La Lombardia fa tutto da sé. L’ospedale in Fiera è realtà

In piazza Gino Vella c’è il palazzo un po’ bruttino di Casa Milan, davanti una cancellata aggredita dai rampicanti, dietro l’ultimo lembo della Fiera di Milano, poi lo stradone della tangenziale che porta ai laghi. Oltre quelle vecchie inferriate, fino a pochi giorni fa, c’era uno spazio vuoto e anche malmesso in attesa dell’ennesima esposizione. Ora no, ora si notano distintamente tre silos bianchi della Sapio Group, da qui partono decine di condotte. È la centrale dell’ossigeno, una delle più grandi d’Italia, allestita in pochi giorni per dare aria alle terapie intensive del nuovo ospedale Covid della Fiera di Milano. Che corre a velocità impensabile e che, otto giorni dopo la definizione del progetto finale, è pronto a partire. Meglio di Wuhan.

Un vero miracolo, un simbolo dello spirito milanese, di chi ci ha messo testa e cuore, degli ingegneri e degli operai che sono italiani, ma anche rumeni, marocchini e di cento altre nazioni. Perché se la Regione Lombardia, come spiegato dal Fatto, ha sottovalutato in parte il rischio, commettendo errori decisivi, dall’altro, scoppiata l’emergenza, ha tirato fuori molto di buono. Enrico Pazzali, presidente di Fondazione Fiera, ha abbandonato uffici e poltrone, sta più in cantiere che a casa, dorme tre ore a notte, casco e giacca arancione. Moltissimo del merito e dello spirito è suo.

Qui poi tutto è lombardo. Spiace dirlo ma è così. Un dato che a crisi archiviata sarà certo tema del dibattito politico. “In Fiera – ci spiega un ingegnere – i pochi ventilatori che dovevano arrivare con il bando Consip non sono arrivati. Il denaro, circa 15 milioni di euro, per mettere in piedi un vero ospedale, sono di Fondazione Fiera non del governo centrale”. Molti professionisti poi arrivano da Infrastrutture lombarde. Il materiale per allestire i letti di intensiva è stato recuperato dalla Regione in giro per il mondo. L’intero pacchetto è pagato da Fondazione Fiera. Tutto è stato costruito in house e in questo modo, visto che Fondazione è società di diritto privato, si sono evitati i lacci della burocrazia pubblica. Nelle prossime ore, dopo l’inaugurazione di oggi, la struttura passerà, sotto forma di donazione, al Policlinico di Milano che dovrà iniziare un’opera di sanificazione con la prospettiva di portare i primi pazienti già nel fine settimana. “Abbiamo costruito una bellissima ruota di scorta”, spiega il direttore di rianimazione del Policlinico Antonio Pesenti. Una ruota che difficilmente non sarà usata, anche perché i ricoveri in terapia intensiva ogni giorno sono tra i 95 e i 125. Recuperare ogni volta posti non è facile. Certo, a quattro settimane dal contagio le persone iniziano a guarire e vengono dimesse, altre invece muoiono.

Il cuore della struttura, al momento, è al padiglione due. Poche rampe e l’ambulanza potrà arrivare nella cosiddetta tenda calda. Dieci giorni fa, qui c’era solo un modulo appena allestito. Si pensava di andare avanti così, poi molto è stato ripensato, anche in seguito all’arrivo di Guido Bertolaso. Ed eccoci allora tra operai e tecnici, acqua e mascherine, occhi stanchi, poche urla e solo il rumore degli attrezzi. Oltre 200 operai per ogni turno hanno lavorato e lavorano 24 ore su 24. Si cammina dentro a un vero ospedale. Non vi è la minima percezione che questa sia una struttura da campo. La prima camera che si incontra è quella del laboratorio di analisi. In totale sono tre. Poco oltre ecco la stanza per le radiografie. È tutto pronto, manca solo il macchinario. Chi è invece già arrivata e sta in mezzo a un’altra camera avvolta nel cellophane è la macchina per la Tac. Ci sarà anche una piccola sala operatoria. Si prosegue oltre, tra pareti bianche montate su strutture portanti, autentica opera di carpenteria, nulla qui è prefabbricato. Sulla destra, lungo il corridoio, si aprono le stanze per i pazienti. Sette letti per camera, moltiplicato per otto moduli. Si inizia così e si arriverà a oltre 200. Le camere sono ampie, sotto a ogni numero colorato in verde ci sono gli attacchi per l’ossigeno. Sono già pronti, mancano solo i macchinari custoditi gelosamente in un magazzino interno alla Fiera.

L’ambiente è strutturato in due corridoio paralleli. Il primo introduce ai letti di terapia intensiva. Qui ogni ingresso è dotato di un’area di compensazione dove i medici si svestiranno e potranno poi accedere al secondo corridoio dove sono state costruite altre stanze per riposare e analizzare i dati. A fianco si apre una sala che verrà utilizzata per la formazione di medici e infermieri. Le stanze per i pazienti ora sono quattro, diventeranno otto e si proseguirà fino a completare il padiglione due. Il padiglione uno è già stato pavimentato. Insomma, la grande diga per respingere la piena del virus è stata eretta.

Gli aiuti a chi ha fame, così si muovono le città

Contro il rischio della fame e della nuova povertà arrivano i buoni spesa. Oggi il ministro dell’Interno attiverà il Fondo da 400 milioni finalizzato all’acquisto di pasta, riso, latte, farina e olio di oliva, cioè i generi alimentari di prima necessità. Si va dai 15 milioni assegnati al Comune di Roma ai 7,2 che arriveranno a Milano, mentre Genova avrà 3 milioni, Firenze 2, Napoli 7,6, Palermo 5,1 milioni, Bari 1,9. Le amministrazioni, che non avranno l’obbligo di rendicontazione hanno già messo in moto la macchina degli aiuti: possono autonomamente decidere come distribuirli alle famiglie. Così ai romani andranno tra i 300 e i 500 euro a famiglia, ai genovesi 100 euro e 300 euro ai livornesi. Un’operazione che l’Ance, l’associazione dei Comuni, giudica “complessa”, basata su due fattori: la mappatura degli esercizi commerciali che aderiranno all’iniziativa; l’individuazione dei beneficiari. Si potrebbero, infatti, autorizzare anche delle autocertificazioni per includere chi, percependo già il Reddito di cittadinanza, comunque non riesce a fare la spesa. Sono tanti i sindaci che denunciano l’esiguità delle risorse, anche se dal governo spiegano che la misura serve a coprire le necessità per le prossime due settimane ed è destinata a chi proprio non riesce a comprare da mangiare. E resta l’allarme sul pericolo di una tenuta sociale.

Palermo. “Un piccolo tampone davanti a una grande ferita”, così il sindaco di Palermo Leoluca Orlando commenta la misura per l’emergenza alimentare. Al capoluogo siciliano andranno 5 milioni di euro. Poi ci saranno altri aiuti annunciati dalla Regione. Prima della pandemia le famiglie assistite in città erano circa 600 e adesso aumenteranno in modo notevole, anche perché a Palermo sono evidenti i sintomi di una forte tensione, tra supermercati militarizzati e assalti agli scaffali. “Abbiamo attivato un sistema di registrazione online – continua Orlando – che ha toccato quota 11.000 iscritti”. A chi andranno i soldi? “A coloro i quali nel giro di poco tempo hanno perso qualsiasi fonte di sostentamento. Certamente non ci sarà spazio per gli sciacalli e per i professionisti del disagio”.

Napoli. Arriveranno 7,5 milioni, ma il Comune sta lavorando per rimpinguare con soldi del proprio bilancio e con donazioni. Il vero nodo è individuare chi aiutare. Avrà priorità chi non riceve già sussidi pubblici, con il Reddito di cittadinanza che va al 12% della popolazione. “Siamo di fronte a una povertà da Coronavirus – spiega l’assessore alle politiche sociali Monica Buonanno – cui appartiene gente che finora bene o male campava, per esempio le coppie con il marito cameriere e la moglie donna di servizio”. Anche chi finora è stato costretto a lavorare irregolarmente: “Non è una bella cosa il lavoro nero – ha concluso Buonanno – ma c’è e va affrontato”.

Catania. A spartirsi 2,6 milioni di euro saranno tra 6 e 7 mila catanesi. Per questo il Comune, già gravato da un dissesto di 1 miliardo e 400 milioni di euro, ha lanciato una campagna di crowdfunding. “In città abbiamo 12mila percettori del Reddito di cittadinanza – spiega l’assessore ai Servizi sociali Giuseppe Lombardo – questi verranno esclusi dalla misura nazionale ma si sta cercando di allargare gli aiuti”. Dopo la pubblicazione di un avviso online il Comune potrebbe dare dei buoni spesa cartacei. “Forse tramite le municipalità e con i vigili urbani a presidiare la consegna”.

Reggio Calabria. “Non ci sono stati episodi come quelli di Palermo e speriamo di non vederne. Ma il sistema sicuramente inizia a scricchiolare”. Per questo motivo, il sindaco Giuseppe Falcomatà è già al lavoro per capire come gestire 1 milione e 376mila euro che gli arriveranno. “Stiamo vericando la platea in queste ore. La base – spiega il sindaco – è composta da 14 mila persone che già hanno accesso ai sussidi dei servizi sociali o al banco alimentare. A loro vanno aggiunti quelli che, oggi, versano in condizioni di indigenza. A mio avviso potremmo arrivare a 20mila persone che hanno diritto ai buoni spesa. È un palliativo che ci consentirà di andare avanti non più 20 giorni”.

Il Grillo sociale che piace a sinistra e (forse) al Papa

La proposta del reddito universale rilanciata ieri da Beppe Grillo, anche se non inedita, dimostra in questi giorni la sua efficacia politica. E volendo richiamarsi all’umanesimo sociale di cui va orgoglioso il presidente del Consiglio, sembra fare il paio con il messaggio che proviene dal Vaticano, non ultimo quello di ieri al termine dell’incontro tra Papa Francesco e Giuseppe Conte. “È arrivato il momento di mettere l’uomo al centro e non più il mercato del lavoro”, dice Grillo. Mentre il Papa esprime “la preoccupazione per la gente più fragile, per le famiglie che già erano in difficoltà e che, a causa della pandemia, potrebbero subire un tracollo economico e sociale senza ritorno”.

Questo grumo di cultura sociale esiste ancora e non è stato divelto da anni e anni di liberismo. Resta da vedere però come possa tradursi in misure concrete la cui definizione è invece nelle mani di un’altra cultura, molto più forte, basata sui parametri economici e sulle rigidità finanziarie. Si faranno gli eurobond o si tornerà a utilizzare il Mes? E con quali strumenti?

A sentire il commissario italiano, Paolo Gentiloni, le cose non si mettono bene e anche in un incontro riservato con la delegazione italiana dei Socialisti e democratici, l’ex premier sembra aver annunciato risultati non esaltanti nella mediazione europea che è in cottura.

Il commissario italiano ha detto ieri che il Mes “non è la Spectre”, distanziandosi dall’approccio combattivo che Conte ha assunto al Consiglio europeo, ma ammettendo di non essere ottimista all’idea che si potrà attingere a queste risorse senza condizioni. La sua idea è quella di ridurre le pretese, non pensare allo strumento ottimale, ma di puntare invece agli obiettivi: coprire i costi dell’emergenza sanitaria, un piano di rilancio per le imprese e uno strumento anti-disoccupazione. Dopo si può pensare a come finanziarlo.

Solo che sul cosa fare al momento non c’è chiarezza. La linea di demarcazione resta sempre quella tra chi pensa che occorra semplicemente dare fiato, quindi liquidità, alle imprese e chi, invece, pensa che occorra dare soldi alle famiglie per alimentare con un reddito straordinario la domanda.

La proposta del reddito universale si colloca in questo campo. “Sono sicuro che la maggior parte degli economisti concorderà sul fatto che l’economia ha bisogno di iniezioni di denaro proprio ora”, dice Grillo. E l’auspicio appare molto ottimistico, nonostante siano state rispolverate le vecchie teorie sull’helicopter money, quindi su soldi “lanciati” direttamente nelle tasche dei cittadini. Il fondatore del M5S cita anche le proposte nel resto del mondo come il Green New Deal di Alexandria Ocasio-Ortez, icona socialista della sinistra Usa e la proposta del reddito di base che muove dalla Gran Bretagna ma ormai abbraccia tutto il mondo. E propone anche una “tassazione delle grandi fortune” per colossi digitali e tecnologici come Mark Zuckerberg, Bill Gates ed Elon Musk. Oppure le cosiddette “ecotasse”, come avviene in Alaska dal 1982 con l’Alaska Permanent Fund.

Ma a Grillo risponde con veemenza il centrodestra tutto e anche Matteo Renzi che dice di pensarla “esattamente all’opposto”. Non parla al momento chi ha in mano i cordoni della borsa mentre la proposta dialoga con la sinistra, anche con quella parte che esiste nel Pd. Il ministro del Sud, Peppe Provenzano, si dice infatti favorevole all’estensione del Reddito di cittadinanza in favore di un “reddito di emergenza”. E senza dover arrivare a forze ancora più radicali, come Rifondazione comunista che con il suo segretario Maurizio Acerbo reputa “uno sbaglio non estendere il reddito di cittadinanza”, altri nella sinistra Pd e fuori dal Pd provano a proporre altre soluzioni.

Massimiliano Smeriglio, eurodeputato indipendente nelle liste Pd, nell’accogliere pienamente la proposta di Grillo, spiega che “nel sistema nazionale di monitoraggio dei fondi strutturali, risultano disponibili 37 miliardi”. Anche ipotizzando stime più prudenziali ce ne sarebbe abbastanza per trovare risorse. Che si possono utilizzare per intervenire sulle fasce più fragili e povere. Le proposte insomma ci sono, bisogna trovare i soldi. Ma questa è un’altra storia.

Tre miliardi in soccorso degli “invisibili”: cos’è il Reddito di Emergenza

Il quadro è questo. Il governo studia un modo per soccorrere una vasta platea di persone al momento non ricomprese nelle misure economiche previste dal decreto di marzo per fronteggiare il disastro economico innescato dalla pandemia. Sarà uno strumento nuovo e temporaneo, nella sostanza si tradurrà in un Reddito di cittadinanza “in deroga”. L’ipotesi è di stanziare almeno 3 miliardi per una platea potenziale (per ora) di circa 3 milioni di persone. Non avrà requisiti stringenti e, paradossalmente, somiglierà molto più all’idea originaria dei 5Stelle rispetto al Rdc in vigore. Certo, non quanto vorrebbe il fondatore del M5S: “È arrivato il momento di garantire a tutti i cittadini lo stesso livello di partenza: un reddito di base universale, per diritto di nascita, destinato a tutti, dai più poveri ai più ricchi”, ha scritto sul suo blog Beppe Grillo.

Il reddito universale. Tecnicamente il vero “reddito di cittadinanza” è nato per essere un reddito universale, senza requisiti né paletti. È un’idea con antiche radici, da John Stuart Mill a Bertrand Russell. Dagli Anni 80 il contributo maggiore lo ha dato l’economista e filosofo Philippe van Parijs, 66 anni, professore emerito all’Università di Lovanio. La sua idea è di un contributo mensile dato a tutti, anche ai ricchi, senza condizioni, neppure l’impegno a cercare un lavoro. Ha costi enormi e finora è stato testato in piccoli esperimenti sociali nei Paesi nordici. La devastazione economica innescata dal Covid-19 lo rende oggi politicamente meno insostenibile. Ora però l’emergenza è un’altra: alcuni settori non si riprenderanno, non subito, e bisogna garantire la sussistenza a una vasta platea di persone.

Il reddito com’è. La misura dei 5Stelle, partita ad aprile 2019, è molto lontana dal sostegno universale e incondizionato. È, appunto, un reddito minimo condizionato con severi paletti patrimoniali (mobiliari e immobiliari) e reddituali, oltre ad altri requisiti (l’obbligo di spendere quasi tutte le somme ricevute in un mese, sanzioni durissime per chi non rispetta gli impegni, eccetera). Il decreto di marzo ha sospeso alcuni obblighi, a partire da quello di dover cercare attivamente un lavoro. Ma i requisiti restano.

Le misure di marzo. Nel decreto di marzo il governo ha esteso gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione ordinaria e in deroga) a tutti, anche alle micro imprese, per 9 settimane. Partiranno, si spera, dal 15 aprile, vi rientrano 14 milioni di dipendenti privati (costo: 13 miliardi). Per autonomi, partite Iva, co.co.co. e professionisti iscritti alle gestioni separate è stata invece prevista un’indennità una tantum per marzo da 600 euro (che sarà prorogata ad aprile, probabilmente aumentata a 800 euro), estesa anche ai lavoratori saltuari del turismo, dell’agricoltura e dello spettacolo (in totale 4 milioni di persone per un costo di 2,4 miliardi). È stato poi istituito il “reddito di ultima istanza”, che per ora stanzia 300 milioni per i professionisti iscritti alle casse di previdenza.

Il reddito di emergenza. Ieri il Forum Disuguaglianze, una rete di associazioni animata tra gli altri dall’ex ministro Fabrizio Barca ha lanciato la sua proposta: 1) creare il Sea, il Sostegno di emergenza per il lavoro autonomo, estendendo i 600 euro di indennità riservata agli autonomi dal decreto legando l’importo alle condizioni economiche e alla perdita di guadagno dei lavoratori; 2) dare vita al “Reddito di emergenza”, una misura temporanea di sostegno che parta da quello di Cittadinanza eliminando gli obblighi previsti finora.

L’idea del governo. Quella scelta dal governo è una via di mezzo. Il Reddito di cittadinanza è considerata una macchina troppo complesso da modificare, buona per i tempi “di pace”, non per un’emergenza. Servirebbe troppo tempo. Per andare ancora più veloci il Reddito di emergenza partirà da quello di “ultima istanza” previsto dall’articolo 44 del decreto per estenderlo alle categorie che oggi non sono coperte da nessuna delle misure esistenti. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, il decreto di marzo lascia fuori da qualsiasi misura 800 mila lavoratori domestici (colf e badanti) e 1,1 milioni di lavoratori “saltuari”, di cui solo una piccola parte (15%) può forse usufruire di qualche trattamento di disoccupazione. L’idea è eliminare o ridurre al minimo i requisiti patrimoniali, sia immobiliari (seconda o terza casa) che mobiliari (aumentano i 6mila euro sul conto corrente oggi previsti come limite massimo) e quelli reddituali. Solo in questo modo si andrebbero a coprire anche i lavoratori in nero: al netto di quelli già intercettati dal Rdc, si ipotizza almeno un altro milione di persone. Per essere rapidi ci si affiderà a un’auto-dichiarazione del beneficiario. La cifra è da valutare. Si pensa di partire dai 600 euro (oggi l’importo medio del Reddito di cittadinanza mensile è di 520 euro, il massimo percepibile è 780).

Marchette da virus: consulenti veneti in Umbria, in Abruzzo soldi agli amici

“Abbiamo bisogno disperato e urgentissimo” è stato l’allarme della governatrice leghista dell’Umbria, Donatella Tesei, in conferenza con il commissario Domenico Arcuri. La presidente della Regione si riferiva ai posti di terapia intensiva e alle attrezzature che mancano e che dovrebbero arrivare da Roma: caschi, mascherine, camici e ventilatori. Eppure, mentre Tesei attaccava il governo, la giunta regionale nominava cinque consulenti esterni da affiancare all’assessore alla Sanità, il veneto Luca Coletto, imposto da Matteo Salvini dopo la vittoria elettorale.

Tra loro ci sono l’avvocato Michele Romano, chiamato già nel 2011 da Luca Zaia a “sistemare i conti della Sanità veneta” (così si legge nel curriculum), e i quattro medici veneti in pensione Pietro Paolo Faronato, Claudio Saccavini, Giovanni Cipollotti e Michele Michelutti. Dalla Regione fanno sapere che si tratta di incarichi a titolo gratuito, ma nella delibera viene specificato che sarà riconosciuto “il rimborso delle spese documentate di viaggio, vitto e alloggio, connesse a spostamenti funzionali allo svolgimento delle attività” che andrà a gravare sul bilancio regionale. Nomine che non sono piaciute all’opposizione: “Se i consulenti di Coletto stanno qui un mese, dovremmo pagare loro un lauto rimborso spese – dice al Fatto il capogruppo Pd, Tommaso Bori –, l’Università di Perugia ha 700 anni di storia e il nostro sistema sanitario è di altissimo livello: non sarebbe stato meglio nominare qualcuno delle nostre parti?”.

L’operato di Coletto è finito nel mirino delle opposizioni per l’intera gestione dell’emergenza: l’osservatorio epidemiologico è stato attivato solo mercoledì a tre mesi dall’insediamento e non sono ancora attive le unità di cura domiciliare che dovrebbero fornire assistenza ai mille umbri positivi in isolamento che non possono essere visitati da un medico. Nel frattempo i sindacati accusano la giunta di non aver fatto un accordo con la sanità privata lasciando in “panchina” i 400 operatori che adesso però rischiano la cassa integrazione.

Spese extra per l’emergenza sono state anche fatte in Abruzzo, dove governa un’altra giunta di centrodestra guidata Marco Marsilio (FdI). A metà marzo ha deciso di finanziare una campagna di comunicazione sulle norme anti-contagio. Peccato che la Asl di Teramo, gestita dalla Regione, abbia affidato la campagna alla Mirus, la società dell’imprenditore Michele Russo, già papabile candidato governatore di Fratelli d’Italia e responsabile della comunicazione elettorale di Marsilio. Costo della campagna: 39.500 euro, 500 euro in meno della soglia di 40mila euro che consente alla Regione di evitare la gara d’appalto. L’equivalente di 100.000 mascherine e dieci ventilatori. Russo dopo la vittoria elettorale aveva anche vinto un bando da 198 mila euro per la comunicazione di Tua, la società del Trasporto Abruzzese. L’iniziativa non è piaciuta nemmeno alla Lega che ha preso le distanze da Marsilio: “In un momento delicato e tragico, chiedo in nome della Lega di rescindere il contratto e di impegnare i fondi per l’acquisto di beni e strumenti necessari al mondo della sanità”, ha detto il coordinatore regionale del Carroccio, Luigi D’Eramo.

“Ragioniamo su come riaprire. Prestiti da restituire in 30 anni”

L’emergenza ha il suono delle telefonate: “Imprenditori e industriali mi chiedono innanzitutto una cosa, la possibilità di ricominciare. Sono convinti di poter recuperare, come ne sono convinto io: prevale il senso di responsabilità di tutti di fronte a questa crisi”. Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli risponde dal Mise, la sua trincea.

Il presidente della Federacciai ha chiesto di valutare un “leggero” riavvio degli impianti, “perché in Francia, Germania e Spagna si continua a produrre”.

Il governo ha adottato determinate misure in base al principio di precauzione, perché il primo bene da tutelare è la vita umana. Germania e Spagna ci stanno imitando, chiudendo la maggior parte delle attività, e presto lo farà anche la Francia. Noi ci consultiamo quotidianamente con il Comitato scientifico e con l’Istituto superiore di sanità e la conclusione è che è troppo presto per riaprire.

Ma industrie e imprese rischiano il collasso.

Abbiamo lasciato aperte tutte le filiere essenziali per questa fase. Ma è giusto cominciare a ragionare su come riaprire. Non avverrà oggi, ma non è una cosa così lontana.

Ecco, come?

È evidente che la riapertura dovrà essere graduale. E per capire come farlo dovremo basarci sul protocollo firmato il 14 marzo dal governo con sindacati e imprese, un ottimo accordo che permette di lavorare in sicurezza nelle aziende rimaste aperte. Alcune filiere hanno parte dei settori chiusi, ma tra un po’ dovremo riaprirli gradualmente perché ciò che oggi non è essenziale presto lo sarà.

Quando? Speranza ha detto che la serrata andrà avanti almeno fino a Pasqua.

È presto per dare date. Le misure cominciano a funzionare, ma bisogna attendere l’evoluzione dei contagi.

Al Fatto risulta che in complessi industriali a Brescia e Bergamo siano rimasti aperti anche i settori che andavano chiusi secondo il decreto. Interi impianti sono operativi, incuranti della norma.

A me sono arrivati segnali su una generale applicazione della normativa. Dopodiché, le autorizzazione a eventuali deroghe e i controlli spettano ai prefetti e all’Inps. Singoli casi possono avvenire, ma imprenditori e lavoratori stanno dimostrando grande responsabilità. Di certo i protocolli vanno rispettati.

Matteo Renzi vorrebbe riaprire subito. Ed è contrarissimo ad allargare il Reddito di cittadinanza.

La stragrande maggioranza del mondo scientifico ha dato un’indicazione chiara: ora sarebbe troppo presto. Quanto al reddito, è fondamentale avere delle norme di salvaguardia dei più deboli in un momento come questo.

Avete stanziato 400 milioni per i Comuni, ma diversi sindaci li hanno bollati come “briciole”. Magari bisognava fare di più, no?

Non penso che si possa continuare a ragionare sulle singole misure. Abbiamo stanziato questi 400 milioni perché erano gli unici soldi che potevamo destinare subito ai Comuni senza fare ricorso a una norma di rango primario. Nel decreto di aprile ci saranno altri fondi, ma queste risorse sono già uno sforzo importante. Per capirci, non sono 7 euro a testa come dice qualcuno: in certi Comuni si arriverà a 200 euro pro capite.

Voi 5Stelle, assieme a Iv, chiedevate più soldi per partite Iva e piccole imprese già nel primo dl. Rimedierete?

Abbiamo già stanziato risorse importanti nel primo decreto, ma non sono sufficienti. Dobbiamo garantire liquidità a tutte le imprese e far sì che i prestiti possano essere restituiti in 30 anni, senza interessi. Il fondo di garanzia va potenziato e per questo dobbiamo chiedere all’Unione europea che lo Stato possa garantire per il 100% i prestiti alle imprese. Non possiamo aspettare le procedure di valutazione delle banche. Infine, serve una rinegoziazione dei prestiti già erogati.

Le partecipate e gli asset strategici dello Stato sono sotto assedio dei fondi stranieri. Conferma?

Non servono prove, basta ragionare sul piano logico per capire che il rischio esiste.

Varerete il golden power di governo per blindarli?

Ci stiamo lavorando, noi e il ministero dell’Economia, con dei provvedimenti ad hoc.

Quando arriveranno?

In coincidenza con il decreto di aprile.

Il governo smetterà di litigare con le Regioni?

Nelle riunioni ho sempre visto massima collaborazione dai governatori. Poi nella dialettica mediatica, in certi programmi, si assiste a qualcosa di diverso.

L’ultimo ‘ricatto’ di Onorato: stop ai collegamenti con le varie isole

L’emergenza coronavirus potrebbe acuirsi nelle aree d’Italia i cui approvvigionamenti dipendono dai collegamenti marittimi: Sardegna in primis, ma anche Sicilia e Isole Tremiti. Cin Tirrenia ha infatti annunciato lo stop ai collegamenti di continuità territoriale, per cui riceve dallo Stato 72 milioni di euro annui, incolpando il sequestro conservativo dei conti correnti da parte dei commissari di Tirrenia in amministrazione straordinaria. Che lo reputano “un atto dovuto” dopo che la Commissione Ue, chiusa l’inchiesta sugli aiuti di Stato italiani in ambito marittimo, ha reso esigibile il pagamento di 115 dei 180 milioni di euro che Cin ancora deve all’Italia per la compagnia acquisita nel 2012. Un colpo potenzialmente esiziale per il gruppo armatoriale dopo la recente interruzione dei pagamenti a banche e obbligazionisti che nel 2016 ne rifinanziarono (560 milioni di euro) l’esposizione per la privatizzazione. Quanto alle 11 rotte bloccate, il problema maggiore è per le Tremiti, collegate in questa stagione solo da Cin. Sul fronte merci per Sardegna e Sicilia restano attive linee di altre compagnie: Grimaldi, Gnv e la stessa Moby, controllante di Cin (gruppo Onorato), mentre il traffico passeggeri per le restrizioni statali e regionali era stato interrotto, lasciando i pochi autorizzati a Tirrenia. Moby riaprirà la Civitavecchia-Olbia e il ministero dei Trasporti ha rassicurato: “Attraverso l’operatività di altri armatori non ci saranno problemi per le merci”. In casi estremi “si attuerà un piano straordinario per tutti i collegamenti”. Benché la mossa di Onorato suoni quindi ricattatoria e eventuali accordi con armatori terzi siano tutti da definire, Porta Pia non rilascia altri dettagli. Sul dossier Tirrenia, del resto, si naviga a vista non da oggi: basti pensare che, benché la convenzione scada a luglio, ancora non è stato preparato nemmeno il nuovo bando.

Il Nord non chiude: boom di deroghe per le imprese

L’antico adagio “fatta la legge, trovato l’inganno” non lo ammazza nessuno: neanche il coronavirus. E la legge, in questo caso, è il decreto del presidente del Consiglio dei ministri firmato il 22 marzo: quello che elenca le attività che possono continuare a produrre nonostante la chiusura imposta dall’epidemia. Ottantadue codici Ateco, secondo l’ultima lista modificata mercoledì scorso, che indicano quali comparti produttivi hanno il permesso di non fermarsi. Attività essenziali – l’agroalimentare, l’energia, il chimico, i trasporti – che devono andare necessariamente avanti. Ma a cui – tra una deroga e un cavillo – si aggiunge un’altra grossa fetta di imprese che chiudere non può, o non vuole: migliaia, soltanto nelle province di Bergamo e Brescia. Quelle che da sole, nonostante il dato cominci fortunatamente a essere in calo, contano quasi la metà dei Covid positivi in Lombardia.

Come quelli dei contagi, anche i numeri delle comunicazioni arrivate via Pec alle prefetture di Brescia e Bergano vanno ancora analizzati nel dettaglio. Ma la mole di mail ricevute è il segnale che l’instancabile voglia di lavorare che ha fatto grande la provincia lombarda non ha intenzione di farsi fermare da quel decreto firmato a Roma: il “Chiudi Italia” – almeno qui – esce piuttosto ammaccato.

Cominciamo da Bergamo, tristemente nota come la capitale del Covid-19. Fino a ieri, 1800 aziende hanno chiesto deroghe al decreto firmato da Giuseppe Conte. Significa che per loro, il blocco scattato il 25 marzo non è ancora operativo. Lavorano, nell’attesa che la Finanza e i carabinieri arrivino a notificare una eventuale sospensione. Hanno autocertificato che possono restare aperti perché svolgono attività riconducibili a filiere essenziali: “Funziona al contrario”, dice il segretario provinciale della Cgil Gianni Peracchi, costretto ad ammettere che “il polso della situazione non ce l’ha nessuno”. Verifiche, loro, non ne possono fare, nonostante l’accordo lo preveda: la prefettura, così come a Brescia, non gli ha ancora fornito l’elenco delle autocertificazioni arrivate. Nell’attesa, il sindacato ha segnalato già due violazioni. Una è una ditta che continuava a restare aperta nonostante producesse utensili in legno e pennelli, l’altro un produttore di carta che si era iscritto alla filiera alimentare, nonostante riguardasse una parte infinitesimale del suo mercato.

Il nodo vero è proprio qui: come si decide se una azienda che lavora anche per uno dei settori essenziali può tenere attivo l’intero ciclo produttivo? Un caso è quello di Camozzi Group, colosso bresciano della manifattura e dell’automazione con 18 siti produttivi e 2600 dipendenti. Tra le tante cose, fabbrica ed esporta componenti di respiratori polmonari, certo. Ma fonde alluminio e ghisa, si occupa di tessile, di carpenteria, di meccanica pesante. E, a oggi, sono tutti al lavoro. Tant’è che nell’home page del loro sito rassicurano i clienti: “Informiamo che la produzione delle aziende appartenenti al Gruppo Camozzi sta funzionando regolarmente e tutti i servizi e assistenza sono garantiti ai nostri clienti a livello internazionale”. Interpellata sul punto, la proprietà non ha voluto rilasciare ulteriori dichiarazioni. Ma la risposta, va detto, è nei fatti: in prefettura si limitano a verificare che una impresa abbia il codice Ateco autorizzato dal decreto. Che poi di codici, un’azienda, possa averne associati molti altri, non è un problema loro. “Ci sono aziende che hanno auto-dichiarato la ‘parzialità’ della produzione – spiega Francesco Bertoli, segretario provinciale della Cgil a Brescia – Certo è possibile che qualcuno faccia un passo in più”.

Lo spiega meglio, in una lettera pubblicata sui social, la moglie di un dipendente (tutti rigorosamente anonimi, che l’aria che tira non è buona) di una fabbrica di Lumezzane, il comune in provincia di Brescia che esporta rubinetti e posate in tutto il mondo. “Cari imprenditori lumezzanesi – la sintesi del messaggio – il governo decide la chiusura delle fabbriche non essenziali e voi che fate? Con la scusa che una piccolissima parte delle vostre aziende produce parti di apparecchiature medicali, continuate a produrre anche tutto ciò che realizzate abitualmente: vi chiedete cosa state chiedendo ai vostri lavoratori?”.

I numeri, a Brescia, sono più pesanti di quelli di Bergamo: le Pec arrivate in prefettura sono 2980. Ma è plausibile che al loro interno ci siano anche aziende che hanno inviato la comunicazione per scrupolo o per errore. Bertoli, per dire, è più stupito dal numero di imprese del settore della difesa e dell’aerospaziale che hanno chiesto l’autorizzazione a riaprire: 317 solo a Brescia.

Poi certo, la faccenda è controversa. E non è detto che chi resta aperto non abbia i dispositivi di sicurezza necessari. E, come spiega Dario, delegato della Cgil in un’azienda chimica del Bergamasco, “fermare tutto potrebbe significare la distruzione di un tessuto produttivo con ripercussioni molto forti in termini di condizioni di vita di tutti i lavoratori”.

Non sarà un bel domani, se già ora le richieste di cassa integrazione hanno subìto un boom appena è giunta notizia che sarà l’Inps a pagare direttamente le mensilità, senza bisogno che l’imprenditore le anticipi.

Test del sangue: dopo Regioni e Comuni c’è l’ok del Consiglio superiore di Sanità

Arrivano importanti aperture della comunità scientifica, a cominciare dal Consiglio Superiore della Sanità (Css), sull’utilità dei test del sangue per far ripartire il Paese. Ne abbiamo scritto sul Fatto del 26 marzo: sono economici, danno il risultato in pochi minuti, verificano la presenza e il tipo degli anticorpi nell’organismo, dai quali ottenere informazioni importantissime sul paziente. Ovvero: se ha avuto contatti o meno con il coronavirus, se li ha superati conquistando una sorta di immunità, se quindi può tornare a lavorare in condizioni di sicurezza per sé e per gli altri, senza rischiare di essere una fonte di contagio.

Diverse regioni avevano iniziato a farne incetta e ieri ne ha parlato il presidente del Css Franco Locatelli durante la conferenza stampa alla Protezione Civile. “Si è lavorato per la validazione dei test che possono portare all’identificazione del Rna virale e alla diagnosi, ma si è lavorato anche sui test sierologici che saranno importanti per definire la sieroprevalenza, cioè la percentuale di soggetti che presentano nel loro sangue degli anticorpi” contro il virus, “per ottenere informazioni sull’immunità di gregge e utilizzarle per elaborare strategie fondate il più possibile su dati solidi per far ripartire il Paese, soprattutto per quanto riguarda le attività produttive”. Quindi i numeri: “I laboratori che nelle varie regioni sono impegnati nella diagnostica molecolare dell’infezione da coronavirus qualche giorno fare erano 77, a oggi il numero è stato implementato a 126”. Sempre ieri il Comitato tecnico scientifico del ministero, finora schierato sul fronte degli scettici, si è riunito per elaborare un documento che dovrebbe andare nella direzione dell’utilità del test.

Il sindaco di Belvedere Marittimo (Cosenza) Vincenzo Cascini è andato oltre: ne ha acquistato un quantitativo che ritiene sufficiente per fare lo screening di massa dei suoi 8.000 concittadini. Cascini è anche titolare di un laboratorio d’analisi e ha messo la sua scienza a disposizione della salute collettiva. “Ho comprato un prodotto cinese: inizierò a fare questi test ai dipendenti comunali e alle forze di polizia, poi abbiamo raccolto i nomi di chi ha aderito. Protezione civile e croce rossa ci aiuteranno nei prelievi che avverranno in postazioni mobili, in automobile, in gazebo. Faremo un test per ogni nucleo familiare, iniziamo al massimo a fine settimana. Per partire ho dovuto convincere la Regione Calabria, ma ora la presidente Santelli aspetta indicazioni dal nostro lavoro, ora sembra ben predisposta”.

Due regioni che non hanno avuto dubbi sono l’Emilia-Romagna e la Campania. “Mercoledì riceveremo i primi 50.000 test e inizieremo a farli questa settimana agli operatori sanitari” ha annunciato in diretta Facebook il commissario ad acta dell’emergenza in Emilia, Sergio Venturi. La Campania invece si è affidata a un comunicato: partiranno oggi. Su entrambi i territori, la priorità è quella di effettuarli su medici e operatori sanitari. La Campania ha preparato una app con la quale tracciare su una piattaforma informatica l’esito dei test sul personale medico e paramedico. I test sono già in corso in Liguria. “Li effettueremo sui 12 mila ospiti delle residenze assistenziali per anziani – spiega il governatore Giovanni Toti – come primo esperimento importante in chiave di comprensione della diffusione della malattia. Stiamo poi preparando un protocollo per farli sui donatori di sangue. Non perché ci sia una attinenza tra il donare e il virus, ma perché sono già tutti schedati e possono essere utilizzati come un campione significativo di popolazione, circa 3 mila persone, che non ha avuto particolari contatti con il Covid-19”.

Ancora quarantena fino a inizio maggio. La fuga nel weekend

Fino al 18 aprile le misure di contenimento imposte dal governo non subiranno alleggerimenti: tutto resterà uguale a oggi. E probabilmente cambierà poco almeno fino ai primi di maggio. Da metà aprile, infatti, si capirà quali attività e imprese potranno ripartire subito e quali invece dovranno aspettare ancora, ma le scuole e i negozi dovrebbero rimanere chiusi. E saremo ancora tenuti a stare in casa.

Quel che preoccupa, infatti, è la possibilità che dando il via libera alla mobilità, i contagi, soprattutto per via degli asintomatici, possano tornare a risalire: i ponti del 25 aprile o del 1° maggio potrebbero invogliare troppe persone a muoversi, magari a raggiungere le seconde case, gli appartamenti al mare e altrove.

È successo anche lo scorso weekend: si è registrato infatti un aumento dei sanzionati, coloro che ora dovranno pagare multe dai 400 ai tremila euro. Domenica su tutto il territorio nazionale sono state controllate 156.962 persone, 6.623 quelle sanzionate. Il triplo rispetto a venerdì 27 marzo, quando i controlli sono stati maggiori (210.365) e i sanzionati ammontavano a 2.783. Il numero è cresciuto poi sabato 28 marzo: su 203.011 persone controllate, 4.942 ora devono pagare una multa. Tanti insomma nel weekend si sono spostati senza alcuna “comprovata necessità”. Di certo l’introduzione di multe salate ha scoraggiato molti. Paragonando i dati nel weekend scorso (sabato 28 e domenica 29) con quelli della settimana precedente (sabato 21 e domenica 22 marzo) le violazioni sono diminuite. Sabato 21 marzo per esempio su 208 mila controllati sono state denunciate oltre 11 mila persone e domenica altre 10.326 su più di 157 mila controlli.

I numeri sono in calo, ma non lo saranno i controlli. L’allarme infatti resta alto. Ieri il capo della polizia Franco Gabrielli ha anche diramato la circolare con la quale è stato chiarito che i corpi e servizi delle polizie municipali possono essere chiamati a concorrere, con l’utilizzo dei droni, per verificare la corretta attuazione delle misure di contrasto all’epidemia.

Lombardia: “24% in giro, è un dato molto basso”

I dati che fotografano la mobilità della popolazione registrano un miglioramento anche in Lombardia, la regione più colpita da Covid-19. Quello registrato domenica “è del 24% rispetto a un giorno normale”, ha detto il vicepresidente della Regione Lombardia Fabrizio Sala. “È un dato molto basso – ha aggiunto –. La domenica precedente avevamo il 26% e i dati vedono una riduzione di 1-2 punti sistematicamente, anche nei giorni feriali. Un punto percentuale significa qualche decina di migliaia di persone”.

Nel Lazio mobilità ancora al 35%

Nel Lazio, invece, secondo alcuni dati pubblicati ieri da Il Messaggero, la mobilità è del 35 per cento. Un valore che è stato estrapolato tenendo conto degli spostamenti degli smartphone monitorati attraverso le celle telefoniche. Questa percentuale tiene conto degli spostamenti di una certa distanza, al di fuori del proprio quartiere. Nella Capitale nell’ultima settimana ci sono stati circa 25 mila controlli al giorno, con 150 multe al giorno. Meno della metà delle 400 denunce medie giornaliere della settimana precedente, quando non c’era la sanzione amministrativa evidentemente più tenuta.

Umbria: “Dati finora imprecisi”

Anche l’amministrazione della Regione Umbria sta monitorando la mobilità. Per ora sono stati registrati spostamenti intorno al 35 per cento. Ma per l’assessore allo Sviluppo economico Michele Fioroni si tratta di dati imprecisi: il sistema analizza i flussi relativi ai movimenti entro i 30 minuti e così, per esempio, viene calcolato come un doppio spostamento se si va al supermarket e poi in farmacia.

Napoli, 20 mila multati in due giorni

Resta alto invece il numero dei sanzionati nella città metropolitana di Napoli: 10.940 i multati di domenica (su 178.733 persone controllate). E sabato il numero è più o meno lo stesso (10.673). Proprio in Campania ieri durante un controllo, un’agente della polizia municipale di San Giorgio a Cremano è stata aggredita con sputi. Responsabile una donna di Napoli che è stata denunciata, mentre l’agente è costretta a iniziare il periodo di quarantena. A Pozzuoli, invece, nei giorni scorsi è stata organizzata una festa condominiale nel rione popolare “Marocchini”. Hanno partecipato una cinquantina di persone.

A Bergamo una chat
per i posti di blocco

Poche violazioni si registrano a Bergamo, una delle città più colpite. Qui il Comune ha segnalato un gruppo su Telegram in cui veniva indicata a chi ne faceva parte (1.102 persone) la posizione dei posti di blocco.