Da Varsavia a Parigi: un grande fratello (a fin di bene) per tutti

La Polonia è il primo paese europeo ad aver attivato il 24 marzo un’app per verificare il rispetto della quarantena. Home quarantene, gratuita su GooglePlay a App Store, è stata messa a punto da una società privata per conto del governo. Per il momento riguarda solo chi è in isolamento, o perchè proviene dall’estero o perchè è stato in contatto con una persona contagiata, ma non è escluso che venga utilizzata anche per “tracciare” i malati di covid19 in quarantena.

Come funziona? Ogni giorno bisogna scattare almeno un selfie, ma la polizia, tramite sms, può richiederne di più. Se entro 20 minuti l’immagine non arriva, scatta l’allarme. Per chi sgarra la multa è 6.500 euro. In due giorni si erano già iscritti in 3.000.

La domanda è: cosa faranno le società che gestiscono l’app con i dati raccolti a fine emergenza coronavirus? Tomasz Zielinski, programmatore professionista, avverte che l’analisi del codice sorgente è controversa, poiché consente di accedere all’app utilizzando un account facebook: “Se non si elimina la funzione di inizializzazione dall’app, ossia la possibilità di accedere tramite facebook, il numero di persone che eseguono l’applicazione sarà disponibile per facebook stessa”, spiega Zielinski. Il governo polacco finora non ha chiarito come verranno garantiti i diritti fondamentali dalla polizia.

La corsa alle app anticontagio è partita anche altrove. In Germania, Paese finora tra i più rigidi nella difesa della privacy, è in corso un acceso dibattito se modificare le regole sulla tutela dei dati personali e “seguire” i malati Covid. Il ministro della Salute Jens Spahn ha preparato una proposta di legge per modificare l’Infection Protection Act ma, per ora, ha dovuto ritirare il progetto. Intanto il Robert Koch Institute, massima autorità per la gestione della crisi, sta elaborando un’app per “registrare la vicinanza e la durata dei contatti tra le persone nelle ultime due settimane e di memorizzarli in forma anonima sul telefono”. Con il Koch Institute collabora il gigante Deutsch Telecom che fornisce informazioni sui movimenti delle persone in modo anonimo. Sarebbero stati tracciati finora 46 milioni di tedeschi.

Si sta muovendo anche la Spagna. Il premier Sanchez ha chiesto uno studio dove un algoritmo potrebbe identificare assembramenti di persone nello stesso luogo e far scattare un allarme, un dispositivo che esiste già in Svizzera: se vengono identificati 20 smartphone in uno stesso spazio di almeno 100 mq, scatta l’allarme.

Non si tratta ancora di informazione sullo stato di salute. Su questo stanno lavorando varie start up in Francia, chiamate a lavorare con l’Istituto Pasteur. Lo scopo è seguire, su base volontaria, i malati di covid19 per verificare se rispettano le norme di confinamento e con la stessa app si potranno individuare anche gli altri malati nei paraggi: “Se un contagiato ha l’app, l’algoritmo rintraccerà tutte le persone con cui è stato in contatto e queste riceveranno un messaggio interrompendo potenzialmente la catena dei contagi”, spiega Christophe Mollet, direttore dell’agenzia ITSS che ha sviluppato il programma CornAPP, appena inviato a Parigi al ministero della Difesa, che ha lanciato una gara per 10 milioni di euro da spendere in innovazione contro il Covid-19. Esattamente come è avvenuto in Corea del Sud che è riuscita persino a evitare il lockdown.

In Europa bisognerà abbattere qualche muro legislativo e decenni di giurisprudenza in difesa delle libertà personali e del diritto all’oblio, ma pur di far passare la tempesta, i governi sono pronti, per un periodo limitato, a rinunciare al rispetto delle libertà.

D’altronde il codice europeo per la privacy parla chiaro: diffondere informazioni sulla salute dei cittadini è vietato. Tranne per ragioni di salute pubblica e di emergenza nazionale. La porta è aperta per il metodo cinese. Bisogna capire se poi verrà richiusa. L’esempio francese non è incoraggiante: il primo novembre 2017 il Parlamento francese ha trasformato le misure straordinarie istituite dopo gli attacchi al Bataclan in legge ordinaria, creando uno “stato di emergenza permanente”.

 

App per il tracciamento: ecco le prime proposte

Settanta persone sono tante, ma in realtà sono pochi i gruppi (sugli otto totali) che si sono occupati direttamente delle proposte delle app per il contact tracing arrivate con la call del ministero dell’Innovazione (assieme al ministero della Salute e all’istituto superiore di Sanità). Ieri sono stati pubblicati i nomi degli esperti ed è anche stata identificata la short list delle app che potrebbero essere utilizzate dai cittadini quando il governo deciderà come procedere. In pochi giorni, il gruppo “tecnologie per il governo dell’emergenza” in cui ci sono esperti di salute pubblica guidati da Walter Ricciardi, hanno vagliato le 316 proposte arrivate, le hanno scremate gradualmente e, dopo le ultime valutazioni, ne hanno identificate tre. Parallelamente hanno valutato anche quanto fatto negli altri Paesi e, ora, stileranno una valutazione che indirizzi il governo nell’applicazione di questi strumenti.

Quello che si sa, al momento, è che il gruppo di lavoro ha deciso di escludere la geolocalizzazione. La app non si baserà sull’attivazione del Gps (non sarà quindi in grado di capire dove sia una persona in un determinato momento) ma utilizzerà il tracciamento dei contatti attraverso la tecnologia bluetooth. Semplificando molto: per sapere se si è stati in contatto con un positivo al Covid-19 basterà controllare se due segnali bluetooth si siano mai agganciate nei quindici giorni precedenti (o nel periodo di riferimento che si stabilirà come congruo), utilizzando tecniche di crittografia end to end per anonimizzare il segnale e nascondere le identità. Non importerà quindi dove questo sia avvenuto. Inoltre, salvo sorprese e incursioni, ci sono garanzie sul fatto che ogni funzione sia attivabile solo con il consenso dell’utente e che sarà richiesto per ogni ulteriore informazione i volesse assumere (ad esempio nel caso sia necessario identificare una zona ad alto rischio).

“Finora si è fatta molta confusione nel dibattito – spiega al Fatto Francesca Bria, che fa parte del gruppo di lavoro e che presiede il Fondo Nazionale Innovazione –, si è creata una falsa dicotomia tra privacy e salute pubblica, prendendo come esempio soluzioni applicate in Cina o Israele che hanno sistemi normativi e valori molto diversi dai nostri”. La Bria spiega che si sta lavorando a una soluzione paneuropea: “Si va in una direzione privacy-preserving europea, la stessa verso cui va la Germania dove, oltretutto, due giorni fa in parlamento hanno respinto l’uso di soluzione di contact tracing che utilizzano dati di geolocalizzazione”. Si cerca poi una soluzione che sia condivisa e inter-operabile in Europa, anche per favorire una implementazione comunitaria. “Siamo tutti d’accordo e si sta realizzando nel pieno rispetto dei diritti fondamentali. Nel nostro ordinamento se qualcosa non rispetta la privacy dei cittadini, non può essere neanche utile alla tutela della loro salute. E non è ciò che serve ora”.

“Manca l’ossigeno per i malati cronici”

Emergenza ossigeno nel Bresciano. Mancano le bombole, al punto che Federfarma Brescia ha chiesto la disponibilità di dentisti, studi veterinari ecittadini in possesso di bombole vuote di consegnarle per riempirle. Una persona su 5 che si ammala gravemente di Covid-19, infatti, presenta difficoltà respiratorie e ha bisogno di ossigeno e fa “concorrenza” ai malati cronici.

Prima dell’emergenza chi veniva dimesso dagli ospedali con problemi respiratori poteva contare su un mese di “ossigeno per pronto soccorso” gassoso in bombole da 5, 20 o 50 litri fornite dalle farmacie. Il 19 marzo, invece, l’Ats (Azienda di tutela della Salute) ha scritto ai medici di base per autorizzarli, data l’emergenza, a prescrivere direttamente ossigeno liquido utilizzato per la terapia a lunga durata, che prima richiedeva il piano terapeutico redatto dallo specialista per le patologie respiratorie gravi. Le farmacie, ora, si muovono di fatto in regime di libero mercato.

Da una parte i pazienti e non restituiscono le bombole, dall’altra latita il coordinamento fra produttori e distributori. E mancano i corrieri. La scorsa settimana l’ossigeno a casa è stato consegnato dalle forze dell’ordine entro 12 ore dalla prescrizione. La consegna di decine di bombole è avvenuta nella bassa bresciana, nelle vicinanze di Manerbio dove sono morte 33 persone, località seconda solo a Orzinuovi dove i decessi sono già stati 39.

L’ossigeno sta diventando un’emergenza anche a Bergamo, dove la scorsa settimana ai 400 casi di ossigenoterapia domiciliare già in corso in città e nelle valli, se ne sono aggiunti altri 960 per Covid-19. Dalla Cef (Cooperativa esercenti farmacia) di Brescia arrivano i numeri di quanto sia aumentato il consumo: 1,8 milioni di litri con 20 consegne giornaliere a febbraio, 12 milioni di litri con 120 consegne al giorno soltanto al 25 marzo.

Prima l’ossigeno era indirizzato unicamente a malati cronici, adesso oltre l’85% viene distribuito ai malati domiciliati di Covid-19.

L’utilizzo dell’ossigeno in questa pandemia, per Carlo Lombardi responsabile dell’unità di Pneumologia della Poliambulanza di Brescia è “importante perché non essendo ancora disponibile una specifica terapia diretta contro il Coronavirus, uno dei presidi terapeutici fondamentali è proprio l’ossigenoterapia”.

In Italia attualmente beneficiano di ossigenoterapia a lungo termine 60 mila persone. Una fornitura annua costa al Ssn dai 3 ai 6 mila euro. Oggi le necessità sono aumentate in modo esponenziale.

Ats Brescia in una nota ha ritenuto di sottolineare come la distribuzione di ossigeno “sia argomento complesso che può essere rappresentato solo attraverso l’integrazione con quanto a disposizione degli attori fondamentali: Atf Federfarma, Asst Spedali Civili, Prefettura e Regione Lombardia)”. Il coordinamento spetta a Regione Lombardia.

 

J’accuse di Arcuri: “Chiedete alle Regioni che cosa fanno…”

Che la risposta, anche “industriale”, al coronavirus sia stata lenta e inadeguata tanto a livello centrale che regionale non è un mistero. Nella penuria di attrezzature sanitarie per far fronte all’onda del Covid-19 in queste settimane si è scatenata una polemica quasi continua tra il governo e le Regioni, specie la Lombardia, più esposta al virus e alle polemiche sulla sua gestione. La novità è che i governatori finora hanno fatto la parte degli accusatori, ma ora il gioco potrebbe essersi rovesciato: “Chiedete alle Regioni cosa stanno distribuendo, sarebbe interessante saperlo”, ha detto ieri ai giornalisti il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri scatenando, come vedremo, una sorta di guerra con Attilio Fontana e il resto della sua giunta.

Una premessa. L’idea, a Roma, è che ormai la filiera della produzione e degli acquisti dei “dispositivi di protezione” (dalle mascherine in giù) e dei macchinari più complessi sia rodata dopo le iniziali defaillance: per questo da ieri è online una mappa detta “Ada” (Analisi distribuzione aiuti) che giorno per giorno riporta ogni singolo prodotto consegnato dallo Stato alle Regioni nell’ambito dell’emergenza Coronavirus dal 1° marzo in poi. Aggiornato a lunedì, si tratta di circa 50 milioni di “pezzi” di materiale sanitario di vario genere, arrivato ovviamente in larga parte nelle regioni più colpite (oltre il 20% alla Lombardia). La pubblicazione è stata fortemente voluta dal governo e un po’ meno dai presidenti di Regione: a quanto risulta al Fatto, quasi la metà si è dichiarata contraria nella video-conferenza di lunedì. L’idea dell’esecutivo è che ora siano i governatori a dover spiegare cosa hanno fatto col materiale consegnato: il sotto-testo, neanche troppo nascosto, è che in questo mese i livelli locali non si siano invece organizzati a sufficienza per far arrivare i dispositivi medici dove servono. Tanto più che il ruolo dello Stato centrale in questa vicenda non è unico, ma concorrente con le Regioni: “E a volte supplente”, butta lì Arcuri.

La reazione della Giunta lombarda – la cui narrazione finora è ruotata attorno al concetto “è tutta colpa di Roma” – è stata un clamoroso autogol: “Sto leggendo dal sito del governo la lista del materiale che presumono di averci inviato. O si è perso qualcosa tra Roma e Milano o hanno sbagliato l’indirizzo del destinatario”, ha detto in diretta Facebook l’assessore al Bilancio Davide Caparini. Peccato che quella lista di oltre 10 milioni di pezzi – tra cui 6,8 milioni di mascherine di vari tipi e 458 ventilatori per terapia intensiva e sub-intensiva, oltre un terzo di quelli distribuiti – sia stata vidimata dalla stessa Regione: “Evidentemente Caparini non è informato che domenica 29 marzo, alle ore 21.59, la dottoressa Maddalena Branchi (delegata della Regione Lombardia alle relazioni con gli Uffici del commissario) con una mail ha dato conferma dei materiali inviati dal governo nell’intero mese di marzo alla Regione”, gongola Arcuri nella sua nota di risposta. Il paradosso è che, essendoci una differenza sul numero di un prodotto (i monitor), “in via prudenziale” nel sistema sono stati immessi i numeri della Lombardia e non quelli del governo.

Lo scontro tra Roma e la giunta leghista sembra essere ormai totale. Ieri, per dire, Fontana – finito di celebrare l’ospedale costruito alla Fiera di Milano – in Consiglio regionale è tornato a ricordare che lui ha chiesto misure restrittive per settimane, mentre il governo spandeva ottimismo sull’epidemia. La replica del governo, affidata a fonti anonime, testimonia lo stato dei rapporti: oltre a ricordare i materiali sanitari e le decine di medici inviati (russi, albanesi, italiani tanto civili che militari), la costruzione di due ospedali da campo (Crema e Cremona), il trasporto di 73 pazienti gravi fuori regione, dal governo fanno notare “che i presidenti delle Regioni sono stati sempre liberi di intervenire con misure maggiormente restrittive. Il presidente Fontana, se lo riteneva giusto, avrebbe ben potuto adottare misure restrittive anche in passato, senza ridursi alla sera del 21 marzo, nelle stesse ore in cui le agenzie di stampa davano la notizia che il governo stava per annunciare il nuovo decreto per sospendere le attività produttive non essenziali”. In una giornata così non poteva mancare nemmeno la polemica, ormai rituale, sulle mascherine: un’azienda lombarda “può produrre 900 mila mascherine al giorno”, ha detto Fontana, ma il prodotto non ha ancora l’autorizzazione dell’Istituto superiore di sanità. Arcuri però, che pure ha promesso autorizzazioni più rapide, non pare preoccupato dai numeri: “Abbiamo acquisito 300 milioni di mascherine, che arriveranno progressivamente” e in generale “abbiamo una dotazione di dispositivi di protezione individuale che crediamo ci serva per due mesi”.

Ancora 837 vittime, ma contagi stabili “Siamo sul pianoro”

Il bollettino dei decessi resta drammatico. Gli 837 registrati ieri dalla Protezione civile (lunedì erano stati 812) portano a 12.428 le morti per il Covid-19 in Italia. E i numeri dei contagi rimangono alti: sono 105.792 i casi totali, 77.635 dei quali attualmente positivi: 2.017 più di lunedì. Ma all’orizzonte si inizia a vedere una schiarita e ieri nella conferenza stampa delle 18, Roberto Bernabei, membro del comitato tecnico scientifico sull’emergenza, ha indicato la parte piena del bicchiere: “C’è un importante calo dell’incremento dei ricoverati – ha spiegato il geriatra del policlinico Gemelli di Roma accanto al commissario Angelo Borrelli – da 1.276 il 26 marzo a 409 ieri a 397 oggi, e lo stesso in terapia intensiva, dai 120 del 26 ai 42 di oggi”, con 4.123 casi totali.

In tutto sono 15.729 le persone dichiarate guarite e gli ottimisti vedono la fine della salita, ma un fatto è certo: non abbiamo scollinato. Davanti c’è un altopiano che i tecnici chiamano plateau: un periodo in cui il numero di nuovi casi si mantiene stabile. Silvio Brusaferro usa tutte le cautele: “Siamo arrivati al picco – ha spiegato ieri il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità –. Non è una punta, ma un pianoro da cui ora dobbiamo discendere”, mettendo sempre “la massima attenzione su quello che facciamo”. Perché “l’epidemia può ripartire se molliamo sulle misure di isolamento”.

In Lombardia, la Regione che per prima le ha conosciute, la crescita dei contagi è scesa per il 6° giorno di fila: i nuovi positivi sono 1.047, per un totale di 43.208 (compresi morti e dimessi): lunedì l’aumento era stato di 1.154 unità, domenica di 1.592. In calo anche i decessi che sono 381, per un totale di 7.199, contro i 458 di 24 ore prima. E diminuisce per la prima volta il numero dei pazienti in terapia intensiva: se lunedì erano 1.330, ieri erano 1.324, 6 in meno. Sale di poco quello dei ricoveri negli altri reparti: sono 68 in più, per un totale di 11.883. La stessa unità di misura indica, invece, che con 3.174 letti pieni il Piemonte insidia il 2° posto all’Emilia-Romagna (3.765), superata in fatto di rianimazioni: 452 contro 353. Con una differenza: quest’ultima ha effettuato il doppio dei tamponi (54.532) rispetto al primo, fermo a 27.658: il che fa pensare che gli 8.082 piemontesi positivi possano essere in realtà molti di più.

La questione degli asintomatici, la base dell’iceberg invisibile alle rilevazioni, resta aperta a livello nazionale. I test effettuati sono 506.968, ma l’Iss esclude un loro utilizzo “a tappeto”. Secondo uno studio dell’Imperial College di Londra, gli infetti in Italia potrebbero essere 5,9 milioni, il 9,8% della popolazione. Per individuarli “stiamo pensando di fare test anticorpali”, ha spiegato Brusaferro, in modo da “cercare quei soggetti che hanno sviluppato una reazione immunitaria”, stimando “che siano stati infettati e, molto probabilmente, ora sono immuni”. Sul tavolo, però, ci sono diversi problemi.

Il primo: “Non abbiamo dei test certi – ha spiegato Ranieri Guerra, direttore vicario dell’Oms – La loro capacità di trovare i negativi è elevata, ma quella di individuare i positivi oscilla tra il 60 e il 70%. Quindi non sono attendibili per validare la possibilità di reinserimento al lavoro” di un paziente “o di esenzione dall’isolamento”. Seconda difficoltà: “Queste analisi non possono farci sapere chi è infettivo oggi, perché scattano una fotografia dei 18-25 giorni precedenti. Stiamo cercando una tecnologia che ci permetta di fare verifiche in tempo reale. In ogni caso si tratta di uno strumento importante perché ci dà un’idea di quanto sia diffuso il virus”. Questo “ci porterà a fare raccomandazioni al governo in tempi brevissimi”.

Dal Nord al caso di Bari: il conto dei morti non torna

Il dato dei decessi per Covid-19 non quadra. Non tornano molte cifre al Nord. Bari è un’anomalia che merita d’essere approfondita. Sorprese anche nei focolai che la Campania ha trasformato in zone rosse.

Morti non censiti anche a Como e Pavia

Il Fatto ha incrociato tre dati: i decessi nei primi tre mesi del 2019, i decessi nel 2020, i decessi per Covid-19. Ecco alcuni risultati. A fronte di 23 casi di morte per Covid, nel solo mese di marzo, a Como si contano 165 decessi: l’89 per cento in più rispetto agli 87 del 2019. I 23 casi di Covid non giustificano l’impennata dell’89 per cento verso l’alto. È vero che il conteggio si allarga anche ai decessi di pazienti “migrati” da strutture vicine, ma il sospetto che il virus abbia fatto più vittime delle 23 censite resta più che fondato. Stesso discorso per Brescia (88 per cento in più, da 112 a 210 decessi), Bergamo, Nembro, Cernusco sul Naviglio. Passiamo a Pavia: nel marzo 2019 i residenti deceduti erano 84, quest’anno sono 134, il 60 per cento in più. Orzinuovi, Bassa bresciana: l’ultimo aggiornamento disponibile parla di 39 morti, per la banca dati “Demo Istat” nel marzo 2019 erano 16, quindi siamo al 131 per cento in più. Dal 1º al 27 marzo 2020 si contano 75 decessi: in tre mesi siamo a tre quarti dell’intero anno scorso. Le vittime di Covid accertate però sono 35: anche in questo caso il rischio che siano tanti, i decessi per Covid sfuggiti al conteggio, è molto alto. E con esso il rischio che parenti o amici delle vittime non censite si siano infettati incrementando il contagio.

Scoprirlo in tempo può essere cruciale per individuare eventuali nuovi focolai. Ecco perché l’analisi incrociata può risultare utile per il Centro-Sud.

Il trend del Centro-Sud e l’anomalia barese

Al Centro-Sud, per il grappolo di cifre analizzate dal Fatto, i decessi del 2020 sono quasi ovunque pari o inferiori al 2019. È per esempio il caso di Fermo nelle Marche. E di molti Comuni in Campania, Calabria e Sicilia.

Per questo balza agli occhi il caso di Bari. I decessi per Covid nel capoluogo pugliese, per quanto risulta al Fatto, ammontano a quattro. E scorporando il dato di marzo si scopre un’inversione che somiglia molto ai casi lombardi: si passa da un -17,1 per cento su febbraio (373 contro i 450 dello scorso anno) a un +13,4 per cento (457 contro 403 del 2019) nei dati di marzo. E proprio il 3 marzo, in Puglia, si registra la prima vittima di Covid. Forse sarebbe il caso di estendere questa analisi agli altri Comuni pugliesi per verificare se sia un caso isolato o se la Puglia, per quanto in modo embrionale, stia replicando lo schema lombardo. Il Sud, rispetto al Nord, ha il vantaggio di avere più tempo per valutarne l’impatto. A maggior ragione perché già sappiamo che, nei prossimi giorni, i dati sui contagi sono destinati ad aumentare: in Puglia per esempio includeranno, in modo definitivo, il risultato dei 20 mila rientrati dal Nord il 9 marzo.

I focolai campani e la tendenza di Napoli

Napoli, da gennaio al 27 marzo, conta un numero di decessi inferiore a quello del 2019. A marzo poi – il mese più sensibile – si passa dai 1.102 decessi del 2019 ai 921 del 2020. Totale vittime Covid: 25 persone. Una cifra che sembra compatibile con i dati incrociati e quindi verosimile. Un segnale che lascia sperare in un contenimento dell’epidemia rispetto al Nord. Ma bisogna continuare a incrociare le dita: al Sud il picco è ancora lontano. Vediamo cosa accade invece nelle cosiddette ‘zone rosse’, i Comuni-focolaio chiusi dal governatore Vincenzo De Luca, con l’esplodere di picchi di contagio provocati da singoli episodi – feste di Carnevale, raduni di preghiera – avvenuti in febbraio. Anche i focolai contano meno decessi rispetto al 2019. Ariano Irpino (Avellino), chiusa il 15 marzo: 89 contagiati (il doppio del capoluogo Avellino). Dal 1º gennaio conta 138 decessi, 14 in meno di quest’anno. Un altro focolaio, Atena Lucana, scende dagli 8 morti dell’anno scorso a 7. Lasciamo i focolai e passiamo a Casalnuovo: si passa dai 102 del 2019 ai 99 del 2020 (4 contagiati, un morto). Sorrento: 49 decessi nel 2019 e 33 nel 2020.

In Calabria e in Sicilia: anche qui si muore meno

In tutta la Calabria si contano 31 vittime per Covid. Ed ecco i decessi comparati nei primi tre mesi 2019 e 2020. Reggio Calabria: 613, 12% in meno rispetto all’anno scorso; 10 per cento in meno a Cosenza; 18 per cento in meno a Catanzaro. Passiamo alla Sicilia: a Trapani i morti sono in aumento del 10,8 per cento (da 240 del primo trimestre 2019 a 266 del 2020) ma si registra, nell’intera provincia, un solo decesso per Covid. Per il resto, quasi ovunque i decessi sono in calo. A Caltanissetta si scende del 16 per cento, ad Agrigento dell’8,5. A Palermo (dati del dipartimento epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale della Regione Lazio) a fronte dei 9 decessi per Covid registrati nell’intera provincia, si contano in questi primi tre mesi dell’anno 954 morti.

Clownterapia

Uno dei motivi del boom degli ascolti tv, oltre agli arresti domiciliari forzati per milioni di italiani, è il balsamico diradarsi degli ospiti politici. In particolare, di quelli che non hanno niente da dire, cioè quasi tutti. Non che per ciò stesso ne guadagni l’autorevolezza dei programmi, anzi: quando uno vede Toni Capuozzo travestito da Savonarola con le Samsonite sotto gli occhi che ci ricorda che dobbiamo morire o la suffragetta dei due Matteo agghindata da prima della Scala fuori stagione in décolleté e visone sulla spalla, vien da rimpiangere pure Scalfarotto e la Santanchè. Però il nostro pensiero corre affettuoso e solidale ai plotoni di politici morti di fama, non tanto perché costretti alla quarantena (lì la solidarietà va ai familiari che li hanno tra le palle h 24), quanto perché forzati all’astinenza da telecamera. Come passeranno le giornate? Come sopperiranno alla carenza di primi piani? Quali droghe, vista l’oggettiva difficoltà degli approvvigionamenti, li aiuteranno a resistere? Costringeranno figli, nipoti, coniugi e genitori a improvvisare talk show domestici per dire la loro su virologia, Ue, Mes, Draghi e governo prima e dopo i pasti? Comizieranno dai balconi molestando i vicini in cerca di silenzio e aria buona? Sappiano che siamo con loro, purché a debita distanza: non di 1 metro, di 1 chilometro.

Lo strazio, se possibile, aumenta quando pensiamo a due sedicenti leader che potrebbero stare a Palazzo Chigi o nelle vicinanze ma, per opposte circostanze avverse, sono confinati al ruolo di peli superflui: Salvini, che il famoso 8 agosto ’19 si autoconfinò all’opposizione; e l’Innominabile, che dal 4 dicembre ’16 non fa che suicidarsi e nessuno capisce come faccia, visto che l’omicidio di un morto è già complicato, ma il suicidio di un morto, per giunta reiterato, è tecnicamente impossibile. Avendo molto tempo libero, i due Matteo passano le giornate a elemosinare interviste. Il primo, più fortunato, può offrire un book completo di gag da vecchio guitto, tipo l’intervista con rosario incorporato, trovando almeno una D’Urso che ci casca. L’altro, più sfortunato e monotono, propone sempre lo stesso sketch: “Che ne dite se vengo e sputtano il governo? Vi faccio il numero del ‘riapro subito’? Viene ganzo, l’ho provato e riprovato allo specchio del bagno! Interessa l’articolo?”. E finisce come il Verdone di Un sacco bello che chiama freneticamente i quattro-cinque nomi che ha in agenda, compresi l’elettrauto, la sarta, i centralini delle Ffss e dello stadio (registrato sia con la O di “Olimpico Stadio” sia con la S di “Stadio Olimpico”): regolarmente sfanculato.

Ieri il Cazzaro Verde ha trovato ospitalità sul Giornale e, intervistato nientemeno che da Sallusti, ha lanciato il suo farmaco anti-Covid: “pace fiscale e pace edilizia”, cioè condono tombale, “reset totale”. E poi, a fine crisi, un bel governo con lui, i malcapitati “Draghi, Tremonti, Sapelli” e altre “persone intelligenti” scelte da lui, noto talent scout. Per ora, trovandosi in tasca “200 miliardi” e non sapendo che farsene, vorrebbe tanto offrirli al governo Conte, perché “il mio riferimento oggi è Conte, voglio lavorare con lui”. Ma purtroppo “non mi sembra interessato al nostro contributo”. Chissà mai perché.
L’Innominabile, frattanto, appare più in affanno. Domenica, per miracolo, aveva trovato udienza su Avvenire. Poi ci è cascato il Corriere con la solita Meli, ma lì giocava in casa. Ieri s’è dovuto accontentare del rag. Cerasa sul Foglio. Che, com’è noto, non butta via niente, nemmeno la gag di terza o quarta mano del “Riaprire l’Italia prima di Pasqua”. Meno frusta la seconda trovata che eguaglia per cialtroneria la Costituente di Sala: una “commissione d’inchiesta per capire cosa è andato storto tra gennaio e febbraio. Cosa non ha funzionato, chi ha fallito”. Già, perché lui a gennaio, cioè un mese prima del Paziente 1 di Codogno, aveva già capito tutto sul coronavirus (anche se, schivo com’è, se lo teneva per sé): e con lui i famosi “esperti” che “ci dicevano che il virus sarebbe arrivato presto da noi”. Tipo l’amico Burioni, che il 2 e l’11 febbraio dichiarava: “In Italia il rischio è zero. Il virus non circola”, “Dobbiamo avere paura del coronavirus così come abbiamo paura dei fulmini”. Quindi vuole una commissione d’inchiesta per impiccare Burioni (dopo quella sulle banche che incenerì la Boschi). Il tutto perché, assicura, “le polemiche vanno messe in quarantena”. Ma c’è pure una battuta inedita, da scompisciarsi: “L’Europa sta facendo tutto il possibile per aiutarci” (ad affondare). Già sentita invece quella di “rimettere in sesto e in sicurezza tutte le scuole d’Italia”: ma non l’aveva già detto e soprattutto fatto lui nei famosi “cento giorni” del suo prodigioso governo? L’ideona del giorno però è un’altra: “Chiedo a Gualtieri un miliardo per rifare le strade”, che oggi come oggi è proprio quel che ci vuole, e comunque ci pensa lui con la betoniera di babbo e mamma. Casomai Gualtieri avesse il braccino corto, il cantoniere di Rignano può sempre farsi dare il miliardo da Urbano Cairo o da Salvini, che sono di manica più larga: infatti sparano botte di 2-300 miliardi al giorno (devono aver messo su una stamperia clandestina come Totò e Peppino). Alla fine il Rignanese oppone al coronavirus l’arma segreta: clownterapia. Una freddura via l’altra, a raffica. “Non cerco visibilità” (se no non parlerebbe a un giornale clandestino). “Non mi interessano i sondaggi” (adesso che è sotto a +Europa). “Non mi interessa il consenso” (bella forza: non ce l’ha). “Le mie idee sono open source, aperte a tutti, fate finta che non siano di Renzi” (come se fosse facile trovare un altro che spara simili cazzate). “Sia chiaro che un competente non vale come un incompetente” (quindi, per fortuna, lui è spacciato).

Patrimonio, “i prigionieri di Zanda” poi evadono

Tempo di quarantena, di vecchi film e gustosi remake. Così, il celebre Prigioniero di Zenda diventa il Prigioniero di Zanda. Trama: a esser preso in ostaggio dal senatore Luigi Zanda, indimenticato portavoce di Cossiga e oggi tesoriere del Pd, è il patrimonio culturale della nazione, conferito a un fondo e usato come garanzia dei prestiti internazionali per la ricostruzione dell’economia italiana. E se non paghiamo? “È un’ipotesi a cui non voglio nemmeno pensare”, dice il lungimirante Zanda. Premesso che ci vogliono “idee nuove e molto coraggio”, il senatore ha il coraggio di ripresentare un’idea del 2002 di Tremonti (che l’ha appena rivendicata sul Corriere), ripresa ed estremizzata nel 2014 da Marchino Carrai.

Zanda calza l’elmetto (eredità del padre: capo della polizia): “Siamo in guerra”. Metafora demenziale che autorizza le più solenni boiate. Come quella del sindaco Sala, che invece di tacere pensando agli aperitivi sui Navigli, annuncia che nel “dopo guerra” Mattarella dovrà convocare una Costituente per riscrivere la Carta.

Se una cosa questo dramma la insegna, è che la Costituzione va attuata. Per il diritto alla salute individuale e collettiva, per la tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale. È lo Stato che bisogna ricostruire: impegnare i gioielli di famiglia, invece, è un atto di disperazione a cui segue il suicidio. Per fortuna siamo al cinema: alla fine, il prigioniero di Zanda evade.

“Noi dimenticati: le cause della Caporetto”

“La Regione Lombardia ha una visione ospedalocentrica del sistema sanitario. Ma avere ospedali bellissimi non serve a niente se poi si svuota il territorio”. Paola Pedrini, medico di Bergamo, è la segretaria lombarda della Fimmg, Federazione italiana dei medici di famiglia. È anche la prima firmataria della lettera con la quale, a nome dei colleghi della regione, ha parlato di “Caporetto della sanità pubblica”, denunciando come i dati che vengono diffusi sui contagi siano “lontanissimi dalla realtà: vengono interpretati in modo strumentale”.

Dottoressa Pedrini, può spiegare meglio cosa intende dire quando parla di visione centrata sugli ospedali?

La sanità lombarda punta tutto sulle eccellenze ospedaliere e ha uno scarso interesse per il territorio, che è invece il primo filtro per i cittadini: per la prevenzione, per la diagnosi, per la cura. Un ospedale non è sufficiente se non c’è un territorio forte. E invece questa idea, che tutto deve ruotare intorno agli ospedali, si trascina da tempo. È una scelta politica.

Dettata da quali valutazioni?

Questo bisognerebbe chiederlo alla Regione. Anche se non posso fare a meno di rilevare che se un ospedale può essere concepito come una azienda e come tale gestito, la rete dei medici di famiglia forse è meno gestibile in questa chiave. Quanto all’investimento sulla sanità privata, ben venga se supporta quella pubblica. Ma non so se i soldi sottratti al territorio siano stati dati ai privati.

Dopo la vostra lettera-denuncia ha parlato con l’assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera?

Sì. Non ci ha dato risposte concrete.

Parliamo dei numeri su contagi e ricoveri…

I numeri ufficiali sono quelli riferiti ai tamponi che vengono eseguiti negli ospedali. Tutti gli altri pazienti che sono a casa, anche con la polmonite, non vengono sottoposti al test. A Bergamo ci sono 600 medici di famiglia, ognuno ha dai cento ai duecento pazienti sospetti Covid. La Regione ci dice che con i tamponi ha raggiunto la capacità massima. Ma senza diagnosi certa noi abbiamo estreme difficoltà sia a prescrivere la terapia sia a decidere sulla quarantena. Mentre in ospedale una diagnosi, per verificare se c’è polmonite, la si può fare anche con una Tac.

Quindi i contagi sarebbero molti di più?

Nella sola Bergamo stimiamo che siano dai 70 mila ai 100 mila. I ricoveri si sono ridotti solo perché gli ospedali sono già pieni. Capisco che si voglia tranquillizzare i cittadini, ma manipolando i dati li si prende in giro. Numerosi pazienti sospetti Covid-19 non vengono ricoverati perché gli ospedali sono pieni: restano in isolamento in casa rischiando di contagiare mogli, figli e nonni e così rischiamo una seconda ondata di contagi… Mi auguro che le altre Regioni non facciano i nostri stessi errori.

Ce ne sono altri?

Da subito dovevano esserci le strategie di contenimento. E doveva essere ampliato il sistema dei tamponi, per mettere in quarantena le persone positive e quelle con cui avevano avuto contatti.

A Torino contagi nelle case di cura: “Siamo positivi in 8”

Anche in Piemonte, come già accade in Lombardia, in seguito alla delibera della Regione che, come raccontato dal Fatto giorni fa, reindirizza verso residenze sanitarie assistenziali i pazienti Covid dimessi dagli ospedali, le strutture per anziani potrebbero diventare pericolosi focolai di contagio, soprattutto a causa della scarsa protezione fino a oggi garantita agli operatori sanitari. E dopo le inchieste aperte a Milano (sarebbero una decina), arrivano i primi casi dalla provincia di Torino, ormai stabilmente la quarta in Italia dopo Bergamo, Milano e Brescia per numero di contagi. I Nas hanno avviato un’attività d’indagine nelle case di riposo di tutta la provincia di Torino per accertare il numero di morti e di positivi e per capire se medici e infermieri siano stati forniti delle misure di protezione necessarie.

Nel centro “Santa Maria dei Colli” della Fondazione Don Carlo Gnocchi in collina a Torino, c’è già stato un sopralluogo dei Nas: “Mi sono preso il coronavirus lavorando – è quanto racconta, con la voce strozzata dalla tosse, uno degli operatori sanitari –. Siamo in 16, la metà di noi ha il virus”. Nella struttura, a essere colpiti ci sarebbero attualmente anche dei pazienti. La direzione sostiene che ve ne sia uno solo, “in isolamento”.

“Ci dicevano di non usare le mascherine”, afferma l’infermiere mentre mostra la email della direzione sanitaria in cui si raccomandava di lavare ripetutamente le mani e scriveva: “Le mascherine non servono a nulla”. Era il 25 febbraio, l’emergenza coronavirus era iniziata e il governo aveva già emanato un decreto che imponeva le prime misure di contenimento anche in Piemonte.

L’infermiere ricorda: “Ci dicevano di toglierle perché avremmo spaventato i degenti. E mentre noi eravamo indifesi, loro continuavano ad accettare ricoveri di pazienti sospetti anche dagli ospedali. ‘Non preoccupatevi, non hanno il virus’, ripetevano”. Ma il fortissimo sospetto che un anziano paziente arrivato al Santa Maria ai Colli a metà marzo da un noto ospedale cittadino il coronavirus lo avesse, c’è eccome: “Tossiva forte, il 118 l’ha portato con la mascherina – racconta l’operatore – Noi non siamo stati protetti. Chi lavorava nel suo reparto, il B, si spostava nell’altro reparto A. Così il contagio si è diffuso. L’anziano si è poi aggravato e lo hanno portato alle Molinette”.

Il 19 marzo si è ammalata un’operatrice. Aveva avuto contatti con lui. “Le hanno detto di stare a casa, ma per il tampone è dovuta tornare qui – dicono i colleghi – È risultata positiva”. Nelle ore successive è toccato agli altri.

La fondazione Don Gnocchi di Torino respinge ogni accusa: “Già dal 26 febbraio – dichiara – sono state applicate le raccomandazioni di Oms e Iss sull’utilizzo precauzionale dei dispositivi di protezione personale. Da quel giorno sono iniziate continue sessioni di formazione del personale sul corretto utilizzo dei dispositivi e sui metodi corretti di vestizione. L’istituto non è destinazione di trasferimenti di pazienti positivi e ha sospeso i ricoveri, gli ultimi sono avvenuti la settimana scorsa a fronte di tamponi negativi”.

L’avvocato Romolo Reboa, che assiste 18 lavoratori di una coop che lavora per la Don Gnocchi di Milano e che ha denunciato la struttura per motivi analoghi, fa notare che i provvedimenti a tutela dei lavoratori sarebbero dovuti essere attuati prima. “Il 12 febbraio – afferma il legale – il ministero della salute ha imposto l’uso dei dispositivi di protezione nelle strutture sanitarie. L’azienda ha diffuso un documento ancora il 7 marzo dove c’è scritto di usare la mascherina solo se si sospetta di essere ammalati o se si assistono persone malate. Come se i malati potessero venire a lavorare”.

C’è anche un volantino, che alcuni infermieri contagiati hanno fornito al legale, in cui compaiono istruzioni sull’uso delle mascherine. L’ultimo passaggio raccomanda: “Al termine del turno, riponila nel sacchettino e conservala con cura”.