Ci siamo fatti trovare impreparati dalla pandemia a livello internazionale. Tutti sapevano, nessuno faceva. Adesso non è ancora il tempo per le critiche, c’è ancora molto da fare. Annotiamo tutto perché diventi una lezione da imparare. Impareremo che alcune industrie non possono essere assenti dal nostro territorio. Impareremo che prevenzione non è una spesa, ma un investimento. Impareremo che una pandemia (e ne avremo) sarà molto probabilmente provocata da un virus respiratorio e allora non smontiamo le unità di terapia intensiva che stiamo costruendo: facciamole diventare posti letto convertibili. Facciamo scorte intelligenti. Teniamo pezzi di riserva (per esempio mascherine, farmaci) ma con un flusso di uso e reintegro, in modo che non si deteriorino. E non facciamo errori per il prossimo futuro. Non sappiamo quando finirà l’isolamento. Bisogna osservare e decifrare i numeri, il loro andamento nei giorni. Ottima la decisione di prolungare dopo la Pasqua, che potrebbe essere un momento di intenso riavvicinamento sociale con sorpresa-virus. Ma soprattutto bisogna preparare un piano di uscita. Il virus resterà in agguato, perché ancora non sarà eliminato del tutto. Chi potrà andare al lavoro? Controlleremo chi si “reimmetterà” nella società per essere sicuri che sia negativo? Impiegheremo mezzi di geolocalizzazione per controllare chi sta a casa e chi esce? Senza questi provvedimenti, sarà davvero difficile controllare l’euforia post-isolamento. E saremo autorizzati a dire “lo avevamo detto”.
Tutti al lavoro, anche se ‘controlla’ il Mef
La corsa alle deroghe al decreto che ha chiuso le aziende “non essenziali” non si è mai fermata. Tantomeno in Lombardia, la regione più industrializzata d’Italia, la più colpita dall’epidemia coronavirus. Ieri vi abbiamo raccontato delle migliaia di richieste arrivate alle prefetture di Bergamo e Brescia. Ma il fenomeno non è circoscritto lì. E arriva perfino nelle multinazionali a partecipazione statale.
È il caso della STMicroelectronics, colosso che produce componenti elettronici, la cui proprietà è condivisa tra gli altri da Parigi e dal Tesoro italiano. I principali impianti in Italia si trovano ad Agrate Brianza e Catania ed è, per evidenti ragioni, in Lombardia quello in cui le proteste dei lavoratori sono più accese. Con uno sciopero (anche in Sicilia) che dalla metà marzo è prorogato fino al 3 aprile. E con una serie di lettere indirizzate a prefetto e parlamentari, finora senza risposta.
Inutile dire che, sabato, la notizia della prima vittima da Covid-19 è stata la conferma alle preoccupazioni: “Quando ci si fermerà? Cosa deve accadere prima che l’azienda in primis, e a seguire le istituzioni, capiscano che si devono sospendere le attività nel sito?”, domandano i delegati Usb. Perché le mascherine sono state distribuite e i locali sanificati, ma mantenere la distanza di un metro è praticamente impossibile. Ad Agrate lavorano 4700 dipendenti: un migliaio gli operai veri e propri, ma l’organizzazione del lavoro prevede che in produzione ci siano anche impiegati, ingegneri, manutentori. La STMicroelectronics ha potuto derogare al divieto imposto dal “Chiudi Italia” perché è una azienda a ciclo continuo e i suoi impianti di smaltimento sono regolamentati dalla direttiva Seveso: non si possono spegnere perché ne deriverebbe un rischio ambientale, data la pericolosità delle sostanze trattate. Ma con la deroga dovuta alla necessità di non spegnere tutto, non ci si è limitati alla sorveglianza e alla manutenzione degli impianti ma si continua a produrre normalmente. Per quel che si può, a dire il vero. Perché la metà degli operai si è “autotutelata” attraverso ferie, permessi, malattie e scioperi. E così, con i numeri ridotti, non è nemmeno possibile applicare l’accordo siglato due settimane fa tra l’azienda e i sindacati confederali, che prevedeva un raffreddamento della produzione al 66 per cento. Se in azienda si presentano meno del 50 per cento dei lavoratori, la turnazione è di fatto impraticabile.
Lo ammettono anche i rappresentanti di Fim e Fiom che lo avevano sottoscritto: “Alla luce delle ambiguità del testo dell’esecutivo, chiediamo al prefetto di intervenire per chiarire se la riduzione del lavoro già operata può considerarsi sufficiente”.
Enel, Cairo “svela” gli spot dell’ad Starace per il tris
A sua insaputa Urbano Cairo, il patron di Corriere e La7, nell’insolita veste di giornalista-editore ha dato una notizia interessante per le nomine dei boiardi di Stato. L’ha buttata lì nel video registrato per motivare i suoi venditori di spot: “Ho chiamato Francesco Starace di Enel, ci dà 1,1 milioni di euro per carta, digitale e televisione”. La notizia non è soltanto che l’amministratore delegato di una multinazionale, in scadenza di mandato, negozi in prima persona l’investimento pubblicitario con un editore in grado di pesare sulla sua reputazione, ma pure che la multinazionale dell’elettricità lanci una massiccia campagna in un momento di reclusione e sospensione per la pandemia, trenta secondi in tv e una pagina sui giornali per offrire o dire niente, per ricordare di chiamare il numero verde o di visitare il sito.
“Insieme con più energia”, recita lo spot di Enel, con la solita famiglia tradizionale con bebè nel trilocale illuminato da luce artificiale, in un avvio di anno già pessimo per il mercato energetico e un marzo di consumi in picchiata di oltre il venti per cento.
Altro appuntamento non c’era per questa primavera, si presume, se non l’evento più atteso dai manager, una ricorrenza che cade ogni tre anni, celebrata sempre con una gragnuola di inserzioni pubblicitarie sui media con la speranza di addolcire le informazioni e non far suscitare dubbi nei decisori politici: le nomine di Stato. Gli spot di Enel sono stati rinviati di alcune settimane così come il rinnovo dei vertici ha patito uno slittamento, ma restano sincronizzati: il messaggio di Starace è partito e vagherà per un mese, le scelte del ministero dell’Economia per l’azienda vanno ratificate a ridosso di Pasqua.
Eccesso di zelo, adesso pare non ci sia più bisogno di cautelarsi per i vertici di Enel, ma una apparizione mediatica già pianificata non si può fermare all’improvviso. Enel sostiene di non poter dichiarare le risorse stanziate per invitare gli italiani a stare “insieme con più energia” perché “in corso d’opera” si rischia di essere imprecisi. Però Cairo ci viene in aiuto.
La sua cifra “chiusa oggi” – dunque parliamo di qualche giorno fa – è di 1,1 milioni di euro. Enel ha speso nel 2019, secondo Nielsen, quasi 16 milioni di euro per tre tornate di spot, 5 milioni ciascuna. In totale, in un anno, ha riservato alla carta stampata – quotidiana e periodica – 1,4 milioni di euro e 7,5 milioni alle televisioni, di cui 450 mila a La7. Cairo è del mestiere e di scuola Publitalia, cioè Mediaset, ma è improbabile che Enel l’abbia premiato per la foga con cui si cimenta nelle trattative telefoniche, pertanto è calcolabile che l’azienda di Starace abbia impegnato molti soldi per una raffica di spot su tv, siti e carta (no radio). I media che fanno opinione.
Col più antico e abusato dei metodi, chissà, Enel può pensare di perpetuare la sua immagine purissima. Si brinda ai ricavi che aumentano del 6 per cento, non al debito che cresce del 10. Si comanda a muso duro nella telefonia con la quota in Open Fiber che può bloccare la fusione della rete con Telecom. Si fa scivolare addosso il potenziale conflitto di interessi di Starace: la società maltese Melita, appena sbarcata in Italia, ha stretto un accordo di fornitura con Open Fiber e commerciale con Enel per portare internet agli italiani con la fibra e l’ad è tra i consulenti del fondo Eqt proprietario della medesima Melita.
Enel ha già precisato che Starace viene “interpellato” da Eqt per questioni che non riguardano il settore energetico e l’azienda che gestisce. Ultima notizia per Cairo: da Enel dicono che Starace non discute la pubblicità con gli editori. Come se il padrone di La7 si fosse inventato tutto. Questa non era prevista.
“La mia fuga dal folle Brasile di Bolsonaro”
“In Brasile è già, in parte, scoppiata una doppia lotta: una al coronavirus, l’altra al presidente Bolsonaro che nega la gravità della situazione; qui la realtà è surreale e può tramutarsi in pericolosa”. Alessandro Mannarino è da tempo in Brasile “dopo una tappa negli Stati Uniti”, per completare alcune registrazioni per il suo prossimo album, ma ha dovuto rinunciare, e ora torna a Roma “nonostante non sia semplicissimo: hanno chiuso il volo da Rio, devo provare da San Paolo”.
Bolsonaro nega…
Qui c’è una lotta pesantissima contro di lui, con medici, intellettuali, esperti e persone comuni che lo attaccano per la campagna denigratoria che ha lanciato verso chi resta in casa.
Addirittura una campagna?
Uno degli slogan è: “Fate il bagno nelle fogne e non vi succede niente. Il Brasile non si può fermare”. E aggiunge una minaccia: “Se invece vi fermate non avrete più nulla, basta cure, niente lavoro”.
Terribile…
I giudici hanno bloccato questa campagna che è costata molto alle casse dello Stato e alcuni dei suoi fedelissimi lo stanno abbandonando, come i governatori.
Ci sono proteste?
Da tredici giorni, e ogni giorno, il pomeriggio organizzano il pañuelazo: si affacciano dalle finestre e sbattono di tutto, in particolare pentole e mestoli, e cantano.
Bolsonaro non è saldo…
Sta affrontando pure la crisi per gli omicidi della parlamentare e attivista Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes, e l’inchiesta lo coinvolge.
A Rio com’è cambiata la vita?
C’è la polizia in spiaggia per impedire alle persone di stendere l’asciugamano, ma questo è il meno: i veri problemi sono nelle favelas dove vivono di lavori in nero, e il narcotraffico ha preso in mano la questione.
Cioè?
Il Comando Vermelho (storico cartello nato negli anni 60 nelle carceri) ha attaccato manifesti: “Se il governo non ci pensa è grave. Quindi tocca a noi: dovete stare a casa con le buone o le cattive”. (pausa di un paio di secondi)
Che succede?
Qui a Rio conosco almeno quattro persone malate di coronavirus, e la politica ha deciso di trasformare il celebre stadio Maracana in un ospedale.
Comunque, torna.
Preferisco, ora non posso stare così lontano. E in Brasile è tutto fermo e non ho la testa né i mezzi pratici per lavorare.
È pronto all’isolamento?
Sì, per fortuna ho un caro amico e musicista al piano di sotto.
Giornali, musica, pensieri positivi: “Questa crisi ci renderà più forti”
Visto che dobbiamo “stare a casa”, chi vuole condividere con gli altri la sua vita in quarantena può farlo sulle pagine del Fatto. Siamo una comunità e mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto, raccontateci cosa fate, cosa inventate per non annoiare i figli e non allarmare i nonni, quali libri, film e serie tv consigliate all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.
L’edicola di Ale e il rumore del silenzio
Stamani poco prima delle 8 sono andato come al solito ad acquistare il giornale nella solita edicola, che non ha chiuso (l’edicola di Ale) e ho sentito che il “chiasso” e i saluti dei bambini della scuola elementare antistante mi mancavano, tanto più che molti di questi alunni passavano davanti all’edicola salutando il gestore e si informavano delle uscite delle figurine e delle varie “carabattole” che vengono vendute. C’è da dire che Ale, collezionista di ogni cosa, fa da smistatore di doppioni e di ogni celo o non celo (ce l’ho o non ce l’ho). Spero che si possa uscire presto da questa situazione e che si torni alla normalità ricordando però anche chi non ha mollato, e sono in molti, a cui rivolgo un sentito grazie.
Franco
Dalla crisi nascono tante opportunità
In greco la parola crisi (krisis) significa scelta e quindi opportunità, occasione. Un esempio di “opportunità” offerta dalla pandemia è che in Cina, a causa della drastica diminuzione dell’inquinamento – secondo l’economista Marshall Burke – il numero di vite salvate (probabilmente 4.000 bambini e 73.000 anziani) sarebbe maggiore a quello delle vittime da covid-19. Un’altra opportunità è la direzione del “nuovo ordine” mondiale. Trump si è assunto la prerogativa di prendere in mano parte del settore industriale privato reindirizzando la produzione a favore di un interesse pubblico. Sta pensando addirittura ad una forma di reddito minimo universale. Potrebbe essere la versione pandemica contemporanea di ciò che nel 1918 in Unione Sovietica era chiamato “comunismo di guerra”. Il grande quesito odierno è se questo “decretato socialismo” – come dice il filosofo Slavoj Zizek – sarà riservato ai ricchi, come nel 2008, quando l’impegno è stato unicamente quello di salvare le banche a discapito di milioni di persone, o sarà invece l’occasione per costruire un ordine mondiale più umano, giusto ed equilibrato.
Adam Seli
Versi per ricordare il sacrificio dei guaritori
Ci rendiamo conto noi/ persone comuni/ del peso/ della sofferenza/ che affligge i nostri medici/ i nostri infermieri/ i nostri guaritori/ in questo tragico momento?/ Ci rendiamo conto noi/ che ora sono loro/ ad avere più paura di noi nel varcare la porta d’ospedale/ e a scegliere tra chi salvare/ e chi “lasciare”/ nonostante l’età/ e nonostante ancora molti anni di possibile esistenza?/ Ci rendiamo conto noi/ del loro obbligo voluto e non voluto/ tra la loro vita e la nostra vita?/ Ci rendiamo conto noi/ della loro paura nei loro occhi stanchi/ del domani ancora non sorto?/ Ci rendiamo conto noi/ fragili e impotenti/ dell’ingrato peso della “scelta”/ che li obblighiamo a fare?/ Ci rendiamo conto noi/ che anche loro sono umani/ con sogni e speranze/ che ogni giorno le rischiano per noi?/ Ci rendiamo conto noi/ che tutto questo dobbiamo ricordarlo oggi e per sempre?
Stefano
Presto torneremo a cantare in piazza
Pennadomo è un piccolo borgo abruzzese di poco più di 200 abitanti. La maggior parte dei suoi abitanti è “diversamente giovane” ma forte nello spirito e nell’anima. I nostri nonni, genitori e zii erano fra i fondatori della Brigata Maiella, nata proprio in queste zone abruzzesi. Noi siamo tutti figli di quella resistenza e questo isolamento sociale è difficile per una popolazione abituata al fare. Ho chiesto ai pennadomesi sparsi per il mondo, ai soci dell’associazione Transumanza Artistica di Pennadomo e ad alcuni musicisti abruzzesi, di inviarci un video messaggio cantato con la canzone popolare abruzzese “Tutte Le Funtanelle” per esorcizzare la negatività e farci tornare a quelle serate in strada a cantare tutti insieme. Torneremo a cantare a Pennadomo. L’Italia tutta tornerà viva e musicale.
Ugo Trevale
I tedeschi contro i bond: temono gli amici di Salvini
I coronabond fanno discutere ovunque. Ma è in Germania che il dibattito pubblico conta davvero per il futuro dell’eurozona. Se è forte la tentazione di osservare un film già visto nella crisi dell’euro del 2011, a guardar bene le posizioni sono molto più articolate rispetto al passato. Se ora come allora per il tabloid nazionalpopolare Bild i coronabond sono un vecchio modo di metter in comune i debiti dei paesi del Sud, per il tg della tv pubblica Ard sono una “richiesta di solidarietà” impellente per salvare l’Europa. Il settimanale Der Spiegel dedica alla questione addirittura un articolo di commento (“Che cosa stiamo aspettando?”) in cui sollecita il governo a fare in fretta per sostenere i paesi più in difficoltà per l’emergenza coronavirus con strumenti di condivisione del debito.
Perfino lo storico conservatore August Winkler su Tagespiegel chiede che la politica tedesca adotti “un’etica della responsabilità nel senso del sociologo Max Weber” e pensi ad aiuti per gli Stati più deboli. Di contro la Frankfurter Allgemeine Zeitung, in un’editoriale del suo direttore, dà voce alla principale paura del mondo conservatore: “Questa non deve essere l’ora di usare i problemi di salute come veicolo per cambiare deliberatamente l’architettura dell’Europa in fretta e furia”. Un vecchio mantra della Cdu, il partito di Angela Merkel: il timore è che una misura adottata in tempi di crisi possa trasformarsi in qualcosa di duraturo. Ma, soprattutto, la Cdu non dimentica che il partito di estrema destra Afd è nato nel 2011 proprio dall’eurocrisi. In questa fase anche il partito socialdemocratico, con il ministro delle Finanze Olaf Scholz, non mostra segni di apertura maggiore: “Non c’è necessità di trovare nuovi strumenti”, ha detto a proposito dei coronabond. Del resto, tanto l’Spd quanto la Cdu stanno conducendo sul tema una partita politica interna in vista delle elezioni nel 2021. I partiti al governo – in crescita nei sondaggi – li considerano un terreno da evitare, se si tiene al voto degli elettori. “Nelle riunioni settimanali al ministero di Europa si parla pochissimo”, conferma al Fatto una fonte del dicastero delle Finanze. Specie mentre il governo vara misure gigantesche (per 700 miliardi) per far fronte a “una recessione profonda”, che potrebbe costare oltre 5 punti di Pil nel 2020, secondo i consulenti economici del governo. L’unico a spendersi a favore dei coronabond è il co-leader dei verdi Robert Habeck: “Gli Stati forti come la Germania devono aiutare chi non è in buone condizioni. È nell’interesse tedesco che l’Italia sopravviva”.
Ma se la politica è cieca, limitata com’è dall’orizzonte nazionale, gli economisti ci vedono meglio. Perfino nel Consiglio dei saggi, organo di consulenza tecnica del governo in economia, le opinioni non sono unanimi, ha dovuto ammettere a denti stretti il presidente Lars Feld, storico falco. A favore sono invece 7 economisti di fama che hanno pubblicato sulla Faz un appello a favore degli coronabond. “Credo che siano lo strumento adatto” a superare l’emergenza economica, spiega al Fatto Gabriel Felbermayr, presidente dell’Istituto per l’Economia di Kiel e firmatario dell’appello, “bisogna evitare che l’emergenza coronavirus diventi una crisi di debito sovrano”. Tra i sostenitori c’è anche Peter Bofinger, ex membro del Consiglio dei saggi. “Sarebbe ideale – spiega al Fatto – che Paesi come l’Italia e altri non ricevano i soldi come crediti ma come trasferimenti. Dovrebbero essere le istituzioni europee a raccogliere denaro sul mercato, così il debito sarebbe europeo e si eviterebbe l’effetto stigma sull’Italia. Dovrebbero raccogliere circa il 3% del Pil europeo e girarlo in trasferimenti ai paesi che ne hanno bisogno”. “Il punto da evitare – conclude Bofinger – è che il debito italiano salga in modo significativo perché tra un anno potrebbe risaltare fuori la questione della sostenibilità e si tornerebbe a parlare di ristrutturazione del debito”. Anche Michael Hueter, direttore dell’IW di Colonia, contrario nel 2011 agli eurobond oggi è favorevole e ritiene il Mes uno strumento non adatto alla situazione italiana. Basterà questa varietà di posizioni a far cambiare idea al governo? Non si può escludere. Ma in questa fase pre-elettorale, l’opinione pubblica è più attenta che mai.
“Garanzie per 500 miliardi e sul Mes l’Italia non cederà”
Il punto che al ministro dell’Economia sta più a cuore è un messaggio alle imprese. Per questo, nel corso di questa intervista, annuncia che nei prossimi giorni sarà pronto un provvedimento per ampliare le misure di liquidità con uno sforzo complessivo di 500 miliardi. Annuncia anche un “decreto Aprile” che sarà “significativamente” più ampio del precedente e smentisce qualsiasi differenza di linea con il premier Conte sulla Ue.
La crisi è sotto gli occhi di tutti: che stime fa sul Pil italiano dopo che Confindustria prevede un -6% a fine anno?
Purtroppo sono stime realistiche. Le nostre sono in corso di elaborazione e le pubblicheremo nel Def. Allo stesso tempo possiamo ambire a una ripresa vigorosa. Più saremo rigorosi ed efficaci nell’azione di contrasto all’epidemia, prima potremo ripartire. Le misure economiche che stiamo adottando per evitare licenziamenti, sostenere il reddito e fornire tutta la liquidità necessaria a evitare una riduzione di capacità produttiva sono la necessaria premessa.
Finora avete stanziato 25 miliardi. Quale sarà l’importo del decreto Aprile?
Sarà significativamente superiore al precedente e sufficiente a fornire per tutta la durata della crisi il doveroso sostegno alle famiglie, ai lavoratori e alle imprese.
Si parla di una “mega-garanzia” per i prestiti alle imprese che potrebbe comprendere anche i colossi sopra 5 miliardi di fatturato, ce lo può confermare?
Già con il decreto Marzo abbiamo messo a disposizione liquidità garantita per le Pmi e varato la moratoria dei crediti. Ora stiamo finalizzando uno schema di supporto anche per le grandi imprese con una garanzia molto consistente.
Oltre ai 300 miliardi previsti?
Complessivamente ci attendiamo di liberare risorse al servizio dell’economia reale per almeno 500 miliardi. Stiamo pensando di intervenire già nei prossimi giorni per assicurare subito la liquidità necessaria a tutte le imprese, anche anticipando questa misura rispetto al resto del decreto con un decreto ad hoc.
Nel decreto di aprile, il beneficio per le partite Iva può salire a 800 euro? Con un’estensione della Cig?
L’estensione della cassa integrazione sarà contenuta nel decreto Aprile e confermo che intendiamo rafforzare l’indennità per i lavoratori autonomi.
È favorevole o no a istituire un reddito di emergenza, con uno stanziamento da 3 miliardi?
Le cifre le vedremo. Basandoci sulla procedura Inps, allargheremo la platea a chi si trova in momentanea difficoltà economica ma è rimasto escluso da cassa integrazione e indennità.
Che ne pensa della proposta di Beppe Grillo di un reddito universale?
Esiste già, si chiama reddito di cittadinanza. Pur essendo stato istituito dal governo precedente e pensando che debba essere migliorato sul lato delle politiche dell’occupazione, l’ho sempre difeso e continuerò a farlo. D’altronde costituisce un potenziamento del Rei. Però io penso che il cardine della nostra società debba essere il lavoro e che la via maestra sia piena occupazione, buoni salari e progressività delle imposte attraverso cui si finanzia il welfare universale e gratuito.
Farete qualcosa per i crediti delle imprese nei confronti della Pa? A quanto ammontano oggi?
Le nostre stime parlano di 37 miliardi di cui 25 scaduti. Accorceremo i tempi di pagamento anche grazie alle misure che abbiamo inserito nella legge di Bilancio.
Lei ha trattato con l’Eurogruppo per eliminare le condizionalità al Mes e poi Conte ha spiazzato tutti al vertice del Consiglio respingendolo. C’è stato un cambio di linea del governo italiano?
Io e Conte siamo sempre stati e siamo sulla stessa linea e stiamo conducendo insieme, passo dopo passo, questo difficile negoziato, come d’altronde è ovvio. Abbiamo sempre detto che tutte le risorse disponibili devono essere immediatamente messe a disposizione degli Stati membri senza alcuna condizionalità e che occorre dotarsi di strumenti nuovi attraverso l’emissione di titoli comuni. All’Eurogruppo mi sono opposto all’adozione di un documento conclusivo perché non rifletteva questa impostazione.
Sulla richiesta di non avere condizionalità non era illusorio pensare che i nordici potessero cedere?
Era illusorio pensare che avremmo ceduto noi.
Qual è dunque l’obiettivo italiano in questo momento?
Il mandato che il Consiglio europeo ha dato all’Eurogruppo è di sottoporre ai capi di governo un ventaglio di proposte che devono essere all’altezza della sfida del tutto inedita che questa crisi ci pone. L’obiettivo dell’Italia è quello indicato dalla lettera dei nove Paesi, che hanno chiesto di attivare tutti gli strumenti esistenti di politica fiscale e di lavorare su uno strumento comune di debito europeo.
Può escludere che l’Italia ricorra al Mes?
Il Mes è stato concepito per affrontare choc asimmetrici, mentre questa è una crisi simmetrica che riguarda tutti, quindi un suo uso sulla base dei meccanismi attuali, almeno da parte dell’Italia, è fuori discussione. Pure l’idea di una nuova linea di credito precauzionale ci sembra di scarsa utilità. Più promettenti sono il potenziamento dell’azione della Bei e lo strumento temporaneo di assistenza a cui sta lavorando la Commissione facendo leva sul bilancio europeo. Ma servono soluzioni nuove che garantiscano parità di condizioni e definiscano una risposta comune e solidale adeguata.
In ogni caso, sempre tenendo d’occhio l’inflazione, la Bce può iniettare liquidità. È questa la strada maestra? In fondo la ricetta Draghi riporta al ruolo della Banca centrale.
L’articolo di Draghi è stato commentato da molti e capito da pochi, visto che parlava di liquidità garantita dallo Stato alle imprese e non si occupava di Banche centrali né di Mes. La Bce sta fornendo iniezioni poderose di liquidità e il suo ruolo è decisivo. Tuttavia a fianco della Bce e in coordinamento con essa occorre uno sforzo comune di politica fiscale, come quello messo in campo dagli Stati Uniti.
Stampare moneta non può essere solo un tabù, se fatto con l’obiettivo keynesiano di risollecitare la domanda.
È quello che sta già accadendo, quindi è difficile parlare di tabù. Naturalmente, come la nottola di Minerva di Hegel, che arriva quando il sole è già tramontato, l’ideologia spesso segue la realtà e quindi molti libri di economia dovranno essere riscritti sulla base di quanto sta accadendo.
Se non ci fosse nessuna soluzione, cosa potrebbe fare l’Italia “da sola”?
L’Italia fortunatamente, non è da sola e si appoggia a una Banca centrale che deriva la sua forza dal fatto di essere europea.
Se la Ue non farà nulla, non sarebbe la fine dell’Unione?
La Bce sta acquistando centinaia di miliardi di titoli di Stato e fornendo liquidità pressoché illimitata al sistema finanziario, il Patto di Stabilità è stato sospeso, le regole sugli aiuti di Stato e quelle bancarie modificate. Dopodiché è evidente che i cittadini europei si aspettano di più e che da questa sfida dipenderà la natura, lo spessore civile e democratico e lo stesso futuro del progetto europeo.
Questa crisi ha riproposto la centralità dello Stato. Pensa che ci sarà un suo nuovo ruolo nell’economia?
Dovremo proteggere le nostre aziende dalla crisi e assicurare loro continuità e stabilità per non distruggere capacità produttiva anche con forme nuove di intervento pubblico. La necessità di politiche industriali per affrontare la sfida dell’innovazione, della sostenibilità e della resilienza di fronte a crisi come questa ne esce ulteriormente rafforzata.
La Thatcher disse: “La società non esiste, esistono solo gli individui”. Non pensa sia finita l’epoca del neoliberismo?
Considerare la società una somma di individui è un errore analitico prima ancora che politico. Solidi legami sociali sono la condizione per il progresso del genere umano e per lo sviluppo della persona.
Specializzandi anti-Covid bloccati dai prof “baroni”
La minaccia le è arrivata dal barone universitario, velata e subdola, forse anche per questo ancora più temibile. “Tutto tra le righe: se avessi risposto alla chiamata per rinforzare i reparti di terapia intensiva – dice Lucia –, mi avrebbe messo i bastoni tra le ruote, fino anche a compromettermi il completamento del ciclo formativo. Non è successo solo a me ma anche a dieci miei colleghi”. Lucia (il nome è di fantasia) ha 33 anni, è una specializzanda in Anestesia e Rianimazione. Una dei giovani medici che avrebbero voluto “arruolarsi” per fronteggiare l’emergenza sanitaria, grazie al decreto 14 del 9 marzo scorso del premier Giuseppe Conte, che prevede il reclutamento di specializzandi del quarto e quinto anno, con incarichi di lavoro autonomo della durata di sei mesi, per rinforzare il personale sanitario. Lucia si è rivolta al sindacato degli anestesisti e dei rianimatori (Aaroi-Emac), senza sapere che molti altri specializzandi, in varie parti d’Italia, erano nelle sue stesse condizioni: ricattati, più o meno apertamente.
“Ho ricevuto una trentina di segnalazioni – conferma Alessandro Vergallo, presidente di Aaroi-Emac –. Dal Centro-Sud ma anche dal Veneto: tutti sono impauriti. Impedire l’applicazione del decreto in questa fase di emergenza è criminale”. Lucia, che avrebbe voluto prestare servizio nella sua regione, teme ritorsioni. “Il decreto – sostiene –, prevede per gli specializzandi il riconoscimento dell’attività prestata durante lo stato di emergenza, che può valere per i concorsi. Ma non è chiaro come debba essere rilasciato. E anche qui si è insinuata la minaccia. Certo, non me lo ha detto apertamente. Ma me lo ha fatto capire che il coltello dalla parte del manico ce lo ha lui, che può tagliarmi le gambe. E io completo la formazione in novembre, ho ancora molti mesi davanti e pochi strumenti per difendermi, come tanti miei colleghi”. Uno stop alla possibilità che dagli specializzandi arrivi un sostegno agli anestesisti e ai rianimatori in prima linea ormai allo stremo, “mentre assistiamo al reclutamento di medici all’estero – spiega Vergallo –, con incarichi pagati lautamente, fino a 12mila euro al mese”.
Il decreto di Conte prevede che gli specializzandi restino iscritti alla scuola universitaria e continuino a beneficiare del trattamento economico previsto dal contratto di formazione medico-specialistica, integrato dall’emolumento stabilito dall’azienda sanitaria. Il problema affonda le radici nella contesa annosa tra sanità ospedaliera e università. Gli specializzandi sono manovalanza preziosa per le baronie universitarie, per esempio per la raccolta dei dati necessari alla stesura delle pubblicazioni sulle riviste scientifiche e per i congressi internazionali. Ma non c’è solo questo. Di mezzo c’è una riforma incompiuta. Quella con la quale due ministeri della Salute, prima quello guidato da Beatrice Lorenzin poi quello retto da Giulia Grillo, hanno tentato di scardinare lo strapotere delle università e del Miur, introducendo il contratto di formazione-lavoro per gli specializzandi. Riforma realizzata monca con il decreto Calabria, che subordina l’assunzione di uno specializzando a una lunga serie di paletti, come quello che impone il suo reclutamento solo negli ospedali che fanno parte della rete ospedaliera formativa in convenzione con le università. “Oggi parliamo di medici con borse di studio da 1.700 euro al mese per un totale di specializzandi in anestesia e rianimazione di circa 3.400 persone – spiega Vergallo –. Ma sono camici grigi: esistono e non esistono. Ed è chiaro che se uno non è contrattualizzato è alla mercé del direttore della scuola di specializzazione”.
Quel pipistrello, la paura e i miei genitori al paesello
Quando ero bambina, nella bella casa avvolta nel nulla in cui vivevo con la mia famiglia, le sere d’estate tenevamo le finestre aperte. Ogni tanto un pipistrello piombava in salotto finendo per picchiare testa e ali sul vetro o sul soffitto in una sorta di panico danzante. Io, mia madre e i miei fratelli scappavano terrorizzati nel corridoio, lasciandoci dietro la porta a vetri della sala ben chiusa, mentre mio padre rimaneva lì imperturbabile, a sfidare il topo alato. Non ha mai avuto paura di niente, mio padre.
Ricordo che lo spiavamo atterriti dalla porta a vetri, ricordo la flemma soave con cui afferrava la scopa e cercava di accompagnare quel pipistrello verso la finestra. Lui lo sfiorava e quello pareva toccato dal teaser di un poliziotto. Non so se avete mai visto un pipistrello che si agita sbattendo le ali, ma ecco, sappiate che c’è qualcosa di terrorizzante, nel suo panico. È quel genere di paura che fa più paura del pericolo eventuale. Roba che se il battito d’ali di una farfalla provoca un uragano da qualche parte, il battito d’ali di un pipistrello spaventato è destinato, come minimo, a generare una tempesta solare nell’universo. O un’epidemia.
Trent’anni dopo, io e mio papà siamo in città lontane, non sapendo quando ci rivedremo, chiedendo l’uno all’altra di essere prudente, chiacchierando di quel pipistrello che con un battito d’ali, in qualche luogo remoto della Cina, ha provocato tutto questo disastro di dolore. “L’effetto bat”, altro che butterfly, ci siamo detti io e mio papà scherzando. Mentre scherzavamo, però, sentivo che quello era il primo pipistrello di cui mio padre aveva paura. E anche questa volta era la paura a spaventarmi, più che il pericolo eventuale. L’ho percepita, in queste settimane inverosimili, dai suoi racconti spogli di quel solito disincanto che poi è la cifra di mio papà, uno che conosce i vantaggi della giusta distanza dalle cose, uno che scaccia pipistrelli e seccature con la scopa, senza che nulla lo attraversi fino in fondo. È sempre stata la forza gentile di mio papà, questa. Che però ha 85 anni e vive con mia mamma con l’Alzheimer, nel mezzo di un’epidemia che lui ha paragonato a una guerra “in cui però non c’è un posto in cui scappare”. Vivono in campagna, dalle parti di Civitavecchia. All’inizio mi è sembrato che lui si sentisse al sicuro, a malapena ci arriva il postino, lì, capirai se un virus se ne parte dal mercato del pesce di Wuhan per finire in un borgo di case di tufo, dove le radici degli alberi si mangiano l’asfalto. Poi quei puntini rossi hanno iniziato a comparire a caso, sulla sinistra cartina del contagio. Il coronavirus a Gualdo Cattaneo? A San Lucido? A Troina? A Nerola? E come ci è arrivato, il coronavirus, a Lampedusa? A un tratto, l’idea che potesse arrivare anche lì, tra Civitavecchia e il nulla, non era più tanto improbabile. Lo sapevo, lo sapeva anche mio papà. Che è sempre stato uno di quelli che andavano a fare la spesa una paio di volte al giorno, gli piaceva tornare con un barattolo di pomodoro in mano e mia madre lo sgridava: “Ma compra qualcosa in più, che poi devi fare avanti e indietro dieci volte!”. Ho detto a mio padre di andare solo una volta a settimana al supermercato, che è pericoloso, “lì tutti toccano tutto”. “Lo so”, mi ha risposto lui. E poi ha aggiunto che porta anche mia mamma, non può rimanere sola a casa per via dell’Alzheimer e però non la fa scendere, la chiude a chiave in macchina, perché mia madre poi tra uno scaffale e l’altro se lo dimentica di dover sopravvivere a una pandemia. Chissà cosa tocca, inutile rischiare il doppio. Mia mamma, al telefono, certe volte sembra sapere che sta accadendo, “che cosa terribile”, mi fa. Poi io dico che so, che una mia amica ha la tosse ed è preoccupata e lei “vabbè, perché mai la tosse dovrebbe preoccuparla?” e capisco che nella sua bolla impenetrabile non ci sono virus e gente che muore senza un respiratore e un po’ mi dico che è fortunata, di questi tempi, a starsene lì dentro. Poi però penso a come era. Mia madre aveva un debole per le catastrofi. Empatizzava con tutti, piangeva guardando le immagini di sfollati dall’Uganda, di terremoti in Uzbekistan, di tsunami in Indonesia. Era una di quelle mamme che finito il tg poi telefonava alla zia o alla sorella e doveva prolungare lo strazio al telefono con qualcuno: “Ma le hai viste le immagini di quella povera bambina sotto le macerie?” e piangeva di nuovo.
Penso che mia madre, oggi, avrebbe sentito ogni cosa, avrebbe abbracciato il dolore di tutti, sarebbe stata la mia mamma straziata e partecipe e mi manca non parlare con lei di quello che ha investito il mondo. Tornando a mio papà, invece, lui c’è più di prima. Lui che quando mia mamma si commuoveva per un delfino spiaggiato alle Fiji, mi guardava con aria di ironico compatimento: “Lo sai che è fatta così”. Ora è mio papà, quello “un po’ così”. Non ha protestato quando gli ho detto che non doveva andare in posta, che le bollette gliele avrei pagate online io. Mi ha detto che aveva fatto entrare degli operai in casa settimane fa, che non lo doveva fare. Che non dorme più bene la notte. Ha detto, a mio fratello, “se me lo prendo, io sono il primo”. Quando mio fratello me lo ha riferito mi sono sentita in balia degli eventi, io che in balia di qualcosa non mi ci sento mai. E alla fine ho capito che è questo, nella mia famiglia, la pandemia: essere altro, rispetto a quello che siamo sempre stati. Che poi è la cosa migliore che ci potesse succedere, forse, in mezzo a tanto dolore.
“In 385 prima di Mattia col virus in Lombardia”
Un contatto dopo l’altro, tornando indietro sull’asse temporale, percorrendo i cerchi allargati delle relazioni interpersonali, annotando abitudini e hobby. Fino ad arrivare all’inizio del mese di gennaio per piantare la bandierina di un primo possibile caso di Covid-19 in Lombardia. Questo è scritto nel rapporto di 30 pagine messo insieme dagli esperti dell’Unità di crisi della Regione. Il documento illustra l’andamento del primo focolaio di Covid-19 in Europa. La ricerca si basa sull’analisi delle prime due settimane di contagio studiando 5.830 casi positivi rilevati alla data del 5 marzo a partire dal primo identificato il 20 febbraio a Codogno.
È attraverso lo studio di questi soggetti e delle loro relazioni strette che gli esperti sono tornati indietro nel tempo dividendo la linea cronologica in tre periodi: quello prima del 19 febbraio, quello tra il 20 e il 25 febbraio e l’ultimo dal 26 al 5 marzo. Il periodo che colpisce è certamente il primo: fissa un possibile contagio ai primi di gennaio. Di più: fino al 19 febbraio nelle province lombarde più colpite sono ben 385 i possibili contagiati rilevati dagli investigatori dell’Unità di crisi. Qui il grafico indica una lenta progressione fino alla metà di gennaio, dopodiché lo sviluppo si fa più consistente per esplodere a ridosso del 20 febbraio. Da quel momento e in meno di 72 ore i contagi si allargheranno a tutte le province lombarde. I casi di gennaio vengono collegati a ipotesi Covid (non tutte verificate col tampone), da un lato ricostruendo i contatti dei positivi e dall’altro confrontandoli con le linee dell’Oms che alla fine di dicembre aveva diffuso la sintomatologia del nuovo virus.
Dopo una indicazione proprio al 1° gennaio, l’incremento dei possibili casi si fa rilevante già dal 14. Con una diffusione geografica a quella data decisamente precisa. Sulla mappa della Lombardia in quel momento due piccole macchie blu rappresentano possibili soggetti Covid. La prima si trova a nord-ovest di Milano, la seconda nell’area del Basso Lodigiano. Attorno al 20 gennaio si evidenzia una diffusione netta nella zona della Bergamasca a partire dai comuni di Curno, Gazzaniga fino a quelli di Nembro e Alzano. Nella stessa striscia temporale parte il focolaio nella provincia di Cremona. Sono soprattutto questi tre cluster (gruppi comprendenti ognuno diversi comuni) che vengono analizzati dal rapporto.
Si comprende così che a gennaio la progressione è già veloce con 91 casi in provincia di Bergamo, 132 nel Lodigiano, 59 a Cremona, 38 a Brescia. Ma è la zona della Val Seriana a correre più degli altri con contagi arrivati subito dopo il 20 febbraio a 307 rispetto ai 258 del Lodigiano. La cosa è tanto vera anche rispetto al periodo di raddoppio del virus, fissato per la provincia di Bergamo in 3,1 giorni, mentre per Lodi e Cremona l’intervallo sta tra il 3,5 e il 3,4 giorni. Il che colloca i comuni della Val Seriana al vertice con un “R con zero” (quanti individui può contagiare un malato) di 2,9, mentre Lodi e Codogno non superano il 2,5. A Bergamo la curva esplode tra l’8 e il 14 febbraio. A Cremona il balzo lo si nota a partire dall’11 febbraio, mentre a Codogno dal 24 alla fine di gennaio sia ha un “R con zero” di 0,9 (come l’influenza) che cresce con progressione costante.
Il rapporto pur restando di rilevanza internazionale, deve essere valutato per la sua metodologia che non riguarda lo studio delle sequenze virali di SarsCov2. Su questo fronte al momento abbiamo un certezza: il virus in Italia è entrato il 26 gennaio. Questo mostra lo studio dell’équipe del professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano. L’analisi a ritroso seguendo gli errori di replicazione del virus a Rna ci conduce a un punto zero fissato tra 25 e 26 gennaio. Data in cui il paziente zero italiano rientra dalla Germania (prima porta d’ingresso in Europa) dove un piccolo cluster viene individuato già il 22 gennaio.
La data del 26 gennaio emerge dallo studio dei primi tre ceppi isolati in pazienti di Codogno. In queste ore, l’équipe del professor Galli sta studiando proprio i ceppi di Bergamo per capire se questi rappresentino nuovi ingressi anteriori al 26 gennaio oppure se siano riconducibili sempre a Codogno. “Al momento – spiega al Fatto il professor Galli – a meno che lo studio delle sequenze bergamasche riveli una introduzione indipendente e più precoce, la possibilità di un caso prima del 26 gennaio è da escludere”.