I contagi rallentano ancora. “Picco previsto in 7-10 giorni”

L’Italia trattiene il fiato, confida nella costante diminuzione dei contagi giornalieri che ieri hanno fatto segnare più 4,15 per cento contro più 7-8 per cento di una settimana fa, più 13-14% di quindici giorni fa e valori molto più alti nella prima fase dell’epidemia. Il quotidiano bollettino della Protezione civile ha registrato 4.050 nuovi contagi in 24 ore che portano il totale a 101.739. Il dato è ancora più basso per la Lombardia, 1.154 nuovi casi rilevati per un totale di 42.161 (2,81 per cento), ma qui come altrove sono arrivati i risultati di un minor numero di tamponi, 3.659 contro gli oltre 8.000 di qualche giorno fa quando finalmente sono stati intensificati i test.

Sottolinea con prudenza il “rallentamento della crescita dei contagi” il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di Sanità e del comitato tecnico scientifico che affianca il governo. Il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri vede “il picco nel giro di 7-10 giorni e, ragionevolmente, la diminuzione del contagio”. Gli analisti indipendenti, che hanno minori responsabilità, sono più ottimisti: saremmo già sul plateau dal quale i contagi, beninteso mantenendo le attuali restrizioni, sono destinati a scendere, più o meno rapidamente. Secondo uno studio dell’Einaudi Institute for Economics and Finance (Eief), un centro di ricerca universitaria di Roma sostenuto dalla Banca d’Italia i cui lavori sono stati anticipati ieri su corriere.it, dovrebbero azzerarsi attorno alla metà di maggio. Alcune regioni tra cui Veneto e Piemonte potrebbero arrivarci anche nella prima metà di aprile, diverse altre entro il mese. Vedremo.

Non accennano però a diminuire i morti che come sappiamo sono il risultato dei contagi di 15-20 giorni fa: ieri sono stati 812 di cui 458 nella sola Lombardia; domenica erano stati 756, sabato 889. Il bilancio complessivo è arrivato a 11.591 decessi, 6.818 in Lombardia. Si vede comunque negli ultimi giorni una tendenziale decrescita che appare più marcata per i casi di maggiore gravità. Infatti, su 75.528 persone attualmente positive, cioè senza contare chi non ce l’ha fatta e i 14.620 registrati come “guariti” dopo due tamponi negativi, 27.795 sono ricoverate in ospedale (più 409, 1,5%), 3.891 in terapia intensiva (+75, 1,9%) e 43.752 (+1.164, 2,7%) in isolamento domiciliare. È probabilmente il risultato della decisione del governo e delle Regioni, in particolare la Lombardia, che la scorsa settimana hanno iniziato a fare più tamponi in particolare ai medici e al personale ospedaliero e ai contatti di chi era già risultato positivo, soggetti spesso con sintomi lievi, mentre in precedenza anche per l’emergenza che si è creata – oltre che per le indicazioni più contraddittorie e la scarsità di tamponi – venivano testate soprattutto le persone che arrivavano in ospedale, in genere più gravi. Così in Lombardia le terapie intensive, che hanno più che raddoppiato i posti letto in questi quaranta giorni, hanno registrato solo due nuovi ingressi: da 1.328 a 1.330. A febbraio i posti erano solo 600 e naturalmente non servono solo per i malati Covid.

Aumentano i guariti, ieri in tutto il Paese ne hanno registrati 1.590 e non erano mai stati così tanti. È confortante, infatti il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli comincia sempre da lì. Continueranno ad aumentare perché per quanto si possa discutere del tasso di letalità in Italia, apparentemente sopra il 10 per cento perché non si tiene conto di un numero di contagiati non rilevati variabile fino a 5 o 10 volte quelli confermati dal tampone, dal Covid-19 si esce nel 95-98 per cento dei casi, magari dopo gravi sofferenze acuite dall’impreparazione – solo in parte inevitabile – delle nostre strutture sanitarie. Per effetto del maggior numero di guarigioni, circa un migliaio registrate con i tamponi depositati ieri, in Lombardia per la prima volta ci sono meno malati: 25.006 attualmente positivi contro i 25.392 di domenica.

Nel generale rallentamento dei contagi il Piemonte (61 morti ieri, 796 in totale, contagi +6,2%) mostra l’andamento più preoccupante fra le regioni maggiormente colpite, l’Emilia-Romagna (95 decessi ieri, totale 1.538, contagi +3,1%) respira più del Veneto (29 decessi ieri, totale 436, contagi +4,4%). Il virus cresce con ritmo sostenuto anche in Alto Adige e in misura minore in Trentino. C’è molta attenzione alla Toscana, al Lazio e alla Campania, come alla Puglia e alla Sicilia. Sembra invece migliorare la situazione in Abruzzo. Desta qualche inquietudine la Sardegna, in particolare le sue province settentrionali dove i dati oscillano di giorno in giorno.

Sala&tabacchi

Ci stavamo giusto domandando come uscire dalla crisi epocale del coronavirus, quando ci è venuto in soccorso Beppe Sala con un’intervista di appena due pagine firmata nientemeno che dal direttore de La Stampa, Maurizio Molinari. Il titolo è già tutto un programma: “Sala: contro il virus, una nuova costituente”. “Nuova”, per distinguerla da quella vecchia, che ormai è andata. E soprattutto “una Costituente repubblicana”, onde evitare che qualcuno sospetti il sindaco Sala di simpatie per Casa Savoia o per i Borboni. Fatte le doverose precisazioni, resta da sciogliere un minuscolo dettaglio: che cazzo c’entra la Costituzione col coronavirus? Il sindaco Sala è qui pronto a spiegarcelo: lui non pensa affatto che qualcuno possa guarire dal Covid-19 mettendosi in tasca la sua nuova Costituzione, o sdraiandosici sopra, o inalandone i balsamici effluvi, o applicandola al torace con un po’ di Vicks VapoRub. No, lui pensa, senza spiegarci cosa mai gli abbia fatto l’attuale Carta, che quella nuova servirà a “far ripartire l’Italia dopo il virus”. Vasto programma, visto che una Costituente va eletta a suffragio universale, poi deve riscrivere tutti e 139 gli articoli (o quanti saranno) della Carta e infine approvarli con adeguata maggioranza, insomma se ne riparla fra una decina d’anni. Se va bene.

Ma il sindaco Sala, che tutti consideravano (a torto, si capisce) un arido cumenda e ragiunatt della destra meneghina, reclutato da Letizia Moratti per i noti fasti dell’Expo e poi inopinatamente scambiato per un leader di sinistra, è in realtà un utopista, un sognatore, un futurologo e anche un po’ filosofo. Gli piace volare alto, anche perché, quando vola basso, va agli spritz e indossa le t-shirt di #Milanononsiferma, fa più danni della peste bubbonica. I suoi pensieri alati sono da collezione, anzi da affissione. “Se crollasse Milano, crollerebbe la Sanità” (i pazienti dell’ospedale di Castelvetrano prendano buona nota). “La città è stata pesantemente toccata, penso soprattutto alle vittime” (ma va? Credevamo pensasse ai pipistrelli). “La Lombardia ha un problema perché il virus è piuttosto radicato nel Bresciano e nel Bergamasco fino verso Cremona” (roba da non credere, chi l’avrebbe mai detto). Però lui parla “con i sindaci in questione per capire le cause di tutto ciò”. E, furbo lui, le ha capite: “Non aver fermato le fabbriche ha portato molta gente a restare l’uno vicino all’altro” (in effetti fermarle mentre i sindaci facevano gli spritz e invitavano la cittadinanza a non fermarsi era complicato). “Ora però è il momento di guardare avanti” e, si badi bene, “non indietro” (così nessuno si ricorda le boiate che lui diceva prima).

Poi però è lui a guardare indietro, sia pur da miope: “Ricordo che il sindaco Gori è stato lui il primo a chiedere l’istituzione della zona rossa per Alzano” (dev’essere stato quando si faceva gli autoscatti a cena con la moglie per istigare i bergamaschi alla movida). Finita l’Operazione Rivergination, si passa al Sala ricostituente: “Ciò che mi preoccupa è che siamo un Paese che, per tipo di ordinamento e per funzionamento della giustizia, è tutto tranne che efficiente”. In effetti la sua condanna per un falso in atto pubblico del 2012 è arrivata solo nel 2019: si doveva fare prima. Resta da capire, anche qui, che minchia c’entri la Costituzione. Ma attenzione: lui ha “in mente due capitoli”. E sono soddisfazioni. “Primo: il potere dello Stato e i poteri locali perché l’attuale struttura amministrativa è del secolo scorso e non consente di essere veloci”. Quindi tutto ciò che ha più di vent’anni (il secolo scorso finì il 31.12.1999) va raso al suolo, perché “non consente di essere veloci” (per far che? Boh). Se poi Sala, come dice, vuole solo smantellare le Regioni, non c’è bisogno di Costituente: basta il Parlamento con una riforma di pochi articoli che cancelli quella del 1970 e l’obbrobrio del 2001 sul Titolo V con lo strumento dell’art. 78 (modifiche approvate dai 2/3 delle Camere o sottoposte a referendum).
“Secondo: la giustizia”, aridàgli. E qui il Pindaro volante parte con la supercazzola giureconsulta con scappellamento a destra: “L’articolo 102 della Costituzione impedisce di istituire giudici speciali ma in realtà si sono venute a verificare situazioni nelle funzione pubblica (sic, ndr) che pongono legittimi dubbi al riguardo”. A riguardo di che? Boh. Però “bisogna smantellare la burocrazia”. Perbacco, che originalità. Purtroppo “non è possibile fare le riforme in maniera canonica” (qualunque cosa voglia dire). Ergo, “come nel Dopoguerra Alcide De Gasperi lanciò la Costituente che ci regalò la Costituzione” (De Gasperi non stava al Quirinale e non lanciò una beneamata cippa, ma fa niente), “Mattarella potrebbe oggi lanciare una nuova Costituente”. E come? Sciogliendo le Camere su due piedi? O affiancandole al nuovo, insigne consesso? Per ora si sa soltanto che il sindaco Sala vuol essere invitato perché “servirebbe spazio per chi amministra localmente”. A questo punto il ricostituente cede il passo all’economista (sempre lui) che pontifica su tutto lo scibile umano: dall’Europa (così non va) a Draghi che – lo credereste? – “ha totalmente ragione”, del resto “mi sono confrontato con lui alcuni giorni fa” per dargli la linea. Poi, oplà: ecco il Sala stratega, interpellato da Molinari sui destini periclitanti dell’Alleanza Atlantica a causa dell’Italia doppiogiochista che “accoglie aiuti russi, cinesi e cubani, mentre di quelli della Nato, che pure arrivano, si parla meno”. La Volpe di Rho Pero raccoglie pensosa l’allarme: “Parlare con tutti, ma anche rimanere fedeli alle nostre alleanze, al campo europeo atlantico”. Ben detto. Se ne deduce che il sindaco Sala pensa di fare capoluogo. E soprattutto che, come diceva Leo Longanesi del Benedetto Croce politico, “non capisce niente, ma con grande autorità”.

Tutti i colori dei fratelli Eno, creati via email

Mixing Colours è il compendio di quindici anni di collaborazione tra i fratelli Roger e Brian, con diciotto brani articolati e complessi, ed è anche il loro debutto sulla prestigiosa Deutsche Grammophon.

Il processo di composizione è partito dal fratello Roger su una tastiera Midi: ogni input veniva inviato via email a Brian per la manipolazione dei suoni. Dal 2005 questo metodo è andato avanti per quindici anni, senza nessuna volontà di pubblicarne i contenuti, come affermato da Roger Eno: “Non stavamo pensando a un risultato finale, è stata una conversazione reciproca inaspettata. Mi svegliavo, andavo in studio, sistemavo la mia attrezzatura e improvvisavo. L’idea di un album è emersa quando ho visto il numero dei brani aumentare con risultati molto soddisfacenti. È qualcosa che nessuno di noi avrebbe potuto realizzare da solo”. Le tracce – esclusa una – richiamano un colore: “Più ascolti l’album – con i favolosi mondi che Brian ha creato – più riesci a camminare e ambientarti nel suo enorme paesaggio”.

La copertina e il booklet contengono i dipinti astratti dell’artista Dom Theobald. Spring Frost (l’album è uscito il primo giorno di primavera) è un panorama di piccoli suoni sospesi su una tastiera rarefatta; la sensazione è di entrare in punta di piedi in una installazione. Burnt Umber parte con una sequenza in loop ed evoca cristalli suonati su uno xilofono; Celeste, scelta come singolo e video, è una ballata di pianoforte classica malinconica. Obsidian è spettrale, una colonna sonora delle nostre città svuotate e inquietanti di questi tempi.

Meditazione è la parola chiave, è il disco giusto al momento giusto. “Quello che è successo con l’elettronica è che tutti gli spazi tra quelle isole vengono esplorati” chiosa Brian, “producendo nuovi suoni che non sono mai esistiti. È stato un grande piacere per me esplorare quell’oceano con le composizioni uniche di Roger”. Un percorso iniziato con An Ending (Ascent) pubblicata nel 1983 nell’album Apollo Atmospheres and Soundtracks, sotto la regia di Brian Eno e Daniel Lanois: paesaggi sonori, rigore stilistico, ambient d’élite.

“Il mondo in testa: dobbiamo partire dalla musica”

Mentre la Federazione Industria Musicale Italiana (Fimi) lancia l’allarme per la sofferenza del comparto musicale (di vendite e diritti annessi) a causa dell’isolamento imposto dall’emergenza sanitaria del coronavirus, gli artisti si trovano davanti a un bivio: far uscire o meno i dischi già programmati. Ha optato per il “sì” Gegè Telesforo, musicista, jazz vocalist, speaker radiofonico e divulgatore, che ha pubblicato il suo Il mondo in testa lo scorso venerdì. Un titolo che, in questo momento, assume un significato inedito, ché avere il mondo in testa è la sola cosa che rimane tra le quattro mura della propria abitazione. “Quando lo abbiamo programmato non avremmo potuto sapere – racconta – e abbiamo scelto di mantenere le date perché la musica è un’ottima terapia per il fisico e per la testa”.

E alla musica attinge in questi giorni che possono diventare tutti uguali. Vive solo in una casa nella Tuscia e si impone una disciplina frutto di una routine consolidata e di qualche sforzo per tener duro. Ispirato dal ritmo stesso della musica, matematico, quello di melodia e armonia, si sveglia alle sette, fa un’ora di yoga e stretching, si veste (“anche bene!”) suona in studio, fa le dirette online alle 11.30, e ancora lavoro. Insomma, la sera arriva in fretta ed è dispiaciuto di aver già divorato il Metodo Kominsky su Netflix. È curioso, fa domande interessate anche se è lui a essere intervistato. La curiosità che riversa da anni anche in “Sound Check”, su Radio24. Dispensa consigli musicali: Fat Freddy’s Drop, Hiatus Kaiyote, Thirty Seventy 30/70, e l’ultimo di James Taylor.

Se dovesse collegare alcune tracce del suo ultimo disco alle parti della giornata sceglierebbe la title track per un risveglio energico, “per svegliarsi in un mondo a colori e sostenere la bellezza della diversità”, poi Genetica dell’amore nel pomeriggio, per riacciuffare la resilienza e chiuderebbe con Time Tai Chi, traccia di Enrico Intra che ha rivisitato.

L’album è il frutto di un anno e mezzo di lavoro, perché non voleva che fosse un classico jazz, ma che contenesse tutti i viaggi intrapresi, tutti i suoni dell’Africa, del funk americano, del Maghreb. Che fosse il frutto di quelle che chiama le “spezie ritmiche”. “È stato molto complicato, tutto suonato dalla prima all’ultima nota, partiti scritti, assoli scritti e poi doppianti, insomma: credo che non lo farò mai più”, scherza.

“Ieri pensavo a questo momento così complesso. In qualche modo, ci dà la possibilità di azzerare lo standard e rimettere in ordine le priorità – spiega –. Ci troviamo davanti a un nemico invisibile che non guarda in faccia a nessuno. È la stessa cosa che fa, in accezione positiva, la musica, che abbatte qualsiasi tipo di frontiera”. E, purtroppo, vede il suo valore in parte arginato: “Chi fa musica mainstream può cantare ‘allegramente’, ma per i piccoli, quelli che non sono in classifica, è un momento difficilissimo”.

Banche, tremate: la banda sta tornando

Replicare un successo all’infinito senza cambiare la formula: è la scommessa de La Casa di Carta, che il 3 aprile torna con la sua quarta stagione. Il trailer che ha anticipato la serie, la più vista di sempre su Netflix fra quelle non in lingua inglese, ha regalato ai fan qualche anticipazione. Sappiamo che il Professore è in fuga, che la tensione all’interno della banca è alle stelle e che l’ispettrice Alicia Sierra sta tentando in tutti i modi di convincere Lisbona a collaborare con la polizia; sappiamo anche che Gandía, il capo della sicurezza del Governatore che i rapinatori tengono in ostaggio, avrà un ruolo fondamentale. Nessuna rivelazione, invece, su ciò che gli appassionati si stanno chiedendo dallo scorso 19 luglio, la data di uscita della terza stagione: Nairobi riuscirà a sopravvivere oppure no?

Le stagioni de La Casa di Carta procedono in coppia. La prima e la seconda hanno raccontato di come la banda messa insieme dal Professore sia riuscita a entrare nella Fábrica de Moneda y Timbre e a uscire con 2,4 miliardi di euro in banconote. Nella terza è cominciata un’altra impresa ancora più impossibile: il piano prevede di penetrare nel Banco de España, impossarsi dell’oro contenuto nella camera blindata sotterranea, fonderlo e scappare. Per il momento le cose non stanno andando benissimo: Nairobi è ferita e lotta tra la vita e la morte, Lisbona è stata catturata dalla polizia e il Professore – convinto che la sua compagna sia stata uccisa – ha dichiarato guerra allo Stato. Nell’ultimo episodio due razzi sparati da Tokyo e Rio hanno fatto esplodere un blindato dell’esercito che stava tentando di entrare nella banca.

Il nuovo capitolo ricomincia da dove si era concluso quello precedente. Il Professore riesce a scappare, ma deve farsi venire qualche idea al più presto. La situazione è molto difficile: sia perché Nairobi ha una pallottola nel polmone e va operata subito, sia perché la banda comincia a mettere in discussione l’autorità di Palermo. E quando Denver perde il controllo e picchia un ostaggio, le cose si complicano ancora di più. Fuori dal Banco de España, intanto, centinaia di persone continuano a gridare il loro sostegno ai rapinatori, complicando il lavoro dell’ispettrice Sierra e del colonnello Luís Tamayo che stanno cercando di portare Lisbona dalla loro parte. Non mancano i flashback: gustoso quello sul matrimonio di Berlino, in cui fratello del Professore canta Ti amo di Umberto Tozzi e Centro di gravità permanente insieme con un coro di frati.

Presentata dal creatore Álex Pina come più psicologica e traumatica, la quarta stagione ripropone gli stessi ingredienti delle precedenti: piani cervellotici, salti temporali e colpi di scena, amori proibiti, sparatorie e inseguimenti mozzafiato. La formula che ha consentito a La Casa di Carta di diventare un successo a livello mondiale, però, non è semplice né scontata. Pina, per cominciare, ha scelto di cimentarsi con un genere poco frequentato dal cinema spagnolo, quello dell’heist movie. E l’ha fatto in maniera inconsueta: innanzitutto ribaltando l’ordine abituale che prevede di raccontare prima il piano e dopo la rapina, poi insistendo proprio sugli aspetti più “spagnoli” della storia per dare alla serie un’identità più forte. La Casa di Carta è una partita a scacchi fra il Professore e l’investigatore di turno, ma nello stesso tempo è una soap opera che vive di relazioni e intrecci amorosi. Se da un lato i continui flashback, l’approfondimento psicologico dei personaggi e l’utilizzo di Tokyo come narratore inaffidabile hanno dato alla serie il giusto livello di complessità, dall’altro le citazioni (i nomi dei rapinatori ispirati a Le Iene di Tarantino) e gli elementi più pop (la colonna sonora) sono serviti a trasformarla in un fumettone adatto a un pubblico molto ampio ed eterogeneo. Certo: per goderselo bisogna sospendere l’incredulità e credere che davvero piani studiati al millimetro come quelli del Professore possano funzionare. Ma per chi riesce a farlo, il godimento da binge watching è assicurato.

I quattro episodi (su otto) de La Casa di Carta 4 che abbiamo guardato in anteprima ci lasciano però un sospetto: e cioè che, continuando a replicare questa formula, si finisca per svilire un buon prodotto. Lo stesso Álex Pina, del resto, aveva pensato la serie come un racconto che si sarebbe dovuto concludere dopo le prime due stagioni… Mentre ora, pare, potrebbero arrivare anche La Casa di Carta 5 e uno spin-off. Il rischio è quello di perdere molti fan per strada. Per gli altri, gli irriducibili, il 3 aprile in contemporanea con la nuova stagione, sarà disponibile su Netflix un documentario con i dietro le quinte.

“Orbán dittatore”. Lui: “L’opposizione sta col coronavirus”

La prima ricaduta tangibile e incontrovertibile del Coronavirus sul sistema politico di un Paese europeo si vede in Ungheria, dove Parlamento ungherese affida a Viktor Orban pieni poteri e a tempo indeterminato. Ovvero, il premier d’ora in poi, e fino a quando vorrà, potrà governare attraverso l’uso esclusivo di decreti, sciogliere il Parlamento, cambiare o sospendere leggi in vigore, perfino arrivare a bloccare le elezioni. Senza contare che chi diffonde “fake news” sulla pandemia rischia fino a 5 anni di carcere: di fatto un bavaglio per la libera stampa nel caso denunciasse le mancanze del sistema sanitario ungherese (mancano le mascherine e ci sono solo 2560 ventilatori in tutto il Paese).

La legge è passata con i voti della maggioranza (Fidesz) e di alcuni deputati di estrema destra: 138 sì contro 53 no. Tutto questo, formalmente, “per combattere più efficacemente il coronavirus”. Tanto per chiarire, i dati ufficiali ungheresi, parlano di soli 447 contagiati e 15 decessi, tutte persone anziane con altre malattie. Anche se il numero reale potrebbe essere ben diverso: si fanno pochissimi tamponi (finora circa 13 mila). Misure di contenimento che vietano d’uscir di casa sono in vigore in tutto il Paese e ufficiali dell’esercito vengono inviati negli ospedali e nelle sedi di alcune grandi imprese strategiche: non è chiaro a che scopo. Per i socialisti, all’opposizione, è l’inizio della dittatura. E anche l’Europa si allarma: “La Commissione sta valutando le misure di emergenza adottate dagli Stati membri in relazione ai diritti fondamentali”, ha avvertito il commissario alla Giustizia Didier Reynders.

Il sospetto più che fondato è che Orban non aspettasse altro. Non è la prima volta, infatti, che cambia la Costituzione in senso autoritario. Negli scorsi anni aveva varato una serie di leggi speciali, che implicavano il controllo dei media e della magistratura da parte del governo. Tanto che l’Ungheria è già sotto procedura d’infrazione in base all’ articolo 7 del Trattato per violazione dei principi dell’Unione. Procedura fino ad ora congelata. Gli Stati membri non si sono decisi, così come Orban è sempre sul punto di essere espulso dal suo partito, il Ppe, che però finora non l’ha fatto. Ieri da Bruxelles non è arrivata una voce unitaria e ufficiale. Ma intanto il ministro degli Affari Europei, Enzo Amendola, che rispecchia la posizione del governo italiano, dice al Fatto: “Chiederemo di valutare nella procedura di infrazione anche questa legge”. L’organismo preposto è il Consiglio Affari generali (che in tempi di governo gialloverde non è stato molto incisivo sul tema). Comunque, al momento, per una riunione, non c’è una data. Neanche il Ppe assume una posizione unitaria e definita. Anche se alcuni eurodeputati (Sean Kelly, irlandese, Othmar Karas, austriaco, Petri Sarvamaa, finlandese e Daniel Cazspary, tedesco) esprimono una condanna decisa.

La scelta dell’Ungheria potrebbe aprire la strada all’ennesima crepa nell’Unione, dando fiato a sovranisti e nazionalisti. Con la destra italiana il premier magiaro intrattiene ottimi rapporti, anche se Matteo Salvini non è mai riuscito a convincerlo a fare un gruppo unico in Europa. Nel settembre scorso, Orban è stato ospite d’onore alla festa di FdI a Roma, Atreju. E a fine agosto ha inviato una lettera di ringraziamento al da poco ex ministro degli interni Salvini, assicurandogli che non avrebbe dimenticato le sue azioni contro i migranti. Dunque il leader leghista ha salutato “con rispetto la libera scelta del Parlamento ungherese eletto democraticamente dai cittadini”. Mentre Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia è arrivata a fare dei paragoni con la situazione italiana. Da Fi è arrivato solo un commento imbarazzato di Antonio Tajani: “Il Parlamento è sovrano”. Pd e Iv hanno parlato con una voce sola: “Bisogna combattere il coronavirus, non la democrazia”, ha detto Zingaretti. Renzi ha invitato l’Ue a fargli cambiare idea o a cacciare l’Ungheria dall’Unione”. Mentre il presidente della Camera, Roberto Fico (M5s), ha definito quello di Orban e del Parlamento ungherese “un comportamento non consono con le democrazie europee”.

“Disastro Trump, ha dato retta alle lobby invece che ai medici”

“Trump sta gestendo la crisi sanitaria in modo demenziale e criminale. Anziché ascoltare gli scienziati, ha continuato a dar retta alle lobby e ora a New York la situazione è spaventosa. A mio avviso, bisognerà attendere almeno fino a maggio per capire cosa ci aspetta e se si potranno allentare le misure di distanziamento sociale”.

Italo Linfante, 57 anni, è uno dei primi ‘cervelli’ italiani a essere stato costretto a emigrare negli Stati Uniti. Oggi è il direttore del reparto di Neurochirurgia Endovascolare al Miami Cardiac and Vascular Institute and Baptist Neuroscience Institute, e professore associato in Neurologia, Neurochirurgia e Radiologia alla Florida International University.

Professor Linfante parliamo prima della sua patria d’adozione. Perché ritiene demenziale la gestione dell’emergenza da parte di Trump?

Perché già all’inizio di gennaio l’amministrazione era stata informata dell’espansione dell’epidemia e della sua pericolosità. Ciononostante il presidente non solo non ha organizzato un piano sanitario straordinario, ma ha reso la situazione ancora più esplosiva paragonando il Covid-19 a una influenza un po’ più forte del solito, come Boris Johnson a Londra e Bolsonaro in Brasile. Una menzogna vera e propria. Dio non voglia che si attivino focolai nelle favelas e nel resto del Centro e Sudamerica perché sarebbe un’ecatombe. Per tornare a New York, a complicare il quadro oltre alla densità abitativa, ha contribuito la rete di trasporti pubblici capillare. Così il virus ha viaggiato senza ostacoli e anche negli altri Stati dato che i collegamenti aerei interni sono rimasti aperti a lungo. Se Trump avesse dato l’ordine di chiudere tutto agli inizi di gennaio, non saremmo arrivati a questo punto. Inoltre il presidente ha insistito con questo atteggiamento negazionista dicendo che a Pasqua forse si potrà già uscirne parzialmente . Un fatto che escludo del tutto, purtroppo. Ci vorranno mesi.

Come mai in Florida avete pochi casi e tutti relativi a persone venute da altri Stati?

Ne sappiamo ancora poco per dare una risposta plausibile.

Visto che negli Stati Uniti il sistema sanitario pubblico è di fatto inesistente, cosa succede se si ha il sospetto di avere contratto Covid-19 ?

Premetto che ogni contea ha un ospedale pubblico e anche ogni grande città dove i medici sono obbligati a curare chiunque, anche coloro che non hanno l’assicurazione. Data la situazione inedita ed epocale, ora anche gli ospedali privati dovranno trattare chiunque sia affetto da Covid-19. Resta il fatto che si devono creare nuovi centri di cura dedicati, perché quelli attuali non saranno sufficienti. Chiunque ha il sospetto di averlo contratto può andare nei centri di triage e sottoporsi gratuitamente al tampone.

Quali sono i motivi per cui, a suo avviso, in Italia ci sono così tanti morti ?

Innanzitutto la mancanza di protezioni adeguate, per esempio le mascherine giuste, che ha provocato molti contagi tra il personale sanitario e la mancanza di terapie intensive; la mancanza di personale medico specializzato.

Cioè ?

Si deve differenziare la figura dell’anestesista da quella del rianimatore. Mentre in tutti i paesi sviluppati sono due specializzazioni, in Italia l’anestesista fa anche il rianimatore . Un approccio sbagliato soprattutto per quanto riguarda il trattamento dei pazienti da Covid-19 che di norma rimangono in terapia intensiva molto tempo e sono difficili da tenere stabilizzati. Qui ogni reparto ha rianimatori e anestesisti specializzati. In Italia sono stati fatti troppi tagli alla sanità e ora non avete più né strutture né personale. Lo dico con profonda tristezza e frustrazione.

 

 

 

Stati Uniti
Oltre alle vittime aumentano i disoccupati, Macy’s chiude

Il numeratore della John Hopkins University avanza inesorabile: i casi di coronavirus s’avvicinano ai 150 mila, le vittime superano i 2.500. Donald Trump, impressionato dal ‘virologo in capo’ Anthony Fauci – milioni di contagi e fino a 200 mila morti, “se saremo bravi 20 mila” –, estende fino al 30 aprile le indicazioni federali sulle distanze sociali. Dopo avere fatto marcia indietro sulla messa in quarantena degli Stati di New York, New Jersey e Connecticut, il presidente smentisce di nuovo se stesso: voleva allentare le indicazioni per Pasqua, per rimettere in moto l’economia. Ora, Trump avverte: “Il picco dei decessi da contagio si avrà fra due settimane”. Un elemento di novità è la popolarità dei governatori: emerge il newyorchese Andrew Cuomo. Sui social c’è chi lo candida alla Casa Bianca. Oltre che di vite, il contagio fa strage di posti di lavoro: Macy’s, sigla storica dei grandi magazzini, proprietaria di Bloomingdale’s, progetta di lasciare liberi la gran parte dei suoi 130 mila dipendenti, con i negozi chiusi dal 18 marzo.
Giampiero Gramaglia

 

Francia
Parigi e Strasburgo sature, militari trasferiscono i malati

Sono ormai più di 3.000 i morti di Covid-19 in Francia, esattamente 3.024, 418 in più nelle ultime 24 ore. “Siamo di fronte a un’epidemia assassina. Per salvare vite restate a casa”, ha detto ieri sera Jérôme Salomon, direttore generale della Sanità, fornendo i dati del giorno. Sono 44.450 i casi accertati (4.276 in 24 ore), con più di 5.000 malati gravi ricoverati in rianimazione (il +9% in 24 ore). Per alleggerire gli ospedali saturi della regione di Strasburgo, la più colpita insieme a quella di Parigi, più di 250 malati sono stati trasferiti nel fine settimana. Da Nancy, Metz, Mulhouse sono partiti elicotteri e aerei militari verso Bordeaux, Poitiers, La Rachelle, e decine di pazienti sono stati trasferiti a bordo di treni TGV trasformati in ospedali. Domenica sera è atterrato allo scalo di Roissy un aereo da Shanghai con circa 100 tonnellate di materiale medico. Intanto il governo, per far fronte alle difficoltà del settore agricolo, pensa a riaprire un quarto dei mercati all’aperto, ma sotto strette misure d’igiene.
Luana De Micco

 

Regno Unito
Immunità di gregge: esce Carlo, entra il consigliere di Johnson

Coronavirus nel Regno Unito. I dati aggiornati a ieri pomeriggio: i morti sono saliti a 1.408, +180 in 24 ore ma in calo rispetto ai 260 di sabato e ai 209 di domenica. I contagiati sono 22.141, di cui 2.107 nelle ultime 24 ore: i test sono poco più di 8mila al giorno, ancora lontani dall’obiettivo di 25mila. Ieri il governo ha annunciato un’operazione di rimpatrio di massa dei britannici bloccati all’estero e la riduzione del supporto per il Settled status, la registrazione dei residenti europei obbligatoria post Brexit. Dopo 7 giorni il principe Carlo è uscito dall’auto-isolamento, ma vi è entrato Dominic Cummings, consigliere speciale di Boris Johnson, descritto come uno dei principali sostenitori dell’iniziale strategia basata sulla “immunità di gregge”, poi riconvertita al più prudente “state a casa”. Non è obbligatoria l’auto-certificazione, sono ammesse uscite solo per comprare cibo o medicine, andare al lavoro, fare esercizio fisico. La polizia è molto severa nei controlli, con eccessi denunciati da diversi giuristi. Nota di colore: è a rischio la consegna delle uova di Pasqua ai piccoli negozi. Non sarebbero beni essenziali.
Sabrina Provenzani

 

India
“Contagio dall’Italia”: inizia la caccia al turista untore

Oltre a quella per il coronavirus in India si sta diffondendo un’altra paura, soprattutto tra gli europei: quella della caccia all’untore, in particolare per gli italiani che ormai sono visti come diffusori del virus. Si teme “una caccia allo straniero” che rende la vita sempre più difficile. “Dobbiamo stare attenti”, raccontano alcuni, perché soprattutto tra la fascia meno istruita della popolazione, 1,3 miliardi di persone in lockdown totale con la chiusura delle frontiere interne ed esterne sta circolando l’idea che a portare il virus siano stati gli italiani. Tutto è iniziato il 3 marzo, quando, in coincidenza con le notizie dell’esplosione del contagio nel nord Italia, un turista italiano, purtroppo morto qualche giorno fa, si è sentito male e, dopo essere stato ricoverato in un ospedale di Jaipur, è risultato positivo al Coronavirus. Nonostante nel sud del paese c’erano già stati casi, questi non avevano creato allarme. Dai primi di marzo, invece, la pandemia è diventata “il virus italiano” e ai turisti europei rifiutano prenotazioni in albergo. Parlamentari del Bjp hanno chiesto che Rahul Gandhi, rientrato dall’Europa a fine febbraio, faccia il test.

Passeggiare, diario di un crimine imperfetto

Tema: descrivi sensazioni e comportamenti della clausura. Svolgimento: sempre lo stesso.

Una delle consapevolezze più inaspettate e per certi versi incredibili è a quanta gente possa interessare a che cosa pensa e che fa uno scrittore costretto a restare a casa per un periodo indefinito, prorogato di quindicina in quindicina e senza un orizzonte temporale.

Anzi, per essere più precisi: quanti giornalisti, blogger e conduttori di programmi di intrattenimento credono che l’argomento sia di pubblico interesse, perché confidiamo che al di là di una blanda curiosità della durata di tre o quattro secondi l’utente medio se ne freghi alla grandissima della vita privata di un tizio che ciabatta in pigiama da una stanza all’altra, fruendo del fatto che, come diceva Conrad, se si mette a guardare dalla finestra può dire di star lavorando.

E allora decidiamo, per una volta, di andare fieramente fuori tema: e di descrivere invece una passeggiata. Proprio così: una passeggiata. Termine obsoleto, che ha effettuato di questi tempi una transizione di significato: da innocuo piacevole passatempo a piratesco evento criminale, condannato e vituperato soprattutto da queste parti. Sì, perché in questa meravigliosa terra disperata e felicissima, in questo territorio perennemente sospeso tra le vette dell’euforia e gli abissi della depressione, in questo luogo che è un ossimoro geografico, abbiamo un governatore che sta dando il meglio della sua potenza decisionale ed emana ordinanze più veloci e più restrittive di quanto sia prevedibile.

È perciò eroico quanto l’estensore di queste note ha fatto, per offrirvi un resoconto delle strade di un quartiere residenziale urbano al tempo del virus. Aspettandosi di essere abbattuto da un cecchino, o di dover ingaggiare una battaglia verbale con un battaglione dei Granatieri di Sardegna, o di incorrere in sanzioni terribili e indeterminabili, da duecento euro a sei anni di reclusione e chissà quali altre pene corporali.

Ma io ho preso le mie precauzioni.

Ho dedicato una mezz’ora al reperimento del modulo di autocertificazione in vigore, ricerca non banale perché gli aggiornamenti sono pressoché quotidiani, e alla relativa compilazione. Mi sono procurato uno stato di necessità, costituito dal prossimo esaurimento delle compresse contro l’aumento del colesterolo (unico baluardo contro l’insorgenza iperalimentare delle ultime settimane). Ho trafugato una mascherina dalla minima scorta di casa, razionata dalle ben più motivate necessità della collaboratrice domestica e di tutti gli altri componenti del nucleo familiare. E sono uscito allo scoperto.

E’ domenica. La primavera, apparentemente ignara degli umani eventi e comunque cinicamente disinteressata agli stessi, ha deciso di celebrare l’ora legale con un sole spettacolare e una temperatura perfetta, né calda né fredda. Una di quelle giornate che in questa città e in questo quartiere riempirebbe di cani e bambini i giardini, di belle signore e di uomini in tuta e scarpe di gomma le strade, e di anziani felici le panchine. E invece.

La farmacia di turno dista quasi un chilometro da casa, e uno di ritorno fa due: reperendo un circuito plausibile e un passo cadenzato, fanno circa quaranta minuti di cammino al netto del tempo in coda, che pure costituisce uno spaccato interessante di umanità anche perché la fila è l’unico elemento similsociale in cui mi sarò imbattuto. Il resto, non più di una decina di incroci, è fatto di diffidenti occhiate da oltre un metro e comunque al di sopra di maschere, pervero di ogni foggia e filtro. Questo delle mascherine è un elemento di interesse: privati dei lineamenti inferiori, i volti sono irriconoscibili e cambiano temperatura. Niente parvenze di sorriso, niente bocche che masticano o che canticchiano, niente simpatici nasi a punta. Solo occhi stretti, curiosità o meglio diffidenza nei confronti di chi si trova in strada in quello stesso momento e il vago senso di colpa di non essere a casa. Non è bello incrociare persone, di questi tempi. Aggiunge malessere a malessere.

E malessere ulteriore, se possibile, aggiunge la strada, in contrasto così terribile con la bella giornata di ora legale e di primavera. Perché non c’è nessuno.

Ovvio, direte. Che ti aspettavi? Esistono delle norme, e la gente le rispetta. Certo, è vero: ma l’impressione non è di una sospensione, di una momentanea assenza. Non si capisce che la gente è reclusa a casa, perché non arriva un suono dalle finestre chiuse, non ci sono luci o persone momentaneamente affacciate ai balconi. L’impressione è piuttosto di abbandono. Come se tutti fossero scappati in fretta, o rapiti dagli alieni o uccisi da qualche gas nel sonno.

Ci sono le tracce di una normale fine giornata, manifesti di teatri che invitano alla rappresentazione di un giorno successivo che non è mai arrivato, bar e ristoranti e pizzerie con pile di sedie e tavolini all’interno, che si intravedono attraverso porte trasparenti chiuse da lucchetti. Tende e gazebo senza camerieri con vassoi che svolazzano pigri nella brezza dolce, con un rumore di tela smossa che sa di vento del deserto. Rumore di passi sulle pietre di un marciapiede pulito e smorto, polveroso e muto come un reperto di un’altra epoca.

Viene voglia di mettersi a urlare: dove siete, tutti? Dove siete finiti? Non è questa la città del silenzio. Non è questa la città senza colore, cristallizzata in un momento di abbandono e di fuga. E invece mi viene di assecondarlo, il silenzio: e a una telefonata ricevuta rispondo sussurrando a disagio, come se mi trovassi in una chiesa.

Pensavo che mi sarei attardato. Che dopo giorni di reclusione forzata trovarmi all’aria aperta sarebbe stata una selvatica soddisfazione, un piacere un po’ proibito da prolungare il più possibile. E invece mi sono ritrovato ad accelerare il passo, per tornare a casa prima, per poter ritrovare qualcosa di meno insolito e di meno alieno delle solite strade private dalla vita.

Nell’aprire il portone e nel liberarmi della mascherina ho ripensato al monito costante: state a casa. State a casa, sì. Anche perché, finché non torna tutto normale, mettere il naso fuori è un’operazione che dà solo tristezza e malinconia, anche nella città delle canzoni e del disordine colorato.

Anzi, qui ancora di più.

Scrittori d’Italia, il romanzo finisce sull’autobus

Romanzo italiano (sabato, Rai3) nasce da una scommessa interessante: raccontare l’Italia attraverso i suoi scrittori. Non è mica facile. Gli scrittori continuano a moltiplicarsi, il picco è di là da venire; però la società letteraria si è dissolta, ora c’è solo qualche lobby che si combatte a colpi di cerbottana. Il pensiero va ad Alberto Arbasino, alla sua onnivora curiosità per la politica e la cultura, all’idea di intellettuale in moto perpetuo. Oggi lo scrittore, al massimo, fa il raccordo anulare del proprio ombelico. Tuttavia Annalena Benini si impegna. Si veste, si trucca, prende il treno, la metro, va dagli scrittori porta a porta perché le raccontino i luoghi del cuore. Qualcuno la accoglie nella sua cucina o nel suo living, come Cracco. Altri si spingono fino alle soglie mitiche dell’infanzia. Il più proustiano di tutti, Alessandro Piperno, passeggia con Annalena in piazza delle Muse, nel suo completo “casual coloniale, in pendant con l’autunno”. Per lui, spiega, è un dramma fare lo scrittore: “Se qualcuno mi dice cosa faccio rispondo che pulisco i cessi.” Spera di non essere sgamato, ma non è mica facile. Woody Allen nascondeva Playboy tra i quotidiani, “io nascondevo i romanzi di Tolstoj dentro Quattroruote” (chissà come faceva, date le dimensioni). “È dal 1983 che non prendo l’autobus”, confessa con un sospiro alla Benini. Ce la farà a prenderlo? Alla fine salgono tutti e due, o la va o la spacca, alla scoperta del suo ristorante preferito. Romanzo italiano.

Mail Box

 

Quel che ci conforta è il nostro libero pensiero

Sono una persona pensante. In questo momento così drammatico vorrei comunicare con tutto il mondo, con ogni persona. Sono vicino a tutti i reclusi forzati. Nella nostra vita di adesso, perché non pensare a ragionare? Come si fa? Ecco cosa ne posso dire: il pensiero è totalmente libero! Si può pensare anche facendo l’amore, cucinando, fumando e facendosi un bel bagno profumato. Unirsi al proprio cervello è la cosa più facile del mondo! In noi stessi ci siamo già: non c’è bisogno nemmeno di cercarlo. Se sarete liberi nel rapporto con il vostro cervello, senza formalità (non ce n’è bisogno), avrete meravigliose sorprese.

Maurizio Borghi

 

Aiuti, meglio la Nato o Putin?. “Dagli amici mi guardi Iddio”

Volevo solo evidenziare a Travaglio che su Repubblica è riportata la notizia pubblicata da La Stampa, e da lui meravigliosamente criticata, relativa agli aiuti russi, con una chiusura: perché il nostro governo non ha richiesto l’aiuto della Nato?

Francesco Sacchi 

Forse perché, come dice il saggio, “dagli amici mi guardi Iddio, ché dai nemici mi guardo io”.

M. Trav.

 

Emergenza: meno chiacchiere e più esami di coscienza

Gentile Direttore, in tutte queste discussioni per la epidemia, buon segno democratico, vogliamo peraltro invitare a fare un passo indietro a tutti coloro che risultano fra: 1 ) i No-vax; 2) i berlusconiani che hanno regionalizzato la sanità pubblica; 3) le destre che hanno gestito (e continuano) la gloriosa sanità del Nord Italia; 4) i formigoniani che hanno sfruttato quella privata; 5) chi non ha condannato i miliardi per gli aerei F35 invece che la sanità pubblica; 6) chi ha approvato i tagli alla sanità in tutta Italia; 7) chi ha favorito Quota 100, la conseguente spesa miliardaria e l’esodo di medici/infermieri/sanitari; 8) chi non ha contrastato l’esodo di tanti sanitari/medici italiani all’estero; 9) chi ha introdotto il numero chiuso nelle facoltà di Medicina; 10) chi ha favorito lo sperpero di miliardi per il Reddito di cittadinanza, invece che investirli in sanità pubblica; 11) chi non favorisce la riduzione delle spese militari a favore della sanità pubblica; 12) chi non ostacola la follia miliardaria del calcio, della Formula 1 o del Festival di Sanremo… per spostare invece quei soldi nella sanità pubblica; 13) tutti coloro che non hanno fatto altro che sparlare e scrivere sempre e solo di malasanità; 14) tutti i fumatori, che muoiono in media in 90.000 annui, e intasano posti letto e risorse della Sanità… Ecco, tutti questi se ne stiano zitti, per un minimo di pudore!

Angelo Persiani, ex Ambasciatore in Uzbekistan, Tagikistan e Svezia

Caro Angelo, sono d’accordo su molti punti, ma non esageri, altrimenti qualcuno potrebbe obiettarle che lei dimentica quelli che guidano l’auto, quelli che bevono alcolici e anche quelli che respirano aria malsana. Cioè il 99,9% della popolazione mondiale.

M. Trav.

 

Bertinotti è stato parte della rovina di questo Paese

Capisco che i media si occupino di tutto e di tutti, ma non di elementi decotti, specie se si considerano gli incommensurabili danni da essi prodotti al Paese. Secondo me, e secondo tanti miei amici (che abbiamo macinato politica in passato), non è apprezzabile l’intervista concessa a quel narciso vaniloquente di Bertinotti. Noi imputiamo a lui e al cardinal Ruini, in gran misura, le rovine italiane dell’ultimo quarto di secolo.

Renzo Del Gobbo

Prendo atto del suo giudizio. Resta intatto il tema dell’intervista: le diseguaglianze sociali che questa pandemia acuirà.

A. Cap.

Domani ricordiamocelo: servono ospedali, non armi

Quando l’uragano sarà passato spero si impari ad aver più cura di madre Terra e della salute di tutti. Più ospedali e meno armi, dovranno capirlo ovunque. Una delle sofferenze che più rattrista in questi giorni è la solitudine delle vittime del Coronavirus e il dolore dei familiari che non possono esser loro accanto. Nemmeno un saluto, nemmeno un funerale. Sia a tutti lieve la terra, come diceva la pietas del compianto Gianni Mura.

Francesco Pugliese 

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo di domenica “Aprile mese crudele: il Vernacoliere non esce” ho attribuito al direttore Mario Cardinali le parole “politici miserabili” mentre lui parlava di “politiche miserabili”. Inoltre il soggetto nella foto non è lui, ma un lettore della rivista. Me ne scuso con gli interessati e con i lettori.

Gia. Sal.

Nell’articolo “‘Mia madre lasciata morire’. Ora si indaga per epidemia colposa” del 29 marzo abbiamo scritto che la figlia della signora Maria De Gregorio, poi deceduta all’ospedale di Piazza Armerina, chiedeva che la mamma fosse “ricoverata in un’altra struttura”. Precisiamo che non ha mai chiesto che fosse dimessa dall’Umberto I di Enna, struttura attrezzata con reparto di rianimazione, né trasferita in un altro ospedale meno attrezzato, come poi è avvenuto, ma semmai spostata in un altro reparto dello stesso ospedale di Enna.

FQ