La mancata “zona rossa” nella Bergamasca: la Lombardia sapeva, ma scarica sul governo

Il peccato originale. C’è stata una falla nei primi giorni del contagio, quelli cruciali, quelli in cui era ancora possibile fermare, o almeno rallentare, il disastro in Lombardia. Per capire è necessario tornare ai giorni di fine febbraio, ad Alzano Lombardo. L’assessore regionale Giulio Gallera, che si presenta ogni giorno in tv come il valoroso comandante in capo dell’esercito in guerra con il virus, ha spiegato a Peter Gomez, a Sono le venti: “Abbiamo condiviso con il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, la necessità di una zona rossa nell’area di Alzano. Era il mercoledì della seconda settimana. Poi abbiamo atteso, giovedì, venerdì, ma il governo questa decisione non l’ha assunta. Dopodiché, sabato o domenica ha preso una decisione molto forte, di chiudere l’intera regione. Sul perché non l’abbia assunta dovete chiederlo a Conte, non a noi”. Il “mercoledì della seconda settimana” di cui parla Gallera è il 4 marzo, poi l’8 marzo il governo “chiude” l’intera Lombardia. Ma che cosa succede prima di quel 4 marzo? La crisi inizia domenica 23 febbraio. All’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, Val Seriana, 6 chilometri da Bergamo, sono accertati due casi positivi di Covid-19. Nei giorni precedenti era scoppiato il primo focolaio a Codogno, in provincia di Lodi, che era però stato subito chiuso dal governo, d’intesa con la Regione, in una “zona rossa”. Ad Alzano non si chiude niente. L’ospedale viene fermato solo per poche ore. Nessuna sanificazione, nessun percorso differenziato per chi ha i sintomi del virus. Nessun tampone. Il contagio si diffonde.

Ecco la falla. Perché la Regione non è intervenuta? I pazienti dimessi dall’ospedale, i loro famigliari, i medici, gli infermieri, i cittadini di Alzano sono lasciati andare in giro a diffondere il virus. Le fabbriche restano aperte. Aperti gli impianti sciistici della vicina Valbondione. L’ospedale diventa una bomba a orologeria. Si ammalano il primario e giù giù medici, infermieri, portantini. Si ammalano i pazienti dimessi e tornati a casa, si ammala chi entra ricoverato per una frattura ed esce infetto. Niente mappatura, niente tamponi, niente separazione dei contagiati. I malati crescono soprattutto nel paese vicino di Nembro. Il presidente Attilio Fontana e l’assessore Gallera temporeggiano. Intanto il sindaco di Bergamo Giorgio Gori e quello di Milano Giuseppe Sala invitano a non fermare le città e a uscire per l’aperitivo (hashtag: “Milano non si ferma”, “Bergamo non si ferma”). Risultato: ad Alzano più di 50 morti in tre settimane. Poi l’onda nera arriva a Bergamo: oltre 4 mila positivi, quasi 400 morti. Il 1 marzo, Fontana annuncia: “Da stamattina siamo in collegamento con il presidente del Consiglio Conte, per arrivare a un decreto”. Gallera quel giorno è ottimista: dichiara che 60 persone sono guarite e gli accessi agli ospedali diminuiscono. Arriva un decreto blando, che non chiude le attività e lascia aperte, per esempio, le società sportive. Il 2 marzo l’Istituto superiore di sanità (Iss) stila una nota – scoperta e raccontata dalla giornalista Francesca Nava sul sito Tpi.it – in cui propone la creazione di una “zona rossa” per isolare il “cluster” infettivo di Alzano e Nembro. La Regione, che potrebbe decretarla subito, aspetta le decisioni del governo. Il governo decide solo sei giorni dopo, l’8 marzo, con il decreto che dichiara tutta la Lombardia “zona arancione” e blocca 11 milioni di persone. Troppo tardi. Bastava chiudere – ma molto prima – un’area di soli 25 mila abitanti. Non è stato fatto: per non fermare le fabbriche e le attività produttive della zona, ipotizza Francesca Nava, per non bloccare quasi 4 mila lavoratori, 376 aziende, un fatturato di 680 milioni. I dieci giorni cruciali, dunque, sono quelli tra il 23 febbraio, quando il contagio inizia a diffondersi nella Bergamasca, e il 2 marzo, quando l’Iss chiede la “zona rossa” ad Alzano. Poi altri sei giorni, dal 2 all’8, quando Regione e governo si palleggiano le responsabilità. Dopo è tardi: il contagio dilaga a Brescia, arriva a Milano.

Wuhan, cartoline da un funerale “non dichiarato”

La Repubblica popolare ha cambiato colore da tempo: non è più cerchiata in rosso sulle mappe dei Paesi in guerra per l’emergenza Covid-19. Ma per quelle stesse strade funestate dalla tragedia scoppiata a dicembre scorso, serpeggiano adesso, silenziose ed infauste, le ceneri dei morti.

La prima immagine nitida è quella di un camion rosso in transito per Wuhan, carico di urne funerarie azzurre. In un altro fotogramma, stanchi addetti ai lavori in mascherina, controllano centinaia di contenitori cinerari ammucchiati in un’enorme sala dal pavimento di marmo. Nella foto successiva altri uomini, dalle teste chine e dagli sguardi tristi, in quella che sembra la sala d’attesa di un’agenzia funebre, rimangono seduti su sgabelli molto distanti l’uno dall’altro, in angosciosa attesa. Un altro scatto mostra altre migliaia di urne: non ne è chiara la provenienza, se siano vuote o piene.

Sono state queste fotografie, diffuse dall’aggregatore di notizie cinese Caixin qualche giorno fa, a far dubitare i residenti della regione focolaio. La didascalia che le accompagna spiega che lo scorso mercoledì e giovedì due camion con identici carichi di 2.500 urne hanno attraversato la zona di Hankou, enorme distretto di Wuhan. Quelle urne sono troppe: ufficialmente, secondo quanto riferito dal Governo, i decessi per il Corona nella regione sono stati solo 2.535.

Le domande insistenti sono diventate interrogativi, in seguito articoli di giornale che facevano eco all’incredulità dei residenti davanti alle cifre fornite. Un report di Radio Free Asia, senza però fonti accreditate che rendano le ipotesi realtà, già accusa il governo centrale di Pechino: la Cina mente sul numero di decessi nella zona epicentro della pandemia, la culla del Covid-19 che ora avvelena il resto del mondo, “le stime mostrano che il bilancio delle vittime di Wuhan è molto più alto della cifra ufficiale”. Sui social network asiatici c’è chi ha conteggiato cinquemila contenitori funebri ma non spiega come. Molti malati, poi deceduti ma a cui non è stato fatto il tampone, hanno chiuso gli occhi per l’ultima volta con i sintomi tipici del Covid-19, ma non rientrano nelle statistiche ufficiali, rendono noto utenti sul social. Un articolo del Time riporta le cifre delle istituzioni municipali: “ci sono state 56 mila cremazioni a Wuhan nel quarto trimestre del 2019, un numero superiore di 1.583 a quello del quarto trimestre del 2018, di 2.231 superiore rispetto allo stesso periodo del 2017”.

I numeri della verità. Senza indagini approfondite non si conoscerà presto la cifra esatta dei defunti, degli scomparsi o delle urne che contengono i parenti compianti da familiari autorizzati solo ora a ritirare i resti dei loro cari. Si può contare solo un numero: quello della vittoria, fornito dal Dragone quando ha dichiarato “zero casi di nuovi contagi” e avvio alla normalizzazione. Pechino ha detto al mondo di aver curvato, rallentato e infine annullato la linea dell’epidemia dopo aver dichiarato battaglia al Corona: dei 45 infetti riscontrati ieri, 44 arrivavano dall’estero e uno solo è stato registrato nella provincia di Henan, riporta la commissione sanitaria governativa, che ha denunciato però 28 nuovi sospetti due giorni fa ad Hubei, regione teatro di scontri con le forze dell’ordine.

È arrivato dopo settimane di silenzio il tempo per l’ultimo saluto. Nella provincia di Wuhan come in quella dello Zhejiang e Guangxi, sono iniziati funerali ed addii. Giovedì le autorità hanno riferito alla popolazione che non potranno onorare e pulire le tombe come ogni anno ad inizio aprile per il Giorno degli antenati. Lunghe le file delle urne cinerarie, altrettanto lunghe quelle degli uomini che ora possono solo stringerle, in una regione senza più quarantena, ma senza diritto a misericordia e lutto.

Sos dai medici lombardi: “La altre Regioni aiutino”

Imedici anestesisti e rianimatori lombardi chiedono aiuto alle altre regioni, a partire da quelle confinanti. Gli oltre 1.500 posti di terapia intensiva allestiti dalla regione Lombardia per far fronte all’emergenza – a fronte di un piano di implementazione che prima dell’epidemia ne prevedeva 105 – non bastano. E non è sufficiente che almeno ottanta pazienti lombardi siano già stati trasferiti in altre regioni, come ha precisato ieri Fabio Rolfi, uno degli assessori del governatore Attilio Fontana.

Non per loro, almeno. Non per i primari dei reparti che afferiscono al coordinamento regionale delle terapie intensive, che hanno scritto al capo dello Stato Sergio Mattarella, al ministro della Salute Roberto Speranza e al premier Giuseppe Conte. Lettera che è un appello accorato, una richiesta di solidarietà. “Bisogna ampliare le possibilità di trattamento adeguato per tutti i pazienti che ne hanno necessità – hanno scritto –, considerando come prioritari i criteri di vicinanza geografica, superando in questo modo i confini fra diverse Regioni per il ricovero dei pazienti Covid, nello spirito di un’emergenza sanitaria nazionale”.

La lettera è stata buttata giù a poche ore dalle polemiche innescate dal deputato bresciano del Pd Alfredo Bazoli, che si è chiesto “come mai i pazienti Covid della sua città vengono trasferiti addirittura in Germania quando in Veneto, a Verona, “due terzi dei letti di terapia intensiva sono ancora liberi”. Anestesisti e rianimatori hanno messo nero su bianco numeri impressionanti. A Bergamo e Brescia, denunciano, “i reparti di terapia intensiva sono al collasso e il personale, fortemente provato dai contagi, non regge più. Al Civile di Brescia il 6% del personale è risultato positivo al virus, a Desenzano sul Garda il 14%, a Bergamo addirittura il 20%”.

I posti, in tutta la Lombardia, sono al limite, con 1.300 pazienti Covid con insufficienza respiratoria acuta ricoverati nelle terapie intensive, mentre i contagi continuano ad aumentare. Ci pensa, come ogni giorno, il bollettino dell’Istituto superiore della sanità a rendicontare quanti, tra medici e infermieri, sono già stati contagiati. Sono sempre in crescita: ieri erano 8.358, vale a dire 595 in più rispetto al giorno precedente. E di questi, quasi il 50% è concentrato proprio in Lombardia.

Abbiamo bisogno, dicono anestesisti e rianimatori, “di personale medico, infermieristico e tecnico qualificato, che possa affiancarci nella cura dei pazienti ricoverati nei nostri ospedali”. La regione è allo stremo. E sono in tanti a temere il pericolo di un’ondata di contagi nel Centro Sud, che sotto il peso dei numeri lombardi potrebbe crollare.

“Non possiamo permettere che le regioni del Centro e del Meridione vengano travolte – dice Carla Bruschelli, medico di medicina generale e consigliere della Simi, la società italiana di medicina interna –. In queste aree manca il personale, mancano le attrezzature di alta specialità, sono pochi i respiratori e pochi i posti letto nelle terapie intensive”.

Per Bruschelli, medico di famiglia, “Lombardia e parte del Veneto sono già perse: per fermare il contagio sono stati utilizzati tutti gli strumenti a disposizione, bisogna aspettare che si esaurisca e nel frattempo evitare che si diffonda al Sud, altrimenti l’Italia sarebbe davvero in ginocchio”.

Intanto gli ospedali ricevono i pazienti quando sono in condizioni già molto compromesse. “Bisognerebbe gestirli a casa, sul territorio – prosegue Bruschelli –. Ma i medici di base hanno scarsi strumenti a diposizione”.

La pandemia rallenta. I morti: solo il 2,1% privi di altre malattie

La fine del tunnel è lontana, ma s’intravede qualche bagliore di luce. Se infatti il numero quotidiano dei decessi (ieri 756, 10.779 dall’inizio dell’emergenza) e dei nuovi contagi sia spaventoso, l’indice complessivo di crescita dell’epidemia sta rallentando. Il numero complessivo dei contagiati da coronavirus in Italia (ossia il dato aggregato degli “attualmente positivi”, dei deceduti e dei guariti) ha toccato ieri le 97.689 unità, registrando un indice di crescita del 5,64% rispetto alle precedenti 24 ore, contro il 6,90% di sabato e il 7,39% di venerdì. Gli “attualmente positivi” sono 73.880, di cui oltre 40 mila (il 58%) in isolamento domiciliare, 27.386 ricoverati e 3.906 in terapia intensiva.

Epicentro del Covid-19 è sempre la Lombardia, che ieri ha registrati un incremento del 4,03% a causa di 1.543 nuovi contagi (41.007 complessivi) e 416 morti (6.360 in tutto). Preoccupa l’area metropolitana milanese, che ha registrato un incremento dell’indice di crescita quasi doppio (7,81%) con 546 nuove positività, di cui 247 nel comune di Milano. Nella Bergamasca si sono registrati altri 178 casi, 335 nel Bresciano e in provincia di Cremona 157. Nel Lodigiano sono 28 i nuovi contagiati.

In Emilia Romagna, la seconda regione per diffusione del contagio, si registra un incremento del 5,94% (13.119 casi totali e 1.443 morti), dato che scende al 5,4 in Veneto (8.358, 392) ma che aumenta in maniera preoccupante in Piemonte (6,97%, 8.206 casi e 684 morti), Liguria (9%, 3.076, 377) e Toscana (7,99%, 4.122, 215) . Aumenti più contenuti nelle Marche (5,48%) e Friuli Venezia Gulia (3.06%). Abruzzo, Valle d’Aosta, Basilicata e Calabria sono le uniche regioni che fanno registrare un incremento superiore al 10%.

L’Iss ha intanto diffuso un secondo studio sulla mortalità: su 710 cartelle cliniche analizzate, solo 15 persone decedute (il 2.1%) non presentavano patologie pregresse.

Dal porta a porta a internet, il contagio di truffe e furti

Nelle situazioni di emergenza esce tutto il meglio, come anche purtroppo tutto il peggio, degli esseri umani. Ci sono eventi, personali o collettivi, che polarizzano la risposta delle persone. La pandemia di coronavirus Covid19 è uno di questi momenti: da un lato lo sforzo sovrumano di decine di migliaia di addetti alla sanità e ai servizi essenziali, impegnati spesso sino al sacrificio della propria vita, dall’altro i vergognosi comportamenti di una schiera di delinquenti che cercano di approfittarsi in ogni modo delle paure del prossimo. Truffe, raggiri, frodi sono all’ordine del giorno in queste settimane: aumenta il numero di chi cerca di fare soldi con questi imbrogli perché altri reati, come i furti in casa gli scippi e le rapine, sono in diminuzione per l’impatto delle misure di contenimento. A essere presi di mira sono soprattutto i soggetti più deboli, tra cui gli anziani, vittime predilette dagli autori di questi crimini odiosi.

La prima ondata di questa nuova tipologia di “bidoni” è scattata nei giorni immediatamente successivi alla scoperta dei primi casi di coronavirus italiani. Numerosi sciacalli hanno iniziato a operare con la tecnica del “porta a porta”: da soli, ma spesso in coppia, si sono procurati giacconi divise o indumenti di associazioni di volontariato o enti di pubblica utilità, ma spesso anche solo badge fasulli, e hanno tentato – spesso riuscendo – di introdursi nelle case, commettendo furti o raggiri. In alcune versioni le “visite” dei criminali sono state precedute da telefonate o altre comunicazioni di complici che preannunciavano “appuntamenti” con i truffatori e accreditandoli come “inviati” di vari enti o autorità.

Tra le truffe “porta a porta” più diffuse ci sono quelle nelle quali falsi operatori sanitari, in cui i criminali si accreditano come personale delle Aziende sanitarie locali attraverso finti badge o documenti contraffatti, chiedono di entrare nelle abitazioni per effettuare disinfezioni o prelevare tamponi sulla positività al virus. E mentre uno distrae, l’altro ruba. Uno schema messo in atto dal Nord al Sud del Paese, con segnalazioni in alcuni comuni della provincia di Brescia sino a Palermo. Poi ci sono i classici “bidoni” nei quali sempre falsi operatori sanitari o di forze dell’ordine chiedono di “disinfettare” le banconote presenti in casa perché potrebbero essere “contaminate”. Ma ci sono anche forme ancora più fantasiose – l’inventiva e la creatività di certi soggetti non conoscono limiti –. Come riportato dalla stampa locale (Ravenna Today), “molti anziani di Ravenna hanno ricevuto una telefonata durante la quale una voce femminile spiegava di essere stata incaricata da un’azienda farmaceutica a proporre un farmaco speciale contro il coronavirus. I truffatori, poi, si offrivano di recarsi presso l’abitazione della vittima per portare il farmaco”. E vendere prodotti inutili. Purtroppo a oggi non vi sono protocolli di cura o farmaci miracolosi dei quali sia accertata l’efficacia e men che meno vaccini.

Attenzione anche ai finti agenti di polizia locale, magari in borghese, che esibendo falsi tesserini “multano” i passanti perché non indossano mascherine o guanti e pretendono pagamenti in contanti al momento: nessuna norma obbliga a indossare guanti o mascherine. Vi sono poi false raccolte di fondi per sostenere organizzazioni di volontariato, ospedali, strutture sanitarie, persino la Protezione civile.

Ma non basta. Come l’epidemia si diffonde in ondate successive, dopo una prima propagazione basata sul contatto diretto personale, ora che questa è più difficile per i divieti di circolazione, adesso arriva una seconda fase in cui le truffe sul coronavirus sfruttano i canali tecnologici e viaggiano via web. Ci sono siti che offrono acquisti di “kit di prevenzione” del valore di 995,7 euro contro il coronavirus: si tratta di “pacchi” di scarsissima o nessuna utilità. A Torino 22 imprenditori sono stati denunciati: vendevano su siti di e-commerce mascherine garantendo la totale protezione dal Covid-19, chiedevano sino a cinquemila euro per il kit completo composto da guanti, protezioni, disinfettante e un copri-wc.

In altri casi, come in quello della “email della dottoressa Penelope Marchetti” inesistente esperta dell’Organizzazione mondiale della sanità, o del finto virologo giapponese, arrivano messaggi per posta elettronica in cui si invita ad aprire un file allegato che conterrebbe importanti informazioni sanitarie per prevenire l’infezione. L’allegato contiene invece un virus informatico che carpisce i dati sensibili, bancari e personali, dei clienti (questo genere di truffa si chiama phishing).

In altri casi attraverso il telefono c’è chi si offre di procurare dosi di vaccino (che al momento non esiste) dietro esborsi di denaro. I dati personali o bancari delle vittime sono stati carpiti anche attraverso una “Guida utile per difendersi dal coronavirus” dell’Oms, ovviamente fasulla, inviata via email e contenente un malware che si impossessa di informazioni personali e le trasmette ai truffatori. “I criminali del web stanno approfittando per colpire le vittime con attività di phishing legate al Covid-19. Sono già diverse le truffe informatiche scoperte e segnalate dalla Polizia postale e delle comunicazioni fin da quando si è generata la paura per l’epidemia”, fa sapere la Polizia di Stato attraverso la propria pagina Facebook. L’invito della Polizia postale è non aprire mai messaggi di questo genere, evitando assolutamente di scaricare o aprire eventuali allegati a queste email, ma anche messaggi social o whatsapp, e segnalare eventuali tentativi di phishing al Commissariato di Pubblica sicurezza online.

“Dopo saremo più solidali. Il mondo nuovo ci piacerà”

E cosa succederà domani? Che ne sarà di noi alla fine di questo tempo sospeso? Marino Niola insegna antropologia al Suor Orsola Benincasa di Napoli. Osserva, studia, analizza i comportamenti e i continui adattamenti dell’uomo, i suoi riti, le sue abitudini e anche i repentini cambi di passo quando vi è costretto da una realtà che improvvisamente cambia assetto.

“Nel dolore di questi giorni non avvertiamo quel che di buono succederà. E invece c’è tanto. Anzitutto la società digitale è divenuta una realtà. A una velocità pazzesca ci siamo impadroniti del computer, istituzioni impolverate e austere, penso all’università, alle burocrazie dello Stato, si sono trovate nella condizione di apprendere prestissimo un nuovo sistema di trasmissione delle conoscenze e delle competenze. In tempi di pace ci sarebbero voluti vent’anni; in tempo di guerra, perché siamo in guerra, sono bastati 20 giorni”.

Il computer era il segno delle nuove solitudini, di un mare sommerso che si affacciava al mondo odiandolo.

E invece le famiglie, costrette a stare a casa, hanno scoperto il valore della comunità virtuale. Questo virus ha smaterializzato la società, ha polverizzato la comunità materiale. Il distanziamento sociale è la negazione del segno quotidiano della nostra vita. Il divieto di abbracciarsi è contro la nostra natura di uomini e, per noi italiani, anche di più. Grazie alla rete le nostre vite invece si sono potute tenere in piedi. La rete, che ieri ci isolava e spesso da cittadini ci trasformava in odiatori, ci collega, anzi ci unisce. È lo strumento che ci permette di sentirci solidali, informati, vivi. Anche questa è una novità non da poco. È perfino cambiata la nostra prossemica e l’emoticon è divenuto il suo sostituto funzionale. Adoperiamo le faccette per dire e fare quel che non ci è permesso: baciare, abbracciarci, piangere, sorridere, sfottere.

Finirà questo tempo e tutto ritornerà come prima.

Nulla sarà più come prima, ma il futuro che vedo dietro l’angolo di questa disperante crisi ci renderà migliori, in una società più solidale.

Perché dovremmo essere migliori se le nostre condizioni economiche peggioreranno e tanti faranno naufragio?

Perché ogni dopoguerra mette in circolo una vitalità sconosciuta. Abbia in testa una molla e immagini di comprimerla. Oggi la nostra vita è compressa, è sotto vuoto, è ferma. Domani, quando la pressione svanirà, quella molla ritornerà nella posizioni abituale, le energie si libereranno impetuose. Certamente saremo più poveri, ma perché più infelici? Questa guerra ci impone un’altra scoperta: riflettere e rivalutare le nostre abitudini. Eravamo piuttosto scontenti di esse e non sapevamo porre rimedio. Domani saremo costretti invece a inventarci un nuovo modello di stare al mondo.

Il dopoguerra seppellisce la società più fragile.

Questo sarà il lascito di un evento mai sperimentato prima e così drammaticamente pauroso.

Gli statistici indicano una platea di contagiati, la linea plausibile del virus in circolo, in un numero dieci volte superiore a quello delle cifre ufficiali. E i morti quadruplicheranno.

Non riesco a valutare le cifre. La mia osservazione, e non credo che sia vittima di un ottimismo sfrenato, mi induce a pensare a un domani comunque ricco di grandi possibilità. È una ricchezza diversa da quella che immaginavamo, certo. Dovremo regolare la nostra vita a un ritmo forse più basso, questo sì. Però resisto nella mia considerazione: la società che uscirà da questa prova sarà piena di vitalità e densa di talenti che avranno la possibilità di mostrarsi. E alcune conquiste, che non riusciamo a cogliere del tutto, le stiamo già vivendo.

Ne dica due, di queste conquiste.

Il tempo. Ci mancava sempre tempo. Per i nostri piaceri e per i nostri doveri, per i figli o per la cucina. Per la riflessione, per il sentimento. Riacquistare forzosamente un tempo così lungo è per un verso traumatico, per un altro benedetto. Siamo costretti a pensare alla nostra vita, e sicuramente a ripensarla. Soprattutto a evitare gli errori della nostra vita precedente. È poco?

In tanti perderanno il lavoro. Le sembra niente?

Il lavoro cambierà, muterà faccia. Potrei risponderle: è vero anche il contrario. Cioè in tanti lo troveranno. Quel che non sappiamo è come sarà: il suo valore economico, la sua qualità. Effettivamente, qui concordo, sono interrogativi di non poco conto.

La seconda conquista di cui facciamo fatica ad accorgercene?

I figli hanno ritrovato casa. Stanno scoprendo cos’è una famiglia, stanno parlando con i genitori. E i genitori stanno scoprendo cosa vuol dire avere dei figli. Pensavamo che i nostri ragazzi non avessero altro Dio che lo spritz, il pub, la piazza o internet. Invece, a quanto vedo e sento, stanno apprezzando la casa.

Tutte cose belle sotto il cielo però di questa grande angoscia, questa grande paura.

La storia dell’uomo è fatta di angosciosi eventi, la storia italiana ha conosciuto grandi e ripetute epidemie. Nulla di nuovo sotto il cielo. Anche se è terribile dirlo.

Lei vive a Napoli, e al Sud l’emergenza stringe ai fianchi perché l’economia è più debole.

Napoli se la cava bene con lo stato d’emergenza perché vi è abituata. E in genere il Sud è più propenso a fare rete, a resistere salendo sulla scialuppa familiare. Abito in centro e qui non ci sono i supermercati delle periferie. Ancora sono tanti e vivi i negozietti – appunto la rete della prossimità – con una attitudine alla solidarietà che altrove è perduta.

Mi faccia un esempio.

Il mio fruttivendolo. Lo chiamo e mi consegna la verdura e la frutta a casa. Gli ho chiesto di darmi l’Iban bancario perché non vorrei privarmi del contante. Mi ha risposto: non si preoccupi, quando tutto sarà finito mi pagherà. Non credo che da Esselunga sia possibile. Davvero penso che sarà un mondo nuovo. E non è detto che non ci piaccia.

Il destino triste dei fedifraghi: in auto a chattare con l’amante

Esiste una categorie di dipendenti ai quali, ai tempi del Coronavirus, è stata negata ogni opportunità, a differenza di tabagisti e malati di psicofarmaci: è il folto popolo bisex degli adulteri, ai quali nessuno decreto ha consentito visite, nonostante su di essi si regga l’economia sentimentale del Paese. Il primo problema del traditore (o traditrice) seriale è l’impossibilità di nascondersi nella claustrofobia della casa. Dunque niente incontri reali, ma neanche virtuali, a meno che non si sfrutti la fila per la spesa, in quel caso benedetta, oppure la macchina ferma, dove pare la gente ormai si rifugi per avere un po’ di intimità telefonica col proprio amante o il proprio psy. Diciamolo: la quarantena è l’incubo di chi l’equilibrio familiare l’aveva costruito su più persone e il trionfo sadico dei fedelissimi, almeno di quelli che per sopravvivere non utilizzavano altri surrogati, come il lavoro, oppure il running forsennato (scopertosi come il vero vizio nazionale). Ai tempi del Coronavirus, gli amanti stanno peggio delle povere badanti: perché mentre le famiglie sono corse a regolarizzare le seconde, legalizzare l’amore in nero non si può. Così l’adultero, costretto a smilzi messaggi dallo sgabuzzino, ha di fronte a lui due strade: o il mesto rifugio nel porno virtuale, che a poco serve visto che il vero tradimento è sentimentale, o l’accettazione realistica dell’economia di guerra, che può tradursi in astinenza totale o nel recupero del recuperabile, come Pinocchio con le bucce della pera in tempi di fame. Per arrivare magari ad avere l’intuizione risolutiva: forse sto bene così, addio triangolo e grazie quarantena. La stessa intuizione, però, potrebbe arrivare anche al singolo/a avviluppato in una relazione con lo sposato da sempre. Non lo posso sentire? Quasi quasi faccio senza. Pure dopo il Coronavirus, anzi soprattutto.

Tutti a casa a fare l’amore, anzi no: dopo la clausura arriva il divorzio

“Fra nove mesi chissà quanti bambini!” dicevamo ottimisti all’inizio della quarantena, la fase del “tutto andrà bene” e delle canzoni sul balcone. Man mano che la fine del tunnel si allontana, è plausibile che la prima cosa che faranno molte coppie appena potranno allontanarsi più di duecento metri da casa sarà andare da un avvocato divorzista. La clausura forzata, insieme alle preoccupazioni per il lavoro, tutto ispirano tranne voglia di amarsi e riprodursi, specie quando ci si può sfogare con Netflix, Playstation e PornHub. Va molto peggio a chi la voglia (almeno quella di amarsi) ce l’ha, ma in casa ha anche uno o due figli che, causa sballamento degli orari, di notte hanno il sonno leggero e di giorno reclamano attenzione, se sono piccoli, o capiscono tutto, se sono grandi. Se si ha una casa grande ci si può rifugiare in garage o in soffitta, con la scusa del magico potere del riordino. Ma negli appartamenti più piccoli, dove di notte il lettone diventa un’enorme cesta in cui si ammucchiano in cerca di rassicurazione adulti, bambini e gatti o cani di casa, l’unica soluzione per due genitori ancora sessualmente attivi è divincolarsi lentissimamente dal viluppo di braccia e zampe, infilarsi insieme nel box doccia e aprire l’acqua al massimo, attenti a non scivolare sulle piastrelle perché qualunque infortunio che richieda un medico oggi potrebbe essere la classica pagliuzza che rende insostenibile l’immane soma che grava sul sistema sanitario nazionale. I meno motivati si riducono al sexting coniugale: l’assenza di privacy obbliga alle relazioni a distanza anche i partner conviventi non soggetti all’obbligo del distanziamento sociale. E potrebbe essere romantico, se non fosse che sia per lui che per lei, al momento, la fantasia più proibita ed eccitante è un giro appassionato al centro commerciale.

Una Serie A cicala che chiede l’obolo

Cari presidenti di Serie A, il momento è difficile e vi capiamo; ma mentre siete impegnati a cercare di concludere ad ogni costo la stagione per scongiurare un danno stimato in 720 milioni pensando a partite da giocare a Ferragosto, al taglio degli stipendi dei calciatori, al permesso di riaprire alla pubblicità delle scommesse (una spruzzata di ludopatia tanto per gradire), all’introduzione di una nuova schedina del Totocalcio che rimpingui solo le vostre casse, ci sono alcune cose su cui dovreste forse riflettere.

L’altro scudetto. Mentre vi scervellate su quale sia il modo migliore per salvare la ghirba, sforando la data del 30 giugno, o introducendo i playoff o ancora tenendo buona la classifica all’atto della sospensione, non sarebbe male se deste un’occhiata anche a un’altra classifica, quella dei debiti che avete accumulato (2,5 miliardi ad oggi), stilata nei giorni scorsi dalla Gazzetta al fixing dell’ultima stagione, la 2018-’19. La seguente: 1. Juventus 576,8 milioni di debiti; 2. Inter 490,1; 3. Roma 425,5; 4. Milan 164,4; 5. Lazio 121; 6. Genoa 100,7; 7. Udinese 82,3; 8. Bologna 75,3; 9. Napoli 74,2; 10. Sassuolo 63,1 (segue il gruppo). Qui il Coronavirus non c’entra, c’entrate voi.

Le plusvalenze. Ci sono poi le plusvalenze che ogni anno, allegramente, mettete a bilancio per taroccare i conti; coprite cioè le perdite della gestione operativa vendendo calciatori a prezzi gonfiati.

Nel 2014-’15 avevate fatto plusvalenze per 331,7 milioni; la stagione dopo siete saliti a 376; nel 2016-17 il botto, 693,4 milioni; che sono diventati 713,1 un anno dopo e 717 al termine dell’ultima stagione, oltre un terzo dei quali realizzati da Juventus e Roma, quelle che reclamano il posto fisso in Champions per il loro blasone. Pagamenti che per tre quarti non avvengono con denaro liquido ma con la contro-cessione di altri giocatori. Una bomba a orologeria destinata presto a esplodere perché la bolla finisce col gonfiare anche i costi per l’aumento degli ammortamenti dei cartellini. Dettaglio inquietante: le plusvalenze costituiscono oggi, e lo sapete bene, 1/4 del bilancio dei vostri club, per l’esattezza il 23,5%. E se la serie A, nelle 5 stagioni tra il 2013-’14 e il 2017-’18, ha totalizzato plusvalenze per 2.637 milioni, la Premier League ha fatto altrettanto (2,686 milioni) ma a fronte di un giro d’affari triplo del vostro, mentre la Liga spagnola si è fermata a 1.815 milioni. E anche qui il Coronavirus non c’entra, c’entrate voi.

I procuratori. E che dire delle commissioni pagate agli agenti? Nel 2019 (dati FIFA) l’intera Europa ha speso per questa voce 565,2 milioni: ebbene, nella classifica dei contribuenti voi – serie A – siete primi con 118 milioni, oltre 1/5 del totale. Il tutto per 204 movimenti, mentre la Premer per 309 movimenti (un terzo in più) ne ha spesi 93,5; Liga, Bundesliga e Ligue 1 tantissimi meno. E anche qui il Coronavirus non c’entra, c’entrate voi.

Morale della favola. Insomma: considerando che il vostro monte-stipendi ammonta a 1,36 miliardi (200 milioni in più rispetto a un anno fa) con la Juve prima a quota 294 seguita da Inter (139), Roma (125) e Milan (115), la domanda che sorge spontanea è: perché non ve la cavate da soli? “Che cosa facevi quest’estate?”, chiese la formica alla cicala. “Ho cantato”. “Hai cantato? E allora, adesso balla”.

Celebrare messa è come lavorare: le direttive del Viminale alla Cei

Celebrare la messa equivale a “comprovate esigenze lavorative”. Venerdì 27 marzo – lo stesso giorno della preghiera solinga ed epocale di Francesco in piazza san Pietro – il ministero dell’Interno ha risposto ad alcuni quesiti posti all’autorità civile dalla Conferenza episcopale italiana. E lo ha fatto con una nota del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale.

La prima domanda cui risponde è quella sull’interpretazione dei decreti del premier che consentono l’apertura delle chiese. Si può uscire appositamente per andare a pregare? No, dice lo Stato ai vescovi italiani. “È necessario che l’accesso avvenga solo in occasioni di spostamenti determinati da ‘comprovate esigenze lavorative’, ovvero per ‘situazioni di necessità’ e che la chiesa sia situata lungo per il percorso”.

In ogni caso le messe si possono celebrare ma senza fedeli. E i “ministri celebranti” possono uscire indicando nell’autocertificazione la ragione liturgica. Come se andassero al lavoro. Spiega il Dipartimento del Viminale: “Sebbene il servizio liturgico non sia direttamente assimilabile a un rapporto di impiego, (…), ai fini delle causali da indicare nella autocertificazione esso è da ritenere ascrivibile a ‘comprovate esigenze lavorative’”.

Tra le funzioni non vietate, pochi lo sanno, ci sono i matrimoni. Ovviamente senza invitati. Solamente il celebrante, i nubendi e i testimoni. La nota del ministero dell’Interno ha sollevato molte polemiche nel network conservatore anti-bergogliano, dove peraltro pure la preghiera del papa è stata bersagliata da critiche e attacchi. Secondo la destra clericale, la Cei si è completamente sottomessa allo Stato, nonostante la libertà religiosa assicurata dalla Costituzione. Per gli oppositori del papa le messe dovrebbero tenersi con i fedeli dentro la chiesa e sono molte le testimonianze raccolte di vescovi e preti ribelli che contestano il divieto.

Su un punto però hanno ragione i clericali: la nota del Viminale dà disposizioni anche per i riti della Settimana Santa che si aprirà il 5 aprile con la domenica delle Palme. Tuttavia, al momento i decreti del premier indicano il divieto delle funzioni fino al 3 aprile.