Non solo L’Italia: il mondo deve cambiare rotta

Come sarà (quando sarà) il “dopo”? Cosa possiamo cominciare a imparare dalla pandemia?

Innanzitutto, che gli italiani sono capaci anche di grande responsabilità. Vero, ci sono ancora i (poco) furbi che fanno come se nulla fosse e gli sciacalli che cercano di approfittarne, ma la maggioranza sta facendo sacrifici e rispettando le misure drastiche imposte dal governo (e, a vedere i sondaggi, le approva). Magari siamo deludenti nell’azione, ma mai nella reazione.

Anche la nostra politica si sta dimostrando migliore di quanto pensassimo, anche e soprattutto rispetto ai leader di altri Paesi, che hanno sottovalutato la situazione, ci hanno ridicolizzato e accusato perdendo tempo prezioso, e ora che devono fare i conti col contagio ci guardano come modello. Una politica italiana responsabile al netto, ovviamente, di chi – con le bare – propone di riaprire fabbriche e scuole, chi recita l’Eterno riposo in tv e chi continua con polemiche “folli” (cit. Conte), invece di unirsi contro il mostro.

Intendiamoci: anche il governo ha commesso errori di sottovalutazione – così come leader di opposizione, Regioni e Comuni – e certo le misure economiche anticrisi non bastano. Ma non bastano perché in questa guerra non basta l’Italia: ci vuole l’Europa, che deve garantire a tutti gli Stati membri sostegno economico e sanitario coordinato. Gli Usa di Trump stanziano 2.000 miliardi di dollari nella più grande manovra della storia e l’Ue ancora si divide su Eurobond e altre politiche finanziarie per sostenere sanità, lavoro, produzione? Vergogna.

Un coordinamento internazionale che deve riguardare subito anche le informazioni sul virus: cosa aspettiamo a uniformare i parametri su morti, contagiati, guariti e tamponi, in modo da avere un quadro globale reale? E cosa aspettiamo per quell’alleanza mondiale per il vaccino proposta dal ministro Di Maio?

Soprattutto, questa epidemia chiarisce quali dovranno essere le nostre priorità anche in futuro. Dobbiamo imparare dai nostri errori, a partire dalla sanità pubblica. Non basta il grazie meritato a medici, infermieri, personale sanitario, ci vogliono impegni per il futuro:

1) basta tagli, anche a vantaggio dei privati, che hanno massacrato la nostra eccellenza: 37 miliardi in meno in 10 anni, oltre 42mila addetti in meno, medici – 5,9 per cento, posti letto – 1,8 per cento (1/5 delle terapie intensive della Germania). Oggi ne paghiamo pesantemente il prezzo;

2) basta gestioni regionali, che hanno prodotto strutture e cittadini di serie A e di serie B (in Puglia 15 mila addetti in meno dell’Emilia, pur avendo quasi lo stesso numero di abitanti). Ora è chiaro perché il contagio del Nord non deve arrivare al Sud;

3) basta ladri di sanità: sprechi, tangenti, ruberie ai danni dei nostri soldi e, soprattutto, della nostra salute; e basta evasori fiscali, che oggi magari godono di cure pagate dai contribuenti onesti.

Prioritaria, infine, anche la scuola pubblica, per garantire a tutti gli italiani preparazione, ricerca, riscatto sociale e a tutti gli istituti quell’adeguatezza digitale che oggi, con i nostri figli a casa, dimostra i suoi limiti. Prioritari, dunque, anche pc, smartphone, banda larga che oggi – dove ci sono – consentono di continuare a lavorare, comunicare, acquistare online, informarci, leggere… insomma vivere.

E prioritaria è – e deve continuare a essere – un’informazione seria, competente, responsabile, che lasci sullo sfondo le polemiche strumentali da talk, fatte – mai come ora – sulla pelle delle persone.

Se vogliamo che il “dopo” sia meglio del “prima”, dobbiamo cominciare a costruirlo. Da subito.

Covid: male comune con benefici privati

Il presidente di uno dei più importanti gruppi editoriali e di comunicazione italiani, dopo aver esternato in un video su YouTube su quali grandi opportunità, nella vendita di spazi pubblicitari, la crisi del Covid abbia procurato per le sue aziende, i cui affari sarebbero in crescita del 30 per cento, interviene dal Suo giornale chiedendo al governo di “fare di piu’” lanciando un piano da almeno 300 miliardi, come la Francia.

Idee simili di rilancio, con massicci interventi pubblici di tipo keynesiano, hanno articolato, in diverse sedi e con diversi stili, Silvio Berlusconi e Mario Draghi. Nei giorni scorsi un mio amico mi ha detto di aver acquistato all’inizio della crisi azioni di Zoom, la piattaforma per le videocomunicazioni collettive, che, nel disastro generale delle Borse restate aperte, avrebbero guadagnato già il 30 per cento. Non frequento le Borse, ma a giudicare dal numero di fattorini che consegnano pedalando per Deliveroo o altre piattaforme simili, sono certo che le cose vadano assai bene anche a quel settore. La crisi in altre parole, un fattore esterno, genera impennate nei profitti privati di soggetti che si trovano in diversi posizionamenti strategici. Ma sono profitti o rendite di posizione? Cairo ci informa, ad esempio, che le cose vanno molto bene al suo cliente Conad e al comparto della grande distribuzione. Sono certo che anche Jeff Bezos, sebbene abbia prudenzialmente liquidato azioni per qualche decina di miliardi prima della crisi, non se la stia passando male in prospettiva con Amazon. Lo stesso, a vedere le code in farmacia, presumibilmente è vero per il comparto farmaceutico.

Sorge quindi una domanda: per quale motivo oggi tanti soggetti precedentemente austeri come Draghi, Berlusconi o Cairo (per non parlare di Confindustria), che ci hanno abituato ad affermazioni tipo: “Più mercato e meno Stato!”, oggi hanno cambiato partito? Non sarà che, come purtroppo è la regola nel capitalismo italiano (e non solo), lo Stato si invoca solo per rendere comune il male e garantire in tal modo che il bene possa rimaner privato? La crisi Covid-19 è un male comune, tuttavia essa genera benefici privati per taluno. È possibile che, mentre si invoca la solidarietà, questi profitti (rectius: rendite) che essa stessa genera possono essere assorbiti dalla proprietà privata? In verità questo surplus è un (certo non desiderabile) bene comune prodotto dalle circostanze avverse e come tale va trattato, restituendolo alla collettività. Perché quel surplus di profitto (agevolmente misurabile) che è certamente generato unicamente dalla crisi non deve essere socializzato? Forse di lì un po’ di quei 300 milioni che Cairo giustamente ritiene essenziali per ripartire potrebbero venire e non solo dalla fiscalità generale.

Gli strumenti emergenziali consentirebbero, almeno temporaneamente ai governi, di porre in essere un’operazione simile, lasciando ai privati un livello di utili simile a quello che avevano prima della crisi (magari un po’ maggiorato per compensare i rischi di commessi e lavoratori) ma incamerando temporaneamente al bene comune gli utili in più, generati dalle circostanze, per devolverli al sostegno dei più deboli. La crisi non può essere occasione di rendita di posizione.

La proprietà privata nel nostro ordine costituzionale, informato al principio solidaristico, è garantita nella misura in cui adempie a una “funzione sociale” (art. 42). Ascoltare persone già ricche che si vantano di aver incrementato gli utili e vedere tutte quei fattorini in giro, immaginando i profitti in più di chi è proprietario delle piattaforme di delivery, a me fa venire i brividi. I sindacati (letteralmente dal greco: insieme con giustizia) non dovrebbero dire qualcosa? Perché solo il governo e non anche i privati dovrebbero farsi carico dell’emergenza, non dico concorrendo al costo sociale in solidarietà, ma almeno non approfittandone? Diventiamo pure keynesiani, ma senza dimenticare la rendita privata.

Mail box

Io, lettore di “Libero”, ora convinto dal “Fatto”

Non sono un vostro abituale lettore in quanto spesso non condivido la vostra linea editoriale. Per essere chiari acquisto sempre il quotidiano Libero che presumo a voi faccia venire l’orticaria solo a nominarlo. Va bene, non è questo il motivo della lettera. Però mi è sempre piaciuto confrontarmi con opinioni diverse dalle mie, per questo ho deciso nel tempo del coronavirus di acquistare saltuariamente anche il vostro giornale, vuoi vedere che magari c’è qualcosa di interessante e alternativo?… Ebbene mi devo complimentare con voi per gli editoriali del direttore Travaglio, di Padellaro, di Scanzi e altri con i quali non sono sempre d’accordo ma che trovo interessanti e degni di nota. Segnalo che mi piace molto la rubrica della dottoressa Gismondo, che almeno fornisce una lettura alternativa al problema coronavirus senza emettere sentenze com’è solito fare, tanto per fare un nome a caso, il dottor Burioni.

Roberto Gallo

 

Grazie, caro Roberto, e benvenuto in famiglia!

M. Trav.

 

La7 e il sondaggio su Draghi: sprezzo per la Costituzione

L’altra sera il Tg di La7 delle 20 ha ritenuto essenziale, in piena emergenza Covid-19, informare gli spettatori dell’esito di un sondaggio relativo al gradimento tra i cittadini di un eventuale governo a guida Draghi per il dopo emergenza. Sono rimasta allibita, non tanto per la palese inutilità di un approfondimento simile, ma per la pericolosità del messaggio. Perché, in assenza dei presupposti previsti dalla Costituzione, ci si permette di proporre agli italiani un esecutivo diverso? Perché dare risalto a un sondaggio su quella che, ad oggi, è solo una fantasia, attribuendole in tal modo un peso maggiore e trasformandola in una prospettiva? Un sondaggio che paventa immotivatamente la sostituzione del governo in carica, non solo lo delegittima e ne sminuisce l’operato nel mezzo di una emergenza epocale, ma rafforza anche l’idea che i governi nascano e cadano ad nutum per non dire ad m… Il Covid-19 è una tragedia, ma prima o poi passerà. Non passerà invece il ricorrente sprezzo delle regole e della Costituzione.

Antonella Di Carlo

 

L’Inps sta infierendo su chi è già stato penalizzato

Da ieri è possibile accedere al contributo di 600 euro per le partite Iva, attraverso il portale dell’Inps, semplicemente compilando un modulo e inviandolo. Semplicemente e con un click, come gran parte delle cose che facciamo in questi giorni, a distanza e veloci. Ma non è così: gli utenti hanno messo la sveglia per arrivare prima e poter completare la pratica perché, si dice, che i soldi saranno dati in ordine di presentazione: chi arriva primo vince, e gli altri? E allora via alla corsa, un’odissea fatta di attese lunghissime davanti al portale dell’Inps bloccato, un gioco dell’oca snervante per chi deve subire il blocco del lavoro, quindi dei guadagni, la paura di tasse e contributi, il timore di non riuscire a riprendere l’attività. Perché, da parte dell’Inps, gestire così male le cose per un settore già penalizzato?

Piervittorio Porro

 

DIRITTO DI REPLICA

Rispondo al giornalista Andrea Scanzi sui miei interventi in tv a proposito dell’emergenza Covid:

1) “Briatore sapeva tutto”. A sapere tutto non ero io ma il ministero della Sanità e questo già dal 5 gennaio, quando una nota dell’Oms avverte della presenza e aggressività dal virus Covid-19. Questa informazione era da diffondere a tappeto ma è stata taciuta. Primo errore grave del governo. I contatti Italia-Cina sono enormi e la prima cosa da fare non era chiudere i voli ma bloccare subito i provenienti dalla Cina con voli diretti e indiretti e metterli in quarantena. È stata invece lasciata una porta spalancata al virus.

Non solo il virus si propaga ma il governo non pensa a comprare materiale di protezione e per la terapia intensiva. Gli Ospedali, non equipaggiati e non informati diventano focolai. Il 7 marzo un decreto del governo che impone la chiusura delle Regioni infette, reso pubblico prima che sia esecutivo, provoca lo spostamento in massa di 60 mila persone da Nord verso Sud che, si sa bene, non ha i mezzi e le strutture per affrontare l’emergenza. “Col senno del poi”, dice Scanzi, e qui rispondo: è il dovere sacrosanto di chi ci governa di usare “il senno del prima”.

2. “Briatore non l’ascolta nessuno”. Sarò lontano da popolarità e gradimento di Scanzi ma i miei profili social hanno più di un milione di follower, i miei post (di un libero cittadino che non appartiene a nessun carrozzone politico) raggiungono ogni mese oltre 20 milioni di persone.

3. “Prendere ad esempio Trump fa ridere”. Trump ha esitato sì all’inizio ma da vero leader ha dato priorità ai bisogni economici dei cittadini che hanno ricevuto somme adeguate e immediate, non elemosine a conta-gocce come gli italiani.

4. “In ogni Paese si fa quello che abbiamo fatto noi”, ma New York Times e Harvard Business Review additano l’Italia come esempio da non seguire.

Concludo leggero: Scanzi non gradisce le mie babbucce… a me neanche piacciono la sua barbetta e la sua catenina da filosofo. Ma i gusti son gusti.

Flavio Briatore

Più controlli? Sì, ma senza rinunciare al sostegno. E niente condoni

Caro “Fatto Quotidiano”, mi interesserebbe sapere se il sostegno che verrà dato anche a chi lavora in nero verrà poi utilizzato per raccogliere dati e tracciare e perché no, aggredire, il fenomeno del nero e dell’evasione, come ritengo sarebbe giusto, visto che ora il sostegno al reddito di quelle persone ricadrà, più che mai, sulla collettività. Sono un lettore della prima ora. Grazie.

Andrej Drosghig

È tecnicamente impossibiledefinire chi lavora in nero e come possa essergli dato sostegno. Quello che il governo sta preparando è un intervento temporaneo, il nome che circola è Reddito di emergenza, che dovrebbe coprire quelle categorie o quelle fasce sociali che non sono coperte dagli altri ammortizzatori. Che ormai sono diversi e anche numerosi. Si va dall’intervento più sostanzioso, la cassa integrazione nelle sue varie forme, al bonus per i lavoratori autonomi e co.co.co. – quello per cui ieri il sito web dell’Inps è andato in tilt – fino a facilitazioni per ricorrere alla nuova disoccupazione, la Naspi, e allo stesso Reddito di cittadinanza di cui vengono sospesi alcuni vincoli. Chi resta fuori? Ad esempio chi ha avuto un reddito superiore ai 9.360 euro se singola persona, tale da non permettere l’accesso al reddito di cittadinanza oppure chi non ha accumulato sufficienti settimane contributive per richiedere la Naspi o, ancora, chi non rientra nell’elenco di coloro che possono ricorrere al bonus da 600 euro (che forse diventano 800). Qui si suppone, dunque, che rientrino quelle figure che possiamo annoverare nel lavoro nero. Nessuno, ovviamente, facendo domanda per uno dei vari strumenti di sostegno, ad esempio il Reddito di emergenza, dichiarerà da qualche parte di aver lavorato in nero. Commetterebbe un reato. Un auspicio a richiedere una tale ammissione è stato avanzato da Renato Brunetta di Forza Italia, che ha proposto di approfittare della situazione per regolarizzare tutto quello che è possibile, lavoro nero ed evasione fiscale, chiedendo ai percettori di bonus e assistenze varie, di dichiararsi. In effetti sarebbe una sanatoria generalizzata, un condono di emergenza, con tutti i limiti e le obiezioni che questo comporta (a noi, come sa, non piacciono i condoni). Quello che va fatto, comunque, in questo momento, è garantire a chi non ha i mezzi per sopravvivere, di superare questa emergenza. Gli strumenti per fare verifiche e controlli ci sono e possono venire buoni anche per far emergere le tante irregolarità di questo Paese.

Salvatore Cannavò

I “Cigni neri” possono far volare la scuola

Studenti al tempo del coronavirus. Come reagiscono e cosa fanno per non perdere l’anno? A casa usano le chat, non potendo incontrarsi e generando un traffico così inteso da costringere i provider a ridurre le connessioni per evitare il crash. Divampa il gaming online, che contribuisce al sovraffollamento. Per fortuna molti ragazzi si danno alla lettura, dove primeggia L’amore ai tempi del colera. Piace perché genera speranza e ottimismo, un companatico oggi indispensabile.

All’inizio hanno goduto la vacanza. Ora dopo le prime settimane fanno i conti con la cattività. Per non parlare dei bambini, che non ne possono più, come ha scritto sul fatto.it la blogger Linda Maggiori, che ne sa qualcosa con 4 figli. Non tutti abitano in case confortevoli e la vita in pochi metri quadri tra genitori, fratelli e sorelle, presente anche qualche nonno, genera ansia ed esasperazione. A tutto ciò si aggiunge che il mondo della scuola è impreparato. La ministra Lucia Azzolina, 5 Stelle, due lauree, ex insegnante, sta dando l’anima per modernizzare un dicastero appesantito da decenni di potere democristiano e forzaitaliota. Lorsignori a tutto hanno pensato meno che agli studenti e ai docenti. Come possiamo avere buoni professori quando guadagnano poco più di mille euro al mese? Questa miserabile cifra testimonia l’atavico disastro della pubblica istruzione. Ai tempi del Covid-19 l’annientamento delle capacità didattiche evidenzia la sua pervasità. La ministra ha un bel proporre lezioni online, ma la scuola e l’università latitano sia sotto il profilo tecnologico che pedagogico. Quante sono le abitazioni degli studenti, specie nei quartieri più poveri, che hanno una connessione per sopportare le lezioni a distanza? E quanti gli insegnanti capaci di destreggiarsi in una classe virtuale? Succede così che un’infinità di studenti non può fruire del tele-insegnamento e un gran numero di docenti si è dichiarato inadeguato dando forfait. Non è colpa loro, ma di un ceto politico che se n’è sempre fregato dell’educazione, forse pensando che una popolazione troppo istruita non li avrebbe votati. Oltre a fare film insegno all’università e verifico ogni giorno l’abisso tra le legittime aspirazioni degli studenti e la precarietà delle nostre strutture. È così buio il panorama che il Direttore dell’Ufficio scolastico emiliano ha sentito il dovere di lanciare un messaggio con un titolo un po’ sinistro: “Cigni neri” al tempo del Coronavirus. Un messaggio ai giovani che fanno scuola ma non a scuola. Se la dizione suona funesta, non così il contenuto. Si tratta infatti di un messaggio incoraggiante, che vale la pena di leggere (è in Rete).

Nonostante le macerie ereditate da ministri incompetenti, quella attuale ha coraggio. Innanzitutto manifesta una bella distanza da quanti l’hanno preceduta. Basta pensare che prima di lei c’era un insegnante di educazione fisica e prima ancora una non laureata che aveva dichiarato di esserlo. Anche Steve Jobs non lo era, ma nel suo curriculum invece di mentire aveva scritto con dignità di non aver potuto completare gli studi. Questo tragico virus che sta cambiando il mondo, almeno una buona cosa la farà. Terminata l’epidemia sarà necessario un nuovo Piano Marshall per la salute pubblica, anch’essa smantellata da governi dissennati e voraci. Ma sarebbe un piano di ricostruzione mutilato se non comprendesse innanzitutto la scuola e l’università. Cerchiamo di non perdere il treno perché oggi tutto viaggia così veloce che se sgarriamo siamo fottuti.

Si “evade” col drone e in salotto si sfidano supereroi e panda

Visto che dobbiamo “stare a casa”, chi vuole condividere con gli altri la sua vita in quarantena può farlo sulle pagine del Fatto. Siamo una comunità e mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto, raccontateci cosa fate, quali libri, film e serie tv consigliate all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.

È dura, ma almeno ora ho un nuovo hobby

“Combattere” la quarantena in appartamento rappresenta una bella sfida per tutti, questo è risaputo. Dopo settimane di smart working, letture varie e abitudini ripetitive, è sorta la necessità di evadere nel rispetto delle regole. Ho deciso di acquistare un drone hobbystico e ho iniziato a volare in quarantena decollando dal balcone di casa (nel rispetto di tutte le norme). Avrò trovato il mio nuovo hobby anche post quarantena?

S.D.

 

Finirono altri isolamenti, vivo serenamente questo

Come gli altri, anche il mio nonno paterno (Gabriele, analfabeta, 1864) fu messo in quarantena al suo arrivo negli Stati Uniti: nel 1894 e poi nel 1900. Anche mio papà (Mariano, 1897) a causa del tifo, fu obbligato alla quarantena, impostagli perché militare autiere.

La mia quarantena durò poco più di due anni; bambino di otto anni lasciai il sanatorio antitubercolare di Valledrane dov’ero restato dal 1946 al 1948. Autoquarantene affettive o relazionarie seguirono mie scelte di libertà e di coscienza, alle quali non volli rinunciare. Perciò la quarantena attuale non mi impedisce di vivere (quasi) serenamente le giornate. Finirono le precedenti imposte. Sarà così anche adesso.

Paolo Angelo Napoli

 

Con un bimbo di tre anni tra calcio, cucina e libri

Io e Marica cerchiamo di rendere la “reclusione” del nostro Alessandro, che ha 3 anni e corre (anche in casa) verso i 4, il meno traumatica possibile. Per fortuna, spesso i bambini riescono a essere più forti degli adulti. Per cui, quando papà e mamma sono impegnati, Ale si comporta da vero ometto. Gli abbiamo spiegato che fuori c’è questo virus e che non usciamo perché, se non trova nessuno con cui giocare, alla fine si annoierà. Quindi, quando si deve lavorare, si siede vicino a mamma e anche lui fa i “compiti”. Oggi ha imparato a fare da solo i cuoricini ed è stata una festa!

Durante le ore libere o nel weekend, invece, cerchiamo di diversificare. Gli leggiamo libri e fumetti, cucina un po’ con la mamma, gioca a calcio con papà. Oppure si traveste da supereroe, coadiuvato dalla sua aiutante mamma, mentre papà interpreta il cattivone. Anche se è così piccolo, anche ad Ale mancano le partite di calcio. Ma abbiamo ovviato organizzando dei match di alto livello fra due squadre di suoi pupazzetti. Le due compagini sono state definite “squadra dei supereroi e squadra dei panda” e anche loro, come noi, si adoperano per dare un calcio a questo maledetto virus(vedi foto).

Gianluca Caporlingua

 

Il tabellone dei compiti per coinvolgere i figli

Buongiorno, moi abbiamo pensato al tabellone dei compiti casalinghi, così i figli si responsabilizzano e perché no, si divertono. (vedi foto)

Paolo

Corsi di sepoltura: Siria allo stremo

Il 22 marzo, le autorità di Damasco hanno annunciato il primo caso di contagio – un cittadino proveniente dall’estero –, facendo seguire misure drastiche: chiusura delle scuole, università, moschee; riduzione dell’orario di lavoro e del personale nel settore pubblico; regole restrittive per i trasporti; sospensione del reclutamento per il servizio militare e anche il rinvio delle elezioni parlamentari dal 13 aprile al 20 maggio. Il quadro è allarmante. Per il rappresentante dell’Unicef in Siria, Fran Equiza, un’azione militare ha messo fuori uso la stazione idrica di Allouk, nel nord-est curdo del Paese, con enormi conseguenze sanitarie. E la nuova amnistia siriana ridurrà il sovraffollamento carcerario?

Quella dello scorso anno liberò 204 detenuti su 190.000. Tra le misure annunciate da Damasco, hanno rilievo i corsi di addestramento alla sepoltura nel rispetto del rito islamico. In un Paese dove la guerra ha causato la morte violenta, in nove anni, di oltre 400.000 persone (il conteggio ufficiale delle vittime è fermo da molto tempo), i sistemi di sepoltura non possono essere poco conosciuti. Il timore che questa decisione possa, dunque, implicare una situazione che si prospetta allarmante non è infondato. La possibile emergenza siriana, che avrebbe caratteristiche non dissimili da quella di altri Paesi sconvolti da lunghissimi conflitti, sarebbe di eccezionale gravità per un dato drammatico e noto: la distruzione di circa la metà delle strutture sanitarie e la mancanza di personale medico, avendo moltissimi medici lasciato il paese; e adesso essi sono impossibilitati a rientrare in patria. La tardiva chiusura di importanti santuari, meta di pellegrinaggi anche dall’estero, potrebbe aver aggravato l’emergenza. Tutto questo crea allarme: non si può che essere angosciati provando a immaginare, ad esempio, cosa possa significare la diffusione del contagio nelle inaccessibili e sovraffollate carceri siriane. Se la Siria “fosse colpita dal virus sarebbe una catastrofe”, ha dichiarato all’agenzia Sir il Nunzio apostolico, card. Mario Zenari.

Quando papa Francesco inviò il card. Turkson a Damasco con la sua lettera al presidente Bashar alAssad, il Segretario di Stato Vaticano, card. Pietro Parolin, proprio al riguardo delle carceri disse, in un’intervista apparsa su L’Osservatore Romano: “A Papa Francesco sta particolarmente a cuore anche la situazione dei prigionieri politici, ai quali – egli afferma – non si possono negare condizioni di umanità. Nel marzo 2018 l’Independent International Commission of Inquiry on the Syrian Arab Republic ha pubblicato una relazione a questo proposito, parlando di decine di migliaia di persone detenute arbitrariamente. A volte in carceri non ufficiali e in luoghi sconosciuti, essi subirebbero diverse forme di tortura senza avere alcuna assistenza legale né contatto con le loro famiglie. La relazione rileva che molti di essi purtroppo muoiono in carcere, mentre altri vengono sommariamente giustiziati”. Dai territori della Siria nordorientale, non controllati da Damasco, le autorità curde hanno descritto così alla National Public Radio statunitense la situazione: “Non disponiamo di tamponi, i nostri confini sono tutti chiusi e al momento non sappiamo a chi poterci rivolgere”. C’è poi il nord-ovest della Siria, la provincia di Idlib. La sua popolazione era di un milione e 500 mila persone, ma è raddoppiata negli anni recenti per l’afflusso in questo lembo settentrionale del Paese di sfollati da altre aree del Paese riconquistate dalle autorità di Damasco. Controllata da oppositori del governo e affollata anche da numerosi miliziani jihadisti arrivati dopo la conclusione dei combattimenti in altre zone della Siria, la provincia di Idlib è stata fino a pochi giorni fa al centro di feroci combattimenti e bombardamenti a tappeto che hanno colpito quasi tutte le strutture sanitarie. L’intensità del fuoco è stata tale da causare almeno un milione di sfollati, molti dei quali lo sono anche tre o quattro volte.

Alla loro tragedia papa Francesco si è riferito nella lettera al presidente Assad, il 22 luglio 2019, nel corso dell’Angelus del 2 settembre, al termine dell’incontro di Bari il 23 febbraio 2020 e infine all’Angelus dell’8 marzo. In quest’ultima occasione ha rinnovato la sua grande apprensione e il suo “dolore per questa situazione disumana di queste persone inermi, tra cui tanti bambini, che stanno rischiando la vita”. E ha proseguito: “Preghiamo per questa gente, questi fratelli e sorelle nostri, che soffrono tanto al nord-ovest della Siria, nella città di Idlib”. Il giorno dopo i vescovi cattolici e luterani dei Paesi scandinavi hanno firmato insieme una dichiarazione, nella quale la crisi legata al virus e quella del nord della Siria sono definite situazioni che “ci sfidano come persone e membri della razza umana. Gli oneri devono essere condivisi e sostenuti congiuntamente. Se falliamo, perdiamo la nostra umanità”.

La provincia di Idlib riceve aiuti umanitari internazionali dagli unici due corridoi aperti attraverso l’invalicabile confine turco. Hedinn Halldorsson, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ha affermato che “è solo una questione di tempo prima che vedremo confermati casi di coronavirus in Siria, poiché abbiamo evidenze e conferme da tutti i Paesi e territori limitrofi”. L’Oms ha annunciato di essere pronta a inviare i tamponi per il test del Covid-19 non solo nelle aree governative, tramite Damasco, ma anche nel nord-ovest tramite la Turchia. La Russia ha inviato materiale sanitario. Poco dopo l’annuncio del primo caso di coronavirus, l’ambasciata della Repubblica popolare cinese di Damasco ha ufficializzato l’invio di un primo kit di aiuti a favore delle autorità sanitarie siriane, e ha inviato nel Paese almeno 2.000 dispositivi per effettuare i test. Ma le difese immunitarie di una popolazione che vive all’addiaccio da mesi, non disponendo neanche di tende sufficienti per tutti, nel fango e senza acqua corrente, spiegano perché da molte parti si sia affermato che il non disporre dell’acqua per lavare i bambini, neanche una volta a settimana, evidenzi il ritardo della comunità internazionale nell’assumere iniziative che dovevano essere prese settimane fa. Un ritardo che potrebbe avere gravissime conseguenze. Il responsabile dell’Oms in Siria, Nima Saeed Abid, ha dichiarato all’Agenzia Reuters che “esiste una popolazione vulnerabile nei campi profughi, nelle periferie urbane, nelle baraccopoli. Se prendiamo in considerazione gli scenari cinese o iraniano ci aspettiamo di avere un gran numero di casi e ci stiamo preparando di conseguenza”. Il tempo si è fatto breve.

Il social-movie è donna: “Tutte a casa” a girare la propria vita

Era il 24 luglio 2010 quando Ridley Scott invitò i filmmaker di tutto il mondo a prendere parte a Life in a Day, il primo esperimento di lungometraggio interamente realizzato dagli utenti in cui i partecipanti avevano 24 ore per immortalare un frammento della propria giornata. Sono passati 10 anni da quel primo social-movie ma la voglia di crowdsourcing (da crowd “folla” e sourcing “origine”), criterio alla base di tutti i progetti sviluppati collettivamente (dai software open source fino a Wikipedia), è riesplosa con il lockdown italico, riaffermando con forza i princìpi da cui hanno avuto origine gli stessi social network: condivisione e partecipazione. Uno degli esempi contemporanei più interessanti di social cinema riguarda Tutte a Casa, un documentario partecipativo che intende indagare il rapporto tra donne e lavoro ai tempi del Coronavirus, ideato e prodotto da una quindicina di lavoratrici dello spettacolo capitanate da Cristina D’Eredità, montatrice barese e mamma di due bambini.

A creare il terreno più fertile per lo sviluppo di un film collaborativo al femminile è stato Mujeres del cinema, gruppo Facebook che ha raccolto le adesioni della maggioranza delle lavoratrici del cinema in Italia, oltre 8.500, ed è diventata una fucina di idee e proposte di collaborazione tra professioniste di un settore, quello dell’audiovisivo, tradizionalmente ad appannaggio maschile.

Ad alimentare il documentario Tutte a Casa – Donne, lavoro e relazioni ai tempi del Covid-19, video-diari inviati da donne di età, regioni e professioni diverse, alcune in prima linea, come la dottoressa impegnata ad affrontare l’emergenza sanitaria e le difficoltà a essa connesse, altre in seconda e in terza ma non per questo meno interessanti: dall’impiegata licenziata in tronco, alla gestante che fa fatica a svolgere semplici visite di controllo, alla cam girl che assurge a rifugio psichico per quegli avventori che manifestano i primi cenni di cedimento da quarantena.

L’obiettivo è quello di raccogliere frammenti di memoria collettiva per riflettere, a emergenza finita, su un inedito scorcio di storia contemporanea tutta al femminile, raccontata direttamente, con un semplice smartphone, da quelle donne costrette a lavorare fuori casa e in situazioni a rischio, dalle mamme in smart working, dalle lavoratrici atipiche, dalle autonome, dalle professioniste momentaneamente ferme, dalle neo-disoccupate. Ma non solo il lavoro, il documentario intende indagare anche l’ambito relazionale: tra donne, con il partner, con i figli, con se stesse, per capire se e come i rapporti stiano cambiando a causa o grazie a questa inedita situazione.

Tutte a casa è un progetto collaborativo sia nei contenuti che nell’assetto. Alle ideatrici va infatti il merito di aver sperimentato un modello organizzativo non verticistico, come il cinema tradizionale imporrebbe, bensì orizzontale: un manifesto interno scritto e condiviso da tutte, regola lo scambio di punti di vista e la divisione di ruoli e compiti.

Finora sono oltre 150 le donne che hanno aderito all’iniziativa, oltre 500 i contributi ricevuti, a dimostrazione che il virus è riuscito a fermare tutto ma non la fantasia e la voglia di partecipazione.

Prendere parte al primo film collettivo interamente al femminile è semplicissimo, basta cercare la pagina Facebook “Tutte a casa” o scrivere a tutteacasa@gmail.com.

“Questo virus è la Chernobyl della nostra globalizzazione”

Dopo il successo de I Diavoli, il finanziere Guido Maria Brera, ormai sempre più scrittore a tempo pieno (de I Diavoli partirà a breve la mini-serie tv su Sky) pubblica La fine del tempo, romanzo attorno ai grandi temi della crisi economica e delle ricette per uscirne. Protagonista, l’inglese Philip Wade, professore di Storia, laburista, ma con i sodali Massimo De Ruggiero e Dereck Morgan, al centro degli intrecci tra finanza e politica e della “guerra” che si svolge in campo internazionale almeno dal 1989.

Proprio perché parla di guerra, Philip Wade si lancia in una proposta estrema, la remissione dei debiti. È davvero fattibile?

La proposta ovviamente è di Philip Wade. Che la motiva in ragione della guerra che si è svolta dalla caduta del Muro. Un “tutti contro tutti” in cui gli Stati si sono ritirati e il capitale è stato messo nella condizione migliore per massimizzare i profitti. Chi non ha potuto partecipare a questa “danza” è andato in frantumi. Il virus oggi è solo la parte che noi vediamo della guerra in un mondo già diviso tra vincitori e vinti. Nel libro c’è l’eco dell’aspirazione di Keynes che ne Le conseguenze economiche della pace parlava già di ammorbidire il peso del debito della Germania. Wade propone qualcosa di simile: dopo una guerra, i debiti venivano ridiscussi.

Siamo stati abituati al refrain che il debito è sacro.

Sì, il debito è sacro. Però ci sono dei momenti in cui è necessario aprire un dibattito. È la Storia che viene a bussare e dice che è ora di ridiscuterlo. La sua sacralità è un’architrave della finanza ed è una misura costituente che serve a creare spesa sociale. Il fatto che sia ripagato è importante a meno che la Storia non bussi alla tua porta. Nel libro, Wade, identifica gli ultimi trent’anni come una guerra e questa pandemia avrà i risultati di una guerra: ridiscutere i debiti privati deve essere materia di dibattito.

Nel libro si torna spesso a discutere del Quantitative easing definito come “una enorme glaciazione” della piramide sociale. È stato negativo?

È stato necessario, ma non sufficiente. Se hai un malato che ha bisogno del cortisone glielo dai e poi curi la malattia. Senza Qe si sarebbe tornati al baratto. Ma poi, la politica si è nascosta dietro al Qe senza adottare le politiche fiscali necessarie. La politica avrebbe dovuto approfittare di quel tempo in più regalato dalle Banche centrali per andare alla radice.

Lo spazio, invece, se lo è preso il capitale, i cui flussi vengono descritti come i mostri di Bacon. Il tasso zero ha alimentato la tecno-finanza, è il lamento di Wade.

Il capitale è un algoritmo e quindi risponde a leggi matematiche. Se i tassi zero aiutano un salto tecnologico reale, allora va bene. Ma se vengono sfruttati per creare tecnologia che comprime i diritti, come la Gig economy, quindi distruggendo il tessuto sociale, allora non servono a nulla. I bambini devono sognare il pallone e corrervi dietro, non devono sognare un brand. La colpa, ripeto, non è del Quantitative easing, ma della politica.

Philip Wade ha in comune con Mario Draghi di essere discepolo di Federico Caffè. Ci salverà Draghi?

Credo che siamo noi a dover mettere lui nella condizione di salvarci. Draghi è la persona più illuminata in Europa degli ultimi vent’anni. Il suo articolo sul Financial Times è stato importante, arrivando a prefigurare persino la cancellazione dei debiti privati. Mi ricorda il direttore dei programmi di emergenza dell’Oms, Mike Ryan, secondo il quale If you want to be right before you move you never win. La perfezione è nemica del bene, pensiero anche di Voltaire. Draghi ha fatto un gesto forte, ed è stato l’unica voce politica dell’ultimo mese.

Siamo cresciuti nell’era imperante del neoliberismo iniziato negli anni Ottanta. È finita quella stagione?

Sì, questo virus è la Chernobyl della globalizzazione. Ci sarà un prima e un dopo. Il neoliberismo, cioè l’affidare al singolo la propria sorte, è drammaticamente imploso. La nostra generazione non aveva mai conosciuto l’importanza e la centralità dello Stato per la propria vita. E se pensiamo all’affermazione di Margareth Thacher secondo la quale non esiste la società, ma solo gli individui, ci rendiamo conto come questa crisi ponga una pietra tombale su quella concezione.

“Dimenticatevi l’ironia: ‘Tre piani’ è un film etico”

L’intervista che segue è parte dell’ampio speciale che il numero di aprile della Rivista del Cinematografo dedica a Nanni Moretti. Edita dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e diretta da Davide Milani, RdC è la più antica (1928) pubblicazione cinematografica in Italia: eccezionalmente, questo numero è disponibile gratis su www.cinematografo.it

Il nuovo, attesissimo – e rimandato per Coronavirus: l’uscita in sala era prevista il 23 aprile – film di Nanni Moretti è Tre piani. Nel cast egli stesso, Margherita Buy, Alba Rohrwacher, Riccardo Scamarcio e Adriano Giannini, è tratto dal romanzo omonimo (Neri Pozza) dell’israeliano Eshkol Nevo.

Primo soggetto non originale in oltre quarant’anni passati dietro la macchina da presa (l’esordio Io sono un autarchico è del 1976), Moretti trasloca la storia dai sobborghi residenziali di Tel Aviv a Roma, quartiere Prati: i tre piani sono quelli di una palazzina borghese, dove le istanze intrapsichiche freudiane Es, Io e Super Io, si attagliano ad altrettante famiglie.

A firmare la sceneggiatura con Nanni sono Federica Pontremoli (Il Caimano, Habemus Papam) e Valia Santella (Mia madre), che incontriamo nel tempio morettiano, il Cinema Nuovo Sacher.

Inedito: Moretti alle prese con un libro.Valia Santella (VS): Eravamo al lavoro su altre idee da un anno e mezzo, lui diceva: ‘Ma guardiamoci in giro, nessun problema a prendere altre storie, se c’è un libro che mi corrisponde ben venga’.

La politica (Il Caimano), la Chiesa (Habemus Papam): qui l’universalità dove sta?Federica Pontremoli (FP): Nell’umano dei personaggi, la loro fragilità, forza, ambiguità. Nell’essere raccontati in maniera molto sincera e vera, negli scarti quotidiani di indecisioni, sbagli, errori. Ed effetti palla di neve: da piccola impasse a grande tragedia.

VS: L’universalità del dolore, guardare le persone in un momento in cui la loro vita sta diventando traumaticamente altro.

Come lavorate a sei mani?VS: Sempre insieme, virgole comprese, fino all’ultima rilettura, che è davvero dedicata alla punteggiatura.

Se doveste definirvi in base alle categorie intrapsichiche freudiane – Io, Es, Super Io – del romanzo?VS: Super Io (ridono), lasciamoglielo tranquillamente a Nanni…

Come siete arrivate a Tre piani?FP: Conoscevo Eshkol Nevo da Simmetria dei desideri, avevo letto una recensione di Tre piani, buona, e mi sono comprata il libro: l’ho letto velocissimo, e stranamente anche Moretti. Ha avuto un’adesione totale.

Simmetrie tra Moretti e Sorrentino: Berlusconi, il Papa e ora, entrambi per la prima volta, un soggetto non originale.FP: Sono alla ricerca di cose grosse, hanno voglia di confrontarsi con grandi temi. La sfida di andare dentro i grandi istituti, la politica e la chiesa, il tentativo di capire un po’ di più, non dare solo la propria opinione, ma indagare.

Differenze?FP: Sorrentino trasforma con il suo immaginario quel che affronta, lo trasfigura; Moretti ha la capacità di andare a beccare quella piccola cosa che poi diviene chiave di lettura per il futuro. Quando lavora, ripete: ‘Non voglio fermarmi alla cronaca, voglio andare più in là’.

Che sta anticipando?FP: Ci ho pensato, io credo che stia analizzando il confine dell’umanità con il senso etico, la morale più in generale. Questo film coglie l’umanità nel momento in cui si sta confrontando con i grandi temi etici: oggi è difficile riconoscerci nella collettività, dunque il singolo uomo si trova solo di fronte a un sistema di valori.

Solitudine?FP: Sì, il senso di panico di fronte alla scelte individuali. È un film serio, serio nel senso più etico che si possa concepire. I soggetti che stavamo elaborando prevedevano un mondo morettiano, leggerezza, più commedia, questo è serio e nel suo mondo c’è il rigore. E questa è la scommessa, perché ovviamente i fan chiederanno la battuta, ma si porteranno a casa qualcos’altro.

Il personaggio di Nanni ha un figlio responsabile di un incidente mortale: come non pensare a Paolo Genovese?FP: C’è di più, quando scrivevamo è accaduto l’incidente di Domenico Diele (attore, condannato per omicidio stradale avvenuto il 24 giugno del 2017, ndr), ed è stato scioccante. Poi adesso pure il figlio di Genovese… Non ci siamo confrontati, ma ognuno di noi lo ha pensato.

VS: È un dramma, noi siamo tutti e tre genitori, possiamo capire.

FP: Mi dispiace quasi aver raccontato questa storia.