’è stato nessun grande avvenimento storico.

La convince la metafora della guerra?

È molto interessante. Ci sono differenze e analogie. Una guerra o la si comincia (le due guerre mondiali le abbiamo cominciate noi), oppure ci si difende. Ma c’è sempre una controparte, a cui ci si può arrendere nel peggiore dei casi. La fine di questa pandemia non dipende da noi. Poi ci sono analogie, che forse è quello che intendeva Macron. Il primo livello è “stringiamci a coorte”, siamo pronti a sacrificarci (a parte che ogni Paese è entrato in guerra per conto suo); poi c’è l’altro livello, e qui il paragone con la guerra è esatto: il governo può dire ai cittadini “le vostre libertà costituzionali non esistono più, sono sospese”.

La Costituzione però giustifica la limitazione agli spostamenti per motivi di sanità o di sicurezza.

Non siamo al punto in cui un governo dice ai suoi cittadini maschi: adesso mollate le vostre famiglie e andate in trincea. Ma ci ha fatto quasi lo stesso effetto che ci abbiano detto che non possiamo andare a prendere l’aperitivo. Scopri che i tuoi diritti di cittadino sono temporanei.

Le pare che questo evento abbia determinato un’esasperazione delle disparità di classe (chi non lavora, non mangia), e insieme un loro livellamento, nel senso che vi siamo tutti esposti?

La nostra società fino a ieri se ne fregava delle condizioni della gente, accettava l’impoverimento dei lavoratori e delle classi medie perché “era così”, ma era molto compassionevole nei confronti delle situazioni traumatiche: assistenza psicologica a tutti i livelli, anche ai ragazzi. Adesso c’è stato un ribaltamento: di colpo i sacri valori del profitto non contano niente e si vuole salvare la Sanità; e intanto si dimenticano i traumi delle misure imposte, ad esempio nelle famiglie, nelle coppie separate o costrette a vivere insieme.

Ma è vero che stiamo tutti mettendo in secondo piano il Pil a favore della salute pubblica? Non c’è stato giorno che non si è alzato qualcuno a dire che non si può, da #milanononsiferma, a Confindustria, alle sparate di chi vuole riaprire tutto.

Se il governo chiude, c’è qualcuno che è all’opposizione, o che fa finta di essere al governo, che dice il contrario. Ma a parte la posizione iniziale di Boris Johnson, è impressionante come i governanti di tutto il mondo abbiano varato misure che faranno crollare il Pil con certezza assoluta.

Se dovessero avere bisogno della terapia intensiva, andrebbero negli ospedali pubblici, che hanno un know how incomparabile, non certo nelle cliniche private.

Questa è un’altra rivelazione rispetto ai mantra che giravano fino a ieri: che allargando troppo lo spazio del privato si deteriora la qualità della Sanità. Adesso è chiaro a tutti.

Storicamente i sovrani erano i mediatori tra il popolo e le potenze invisibili: garantivano il ciclo delle stagioni, scongiuravano le epidemie. Ora il mondo è smarrito di fronte a questo evento perché siamo soli?

Anche se non ci sono più sovrani che avevano facoltà magiche, il rapporto tra la massa e chi governa resta uguale. Abbiamo bisogno che i capi di Stato decidano e parlino al popolo spiegando e rassicurando. È importante che ci credano e mostrino che si stanno impegnando. La popolarità di Conte è la prova che questo continua a essere un ruolo fondamentale anche in democrazia.

Ci salverà Putin? Metterà a disposizione i suoi scienziati per passare alla Storia come colui che ha salvato il mondo dalla pandemia come Stalin ci salvò da Hitler?

(Ride) Si ribaltano tutte le gerarchie! Leggo che ci sono giornali molto diffidenti, come se i medici russi fossero l’avanguardia dei cosacchi. Accanto alla scoperta che gli Stati Uniti non hanno nessuna voglia di essere i leader del mondo in questo, c’è la scoperta che la Russia, ma anche l’Iran, sono interlocutori con cui lavorare e non appestati. È una lezione.

È la fine dell’Unione europea?

È sicuramente la fine di questa Unione europea. Almeno lo spero.

Questo evento è una sconfitta di quella Scienza che credevamo invincibile?

Sì, o meglio: è una sconfitta della nostra illusione che la Scienza fosse invincibile. L’umanità è sopravvissuta alla peste, che ha ammazzato un terzo della popolazione in Europa a metà Trecento. Subito dopo sono ripartiti, hanno ripreso a fare affari e soldi. Dodici anni dopo è arrivata di nuovo. Quando sarà finita, questa è una delle cose che bisognerà tener presenti.

Faremo come abbiamo fatto nel Dopoguerra?

Gli italiani hanno grande capacità di riprendersi. Siamo forti. Lo disse Salvemini: esule in America da 20 anni, quando tornò in Italia nel ‘46 rimase esterrefatto nel vedere come dopo la dittatura e la guerra gli italiani si erano rimboccati le maniche. Salvemini ci chiama “un popolo di formiche”. Il mondo ripartirà, se poi avranno imparato qualcosa anche i tedeschi e la loro alta finanza tanto meglio.

Miracolo a Milano

A scanso di equivoci e a prova di cretini (che il coronavirus sta preoccupantemente moltiplicando), noi siamo strafelici per il nuovo ospedale inaugurato alla Fiera di Milano. Come saranno strafelici i malati di coronavirus che fra cinque giorni, quando la struttura aprirà, vi troveranno finalmente un posto letto di terapia intensiva, fra le migliaia di lombardi che attendono invano da giorni o da settimane un ricovero o anche solo un tampone, sempreché siano nel frattempo sopravvissuti. Il numero dei fortunati vincitori è ancora incerto, ma non appare comunque esaltante: il prode assessore Gallera garantisce “tra i 12 e i 24 posti”. Cifra piuttosto misera da qualunque parte la si guardi. Misera in termini assoluti: i posti di terapia intensiva della sola Lombardia sono passati in un mese di emergenza da 700 a 1600: dunque l’ospedalino in Fiera aggiunge appena uno 0,7-1,4%. Misera in rapporto all’enfasi da Minculpop dei media forzaleghisti, roba da battaglia del grano, da bonifica delle paludi pontine e da conquista di Addis Abeba. Libero: “La resa del Conte. Il Nord combatte il virus per conto proprio. Lombardia e Veneto in rivolta. Fontana si fa l’ospedale da solo”. Il Giornale: “Miracolo a Milano: finito il superospedale”, “Abbiamo creato un modello per tutto il Paese” (editoriale di una firma super partes: Bertolaso), “L’ospedale simbolo della riscossa dove chi si ammala ritroverà il respinto”, “Un hub post-emergenza”. La Verità: “Milano e Bertolaso fanno il miracolo: ‘La più grande rianimazione d’Italia’”.

Misera, soprattutto, rispetto al budget (50 milioni e rotti) e agli annunci. Il 12 marzo il geniale “governatore” Attilio Fontana parlava di “un ospedale da campo modello Wuhan da 600 posti letto di terapia intensiva in una settimana”. Il 13 era già sceso a “500 letti”, ma accusava la Protezione civile di “non voler fornire quanto promesso” e s’impegnava a “fare da soli con fornitori internazionali”. Il 16 ingaggiava per la bisogna Guido Bertolaso che – assicurava il garrulo Gallera – “ha una fama internazionale e un nome che ha un peso sulla scena mondiale e può avere accesso a rapporti con aziende e governi”. Intanto Fontana, quello che faceva da solo, tornava a piatire dalla Protezione civile. Il 17 B., dal confino in Costa Azzurra, donava 10 milioni e San Guido, ringraziandolo per il “gesto d’amore”, diceva che la somma bastava per il “reparto da 400 posti di terapia intensiva in Fiera”. I posti scendevano e i fondi crescevano (10 milioni da Caprotti, 10 da Moncler, 10 da Del Vecchio, 2,5 da Giornale e Libero, 1,5 dell’Enel e molte donazioni private anonime) e i respiratori arrivavano.

Ma non grazie a Bertolaso, bensì alla famigerata Protezione civile (“ce ne mandano 200”, trillò il loquace Gallera) e all’orrido commissario Arcuri (“ci ha assicurato materiali”, ammise l’acuto Fontana). Il 29 marzo Salvini twittò giulivo: “Promessa mantenuta, miracolo realizzato: 53 posti letto che possono arrivare a 241”, come se 600 o 500 fosse uguale a 241 o a 53. Ma era ancora ottimista, perché anche i 53 restano un sogno: il dg del Policlinico, Ezio Belleri, ricevendo in dono cotanto prodigio, precisa che i 53 si vedranno forse “alla fine della prima fase dei lavori”, mentre al momento siamo fra i 12 e i 24. Che il sagace Fontana, facendo buon peso, porta a “28 posti”. Non proprio la “terapia intensiva più grande d’Italia” strombazzata all’inaugurazione dell’altroieri dal governatore mascherato. A proposito: che diavolo hanno inaugurato l’altroieri, visto che il grosso del presunto ospedale è ancora un cantiere e i letti “pronti subito” (cioè fra cinque giorni) sono tra un ventesimo e un decimo della metà di quelli annunciati? Nello stesso lasso di tempo (14 giorni) le donazioni private di Fedez, Ferragni &C. han consentito di ampliare di 13 posti la rianimazione del San Raffaele senza tanto clamore. Ancor meglio ha fatto il Sant’Orsola di Bologna, che in soli 6 giorni ha creato un nuovo padiglione di terapia intensiva da 30 posti senza rompere i maroni a nessuno né consultarsi con Fontana&Bertolaso. A Bergamo, in meno di due settimane, gli alpini con l’aiuto di russi, cinesi e cubani han tirato su un ospedale da campo da 140 posti, fra terapia intensiva e subintensiva, che è il decuplo del miracolo a Milano (quindi, col metro di Fontana&C., dev’essere il più grande della galassia). E l’han fatto in silenzio, senza grancasse, trichetracche e cotillon. E senza cerimonia di inaugurazione, cioè senza quell’immondo e contagioso assembramento di assessori, politici, giornalisti, cineoperatori, fotografi, saprofiti, umarell e professionisti del buffet accalcati l’uno sull’altro visto alla Fiera di Milano: roba che, se fosse avvenuta per strada, li avrebbero arrestati tutti in blocco per epidemia colposa o forse dolosa. Subito dopo, Attilio The Fox s’è scagliato contro la ministra Lamorgese, pericolosamente competente e rea di aver precisato che i bambini hanno diritto al passeggio almeno quanto i cani.

Quindi noi restiamo strafelici se a Milano c’è un nuovo ospedale, sia pure da 12/24 posti che si riempiranno in tre secondi. Ma, con 50 milioni di donazioni, si poteva fare qualcosina in più (o è normale che ogni posto letto costi 4 o 2 milioni?). Avremmo preferito se chi ha inaugurato il Berto-Hospital non ne avesse chiusi a decine nell’èra Formigoni e ne avesse aperto qualcuno coi miliardi regalati alle cliniche private. E ora preferiremmo che la giunta lombarda si assumesse le proprie responsabilità, anziché tentare goffamente di nascondere dietro le parate e le trombette il record mondiale di morti della Lombardia e la Caporetto della sua “sanità modello”. Gli ospedali, anche di un solo posto letto, sono utilissimi. Purché i mercanti in Fiera non li trasformino in baracconate elettorali.

Ma non grazie a Bertolaso, bensì alla famigerata Protezione civile (“ce ne mandano 200”, trillò il loquace Gallera) e all’orrido commissario Arcuri (“ci ha assicurato materiali”, ammise l’acuto Fontana). Il 29 marzo Salvini twittò giulivo: “Promessa mantenuta, miracolo realizzato: 53 posti letto che possono arrivare a 241”, come se 600 o 500 fosse uguale a 241 o a 53. Ma era ancora ottimista, perché anche i 53 restano un sogno: il dg del Policlinico, Ezio Belleri, ricevendo in dono cotanto prodigio, precisa che i 53 si vedranno forse “alla fine della prima fase dei lavori”, mentre al momento siamo fra i 12 e i 24. Che il sagace Fontana, facendo buon peso, porta a “28 posti”. Non proprio la “terapia intensiva più grande d’Italia” strombazzata all’inaugurazione dell’altroieri dal governatore mascherato. A proposito: che diavolo hanno inaugurato l’altroieri, visto che il grosso del presunto ospedale è ancora un cantiere e i letti “pronti subito” (cioè fra cinque giorni) sono tra un ventesimo e un decimo della metà di quelli annunciati? Nello stesso lasso di tempo (14 giorni) le donazioni private di Fedez, Ferragni &C. han consentito di ampliare di 13 posti la rianimazione del San Raffaele senza tanto clamore. Ancor meglio ha fatto il Sant’Orsola di Bologna, che in soli 6 giorni ha creato un nuovo padiglione di terapia intensiva da 30 posti senza rompere i maroni a nessuno né consultarsi con Fontana&Bertolaso. A Bergamo, in meno di due settimane, gli alpini con l’aiuto di russi, cinesi e cubani han tirato su un ospedale da campo da 140 posti, fra terapia intensiva e subintensiva, che è il decuplo del miracolo a Milano (quindi, col metro di Fontana&C., dev’essere il più grande della galassia). E l’han fatto in silenzio, senza grancasse, trichetracche e cotillon. E senza cerimonia di inaugurazione, cioè senza quell’immondo e contagioso assembramento di assessori, politici, giornalisti, cineoperatori, fotografi, saprofiti, umarell e professionisti del buffet accalcati l’uno sull’altro visto alla Fiera di Milano: roba che, se fosse avvenuta per strada, li avrebbero arrestati tutti in blocco per epidemia colposa o forse dolosa. Subito dopo, Attilio The Fox s’è scagliato contro la ministra Lamorgese, pericolosamente competente e rea di aver precisato che i bambini hanno diritto al passeggio almeno quanto i cani.

Quindi noi restiamo strafelici se a Milano c’è un nuovo ospedale, sia pure da 12/24 posti che si riempiranno in tre secondi. Ma, con 50 milioni di donazioni, si poteva fare qualcosina in più (o è normale che ogni posto letto costi 4 o 2 milioni?). Avremmo preferito se chi ha inaugurato il Berto-Hospital non ne avesse chiusi a decine nell’èra Formigoni e ne avesse aperto qualcuno coi miliardi regalati alle cliniche private. E ora preferiremmo che la giunta lombarda si assumesse le proprie responsabilità, anziché tentare goffamente di nascondere dietro le parate e le trombette il record mondiale di morti della Lombardia e la Caporetto della sua “sanità modello”. Gli ospedali, anche di un solo posto letto, sono utilissimi. Purché i mercanti in Fiera non li trasformino in baracconate elettorali.

Musica che unisce, ma attenti al negoziante

Così vicini, così remoti. Il servizio pubblico al tempo del coronavirus ha partorito Musica che unisce, una smart-ratona, un telethon digitale, un Sanremo a domicilio composto di clip registrate, ossia quello che anche il vicino di casa ha cominciato a fare sul suo profilo (ormai una diretta instagram non si nega a nessuno: chissà quando ognuno di noi avrà diritto ai suoi 15 minuti di anonimato). Sono sfilati in tanti nella processione contro il nemico comune; giustissima la voce narrante di Vincenzo Mollica, il più salomonico dei mezzibusti; davvero inventive alcune performance (il balletto a distanza tra Virginia Raffaele e Roberto Bolle dovrebbe fare scuola a Ballando con le stelle); interessante la varietà degli sfondi, dalla libreria alla discoteca, dalle piante ai poster, ai pupazzetti, fino alle foto dei figli in favore di telecamera (citazione del vero pioniere del messaggio casalingo, non dimentichiamolo: Silvio). Non si poteva fare di meglio nel Paese in cui Checco Zalone rischia di passare per razzista e per una battuta di troppo si rischia l’insurrezione dei social. Resta da chiedersi se questa indigestione di buonismo, questa parata di tributi deamicisiani rispecchi davvero l’umore di un Paese chiuso ermeticamente in casa da un mese. Nel prossimo speciale tra una serenata e un minuetto ci piacerebbe vedere la clip di qualche negoziante, di qualche imprenditore e di qualche disoccupato. Senza pianola, e senza Mario Giordano che schiocca la frusta. Al naturale.

Oro nero invenduto. Con gli sceicchi trema pure il Medio Oriente

Ci sono 80 superpetroliere cariche che vagano per gli oceani in cerca di un terminal, di un compratore, per il loro carico di milioni e milioni di barili di greggio. Non ci sono più clienti per l’ormai ex “oro nero”. Il prezzo precipita, ieri faticava a tenere i 22,61 dollari al barile, e con lui le economie del Golfo Persico. Tremano gli sceicchi perché sulla sfida tra Russia e Arabia Saudita per il prezzo del greggio si è innestato il blocco mondiale per il coronavirus. Dalla fine di gennaio sono stati cancellati 16.000 voli in Medio Oriente. L’Arabia Saudita ha perso 15,7 milioni di passeggeri e con loro 3,1 miliardi dollari, gli Emirati Arabi Uniti 2,8 miliardi.

Ogni Stato ha un suo modo per affrontare questo crollo. Gli Eau stanno aiutando le compagnie aeree con prestiti, rinviando il pagamento di tasse e debiti. In Paesi deboli come Egitto, Libano e Giordania è probabile che le compagnie chiudano. Questo sta mettendo in pericolo centinaia di migliaia di posti di lavoro: equipaggi, manutenzione, marketing, agenzie di viaggio, alberghi, guide turistiche e via discendendo. Ad Abu Dhabi la scorsa settimana hanno deciso di immettere 100 miliardi di dollari nell’economia, metà per aiutare le grandi aziende e metà per le piccole e medie imprese e i privati cittadini. Tutto per cercare di rianimare il settore immobiliare che già era in profonda crisi prima della pandemia. L’obiettivo è quello di mantenere in funzione l’economia il più possibile e impedire alla gente allarmata di correre a ritirare i propri depositi. La vita diventerà più dura per tutti gli abitanti del Golfo che hanno avuto finora vita facile, senza tasse, lavori garantiti, servizi gonfiati e infrastrutture superbe. Il più notevole piano per diversificare l’economia dal petrolio è il “Vision 2030” dell’Arabia Saudita che si sta rivelando però un mezzo fallimento. Non tremano solo i polsi ai membri del club degli arabi super ricchi – i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, Eau, Qatar, Bahrain e Oman) – ma quelli di tutto il Medio Oriente. Donald Trump contava su 50 miliardi di aiuti per il suo piano in Israele e Palestina, 23 miliardi di dollari del Golfo hanno impedito il collasso dell’economia egiziana dopo il colpo di Stato di Al Sisi nel 2013. Libano e Giordania speravano di ottenere aiuti per evitare il default. Ma come ha rivelato il Fmi, il gigantesco bancomat del mondo arabo che era il Golfo sta finendo i soldi. Gli enormi depositi di petrolio a terra sono stracolmi di greggio che al momento nessuno compra. Lo scorso 10 marzo la Saudi Aramco – compagnia di idrocarburi dell’Arabia Saudita – si è impegnata a portare a 12,3 milioni di barili di petrolio la produzione giornaliera. Lo stesso giorno la Russia ha annunciato che avrebbe incrementato la produzione di mezzo milione di barili al giorno. E il prezzo è precipitato subito del 30%. Il blocco progressivo per la pandemia del coronavirus ha frantumato ulteriormente il prezzo che secondo molti analisti potrebbe scendere anche a meno di 20 dollari al barile. Questo è uno sviluppo positivo per i grandi consumatori di energia come la Turchia e per i piccoli Paesi “poveri” come Giordania, Libano, Siria, Marocco che godono ora di prezzi bassi. Ma per il club degli sceicchi è una grave minaccia perché gli Stati del Golfo ottengono 80 centesimi per ogni dollaro di Pil dagli idrocarburi, mentre dal resto delle loro economie solo 10 cent. Per sostenere i piani economici di emergenza e impedire che i bilanci scendano verso deficit pericolosi, gli Stati del Golfo non possono permettersi che il prezzo vada al di sotto dei 40-50 dollari al barile.

Si prevede che i membri dell’Opec ridurranno la quota di 1,5 milioni di barili al giorno per far crescere il prezzo ma forse è troppo tardi. Alla fine gli Stati del Golfo potrebbero trovarsi costretti a svendere asset all’estero per finanziare la propria sopravvivenza. L’impatto di un Golfo più povero poi si estenderà al Medio Oriente. Sono i petrodollari a svolgere un ruolo contro le ambizioni regionali dell’Iran e tenere in piedi le economie di molti Paesi. Gli sceicchi offrono lavoro a 25 milioni di egiziani, libanesi e palestinesi.

Non solo eroi: infermieri e medici cacciati dai vicini

“Se un contagio si conferma nel palazzo, la riterremo responsabile”: è il messaggio che Mira, giovane infermiera di Dourdan, nella regione di Parigi, ha trovato sul parabrezza della sua auto, parcheggiata davanti a casa. Era firmato con un vago “i vicini”. La vicenda di Mira, in prima linea anche lei nella lotta al Covid-19, la riporta Le Parisien, ma il suo non è un caso unico. L’agenzia France Presse racconta di Lucille, infermiera di Vulaines-sur-Seine, un altro comune alle porte di Parigi: in una lettera anonima trovata tra la posta le veniva intimato di “andare a vivere altrove”. Nice-Matin ha pubblicato invece la lettera arrivata a Sophie, che lavora all’ospedale di Antibes, sud della Francia: “Come infermiera è più esposta al contagio per cui la preghiamo di parcheggiare l’auto più lontano”.

In Francia non c’è solo chi, per ringraziare gli infermieri e i medici, applaude al balcone di casa tutte le sere alle 20. C’è anche chi li insulta e li minaccia. E spesso sono proprio i vicini di casa che temono il contagio. Si tratta di “messaggi scandalosi”, ha denunciato il premier Edouard Philippe. In alcuni casi la violenze non si limitano alle parole. A Tolosa, Marsiglia, Parigi, le loro auto sono state forzate per rubare gel e mascherine lasciati in vista. C’è chi non osa più uscire col camice bianco per paura di essere aggredito. L’ospedale Lariboisière, in un quartiere popolare del nord di Parigi, ha dovuto assumere delle guardie per scortare il personale medico fino alla loro auto o alla stazione del metrò. Proprio nella regione di Parigi, una delle più colpite insieme al Grand Est, la regione di Strasburgo, la situazione si è fatta critica nelle ultime ore. “Con 2.700 pazienti ricoverati in rianimazione, siamo al limite delle nostre capacità”, ha detto ieri a France-Info il direttore dell’agenzia regionale della Sanità, Aurélien Rousseau. Un centinaio di pazienti deve essere trasferito entro oggi verso gli ospedali del nord-ovest e del centro dove ci sono ancora letti liberi. Due treni tgv trasformati in ospedali sono già partiti ieri dalla Gare d’Austerlitz verso la Bretagna. Si sta anche studiando la possibilità di fornire dei respiratori ai pazienti meno gravi che possono restare a casa ed essere seguiti a distanza. La Francia conta 56.989 contagi (4.861 in 24 ore), con più di 6.000 malati in rianimazione, e 4.032 morti (509 in 24 ore).

Otto colpi: eliminata Elena, la giornalista contro i narcos

Il sito del diario di Xalapa, regione di Veraruz, Messico, è pieno di notizie sul coronavirus, tranne che nella parte alta. Il rullo delle notizie importanti, da quasi due giorni offre solo continui aggiornamenti sull’omicidio di Maria Elena Ferral, per tutti Elena (in foto), collaboratrice del giornale online raggiunta lunedì per le strade di Papantla (Veracruz) da otto colpi sparati da una moto dai sicari dei narcos di cui la giornalista scriveva da anni. Al centro delle inchieste della reporter c’erano soprattutto i legami tra il malaffare della droga e la polizia locale. “È questa pista che stanno indagando gli inquirenti per risalire a chi ha ordinato l’agguato”, scrivono i colleghi sul sito ripubblicando gli articoli di Ferral, “questo ennesimo omicidio non resterà impunito, non sarà difficile risalire ai mandanti”.

La giornalista aveva già ricevuto infatti minacce di morte, motivo per il quale le era stata assegnata la scorta, poi ritiratale da qualche mese. A denunciare la decisione che non le ha garantito la protezione adeguata è la Commissione statale di appoggio e protezione dei giornalisti, che si è costituita parte civile nell’indagine offrendo assistenza legale alla famiglia della reporter. Maria Elena, premio nazionale di giornalismo in Messico per le sue inchieste stava approfondendo i 76 casi di omicidio avvenuti nella regione nell’ultimo anno. Una sequela di uccisioni, sequestri e rapimenti, che – secondo le inchieste di Ferral – porterebbero ai cartelli della droga e alle organizzazioni criminali della zona. Con l’uccisione della giornalista di Veracruz, una delle regioni con più crimini del Paese, il Messico conta già due giornalisti morti nel 2020. Nel 2019 sono stati 10, in tutto 100 dal 2006, secondo il dossier di Reporter senza frontiere. Ma questa volta l’Associazione dei cronisti messicani è scesa in piazza perché gli omicidi non restino più impuniti.

Una decisione tutta per sé. Per le donne è una chimera

Nel Terzo millennio chiamato da molti era digitale o dei social, mentre gli enti spaziali progettano il trasferimento di colonie umane su altri pianeti, la metà circa delle donne tra i 15 e i 49 anni di età sposate o impegnate in una relazione, non sono ancora in grado – e forse non lo saranno ancora per lungo tempo, purtroppo – di prendere decisioni indipendenti in merito ai propri diritti riproduttivi.

Un quarto di questa metà, addirittura, non riesce a dire di no al sesso, cioè non ha consapevolezza dei propri diritti né tantomeno del fatto che essere costrette ad avere rapporti sessuali significhi diventare vittima di un crimine.

Questi dati scoraggianti sono stati pubblicati dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), che li ha correttamente definiti “un grande campanello d’allarme” negli sforzi globali per raggiungere l’uguaglianza di genere entro il 2030.

Solo il 55 per cento delle donne e delle ragazze abitanti in 57 nazioni ha dichiarato agli esperti dell’Onu che le hanno intervistate di poter prendere decisioni autonome sull’accesso all’assistenza sanitaria, se usare i contraccettivi e se fare sesso. Un altro dato emerso su cui è necessario riflettere è l’erosione dei diritti in materia riproduttiva, e dunque sessuale, conquistati dalle donne durante secoli di lotte a causa dell’aumento delle dittature, o meglio, delle “democrature”, specialmente di ispirazione religiosa. Le cittadine di Paesi come la Turchia, Iran, Pakistan, India, Afghanistan hanno visto la propria libertà sessuale ristretta dalle scelte dei governi degli ultimi vent’anni. Sono coinvolti in questa retrocessione tutti i continenti. Ma vediamo nello specifico: il 76% delle donne dell’Asia orientale e sud-orientale e il 74% in America Latina e Caraibi hanno dichiarato di avere autonomia sulla propria salute e diritti sessuali e riproduttivi, mentre nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia centrale e meridionale, le cifre sono scese rispettivamente al 48% e al 43%.

In Mali, Niger e Senegal, insomma nell’intero Sahel, dove il credo islamico è tornato a determinarne le sorti socio-politiche, meno del 10% delle donne ha dichiarato di poter prendere decisioni in merito alla propria salute sessuale. Le cifre hanno mostrato che, nel complesso, le donne più anziane e più istruite che vivono nelle aree urbane hanno maggiori probabilità di essere in grado di prendere decisioni autonome e indipendenti. “Stiamo assistendo a un salto all’indietro” ha spiegato Emilie Filmer-Wilson, dell’Unfpa.

Per la prima volta, i risultati dell’indagine sono stati utilizzati per aiutare a calcolare i progressi verso il raggiungimento dell’accesso universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai diritti riproduttivi, che è un obiettivo tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Serve però ottenere più dati, ma molte aree del pianeta sono inaccessibili a causa di guerre ed epidemie. “È una sirena d’allarme che sta suonando sempre più forte”, ha dichiarato Emilie Filmer-Wilson, consulente per i diritti umani dell’Unfpa. “Stiamo tentando di capire cosa possiamo fare di più e meglio per aumentare i dati, cioè raggiungere più donne e più nazioni”, ha sottolineato Wilson dopo aver dichiarato che le misure precedenti relative alla salute e ai diritti riproduttivi delle donne tendevano a concentrarsi sui servizi disponibili, piuttosto che verificare se le donne fossero in grado di accedervi.

“Dobbiamo guardare a entrambe le facce della medaglia. La domanda e l’offerta. Il lato della domanda non viene affrontato come dovrebbe essere, e temiamo di tornare indietro anzichè avanzare. La consulente ha ricordato con preoccupazione che “anche potenze come gli Stati Uniti stanno peggiorando sensibilmente”, riferendosi al carattere retrogrado e ipocritamente puritano dell’Amministrazione Trump che, assieme al suo vice Pence – rappresentante della vasta comunità degli evangelici statunitensi – sta tentando di abolire il diritto all’aborto e di mettere ostacoli (leggi) per impedire che i servizi sanitari soddisfino le richieste delle donne come per esempio la pillola del giorno dopo.

Queste decisioni sono fondamentali per l’uguaglianza di genere e l’accesso universale alla salute e ai diritti sessuali e riproduttivi.

Sala-Gallera, sarà uno scontro memorabile

Il sindaco Giuseppe Sala ha una concezione algebrica della politica e della verità. Se dice una scempiaggine, ma l’hanno detta anche i suoi avversari politici, allora è pari e patta e la scempiaggine detta è annullata: somma zero. Sì, lo scontro Sala-Gallera per diventare sindaco di Milano si annuncia proprio epico. Una partita tra due responsabili, ognuno nel suo piccolo, della disfatta lombarda di fronte al virus. Per Sala, il 22 marzo – prima di lanciare la palla fuori dallo stadio parlando di Ricostruzione e addirittura di una nuova Costituente – è stato il giorno delle scuse: “In rete circolava il video #milanononsiferma: forse ho sbagliato a rilanciarlo, ma in quel momento nessuno aveva compreso la veemenza del virus”, dice a Fabio Fazio. “Accetto le critiche, ma non tollero che qualcuno possa marciarci su per scopi politici”: cioè il presidente della Regione Attilio Fontana e ancor più l’assessore regionale Giulio Gallera, che appare ogni giorno in tv come l’intrepido comandante delle armate antivirus e viene dato come il possibile sfidante – anche se lui ora nega – per Palazzo Marino.

Era davvero così difficile capire? Davvero “nessuno aveva compreso la veemenza del virus”? Gli allarmi c’erano già stati, il primo focolaio italiano, in provincia di Lodi, era già stato individuato. Ed era stato lo stesso Sala, già il 23 febbraio, a chiedere la chiusura di tutte le scuole e le università di Milano. E due giorni dopo, il 25 febbraio, era già stato deciso di rimandare il Salone del Mobile. Eppure il sindaco non resiste all’autorappresentazione narcisistica della #milanononsiferma.

Diciamo la verità: Sala non era il solo a sottovalutare Covid-19. Il suo collega di Bergamo, Giorgio Gori, invitava i concittadini ad andare al ristorante e promuoveva la Fiera dell’Artigianato del 1 marzo con un biglietto speciale per far arrivare gente in città dalla valli (compresa la Val Seriana dove il 23 febbraio era già scoppiato il secondo focolaio italiano). Fontana dichiarava il 25 febbraio: “È poco più di una normale influenza”. E anche il virologo superman Roberto Burioni fino all’11 febbraio pontificava: “In Italia il rischio è zero. Il virus non circola. Dobbiamo avere paura del coronavirus così come abbiamo paura dei fulmini”. Ma purtroppo gli errori degli altri non elidono algebricamente i propri. Specie se ripetuti. Sala il 27 febbraio non solo rilancia il video “che circola in Rete” #milanononsiferma, ma posta sulla sua pagina Instagram una foto con Alessandro Cattelan durante un aperitivo sui Navigli, commentando: “Un’altra dura giornata di lavoro #forzamilano #finalmenteaperitivo”. Due giorni prima, in una diretta Facebook aveva detto: “In questo momento Milano non può fermarsi. Dobbiamo lavorare affinché questo virus non si diffonda, ma non si deve nemmeno diffondere il virus della sfiducia: Milano deve andare avanti”. Segnali che pesano più di un decreto: diffondono la sottovalutazione del problema, favoriscono di fatto la diffusione del contagio. Certo, tutti in quei giorni prendevamo il pericolo sottogamba. Vero. Ma chi ha responsabilità politiche e amministrative ha il dovere di rendere conto ai cittadini di ciò che dice e fa. Sala compie un errore grave anche dopo il blocco della città: per due giorni, riduce la frequenza del trasporto pubblico, provocando code e calca su tram, autobus e metrò. Poi il 20 marzo si scusa: “Non abbiamo dato un servizio eccellente, ma poi abbiamo messo a posto”. Infine chiede di non diffondere i dati quotidiani del contagio, perché ansiogeni (come i dati d’ingresso a Expo fino all’agosto 2015, che infatti tenne segreti). E via a parlare di Ricostruzione e nuova Costituzione. Preparatevi: sarà memorabile, lo scontro Sala-Gallera.