“Ora prendiamoci il tempo per migliorare il sistema”

Quadrato, posato, sorridente più con la bocca che con gli occhi. Consapevole. Vestito con camicia a quadretti, con il piglio di una giornata normale.

È Alvaro Morte.

Spigliato, veloce, stupito, maglietta bianca, barba di due giorni, e uno sguardo più angosciato.

È Enrique Arce.

I due attori sono tra i protagonisti de La Casa di Carta, da venerdì su Netflix la nuova stagione, e in parte (solo in parte) rispecchiano i ruoli del “professore” e del direttore della Zecca, dentro la serie tv.

Signor Morte, lei è un esperto di Shakespeare, ma “La Casa di Carta” ricorda più “L’opera da tre soldi” di Brecht…

Shakespeare è stato un grande cronista politico, alcune sue opere sono molto critiche con la monarchia del tempo, metteva a nudo tutte le passioni che avevano i re…

E allora?

La Casa di Carta manda un messaggio, più che contro la politica, contro il sistema, mette in luce un dato: le cose non vanno così bene come potrebbero.

Cioè?

Per anni ci hanno venduto l’idea che la strada percorsa era la migliore possibile, quando è sotto gli occhi di tutti la disuguaglianza sociale ed economica (Ci pensa) Il messaggio che mandiamo è quello della resistenza.

Area, nella serie è uno dei pochi a difendere il sistema.

Ne La Casa di Carta rappresento Il sistema in quanto direttore generale della Zecca di Stato; (sorride) ho conosciuto il vero direttore generale, e ho capito come si arriva in certe posizioni apicali, quindi nella sceneggiatura non ci sono andati lontani.

Quanto le è costato essere l’unico antieroe in una serie di eroi?

Ricordo perfettamente il giorno in cui ho incontrato il personaggio: ero con il produttore esecutivo e il regista, stavamo girando, e nelle prove non avevo ben capito il mio ruolo; l’illuminazione c’è stata in una scena della seconda stagione, quando Pedro Alonso (Berlino), mi alza la maschera. Io piagnucolavo. Ecco, lì si è svelato il mio personaggio tragicomico, e quel momento è terminata la fatica…

Ma…

In alcuni casi non devi guardarti da fuori. Non devi cercare di essere simpatico, attirare il pubblico. A te tocca tale personaggio, è l’antagonista e lo devi difendere. In questo progetto, come in tutti gli altri, chi giustifica il proprio ruolo ad ogni costo, commette un errore, che probabilmente ha più a che vedere con l’ego.

Morte, spesso gli attori di serie tv sono terrorizzati di venir sempre e solo identificati con il personaggio…

Non ho paura di questo. Mi dispiacerebbe se il pubblico lo pensasse. Sono molto contento di interpretare il professore, sono cosciente del suo appeal, ma al di là di questo ho girato altre serie e film, e con ruoli differenti. Amo cambiare.

Oltre a rubare alla Zecca, avete scippato all’Italia “Bella Ciao”: è cantata nel mondo…

(Morte) Bella Ciao l’hanno intonata tutti, e in occasioni divertenti. Però in un caso mi sono emozionato: c’è un’organizzazione in Spagna che si chiama Open Arms che salva i migranti; ricordo un video su Instagram di un gruppo di profughi che quando si è sentito al sicuro, ha iniziato a sussurrarla.

E per lei?

(Arce) Gli ultimi tre mesi dell’anno scorso sono stato in Cile per girare una serie, e lì ho visto da vicino l’insurrezione popolare civile. Io ero nella “zona 0” e tutti i giorni nascevano delle manifestazioni pacifiche, quasi sempre poi represse dalla polizia; ricordo la quantità di gente che mi salutava vestita con la tutina rossa, e c’è una foto simbolo di tutto questo, a piazza Italia, in centro a Santiago, dove una persona si è arrampicata sul punto più alto del monumento, con migliaia di presenti, e ha alzato le mani in alto, come la Statua della Libertà, e indossava la tuta rossa e la maschera di Dalì. Mi sono venute le lacrime agli occhi.

In questo momento di quarantena, cosa avete riscoperto? E qual è la prima cosa che desiderate quando sarà finita?

(Arce) Sono contento di essermi fermato. Ho potuto cercare quell’introspezione che, spesso, quando si va con il pilota automatico, non abbiamo. È giusto respirare, contemplare, analizzarsi nel profondo, invece che continuare a rispondere a mille domande. Credo che questo virus ci abbia messo nelle condizioni di affrontare noi stessi. Sono certo che da qui potranno venire solo cose positive perché quando ci si guarda dentro si amplia la coscienza e quando si amplia la coscienza, questo può solo fare del bene al mondo intero.

Primo appuntamento…

Prendere la macchina, andare a casa dei miei genitori e da mia sorella che si trovano a 14 km, e abbracciarli fortissimo. Sono anziani e sono contento che siano sopravvissuti a tutto questo. È l’unica cosa a cui sto pensando.

E per lei, Morte?

Ultimamente stavo lavorando molto fuori casa e la quarantena mi ha dato modo di tornare a godermi la famiglia. Inoltre, c’è una questione importante: al di là dello svago, del divertimento, della fuga che tutti noi cerchiamo, vorrei invitare la gente a prendersi del tempo per riflettere su tutto quello che ci sta succedendo e che ricorderemo per sempre. Abbiamo un’ottima opportunità per crescere sia come individui sia come società. E anche io prenderò la macchina, la mia famiglia, e partirò per un tour con destinazione parenti, mia madre, zii e cugini.

La vita davanti a Gary. L’intervista-testamento

Pubblichiamo uno stralcio de “Il senso della mia vita”, l’ultima intervista rilasciata da Romain Gary a Radio Canada nel 1980, pochi mesi prima di suicidarsi: il libro, edito da Neri Pozza, è disponibile in eBook.

Ho divorziato da Jean Seberg nel 1970, in parte perché l’idealismo di questa ragazza che cozzava contro continue delusioni era quello che avevo già vissuto io da giovane e non potevo tollerarlo, non potevo sopportarlo, non potevo starle dietro, non le potevo fare compagnia, non la potevo aiutare e in un certo senso mi sono arreso senza mai smettere di occuparmi di lei con le tragiche conseguenze che oggi il mondo intero conosce e di cui ormai mi rifiuto di parlare, dopo aver fatto sull’argomento una conferenza stampa che ha avuto sicure ripercussioni in America. Non ne voglio più parlare.

Che altro dire? Il mio lavoro continuava, lavoravo sette, otto o nove ore al giorno ai miei romanzi. In totale ne ho pubblicati una trentina… Al momento la mia maggiore preoccupazione è l’educazione di mio figlio e la prosecuzione della mia opera letteraria. Ho sessantacinque anni, non posso dunque prevedere nulla al di fuori del restringimento dell’orizzonte da tutti i punti di vista e mi limito a constatare, a mano a mano che procedo nella vita, un certo fenomeno dell’eterno ritorno nel senso che ciò che considero come acquisito viene riscoperto dalle nuove generazioni. In campo letterario lo si vede in un modo abbastanza comico: ogni quindici anni una nuova generazione scopre Kafka, adesso si è appena riscoperto il mio amico Albert Camus e si riscopre Saint-Exupéry…

All’inizio di questa conversazione vi ho detto che, più che vivere una vita, se ne viene vissuti. Ho l’impressione di essere stato vissuto dalla mia vita, di essere stato oggetto di una vita anziché averla scelta e oltre a ciò, con la notorietà, si è manipolati dalla vita stessa. Con la notorietà avviene un curioso fenomeno che consiste in un’immagine che, grazie ai media e con la mediazione delle vostre telecamere, si fissa nel pubblico e ha pochissimo rapporto con la realtà dell’uomo. Mi rendo conto tutti i giorni, in tutto ciò che si scrive su di me, che non mi riconosco assolutamente in questo marchio che mi porto dietro. C’è una profonda differenza tra ciò che scrive un autore e lui stesso. Un autore mette il meglio di se stesso, della sua fantasia, nel libro e tiene il resto, “il miserabile mucchietto di segreti” come diceva Malraux, per sé…

Insomma, capite anche voi nel contatto con i media che io, Romain Gary, vivevo in continuazione con un personaggio di Romain Gary che non ha assolutamente niente a che vedere con la realtà del mio io. Anzitutto il mio passato storico, condizionato dalla storia, dalla guerra, dalle ferite di guerra, dalle decorazioni, dalle baruffe e poi le mie origini russe, ecc. fanno sì che si sia fatto di me una specie di cosacco teppista, aggressivo e violento, e c’è ad esempio una leggenda da cui non riesco a liberarmi: quella di essere un gran bevitore. Non ho mai toccato liquori. Bevo appena un po’ di vino… È un personaggio costruito di sana pianta e ciò che mi caratterizza è, per l’appunto, la fobia dell’alcol, e in tutti i campi… L’unica cosa che mi interessa è la donna, non dico le donne, attenzione, dico la donna, la femminilità. Il grande motivo, la grande gioia della mia vita è stato l’amore per le donne e per la donna. Sono stato il contrario del seduttore malgrado tutto quello che si è voluto raccontare su questo argomento. È un’immagine completamente fasulla e direi perfino che sono organicamente e psicologicamente incapace di sedurre una donna. Non funziona così, è uno scambio, non è una presa di possesso grazie a chissà quale numero artistico di chissà quale specie, e quello che mi ha ispirato in tutti i libri, in tutto ciò che ho scritto a partire dall’immagine di mia madre è la femminilità, la passione che ho per la femminilità… La tenerezza, i valori di tenerezza, di compassione, d’amore sono valori femminili e per la prima volta sono stati pronunciati da un uomo che era Gesù… Posso dunque semplicemente dire che il mio rapporto con le donne è stato dapprima un rispetto e un’adorazione per mia madre, che si è sacrificata per me, e un amore delle donne in tutte le dimensioni della femminilità, compresa naturalmente quella della sessualità.

Non si capirà assolutamente mai niente della mia opera se non si capisce il semplicissimo fatto che si tratta anzitutto di libri d’amore e quasi sempre amore della femminilità. Anche se scrivo un libro in cui la femminilità non appare, essa vi figura come una mancanza, come un buco. Come filosofia d’esistenza non conosco altri valori personali oltre la coppia. Riconosco che da questo punto di vista nella vita ho fallito, ma se un uomo fallisce nella vita, non vuol dire niente contro il valore per il quale ha cercato di vivere. Ritengo che la cosa più valida che ho fatto in vita mia sia quella di introdurre in tutti i miei libri, in tutto ciò che ho scritto, questa passione della femminilità sia nella sua incarnazione carnale e affettiva della donna, sia nella sua incarnazione filosofica dell’elogio e della difesa della debolezza, poiché i diritti dell’uomo non sono altro che la difesa del diritto alla debolezza. E se mi si chiede di dire quale sia stato il senso della mia vita, risponderò sempre – ed è ancora davvero bizzarro per un uomo che non ha mai messo piede in una chiesa se non per un fine artistico – che è stata la parola di Cristo in ciò che essa ha di femminile, in ciò che essa per me costituisce l’incarnazione della femminilità… Per il resto, che cosa volete che vi dica? Vorrei semplicemente avere ancora il tempo di continuare nella stessa direzione, il più a lungo possibile e, lo dico subito, non tanto per scrivere altri romanzi e ricavarne chissà quale gloria, ma semplicemente per amore della femminilità, per amore della donna.

L’ultima carta del Chapo Amlo, lo strano incontro con la mamma del boss

Dopo quella di Bergoglio – rifiutata – alla donna cinese, è diventata la stretta di mano più famosa del mondo, o perlomeno dell’America Latina. E a ben vedere, tanto più in un momento di dure restrizioni dei contatti umani come questo. Si tratta del saluto di Andrés Manule Lopez Obrador, presidente del Messico, alla signora Marìa Consuelo Loera, anche nota come “la mamà del Chapo”, Joaquin Guzman Loera, il più grande narcotrafficante vivente rinchiuso per l’ergastolo nelle carceri statunitensi. La scena, diventata virale su Twitter con l’hashtag #narcopresidente #narcogobierno, ha travolto il capo dello Stato messicano, la cui immagine è già duramente provata dalle critiche alla sua sottovalutazione del rischio di pandemia da coronavirus. Ma soprattutto ha svelato un “segreto” finora molto ben custodito dal presidente e che ha sollevato critiche ancora più aspre.

Uno scandalo che, tuttavia, sa d’imboscata a favore di telecamere da parte della madre dell’ex leader del cartello di Sinaloa estradato nel 2017 e condannato l’anno scorso. Il presidente Amlo, infatti, domenica scorsa si trovava in visita a Badiraguato, paese natale del Chapo per la supervisione della costruzione di una strada quando “avvisato della presenza della signora Loera” che voleva salutarlo, “per non mancare d’educazione nei confronti di un’anziana donna di 92 anni indipendentemente di chi sia la madre” – si giustificherà poi Amlo – le si è avvicinato mentre lei sedeva in auto e, a finestrino abbassato, contravvenendo anche alle norme igieniche da epidemia, le ha stretto la mano in segno di saluto. Ma c’è di più. Nel video, diffuso dalla Bbc international, si sente Amlo dire alla madre del Chapo: “Ti saluto, non scendere, ho ricevuto la tua lettera”. Apriti Twitter: “Che gesto poco rispettoso, un’offesa a tutte le vittime del narcotraffico”, è stata la critica più ricorrente sul social network. Seguita dalla domanda: a quale lettera si riferisce il #narcopresidente? Allora è in combutta con i narcotrafficanti?”.

“A volte mi tocca dare la mano, perché è questo il mio lavoro, anche a delinquenti col colletto bianco, che neanche hanno dovuto perdere la loro rispettabilità. Dunque, come potrei negarla a una signora che me la tende? Mi riuscirebbe male. Non sono un robot, ho anche io dei sentimenti”, ha spiegato Lopez Obrador nella consueta conferenza stampa della mattina, lunedì, solo dopo aver accusato l’opposizione di aver ordito l’imboscata per screditarlo. “La stessa opposizione che quando era al governo conservatore negoziò con il figlio della signora senza dire niente. Questa è la vera dottrina dei conservatori: l’ipocrisia. Non riescono ad accettare che noi non siamo come loro, noi non stabiliamo relazioni di complicità con nessuno, non siamo uguali”, è sbottato Amlo in conferenza stampa. “Stimato fratello in Cristo” è l’incipit della missiva di doña Maria Consuelo; nella lettera al capo di Stato, si rivolge a lui per chiedergli aiuto affinché possa andare a trovare suo figlio – che non vede da cinque anni – in carcere a New York. E non sarebbe la prima volta. Già a febbraio dell’anno scorso, infatti, mamà Loera gli inviò un’altra lettera in cui gli chiedeva il rimpatrio di suo figlio in Messico, e, per di più, il suo aiuto affinché gli Usa le concedessero un visto per ragioni umanitarie per raggiungerlo.

Nell’ultima missiva – che Amlo, assediato dalle critiche, ha diffuso sui social – la donna informa anche il presidente che “i suoi avvocati, che sono in contatto diretto con i funzionari designati dal presidente per il rimpatrio” hanno ricevuto “disgraziatamente e nonostante la gestione del suo governo per farmi avere il visto, un no da parte del governo degli Stati Uniti”. La lettera di Maria Consuelo, sgrammaticata e piena di affettata referenza, a detta del governo messicano, altro non sarebbe che una richiesta di “carattere umanitario” alla quale il presidente non avrebbe potuto negare risposta.

“Lei ha tutto il diritto, come madre, di difendere suo figlio, così come io sono obbligato ad ascoltare tutti i messicani”, ha sottolineato il presidente rispondendo ai giornalisti, aggiungendo – nota emotiva – che “come tutte le madri, poiché non ne ho mai conosciuto una che creda alla colpevolezza di suo figlio, ha un amore speciale, sublime per i suoi figli”. Pertanto, Amlo e il governo, su richiesta di mamà Loera hanno annunciato che torneranno a chiedere agli Usa un visto umanitario perché possa far visita a suo figlio a New York. D’altra parte, pare che “tutto ciò che Maria Consuelo vuole, Maria Consuelo ottiene”. Come quando, bibbia in mano – dice di averla letta ben quattro volte e di essere in grado di recitarne interi passi a memoria – la madre del Chapo tre giorni prima dell’arresto di suo figlio aveva affrontato da sola la polizia messa dal governo a guardia della sua tenuta nel caso in cui vi facesse ritorno il ricercato. “Restituitemi le mie bestie e fate uscire quelle da pascolo, ché se dovesse succedere loro qualcosa dovrete risponderne e non soltanto a me”, aveva minacciato gli agenti. Da fervente cristiana, poi, pare abbia una teoria tutta sua sul destino del figlio Joaquin: “Dio non lo vuole in carcere, lo vuole libero, altrimenti perché gli avrebbe permesso di fuggire così tante volte? È questo che il governo non capisce”.

Mosca, positivo il primario che accolse Putin in ospedale 7 anni a chi viola la quarantena

Una settimana fa, l’uomo al comando della Russia e l’uomo a capo della Kommunarka, l’ospedale di Mosca che sta facendo da testa d’ariete contro la pandemia del Covid-19, si sono stretti la mano sorridendo senza mascherina. Il pacioso e calmo Denis Protsenko, in camice bianco, ha incontrato Vladimir Putin e poi ha spiegato ai microfoni del primo canale russo come combattere il virus. Ieri è risultato positivo al tampone: ha contratto il Covid-19. Il presidente, dopo l’incontro con Protsenko, sette giorni fa si è infilato lo scafandro giallo per attraversare corsie e corridoi della clinica, ma per lui “non c’è motivo di preoccupazione”, ha riferito il portavoce Dimitry Peskov. Sui social russi il medico rende noto che si è imposto l’auto-isolamento in ufficio per continuare a lavorare. Per il settimo giorno consecutivo si moltiplica in Russia il numero dei malati: da 500 a 2.337, il più grave aumento registrato dall’inizio dell’emergenza. Fino al 17 marzo scorso per il Cremlino era “tutto era sotto controllo”, ma ora l’ombra funesta del virus si allunga sulla Capitale e diventa così ampia che nemmeno la propaganda statale riesce più a contenerla. Per i nuovi record di contagi registrati di giorno in giorno, la Camera bassa della Duma ha detto che il premier Michail Mishustin può dichiarare lo stato di emergenza. Previsti cinque anni di prigione – come nell’Ungheria che ha affidato pieni poteri a Orban – a chi diffonde false notizie sul virus e sette anni a chi viola la quarantena.

Le cifre ufficiali rimangono comunque lontanissime dalla situazione reale e cominciano a dubitare della loro veridicità anche politici e giornalisti non avversi alle autorità. I russi deceduti sono 17, la maggior parte di loro si trovava a Mosca, una megalopoli con oltre 12 milioni di abitanti, epicentro della pandemia e ora in auto-isolamento obbligatorio. Una città che dietro la finestra guarda la neve di primavera cadere indefessa per strade spettrali.

La fine del mito dei giovani “intoccabili”: aveva 12 anni la vittima più giovane d’Europa

All’inizio della pandemia la notizia che le vittime erano spesso anziane e con altre patologie aveva dato la falsa speranza che una certa fascia d’età fosse immune. Dopo la morte di una sedicenne in Francia e di un quattordicenne in Portogallo, la notizia del decesso di una dodicenne in Belgio spazza via in modo definitivo questa convinzione. La vittima belga è la più giovane in Europa; viveva a Gand, frequentava la scuola, ma dal 13 marzo non andava più; dal 16 infatti è poi partito il blocco totale delle lezioni. La notizia è stata confermata dal sindaco e dallo stesso istituto frequentato dalla ragazzina, la De Harp Basic School. Gli altri studenti e gli insegnanti sono stati informati, non è chiaro se dovranno sottoporsi al tampone dato che sono passate più di due settimane dall’ultima volta che avevano visto la vittima. Il governo ha introdotto limiti agli spostamenti dal 18 marzo, e le misure sono state prorogate fino al 19 aprile. Come nel resto d’Europa, gli esercizi commerciali non essenziali devono restare chiusi, e sono stati reintrodotti controlli alla frontiera. A gestire la crisi è il governo di Sophie Wilmes, a capo dell’esecutivo ad interim dopo le dimissioni di Charles Michel, che dal 1º novembre presiede il Consiglio europeo.

Respiratori e mascherine, via alla produzione per essere indipendenti entro l’anno

“Al termine di questa emergenza dovremo ricostruire la sovranità nazionale ed europea. Bisogna tornare a produrre, in Francia e in Europa”, ha detto ieri Emmanuel Macron dopo aver visitato una delle quattro fabbriche in Francia che produce mascherine, la Pme Kolmi-Hopen di Saint-Berthélemy, vicino ad Angers. La fabbrica ha assunto 35 persone a tempo per poter funzionare 24 ore su 24 e raddoppiare la sua produzione. Mentre Parigi ha ordinato più di un miliardo di mascherine alla Cina, l’obiettivo è di passare da 3,3 a 15 milioni di mascherine prodotte a settimana entro fine aprile e di “raggiungere l’indipendenza entro fine anno”. Un “consorzio” di quattro gruppi industriali, tra cui Psa, produrrà inoltre 10 mila respiratori per gli ospedali nelle fabbriche di Antony e Poissy, nella regione di Parigi. Per finanziare l’emergenza sanitaria sono stanziati 4 miliardi di euro. “Bisogna essere uniti”, continua a ripetere da giorni Macron che ha anche lanciato l’hashtag #FranceUnie, come lo slogan vincente di François Mitterrand del 1988. “Il tempo delle responsabilità verrà”, ha aggiunto. Intanto il premier Edouard Philippe e il ministro della Salute, Olivier Véran, sono convocati oggi davanti a una commissione parlamentare per rendere conto della gestione della crisi. La Francia conta ormai 52.128 casi di contagio 7.578 in 24 ore. I morti sono 3.523, 499 in 24 ore. Altri dati preoccupano. L’uno riguarda l’assunzione per auto-medicazione del Plaquenil, il farmaco anti-malaria a base di idrossiclorachina testato con risultati incoraggianti dal professor Raoult a Marsiglia in associazione con un antibiotico. L’agenzia del farmaco ha lanciato un allarme dopo che tre malati sono morti con gravi disturbi cardiaci dopo averlo assunto senza prescrizione medica. Preoccupano anche i numeri delle violenze domestiche, che sono aumentate del 36% in una settimana, stando ai dati del ministero dell’Interno. Da lunedì le donne possono rivolgersi alle farmacie per denunciare il compagno violento.

Altro che 11 settembre: New York, un morto ogni 4 minuti

Nel giorno in cui il numero dei morti da coronavirus negli Usa supera quello delle vittime dell’11 settembre 2001 – 3.500, più della Cina dove tutto è iniziato – diventa virale sui media la vicenda di un ragazzo di 17 anni morto in California: l’ospedale a cui s’era rivolto non l’ha curato perché non aveva l’assicurazione sanitaria. In un video su Youtube, R. Rex Parris, il sindaco di Lancaster, la cittadina dove il giovane viveva, usa la storia per indurre gli abitanti a restare in casa.

Non è sicuro che il ragazzo sia morto di coronavirus: le autorità sanitarie lo stanno accertando; ma alcuni dei sintomi accusati lo lasciano supporre: febbre alta e difficoltà respiratorie. La California è uno degli Stati più colpiti dall’epidemia. E ad Albany, in Georgia, un funerale ha trasformato una contea rurale in uno dei maggiori focolai. Ma quello di New York resta l’epicentro del contagio, con oltre 75 mila casi positivi e oltre 1.150 morti, 332 nella giornata di lunedì, uno ogni quattro minuti. Il governatore Andrew Cuomo ha assistito, nel porto della Grande Mela, all’attracco della nave ospedale Comfort. Cuomo smentisce l’ipotesi d’una sua candidatura alla Casa Bianca, in alternativa, fra i Democratici, a quella di Joe Biden: intervistato sulla Cnn dal fratello Chris, positivo al test, il governatore dice “non ci penso”, malgrado il suo tasso di popolarità sia salito, in un mese, dal 44 al 71%. Nonostante la drammaticità del momento, Trump non rinuncia a mettere zizzania fra i Democratici, dove l’emergenza offusca e quasi azzera la visibilità di Biden e Bernie Sanders. Alla Fox, Trump dice: “Penso che Andrew sarebbe un candidato migliore di ‘Sleepy Joe’”, Joe l’addormentato, come lui chiama Biden. Il presidente avverte che “il picco dei decessi da contagio ci sarà fra due settimane” e ha un piano per le infrastrutture da 2.000 miliardi di dollari. Obiettivo, creare occupazione. Oltre che di vite, il contagio fa strage di posti di lavoro. Secondo uno studio della Fed, l’emergenza potrebbe tradursi in 47 milioni di disoccupati negli Stati Uniti entro fine giugno. La disoccupazione potrebbe raggiungere il 32,1% nel secondo trimestre, superando di gran lunga il picco del 24,9% toccato nella Grande Depressione.

Cibo a domicilio, rider ancora senza mascherine. La Cgil fa causa a Glovo

Sono considerati “essenziali” da tutti gli ultimi decreti eppure ancora oggi molti rider consegnano cibo a domicilio senza mascherina e guanti tanto da spingere la Cgil a passare a una nuova invettiva giudiziaria: una causa contro l’app Glovo affinché sia obbligata dai magistrati a fornire i dispositivi ai fattorini. I ricorsi sono stati presentati in diverse città come Roma, Milano e Firenze.

La questione è sempre riconducibile alla stessa matrice: i rider sono considerati autonomi dalle aziende, ma per la Cassazione hanno diritto alle tutele dei dipendenti, soprattutto sulla sicurezza. “Ai sensi del decreto legislativo 81 del 2008 – si legge nell’atto firmato dai legali Carlo De Marchis, Andrea Circi e Matilde Bidetti – il datore è tenuto a mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature idonee ai fini della salute”. Pochi giorni fa, Glovo ha scritto ai suoi addetti giustificandosi: “Abbiamo iniziato a distribuire mascherine, guanti e gel igienizzante in coordinamento con i partner. Tuttavia, stiamo scontando tempi di attesa più lunghi di quelli previsti, per le difficoltà di rifornimento”. La Cgil ha citato in giudizio la piattaforma spagnola perché chi ha segnalato i problemi lavora proprio con quest’azienda. Ma non è l’unica a non aver assicurato strumenti anti-contagio. Finora le multinazionali del food delivery hanno semplicemente chiesto ai rider di adottare precauzioni: niente contatti con i clienti e frequenti lavaggi di mani. Le app, però, hanno detto ai fattorini di dotarsi autonomamente di mascherine e gel igienizzanti. Questi ultimi sono fondamentali perché i rider non sempre dispongono di lavandino e sapone. Loro compito, tra l’altro, è anche sanificare lo zaino nel quale trasportano il cibo pronto, cosa che porta con sé altri costi.

Secondo i sindacati autonomi e confederali, le società non possono limitarsi alle raccomandazioni, ma devono garantire effettivamente a tutti i dispositivi, interrompendo le consegne in caso di impossibilità. La cosa, per il momento, non è successa, quantomeno non in tutti i casi. In questi giorni, con le sedi chiuse, tanti si sono rivolti alla Cgil attraverso gli sportelli telematici messi a disposizione. “Tra le segnalazioni ricevute – spiega Michele Azzola, segretario della Cgil Roma e Lazio – i lavoratori ci hanno chiesto conto del fatto che, mentre tutta l’Italia è attenta al Coronavirus, una categoria vede aumentata l’attività ma è lasciata priva di mascherina e gel. Viene consigliato in maniera bizzarra di dotarsi di questi articoli. In linea con la legge sulla sicurezza sul lavoro e con il buon senso chiediamo che siano le aziende a farlo”.

La pandemia del greggio affossa i piani di Trump

L’industria petrolifera mondiale si trova di fronte alla tempesta perfetta. A causa della recessione da Covid-19 la domanda mondiale di petrolio potrebbe calare nel 2020 di 20 milioni di barili di petrolio al giorno (mbg), il peggior calo della domanda nella storia del petrolio. Dal lato dell’offerta è in atto una “guerra del petrolio” lanciata dall’Arabia Saudita a suon di ribassi dei prezzi e aumenti della produzione dopo che la Russia, nella riunione Opec Plus del 6 marzo, aveva rifiutato di collaborare a un taglio coordinato delle produzione. Il risultato è che il Brent viaggia oggi a meno di 25 dollari al barile, il 50% in meno di inizio marzo, e potrebbe scendere ancora.

Il tracollo dei prezzi del greggio acuisce l’instabilità dei Paesi esportatori di petrolio come il Venezuela e l’Iran, già tormentati da crisi sociali e politiche, quando non da guerre civili, e rischia di ritardare gli investimenti nelle energie rinnovabili. Sta facendo anche molto male agli Stati Uniti, il protagonista assoluto dell’industria petrolifera mondiale che nel 2019 era il maggior produttore di petrolio e gas naturale al mondo.

Con un prezzo del greggio americano sotto i 30 dollari al barile (oggi il WTI viaggia intorno ai 20 dollari) solo tre delle società che producono nella valle dell’Eden dello shale, il Bacino Permiano del Texas, può coprire i costi di produzione. L’industriale dello shale è indebitata per oltre 200 miliardi di dollari ed è da tempo la principale erogatrice di “debito spazzatura”. In Texas lavorano direttamente nel settore circa 360mila persone e l’industria rappresenta più del 10 per cento del Pil statale. Il prezzo all’ingrosso della benzina a Chicago è arrivato a 15 cent al gallone (4 cent al litro, quasi costa più la tanica), mentre alcune qualità di greggio si vendono a prezzi negativi.

La storia d’amore americana per il petrolio è mutata nel tempo. Dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla crisi energetica degli anni 70 è stata segnata dal prevalere della regolazione sulla logica di mercato; dagli anni 80 a prevalere è stato il mercato “deregolato”. L’era della regolazione ha avuto come protagonisti il monopolio Standard Oil di John D. Rockefeller, poi l’intervento della Texas Railroad Commission per regolare la produzione del Texas (il Texas è oggi il terzo produttore mondiale dopo Russia e Arabia Saudita), poi l’oligopolio di Big Oil (“le sette sorelle”) in combinazione con quote all’importazione per difendere i produttori indipendenti americani.

Il punto di svolta fu il raggiungimento del “picco” nella produzione americana nel 1970 e la decisione del 1973 di abolire le quote all’importazione. Era il tempo dello “choc petrolifero” causato dall’Opec e dell’incubo delle file interminabili ai benzinai. Per superare la crisi energetica la parola d’ordine divenne: “deregolamentazione”. La deregolamentazione avviata da Jimmy Carter, accoppiata ad alcune misure per incentivare l’efficienza energetica, contribuì a una riduzione dei consumi americani che, a sua volta, fu alla base del collo dei prezzi del petrolio negli anni 80 (il cosiddetto “contro-choc”). Reagan festeggiò nel 1986 smantellando dal tetto della Casa Bianca i pannelli solari che aveva fatto installare il suo predecessore. Il mercato vince sempre. Dagli anni 80 la politica americana, indipendentemente dall’inquilino della Casa Bianca, è stata quella di pompare più petrolio possibile, con ogni mezzo a disposizione.

Quando i prezzi del petrolio cominciarono a salire fino a toccare i 145 dollari al barile negli anni 2000, nuove tecnologie come il “fracking” diventarono convenienti. Si avviò cosi la “rivoluzione dello shale” che ha fatto lievitare la produzione americana di petrolio da 5mbg nel 2008 fino a oltre 12 mbg giorno nel 2919. Con Trump, pur se gli Stati Uniti restano un importatore netto, la produzione ha superato abbondantemente il “picco petrolifero” che il geologo King Hubbert aveva previsto per il 1970. Il tracollodei prezzi a marzo svela l’ipocrisia di un Paese che voleva ritornare tornare a essere un esportatore, per la prima volta dal lontano 1948, lasciando solo all’Opec il ruolo di regolatore mondiale. Trump si trova di fronte ad alternative, tutte dolorose.

Può intervenire per puntellare il settore dello shale (già aiutato dagli acquisti della Riserva di petrolio strategica) con misure fiscali e bail out, nonché reintroducendo dazi o quote all’importazione. Presterà il fianco alle critiche scontate degli ambientalisti, ma anche a quelle degli altri settori che avranno bisogno di sostegno governativo. Può decidere di abbandonare lo shale in una lotta darwiniana per la sopravvivenza. Rischierebbe così una crisi finanziaria, una dramma economico e occupazionale negli Stati produttori come Texas e North Dakota, nonché la plateale ammissione che lo slogan dell’ “indipendenza energetica” non era che fake news. Infine può intervenire attivamente nel settore smentendo quasi mezzo secolo di “deregolamentazione” e dialogando alla pari con Arabia Saudita e Russia. Significherebbe accettare la regolazione della produzione tramite la Texas Railroad Commission, considerata una reliquia dell’era socialista, nonché aprire un negoziato diretto con l’odiata Opec. Trump probabilmente imboccherà tutte e tre le strade insieme, sancendo la fine dell’era della deregolamentazione e dei sogni di gloria di “indipendenza energetica” americana.

La diminuzione della domanda mondiale di greggio è l’unica buona notizia in un contesto terrificante. Lasciare alle forze di mercato la gestione dello “choc-Covid” nel settore petrolifero significherà crisi finanziarie e sociali, nonché drammatiche tensioni nello scenario internazionale.

Bilanci in rosso per l’Anas. E nuove perdite in arrivo

Dopo un quindicennio di bilanci formalmente in attivo l’Anas chiude l’esercizio 2019 con una perdita di 71 milioni di euro. Una cifra notevole che però non dice tutta la verità sulle reali condizioni dell’Azienda delle strade, società interamente a capitale pubblico inglobata un paio di anni fa dalle Ferrovie dello Stato. L’ad Massimo Simonini ha finalmente deciso di ramazzare un po’ di quella polvere che per anni i predecessori Pietro Ciucci e Gianni Armani avevano nascosto sotto il tappeto. Con una scelta netta ha preso atto che non possono essere annotati all’attivo i canoni che il gruppo Toto avrebbe dovuto pagare ad Anas per le autostrade abruzzesi. E ha pure preso atto che le azioni a suo tempo acquisite da Anas per il controllo di Sitaf (Autostrada Torino-Bardonecchia e Traforo del Frejus) devono essere restituite ai precedenti proprietari (Comune e Provincia di Torino) e, quindi, non possono essere considerati all’attivo i proventi maturati grazie al possesso di quei titoli. La storia delle autostrade Toto pesa in negativo sul bilancio Anas per oltre 40 milioni di euro, la vicenda Sitaf per una trentina circa.

L’operazione verità sul bilancio si è però fermata qui. Sono state per l’ennesima volta eluse situazioni di criticità che si trasformeranno in fonti di perdite future quasi certe. Nonostante le esplicite raccomandazioni alla prudenza rivolte a Simonini dal direttore generale dei Trasporti, Antonio Parente, e da Pino Zingale, il magistrato delegato dalla Corte dei conti a vigilare sull’Anas, l’amministratore ha tirato dritto senza prendere atto che è più di un azzardo contabile dare per certo il prolungamento dal 2032 al 2052 della concessione delle strade da parte dello Stato all’Anas. Simonini non ha affrontato il complesso nodo della svalutazione del patrimonio dell’azienda, calcolato in 2 miliardi e 700 milioni di euro al momento della fusione nelle Fs, mentre effettivamente disponibile è solo una parte di questa cifra, circa 700 milioni. E non ha voluto neanche svalutare la partecipazione Anas alla defunta società Stretto di Messina (350 milioni di euro). Sullo stato complessivo di salute dell’azienda delle strade pesa inoltre il gravame di Anas International, società che per conto dell’azienda pubblica delle strade opera all’estero e che a causa soprattutto degli interventi in Qatar ha accumulato un passivo di un’altra trentina di milioni di euro. Questa perdita non è contabilizzata nel bilancio Anas in senso stretto, pesa sul bilancio della controllante Ferrovie dello Stato, ma è un altro segnale eloquente circa le reali condizioni di salute Anas. Già prima della presentazione del bilancio 2019 la poltrona di Simonini stava trabballando in maniera vistosa e ora la posizione dell’ad è sempre più aleatoria. L’approvazione del documento contabile è avvenuta al termine di un faticoso lavorìo preparatorio durato settimane, interrotto solo per consentire a Simonini di concedersi una vacanza esotica proprio nel momento acuto della crisi da coronavirus.

Le due voci principali che pesano negativamente sul bilancio Anas 2019 sono in parte di natura esogena all’azienda. L’Autostrada dei Parchi del gruppo Toto ha ottenuto per legge una dilazione al 2032 dei pagamenti del canone concessorio annuale (circa 50 milioni di euro) dovuto ad Anas. Toto è riuscito a strappare lo slittamento sostenendo che era urgente utilizzare quei soldi per l’adeguamento sismico delle autostrade abruzzesi considerate per legge assi strategici in caso di calamità. Il 18 per cento circa delle azioni della piemontese Sitaf furono invece acquistate alcuni anni fa da Anas per garantirsi il controllo della società con il 51 per cento del capitale. Una sentenza del Consiglio di Stato dell’autunno ha però dichiarato “inefficace” il contratto di acquisto.