Cina e Stati Uniti: la grande sfida alla pandemia mondiale

L’allarme sul Coronavirus non è stato creato da alcun complotto. È iniziato come effetto di uno scontro “in automatico” tra sistemi politici e informativi divergenti che non hanno bisogno di alcuna intenzionalità per tentare di sfruttare a proprio vantaggio ogni vulnerabilità dell’ avversario.

Le cose potrebbero essere andate così:

a) La nascita di un focolaio epidemico in una megalopoli cinese ha fornito l’occasione per assestare un bel colpo al prestigio e alla credibilità del regime di Xi Jinping. Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio il governo di Pechino è stato messo sotto processo, accusato di non essere in grado di proteggere la salute dei cinesi – e di riflesso quella del resto del mondo – di fronte ad una epidemia che avrebbe presto assunto proporzioni bibliche.

b) Xi Jinping e l’elite comunista avevano a questo punto due scelte. La prima era quella di dichiarare che era tutta una montatura anticinese, e che si trattava di un’ influenza stagionale la cui letalità si sarebbe dimostrata irrisoria rispetto ai numeri della popolazione. La forza del sistema si sarebbe allora dispiegata nel nascondere i dati, sopprimere singole voci di allarme, silenziare autorità locali e media. Ed è innegabile che questa inclinazione sia stata molto forte ed abbia dominato il primo stadio della pandemia, quando chi lanciava gli allarmi, come il famoso medico di Wuhan, veniva perseguitato e zittito.

Pur non essendo più il paese totalitario della rivoluzione culturale e degli eccessi maoisti, la Cina di oggi è un paese solidamente autoritario, perfettamente in grado di attuare una linea di negazione della pandemia. Bastava perciò non fare nulla di concreto contro di essa, mettersi alla cappa ed aspettare l’arrivo dell’estate con l’inevitabile, connesso calo di contagiati e morti. Con una popolazione di un miliardo e 400 milioni, si sarebbe trovato il modo di giustificare anche decine di migliaia di decessi.

c) In una fase susseguente, tuttavia – e in seguito a un travaglio interno al partito comunista sul quale è trapelato ben poco – è prevalsa però la scelta opposta. La nuova potenza mondiale aveva deciso di essere abbastanza forte da prendere il toro per le corna.

Contrordine, compagni. La linea adesso era diventata quella di aderire alla narrativa sul Coronavirus appena creata in Occidente, e di imbarcarsi in una sfida a tutto campo. Se la posta in gioco era la capacità di governo della Cina post-Deng Xiaoping, la partita, whatever it would take, si sarebbe giocata.

I rischi erano estremi. E il costo della vittoria successiva, conseguita in sole quattro settimane, si è rivelato molto grande in termini economici. Ma è questo successo che consente oggi alla Cina di presentarsi al mondo come una potenza non minacciosa, rispettosa del multilateralismo e degli standard minimi della solidarietà internazionale.

d) La palla è ora rimbalzata nel campo dal quale era provenuta, con l’Oms che definisce gli Stati Uniti come il potenziale epicentro della pandemia globale, e con Trump alle prese con lo stesso identico dilemma affrontato da Xi Jinping solo qualche mese prima: accettare la sfida o svicolare da essa disconoscendone entità e significato? Anche la posta in gioco è simile, viste le elezioni presidenziali alle porte e i dubbi ormai dilaganti sulla capacità degli Usa di guidare l’Occidente. Un’entrata in guerra della potenza americana alla testa di una grande coalizione, con strategie e risorse all’altezza del nemico da combattere, viene in effetti evocata dai nostalgici dei bei vecchi tempi.

e) Ma Trump non appare affatto interessato a percorrere questa strada. Dopo un iniziale tentennamento, sembra avere abbracciato la scelta di ripiego, minimizzando la gravità della tragedia: è in atto la solita influenza, che forse non arriverà neppure ad uccidere i 27-70mila americani di ogni anno. Per lui ci sono altre priorità.

Calcolo solo elettorale, e virtualmente disastroso? Oppure fredda valutazione delle reali chances di successo immediato in un conflitto in cui, una volta scesi in campo, le due armi più potenti dell’impero – il dollaro e le forze armate – servirebbero a ben poco? Un confronto dove l’arretratezza americana – in termini di assenza di servizi sanitari universali, estremo individualismo e debole senso della collettività – costituirebbe un handicap devastante?

f) La posizione di Trump ha una logica da non sottovalutare, rafforzata dallo storico piano di sostegno dell’economia appena varato che contiene misure che trasferiscono risorse direttamente ai cittadini: un bonus pre-elettorale di 13mila dollari totali a ciascuna famiglia americana di quattro persone. Misure ovviamente molto popolari, rivolte a tutti i votanti, e suscettibili di compensare, nei disegni della Casa Bianca, le ansie generate dalla veloce crescita dei contagi.

Ma l’esito finale della partita Usa contro il virus resta comunque molto incerto. Perché in scena non ci sono solo i cinici calcoli del Presidente. Ci sono anche la progressione di un’epidemia non contrastata, l’industria mediatica ed i governatori degli stati che considerano l’emergenza sanitaria come una priorità assoluta. Una loro retromarcia è molto improbabile.

Il blocco da covid, guai (e soluzioni) degli agricoltori

Louise Calais è sovraccarica di lavoro. Da quando è entrato in vigore il “confinamento” (in Francia il blocco totale è scattato il 17 marzo, ndt), Louise, che produce formaggio di capra non lontano da Manosque, nelle Alpi dell’Alta Provenza, sta facendo il possibile per smaltire tutta la sua produzione. Nel frattempo hanno chiuso due dei tre mercati settimanali a cui partecipava e che le permettevano di vendere la sua produzione di mille formaggi a settimana. Nel giro di pochi giorni ha dovuto rivedere tutta l’organizzazione della sua attività: “Con l’aiuto di amici abbiamo creato un’associazione: le persone ordinano i miei prodotti e io li deposito in auto davanti a casa loro”. Il sistema funziona, ma Louise Calais, della fattoria La Buissière, ora deve gestire in più anche un gran numero di mail quotidiane e pianificare dei giri di consegna. Gli spostamenti hanno un costo che per ora non può ripercuotere sui prezzi. “Questa situazione mette a rischio i produttori come me. Lavoro da 15 anni, ho impiegato sei anni a trovare il terreno, mi sono indebitata per costruire la mia fatturia nel rispetto degli standard europei, e ora che le entrate diminuiscono devo anche lavorare di più”.

Il settore agricolo è in difficoltà in Francia. Dopo aver esitato per alcuni giorni, la settimana scorsa il governo ha deciso di vietare i mercati all’aperto, autorizzando solo quelli dov’è possibile rispettare rigorose misure d’igiene. I contadini che lavorano nella vendita diretta, al di fuori dei circuiti della grande distribuzione, vedono crollare i loro guadagni. Potenzialmente la chiusura dei mercati può provocare anche uno spreco enorme di cibo perché, come si sa, l’attività agricola è legata al ritmo delle stagioni. La raccolta e la semina non aspettano. Sospendere l’attività agricola, come è stato per i settori secondario e terziario dell’economia, significherebbe perdere le risorse vitali in un momento in cui l’autonomia alimentare delle grandi città è molto bassa (per Parigi è di soli tre giorni). Nelle campagne allora il mondo contadino si organizza in fretta per limitare le perdite. È quello che sta facendo l’associazione “Bioskaria”, un gruppo di allevatori biologici dei Paesi Baschi e del Béarn, nei Pirenei Atlantici, che proprio prima della crisi aveva messo a punto un circuito per rifornire una cinquantina di mense scolastiche della regione. Ma che, con la chiusura delle scuole dovuta all’epidemia, ha rischiato di perdere venti vitelli. “Li avevamo appena inviati al macello – spiega Jean-Michel Etchegaray, membro di Bioskaria -. Ma siamo riusciti a trovare una cooperativa per congelare la carne e conservarla. Le scuole con cui lavoriamo hanno accettato di riprendere i nostri prodotti una volta superata la crisi, anche se inizialmente ci eravamo impegnati a fornire solo prodotti freschi”.

La carne degli altri 17 vitelli previsti sul periodo è stata venduta a privati dopo un massiccio invio di mail ai contatti dell’associazione. “Stiamo preparando un sistema con punti di consegna, tipo drive. Venderemo confezioni da cinque chili di carne fresca mettendola direttamente nel bagagliaio delle auto, in modo da evitare ogni contatto con le persone”. Inizio previsto questa settimana, a condizione che i macelli accettino gli animali. I macelli infatti sono a corto di personale dal momento che dei dipendenti hanno dovuto smettere di lavorare per occuparsi dei figli.

Molti agricoltori sottolineano l’incoerenza delle decisioni del governo, che da una parte ha deciso un blocco rigoroso ma dall’altra non ha previsto misure di protezione per i lavoratori del mondo agricolo. Non ci sono indicazioni per esempio per la tosatura degli ovini, di cui sta per iniziare la stagione, un’attività di contatto, svolta a viso scoperto e a mani nude. Il governo ha fatto anche un altro annuncio: ha lanciato un appello ai “rinforzi” per il lavoro “nei campi”, con la creazione di un “dispositivo semplice e straordinario che permetta ai dipendenti di altri settori, obbligati dalla situazione a lavorare part-time, di concludere un contratto di lavoro con una società del settore agricolo”. Si permette cioè di cumulare più attività. Ma bisogna pur trovare personale disponibile. Per questo è stata creata la piattaforma Des bras pour ton assiette (“braccia per il tuo piatto”), presentata dal ministro dell’Agricoltura, Didier Guillaume.

Secondo le stime del ministero, il mondo agricolo in Francia avrà bisogno entro giugno di 200 mila lavoratori stagionali: “I polacchi e i rumeni, che sono soliti venire, questa volta non verranno”, ha dichiarato Christiane Lambert, presidente della Fnsea, primo sindacato agricolo. La raccolta degli asparagi e delle fragole che inizia adesso nel sud, la semina dell’orzo, della barbabietola, del mais, del girasole, che deve partire tra poco, la palizzatura dei vigneti che si effettua tra maggio e giugno, sono tutti lavori svolti solitamente da lavoratori stagionali, generalmente stranieri e sottopagati. Ma la chiusura delle frontiere in Europa impedisce a questi lavoratori nomadi di spostarsi. In totale, 1,1 milioni di persone lavorano nel settore agricolo ogni anno, secondo le stime della Mutualité sociale agricole (Msa), l’ente previdenziale dei lavoratori del mondo agricolo. Di questi, circa 660 mila sono dipendenti e solo 350 mila lo sono a tempo indeterminato. Jean-Baptiste Vervy è il responsabile della piattaforma: “Già prima della crisi – spiega – avevamo difficoltà a reclutare mano d’opera per l’agricoltura. 70 mila posti stagionali restavano vuoti. Un anno fa abbiamo creato una start-up, “Wizzifarm”, per far coincidere l’offerta dei produttori e la domanda delle persone in cerca di lavoro. È questo tipo di servizio che stiamo potenziando ora con la piattaforma Des bras pour ton assiette”. L’idea? Mobilitare chi svolge già un’altra attività stagionale (come gli autotrasportatori), chi è penalizzato dalla situazione attuale e chi è in cerca di un altro lavoro. Il rischio che la produzione agricola diminuisca è reale. In Italia, dove ogni anno lavorano circa 370 mila lavoratori agricoli stagionali, la Coldiretti teme un calo della produzione del 25%. In Germania la forza lavoro straniera assunta per i diversi raccolti è di circa 300 mila persone, ma il governo federale ha vietato in modo assoluto l’ingresso nel paese dei lavoratori stagionali. Da parte sua invece il presidente della commissione Agricoltura del Parlamento europeo, Norbert Lins, ritiene che l’Unione europea debba garantire lo spostamento dei lavoratori stagionali. Si potrebbe dunque introdurre un sistema di lasciapassare per esempio mettendo a disposizione dei treni e dei pullman speciali.

Per Jean-Baptiste Prévost della fattoria dei Longuins, nella regione Marna, il momento è critico. Si prepara a raccogliere gli asparagi sul suo terreno di sei ettari e ogni anno in questo periodo assume sei dipendenti per due mesi, da metà aprile a metà giugno. Per molto tempo si è trattato di lavoratori spagnoli. Ma dal 2004, con l’allargamento dell’Unione Europea ai paesi dell’est, sono polacchi. “I miei sei ettari di asparagi rappresentano un fatturato di circa 100 mila euro”, dice preoccupato. La nuova piattaforma per ora funziona: il primo giorno si sono registrate 13 mila persone in cerca di lavoro. Il giorno dopo erano più di 70 mila. “Questa può essere una reale opportunità per il mondo agricolo – sostiene Jean-Baptiste Vervy, responsabile della piattaforma e lui stesso produttore di cereali nella Marna –. Il settore era in difficoltà già prima di questa crisi per via dell’invecchiamento della professione e del problema del rinnovamento delle generazioni”. Si stima che quasi la metà degli agricoltori in Francia andrà in pensione nei prossimi dieci anni e il numero delle aziende agricole è in netto calo.

Nina Malignier è una giovane agricoltrice. Da due anni ha aperto la sua azienda con altre cinque persone nel Tarn, Les Chlorophy-liens. Per ora produce pane nell’attesa di ampliare la sua attività. In questi giorni è sotto pressione a causa della riorganizzazione completa del suo circuito di vendita. Il mercato di Carmaux, dove teneva un banco ogni settimana, ha chiuso. La piattaforma di vendita di prodotti locali a cui partecipa è sommersa di ordinazioni: prima dell’epidemia si distribuivano una ventina di cesti a settimana (con frutta e verdura, carne, formaggio, uova, pane, marmellata ecc.), ora sono più di 100. È un periodo difficile per le giovani aziende agricole come la sua ancora non del tutto operative. “Dobbiamo rimandare i lavori importanti, rinviare l’acquisto di attrezzature – spiega la giovane -. Ma se questo sforzo potrà rilocalizzare gli acquisti e favorire la presa di coscienza delle persone, è positivo”. “Riavvicinare le persone al lavoro agricolo è un’ottima cosa – ha dichiarato a sua volta Sébastien Guénec, portavoce della Confederazione contadina della regione Ariège e allevatore di pecore -. Ma verso quale modello di agricoltura si andrà? Bisogna creare posti di lavoro sul piano locale e dare la possibilità alle aziende di assumere”. E per ora i provvedimenti del governo sono fatti su misura per le grandi aziende agricole, non per i piccoli produttori. Yoann Morice, coltivatore biologico nella Loira, trova “assurdo” questo appello del governo al reclutamento di massa di manodopera. “Mostra il fallimento del nostro sistema agricolo, basato su manodopera a basso costo proveniente da fuori, mentre noi abbiamo bisogno di una rete locale”.

Come altri, Morice, responsabile della fattoria Permabocage, è sorpreso dell’importanza che in questa crisi viene attribuita alla grande distribuzione a scapito dei mercati. Non solo la misura favorisce i produttori già integrati nei circuiti della grande distribuzione, ma pone anche una questione sanitaria: a Wuhan, centro dell’epidemia in Cina, anche i supermercati erano stati chiusi per ridurre i rischi di contagio e la distribuzione del cibo era assicurata da comitati di quartiere. “Favorire i supermercati rientra in una logica liberale – continua Morice -. I piccoli agricoltori come me non hanno gli strumenti logistici per entrare nei circuiti della grande distribuzione. Questa scelta favorisce solo i grandi produttori”. Solo nella settimana prima del blocco totale, i supermercati hanno registrato vendite record di +40%. Se c’è un settore che potrebbe uscire vincente da questa crisi può essere proprio questo. Ma a che prezzo per la salute di tutti i “piccoli” lavoratori che intervengono a livelli diversi della catena agroalimentare, dal camionista alle cassiere, e che vengono esposti al rischio del contagio.

 

Un quadro per fare silenzio

E ancora di più nelle nostre teste: affollate di domande angosciate, e dalle false risposte che una legione di sedicenti esperti rovescia ad ogni minuto in qualunque trasmissione, in ogni pagina della rete. Perché tanti morti in Lombardia? Il caldo metterà il virus fuori circolazione? I guariti sono immuni? E ancora: si poteva, si doveva fare di più, meglio? Cosa succederà nei paesi governati da pazzi criminali che hanno fatto finta di non vedere? E, su tutte, quando finirà? Come sarà, dopo? Quando torneremo a dormire su un prato, a cenare sulla spiaggia: quando torneremo a Londra o a New York? Ora, davvero nessuno conosce le risposte a queste domande, e dopo un mese di sovraesposizione televisiva quotidiana, francamente è impossibile distinguere il più serio degli scienziati dal più sfacciato spacciatore di fake news. E poi ci sono le domande le cui risposte sono invece evidenti, ma che fanno sentire ancor più impotenti (com’è possibile che continui ad essere ascoltato chi ha massacrato la sanità pubblica? Come può essere consentito a industriali e a politicanti senza pudore di proclamare ogni giorno l’urgenza di scegliere la borsa, calpestando la vita?). Infine, quelle terribili di chi sta perdendo tutto (come pagherò l’affitto il mese prossimo? Quale lavorò troverò poi?), o di chi nulla ha mai avuto (come mi lavo le mani in un campo Rom senza acqua? Come posso restare in casa se sono un “senza-casa”? Chi si curerà di noi, qui in carcere?).

Ebbene, come tutti, non ho risposte. E con questo alveare che mi ronza in testa non riesco, scusate, ad apprezzare le esortazioni da buddista della domenica del presidente del Consiglio, che invita gli italiani (evidentemente non quelli che si pongono le ultime domande che ho elencato…) ad approfittare della quarantena per conoscere meglio se stessi. Ha scritto assai bene Nadia Fusini: “Se al ‘distanziamento sociale’ imposto ubbidisco è perché gli riconosco questo fondamento morale. Serve a proteggere l’altro. Ma mi privo della mia libertà personale – sacra in ogni ordinamento democratico – solo temporaneamente, e lo faccio perché il mondo in cui vivo, malgrado il suo alto livello di sviluppo tecnologico, ne ha bisogno; perché nel frattempo una politica locale dissennata ha distrutto la sanità, e una politica mondiale equilibri naturali fondamentali. Ma deploro chi spontaneamente si flette e genuflette, e addirittura esalta, il bene della segregazione”. E dunque, che si può fare? Condividere spazi di silenzio interiore, per esempio. Mettere in comune isole di rarefazione, luoghi di cura dell’anima: perché anche l’anima soccombe in questa epidemia di rumori.

E dunque, Chardin. E dunque un vaso di fiori (l’unico oggi noto tra i vari che dipinse): perché mai come oggi le case avrebbero bisogno del sorriso fragile e generoso dei fiori. Jean-Baptiste Siméon Chardin (Parigi 1699-1779) fu forse l’artista più grande dell’Europa del suo tempo: i suoi occhi, che ci fissano sornioni dietro le spesse lenti che indossa negli autoritratti, riuscivano a scorgere negli oggetti e nei piccoli ambienti chiusi e borghesi valori morali e implicazioni esistenziali che forse solo quelli di Vermeer erano riusciti a vedere. Figlio di un ebanista specializzato in biliardi, Chardin seppe tradurre in altissima poesia la fascinazione per gli oggetti che caratterizzava l’arte rococò. I risultati furono epocali: quello dei quadri di Chardin è un silenzio che le parole non riescono a lacerare. Denis Diderot lo chiamava “il mago delle emozioni mute”. Di fronte ai suoi quadri – continuava il filosofo – “l’occhio si ricrea, perché tutto è calma, e riposo. Ci si ferma davanti a uno Chardin come d’istinto, come un viaggiatore stanco si siede, senza nemmeno accorgersene, dove trova un’oasi di verde, di silenzio, d’acqua, d’ombra, di fresco…”. Silenzio è la parola chiave. Il Dictionnaire des arts de peinture, sculpture et gravure di Watelet e Lévesque (1792), scrive: “Si dice che in un quadro c’è un grande silenzio, un bel silenzio, per dire che la composizione ha l’effetto di mettere l’anima dello spettatore in uno stato di calma del quale godere”. Ed è così anche per noi, oggi: attraverso il suo silenzio, il suo spazio, il suo colore muto, Chardin ci aiuta a fare silenzio nella città della nostra anima. Non ci chiediamo cosa significhi questo vaso: è un piccolo, elegante vaso di porcellana di Delft, bianco e azzurro. E i fiori di primavera che lo coronano non alludono a misteri, non fanno domande: sono quello che sembrano. Fragile gioia di vivere, spazio di pace, lenimento per l’anima inquieta. Colore magico di un mago del silenzio. Quel che davvero sentiamo, di fronte a questo vaso di fiori di quasi 300 anni fa, è ciò che Paul Cézanne chiamerà il misterioso “pulviscolo di emozioni che avvolge gli oggetti”: un’atmosfera carica di sentimenti umani che Cézanne riusciva a vedere solo nei quadri di Chardin. Composizioni semplici, austere: ma monumentali sul piano morale, specchi magici capaci di far apparire la nostra umanità nascosta.

Qualunque sia la risposta alle tante domande che urlano nella nostra testa, una cosa è sicura: se restare a casa è doveroso, restare umani è vitale. A questo serve un po’ di silenzio interiore.

Ue e Usa sbagliano guerra Armi invece di farmaci

L’

Occidente si prepara alla guerra. Peccato sia quella sbagliata. Continua a mettere in comune armi e armate, piuttosto che medicinali e medici per combattere l’attuale nemico: il coronavirus. L’ossessione di misurarsi coi loro ex-avversari della Guerra Fredda fa dimenticare ai leader occidentali che l’urgenza del momento è tendersi la mano sulla salute. Gli Stati Uniti e i suoi alleati dimostrano che il loro approccio alla sicurezza globale rimane invariabilmente militare. Il crescente numero di vittime seminate dalla sindrome respiratoria Covid-19 dovrebbe invece accelerare il rafforzamento della cooperazione tecnico-scientifica.

Nel 2018, un rapporto del World Economic Forum presagiva che nel prossimo futuro il mondo avrebbe dovuto temere le calamità biologiche più dei conflitti a fuoco. Eppure, mentre la scarsa collaborazione inter-governativa nel campo della ricerca sul coronavirus rischia di ritardare la vittoria sulla pandemia, Donald Trump non rinuncia all’esercitazione “Europe Defender”. Avviata il 28 febbraio, l’operazione vuole dimostrare la capacità della Nato di contrastare potenziali attacchi dalla Russia. Washington si è limitato a ridimensionare quello che doveva essere il più grande contingente dispiegato nel Vecchio Continente in 25 anni, inviando 6 mila soldati (anziché i 20 mila previsti). Questi affiancheranno i 9 mila già di stanza sul territorio europeo e gli 8 mila dei sette paesi continentali coinvolti nell’addestramento (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Germania, Paesi Bassi e Belgio). Tutti questi uomini si sposteranno fino a fine maggio attraverso le frontiere dell’Europa centro-orientale, sbeffeggiando il blocco anti-contagio imposto dagli Stati membri. Lungi dal respingere l’infezione, la marcia di truppe che sfoggiano equipaggiamenti all’avanguardia potrebbe piuttosto contribuire a diffonderla.

L’Italia ha annullato la sua partecipazione, preferendo impegnare il proprio esercito nella gestione della crisi che sta devastando la penisola. E ha accettato, al contempo, l’assistenza medica di Mosca. L’astuta magnanimità di Vladimir Putin mira precisamente a svergognare l’assenza di solidarietà degli Alleati che hanno abbandonato il governo di Giuseppe Conte malgrado la sua ufficiale richiesta d’aiuto. La mossa del Presidente russo allarga il fossato scavato dai protezionismi che rendono i partner del Trattato di difesa incapaci di affrontare collettivamente l’inattesa aggressione epidemica. Il loro egoistico ciascuno-per-sé ha suscitato le critiche di Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). L’agenzia Onu basata a Ginevra è dovuta ricorrere a un crowdfunding di solidarietà presso privati per compensare le ingenerose donazioni raccolte dai governi per le sue contromisure sul Covid-19. Solo 12 dei 29 firmatari dell’Alleanza Nord-Atlantica hanno contribuito, e con poco più di 65 milioni di euro (pari al totale offerto da Cina e Kuwait). L’erario italiano ha sborsato 419 mila euro, a fronte di una quota annuale di 203 milioni di euro che verserà al bilancio complessivo di oltre 2 miliardi dell’Alleanza atlantica (che riserva una percentuale irrisoria alla lotta ai pericoli ambientali).

L’Oms non ha incassato finora neanche la metà dei 623 milioni di euro di cui ha bisogno (La Ue ne ha versati 33), un decimo dei quali servirà per le immediate necessità fino ad aprile 2020. Il peggioramento della situazione potrebbe richiedere ulteriori risorse, quelle che le economie ricche avrebbero dovuto investire con lungimiranza negli ultimi 5 anni nell’ambito della Global Health Security Agenda. Lanciata nel 2014 dopo lo scoppio dell’Ebola e guidata dal nostro paese fino al 2019, l’iniziativa doveva preparare i sistemi sanitari nazionali contro infestazioni su larga scala, comprese quelle di origine animale. Come il coronavirus appunto. Ma il programma è indebolito dai pochi fondi a disposizione. Così, i laboratori clinici nelle due sponde dell’Atlantico, nonché in Giappone e Cina, si ritrovano a competere in una frettolosa gara al miracolo salva-vita, anziché potersi valere di una rete collaudata per testare e distribuire mondialmente gli sperati antidoti. Le aziende farmaceutiche, coalizzate sulla sperimentazione, hanno messo in guardia contro eventuali nazionalizzazioni degli approvvigionamenti di farmaci anti-virus che impedirebbero di spegnere uniformemente i focolai di trasmissione. Quasi tutti i governi hanno infatti ordinato divieti di esportazione di materiale sanitario. L’embargo è stato indetto anche dalla Commissione Ue che ha recentemente erogato altri 77 milioni di euro alla tedesca CureVac, la società più promettente per la scoperta del vaccino, per contrastare il tentativo di Trump di acquisirne la licenza esclusiva per gli Usa. Parallelamente, il lavoro congiunto degli ingegneri bellici del fronte pro-americano prosegue liscio come l’olio. Esenti dalle restrizioni d’emergenza alle attività produttive, l’azienda tricolore Leonardo (partecipata al 30% dal ministero del Tesoro) e le fabbriche di ordigni americane e giapponesi hanno ripreso la fabbricazione coordinata degli F-35. Gli aerei da combattimento del colosso a stelle e strisce Lockheed Martin, voluti dal Pentagono e cofinanziati da denari pubblici, costeranno alle nostre tasche 805 milioni di euro solo nel 2020. La verità è che il sobrio scambio di informazioni sul Covid-19 tra gli scienziati salverà più vite delle pompose parate corazzate e dell’esosa corsa agli armamenti.

La transizione verso una moderna geopolitica che sostituirà la rivalità Est-Ovest con sforzi condivisi per proteggere i cittadini dalle crescenti minacce ecologiche ha ancora molta strada da fare.

Il coraggio della verita: “Sicuri che riusciamo a curare tutti?”

Sono oggi qui a scrivere, nonostante il dolore, per ciò che è accaduto alla mia famiglia, per raccontare la mia storia. Tutto ha inizio il 17 marzo quando sia mia cognata che mio fratello, dopo tre giorni di febbre e dopo che nonostante gli aiuti chiesti alle strutture sanitarie non ottenevano alcuna risposta concreta, si vedono costretti a recarsi con la propria autovettura presso l’ospedale Cotugno di Napoli. Mia cognata aveva una forte febbre, mentre mio fratello aveva tosse e febbre. Recatisi al nosocomio, decidono di fare il tampone solo a mio fratello in quanto aveva tutti i sintomi da Coronavirus. Il giorno 19 marzo ci arriva la notizia che mio fratello è positivo e viene ricoverato. Prima però trascorre 4 ore in un ambulanza poiché tutte le strutture sono piene; finchè si trova un posto all’ospedale di Loreto a Mare. Giunto in corsia, viene intubato. Nel frattempo mia cognata continua ad avere la febbre. Preoccupati, decidiamo di insistere nel chiamare i numeri dell’emergenza. Il giorno 23 marzo mia cognata si aggrava, ma per il 118 non è così grave. Idem il giorno dopo. Finalmente la vengono a prendere, ma mia cognata muore poco dopo, senza che nessuno le abbia fatto il tampone. Voglio precisare che nello stesso nucleo familiare di mia cognata e mio fratello vivono ancora la figlia, il marito e un bimbo di 15 mesi, tutti in quarantena volontaria, senza indicazioni. È stata lasciata un’intera famiglia in balia delle onde. Mia cognata aveva soltanto 55 anni, era giovane, era madre ed era nonna, aveva ancora una vita davanti. Era una donna di grande senso di responsabilità: nonostante le sue gravi condizioni fisiche non è mai andata in pronto soccorso. Lei ha pensato agli altri, ma nessuno ha pensato a lei.

Nunzia Esposito

Il tasso di mortalità è così alto anche perché non riusciamo più a curare tutti. Bisognerebbe, forse, avere il coraggio di dirlo.

Eroi e sciacalli d’Italia: medici in prima linea e narcisi da tastiera

Era stata facile profezia: di fronte al dramma verrà fuori il meglio e il peggio del Paese. Proprio come in guerra: gli eroi e i codardi, gli altruisti e gli sciacalli. Nonostante la reclusione vedo e registro storie. Medici che muoiono, perfino medici che rientrano volontariamente dalla pensione per morire in pochi giorni. E medici che invece di accorrere si mettono a battaglioni in malattia, così dicono i giornali, in Campania e in Calabria. E in minor misura altrove. E mi corre una domanda ingenua: nessuno ha pensato di radiarli? Certo, non chi si è ammalato perché si è buttato anima e corpo, ma chi nel momento del bisogno è scappato e si prende lo stipendio. C’è una dottoressa a Pisa che tornando a casa si è visto affisso all’interno del condominio un bel cartello: lei che assiste i malati di coronavirus, lo sa che qui abitano un ottuagenario e una bambina? Non ci infetti.

Quanta nobiltà d’animo nella difesa dei vecchi e dei bambini. Chissà perché non proporre un incontro alla dottoressa, ringraziarla per quel che rischia per gli altri, e poi con molto senso di colpa chiederle per favore di usare i guanti o mani disinfettate per aprire il cancelletto o premere il pulsante in ascensore, preparandosi a sentirsi obiettare che non c’è bisogno di sentirsele dire certe cose quando si lavora a contatto con la morte. No, il peggio si organizza alla chetichella, fa riunioni all’insaputa del medico che non si è messo in malattia, scrive un forbito cartello con pennarello e glielo lascia lì, una sorta di aggressione morale alle spalle, che mi ha riportato alla mente le comari di De André o quei bravi condomini palermitani che fecero anonimamente sapere che non volevano la lapide a ricordo del giudice Terranova sui muri del palazzo, sai mai che ci colpiscano per rappresaglia? Ci sono medici silenziosi o che ci spiegano sui video viaggianti in che situazioni lavorano, ma c’è anche il medico che si fa un video politico, che incomincia rivolgendosi a Mattarella, e chiede a chi lo vedrà di farlo girare il più possibile, dice che è importante farlo vedere in tutta Italia. Non ci dà nessun consiglio, nulla racconta in più di quel che sappiamo, è un’invettiva totalmente politica e chissà perché dovremmo mandarla in giro per il Paese, visto che non parla né degli evasori fiscali né dei suoi colleghi in fuga e nemmeno di chi ha deciso a un certo punto che la sanità privata era meglio di quella pubblica. Video, ancora video, messaggi via cellulare. Siamo invasi, la platea si è moltiplicata grazie alla quarantena e narcisi e grafomani sono scatenati. Mi arriva un altro manifesto politico. Con una certa pratica di comunicazione. Incomincia (di nuovo!) “Signor Presidente”, e poi ecco l’accusa a Conte di “inculcare paura” agli italiani. Sono rimasto di stucco (oggi anche gli illetterati usano “basito”). Con le migliaia e migliaia di morti, e le immagini di Bergamo, è Conte che “inculca” la paura. Perciò uscite liberamente, ve lo dice il paladino degli oppressi. Giungono frasi belle (“la prossima volta trattatemi da ospiti, non da padroni”, è la Terra che parla), una struggente lettera di Pupi Avati, e poi queste autentiche fesserie criminali. Il meglio e il peggio in gara tra loro.

Ma incontro in video, per fortuna, anche i miei studenti. La didattica a distanza è difficile, ti devi dimenticare l’aula, i visi, gli sguardi, il sacro principio di adattamento alla situazione, le lezioni devono assomigliare a quei bei racconti radiofonici di una volta. Racconti e mostri slides, mettendoci la voce, che alla fine qualche emozione può darla. Ma quando ci sono gli esami e le tesi di laurea gli studenti li vedi. Ed è, vi assicuro, un’esperienza affascinante.

Li vedi come mai li hai visti. Nelle loro case, nel tinello con armadio anni cinquanta, o con il giardino sullo sfondo, nella camera da letto dove hanno la scrivania o sono al riparo di urla e di rumori. Ti sembra di entrare nella loro intimità, ecco dove vivi, questa è la tua casa. Una volta con un cane accucciato su un divano, una volta con un padre ripreso di sbieco. Ed è reciproco, naturalmente. Si presentano eleganti in casa loro. Perché il destino li ha privati della festa, dell’appuntamento programmato con gli amici per un anno. Ma quando arrivano vestono come farebbero davanti a un folto pubblico, nel momento di stringere la mano solenne. “La proclamo dottore…”. Che bello, che risarcimento dal Niagara di fesserie. Anche nella realtà virtuale la società vera, seria, allegra e timida, trova una sua luce. Ed è una grande notizia.

Le case di riposo (eterno) “Mia ‘zia’ se n’è andata senza tampone: e gli altri anziani?”

Gentile Selvaggia, si chiamava Angiolina, io la chiamavo Angiolina Jolie. Era la zia di mia suocera (lo so, una parente lontana ma non sai quanto eravamo vicine), 87 anni, una vita difficile, un amore che non ha mai sposato. Ha vissuto tutta la vita con la Ester (sua sorella) prendendosi cura, negli anni, di tutti i parenti malati. Donna difficile e capricciosa, mica dei morti bisogna dir bene per forza. Un anno fa rimane sola, non ha nemmeno i soldi per il funerale della sorella e io le dico: “Ti aiuto, ma mi devi ascoltare”. Sì, perché lei era capricciosa, te l’ho detto. Per un po’ le porto la spesa, vado in farmacia, la chiamo tutte le sere e lei mi chiedeva: “Come stai?”. Lei a me, lo chiedeva. Capito che donna incredibile, la Angiolina Jolie? Ridiamo tanto, tanto finché, un giorno, capisco che prende troppe gocce per dormire e le chiedo di contarle. Silenzio. Mentre io mentalmente arrivo a 8 lei dice “Uno!”. Uno? Insomma. Cade più volte, inizia un decadimento fisico, così ad aprile del 2019 mi chiede di trovarle una casa di cura. Mi fa promettere che quando morirà la farò cremare e la metterò “vicino alla Ester” (che sì, è qui a casa mia. Sotto forma di ceneri dentro a un barattolo, sia chiaro). Così passano i mesi nella “Casa per coniugi”, zona Corvetto a Milano. Torna a camminare contro ogni pronostico dei dottori, vado a trovarla spesso, tengo a bada i suoi capricci, dico agli infermieri di portare pazienza perché lei dice di essere più brava di loro (effettivamente ha curato malati per una vita) e lei quando mi “vede” s’illumina, parla sempre della sua cataratta e spera che la operino presto, mangia il suo gelato e dice a tutti che sono sua nipote. Con me è così, con mia suocera litiga (gran soddisfazione, lo ammetto). Il 4 marzo vado in Rsa e scopro che hanno bloccato le visite per un mese. Ma io devo parlarle, devo dirle che non l’ho abbandonata, così la fanno scendere. Mi danno una mascherina (ma vedo operatori senza), non l’abbraccio nemmeno, le racconto del virus e la rassicuro che ci vedremo presto. Riusciamo a fare una videochiamata domenica 15 marzo. Lei non mi vede ma ci saluta, noi la salutiamo, lei è stanca e si sdraia. La persona del Rsa dice che ha avuto un po’ di febbre. Lunedì mattina mi chiamano per informarmi che la stanno trattando con un antibiotico, la terranno a letto con le sponde alzate perché fa i capricci e si “toglie l’ossigeno”. Non sta molto bene e ha perso un po’ di lucidità. Niente di più. Giovedì alle 7,38 un medico mi informa che Angiolina è deceduta la notte. Chiedo se si tratti del virus e mi risponde: “Non le faremo il tampone ma probabilmente aveva il virus”. Così, forse, io non potrò mantenere la promessa. Non avrà funerali, andrà in obitorio senza di me e le sue ceneri? Potrò averle? Mi mancherà la Angiolina coi suoi capricci. In Rsa non sono potuta andare, ci sono stati molti contagi e morti, così mi ha detto l’amministratore di sostegno. Penso alla sua compagna di stanza Luisa, alla signora che passeggiava in corridoio con il cappellino, allo “spasimante” di Angiolina che la portava in giro quando era sulla sedia a rotelle, allo “scroccone” del bar, alla signora “esco fra pochi giorni”… Che ne è stato di loro? Non abbiamo protetto le nostre radici, cara Selvaggia. E non abbiamo più niente. Nemmeno i capricci di chi amavamo.

Cara Grazie, I tanti anziani morti nelle case di risposo sono i più ignorati e saranno i più dimenticati. Dobbiamo parlare, parlare, parlare di loro e dei loro capricci, perché nessuno scordi che tanti di loro sono morti senza neppure finire nel conteggio finale dei caduti in questa tragedia.

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Paura? Solo una punta di terrore

Durante una tranquilla nottata americana piena di stelle cadenti, piove dal cielo una specie di grande uovo. Un anziano lo apre, scopre una strana melma scura e ne diventa la prima vittima. La viscida entità, si impossessa dello sventurato, avvolgendolo e fagocitandolo. Stessa sorte tocca al dottore e all’infermiera che hanno aiutato il vecchio signore. E per ogni vittima che uccide, Blob cresce rendendosi sempre più temibile, ma alla fine, sarà scaraventato da un aereo militare nell’Artide per non nuocere più. Anche se il punto di domanda che chiude il film lascia le porte aperte a una rivincita della melma. Oddio che angoscia! È la trama di un film cult del ’59, ne hanno fatto un remake, si intitola Blob. Bello per carità, ma francamente io al cinema chiedo di farmi sognare a occhi aperti, di intrattenermi, non di agitarmi. Io amo il cinema, mi identifico a tal punto che esco dalla sala e mi sento la faccia del protagonista. Quando ho visto Blob, ho pensato che il mondo fosse davvero invaso dall’indefinibilità di questa melma mostruosa. Ho iniziato a viaggiare con la fantasia e a immaginare addirittura la diffusione di una pandemia mondiale. Un virus letale e invisibile che si manifesta con dei sintomi atroci. Il mondo ne era invaso, e tutti, senza distinzione di classe e di censo, erano costretti a rintanarsi a casa. Decine di milioni di persone nel mondo in isolamento obbligatorio. Città deserte e spettrali. Fortunatamente è stato solo un incubo, frutto della mia fantasia dopo aver visto il film. Meno male che queste storie accadono solo al cinema. Ma cos’è questa roba verde che mi si è appiccicata sotto la scarpa? Devo aver pestato la cacca di un cane… però io una cacca così verde non l’ho mai vista. Oddio, ma che fa la cacca? Si muove, si sta spostando e viene verso di me… aaah!

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Il privato è già morto. App “spia”? Parliamone

Non credete, ve ne prego, a chi cerca di tranquillizzarvi. L’epidemia che non si risolverà è proprio quella dei vostri dati personali. Le informazioni, anche quelle più sensibili, ci sono scappate di mano come un palloncino ad un bimbo ai giardini pubblici. Ogni elemento conoscitivo che possa riguardarci è finito nelle vene dei mostri che se ne serviranno per i più diversi scopi, pronti a rivenderli a compagini politiche, grandi corporation, realtà sovranazionali. Senza accorgercene, siamo stati noi a porgere il collo ai tanti vampiri che non hanno esitato ad affondare i loro acuminati denti per risucchiare quel che noi inconsapevolmente abbiamo inserito in sede di registrazione ad uno dei tanti servizi temporaneamente gratuiti, quel che abbiamo fatto da quel momento in poi e quel che avevamo memorizzato o visto in precedenza.

Il mortale abbraccio, di chi ha offerto opportunità per dare sollievo alla gente del #iorestoacasa, è stato suadente come le note del pifferaio di Hamelin. La frotta di persone che si è accodata ha cominciato a intonare nome, cognome, indirizzo di casa, mail, professione… Il numero Ip che li identificava in rete e quello dell’utenza telefonica sono stati acquisiti più o meno automaticamente e la schedatura è cominciata, prelevando le tracce delle navigazioni online, le iscrizioni ai social, la rubrica dei contatti, la cronologia delle chiamate, le foto scattate e quelle ricevute, e così a seguire nel pieno “rispetto” delle condizioni d’uso e delle autorizzazioni concesse dalla stessa vittima ad agire sul proprio dispositivo. L’anonimato non esiste e la “pseudonimizzazione” (ossia la sostituzione dell’identità con un codice non riconoscibile da chi non abbia le chiavi di decodifica) funziona solo in teoria perché qualcuno comunque è in grado di abbinare lo pseudonimo al soggetto cui si riferisce. Il mito della “riservatezza dei dati personali” (e di tanti diritti basilari dell’essere umano) si sgretola facilmente e si agita lo spettro delle paventate dinamiche del tanto auspicato tracciamento di chi si muove sul territorio.

Si sente dire che saranno le celle telefoniche a posizionare ciascuno di noi sul gigantesco tabellone dell’immobilità, dove non si finisce in carcere senza passare dal “via” come a Monopoli ma si rischiano sanzioni figlie della cultura dell’autovelox e del fare cassa disperatamente di chi non riesce a far valere il senso civico e a propagare il contagio della legalità. Tale rilevazione è imprecisa e approssimativa perché le celle hanno copertura con un raggio anche di chilometri mentre in ambito urbano si sovrappongono per assicurare “ospitalità” all’alta densità di utenti. Quando un telefono mobile non trova accoglienza nella cella più vicina, passa “in carico” ad una adiacente per poi tornare a quella originaria o finire in altra ancora non troppo distante: la distratta o incompetente lettura di un tabulato potrebbe far incriminare persino chi in quelle due ore si era appisolato sul divano. Anche il ricorso alla “triangolazione” (sfruttando la rilevazione dei segnali “radio” di ciascun telefonino fatta da tutte le celle da questo raggiunte, con le debite comparazioni di intensità e l’esame del “traffico” complessivo dei vari momenti) porterebbe ad una localizzazione che non funziona come abbiamo tristemente imparato quando si è trattato di salvare chi si è perso in montagna e magari è caduto in un dirupo…

Si può pensare ad un’app che sfrutti il Gps interno agli smartphone (Corea del Sud e Singapore docent). Dovrebbe essere installata sui dispositivi delle persone riconosciute affette da Coronavirus non solo per seguirne i movimenti (ma dove andranno mai se sono in un letto di ospedale o febbricitanti a casa?) ma soprattutto per estrarre le informazioni dei precedenti spostamenti che sono nella “memoria” del telefono. Come Google ci chiede se ci è piaciuto un luogo in cui ci siamo fermati qualche minuto di troppo, la app potrebbe ripescare gli spazi in cui l’“infetto” è stato e trasmetterli ad una centrale operativa che pubblica località, data e ora per consentire alla gente di sapere se si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Se ne può parlare. Magari non a vanvera.

Tracciamento digitale: sospendere la privacy?

Per salvarsi dalla pandemia è lecito sospendere il diritto alla riservatezza? Se lo chiede l’Italia e l’Occidente interro. La Corea del Sud e Singapore hanno detto sì: grazie ad un’app sullo smartphone, le autorità controllano gli spostamenti delle persone per individuare i luoghi e i cittadini a rischio contagio. Molti in Italia invocano la soluzione “asiatica”. Come i governatori Luca Zaia (Veneto), Attilio Fontana (Lombardia) e Christian Solinas (Sardegna). L’Istituto superiore di sanità è d’accordo. Il sindaco Sala propone di testare il sistema a Milano. Il governo valuta. Ma gli opinion makers sono unanimi, o quasi: per sconfiggere il morbo si può (o si deve?) sospendere il diritto alla riservatezza. A giornalisti, politici e intellettuali abbiamo chiesto: “È favorevole a limitare il diritto alla privacy (tracciando i movimenti delle persone) per contrastare la pandemia? Non c’è il rischio che le misure persistano anche dopo l’emergenza?”.

Pier Luigi Bersani brilla per sintesi: “Sono per combattere un virus alla volta. Se arriverà quello del fascismo, lo affronteremo”. Ecco le altre risposte.

Milena Gabanelli, giornalista: “Non credo affatto che informare i cittadini sul loro stato di rischio sia un limite alla privacy! Sarà fondamentale, superata la fase acuta, per gestire il ritorno alla normalità e contenere l’ondata di ritorno del contagio. Sarà un’agonia lenta senza una fotografia della mobilità in continuo aggiornamento. Vorrei sapere se sono stata in contatto con qualcuno che poi è stato ricoverato; in quale area del mio quartiere c’è il maggior numero di contagi; l’orario migliore per prendere la metropolitana evitando affollamenti. Cediamo i nostri dati più intimi a scopi commerciali, perché non dovremmo cedere alle autorità i dati necessari a garantire la salute pubblica! Il rischio che le misure persistano? Dipende da come viene scritta la norma, dall’autorevolezza e competenza del Commissario incaricato a gestire il sistema. Serve un professionista esperto di tecnologie e che abbia già dato prova di senso del dovere e responsabilità. Se fosse per esempio Vittorio Colao (ex ceo di Vodafone, ndr) mi sentirei molto tranquilla”.

Ferruccio De Bortoli, giornalista: “È ovvio che con la crisi sanitaria cambia il concetto di privacy. Sia il Garante Antonello Soro che Vittorio Colao lo hanno spiegato bene: tracciare gli spostamenti garantendo la privacy è possibile, grazie ai dati ‘pseudonimizzati’. Solo le autorità devono conoscere l’identità del soggetto ‘x’, ma non serve dare nome e cognome in pasto alla comunità. Le informazioni sulla salute sono troppo sensibili. C’è il rischio che la sorveglianza diventi la norma: ma se una democrazia è forte, superata la crisi, le leggi d’emergenza tornano in soffitta. Del resto, i colossi del web sanno già tutto di noi”.

Enrico Letta, ex premier: “Ho molti dubbi. Oggi è evidentemente forte il consenso a misure volte a garantire la salute, anche a costo di limitazioni alla libertà personale. Temo che il prezzo lo pagheremo domani se non si metteranno in campo da subito meccanismi efficaci di garanzia. Il diritto alla privacy, la riservatezza e la protezione dei dati personali sono il caposaldo dei valori europei di centralità della persona. Non si può essere superficiali su questo”.

Massimo Cacciari, intellettuale: “È evidente che per combattere il virus occorre ridurre al massimo i movimenti delle persone, con tutti i mezzi necessari, anche tracciandone gli spostamenti. Perché tirare in ballo la democrazia? Qualcuno pensa che il governo prepari la svolta autoritaria? Ridicolo. La situazione d’emergenza va affrontata come tale, senza la metafora blasfema della guerra, quella è ‘coglioneria’ patriottarda. La privacy, in ogni caso, è già morta. Ma chi ha dato il mio numero ai call center che martellano di pubblicità? Ora, nel pieno di una pandemia, ci svegliamo per sbandierare il vessillo della riservatezza?”

Luigi De Magistris, sindaco di Napoli: “Con le dovute garanzie, sono favorevole al tracciamento. Ma la misura dovrà cessare con l’emergenza e i controlli avere un solo e unico scopo: contrastare la pandemia per tutelare la salute pubblica. Che sia chiaro: procure e forze di sicurezza non devono consultare i dati per indagini che nulla hanno a che vedere col Coronavirus. Se un inquirente dicesse ‘il sospetto x è stato in quel luogo a quell’ora’, sarebbe pericoloso. Quello è uno stato di polizia. Perciò serve un provvedimento dettagliato: chi raccoglierà, elaborerà e conserverà i dati? Una legge generica e a maglie larghe, aprirebbe il varco ad una ‘centrale’ fuori controllo che utilizza i dati per altri scopi. Ma non c’è dubbio: per superare l’emergenza occorre restringere le libertà individuali”.

Stefano Bonaccini, (Pd) governatore dell’Emilia Romagna: “La priorità è fermare l’epidemia e salvare vite umane. Dobbiamo farlo garantendo i diritti e le diverse necessità. Oggi, in Italia, credo si possano usare le tecnologie digitali, se aiutano a fermare il contagio. Non per ‘spiare’ i cittadini, ma per tutelarli. Il Garante della Privacy ha suggerito come fare, rispettando le libertà individuali: dati gestiti in forma anonima e re-identificati solo dallo Stato. Aspetti tecnici ma decisivi; sui quali, nel caso, servirà estrema chiarezza rispetto alle regole d’ingaggio. In ogni caso, dovrà essere un provvedimento eccezionale e a termine, legato all’emergenza. La chiave essenziale è stabilire modalità rigorose e durata”.

Nicola Morra (M5s), presidente commissione Antimafia: “Purché ci siano tutte le garanzie che la Costituzione impone, purché il gestore dei dati sia un’autorità pubblica, purché poi tutto venga conservato e distrutto eventualmente, il tracciamento si può e si deve fare, a tutela del bene comune”.

Furio Colombo, giornalista: “Non ho dubbi. Date la precedenza a tutto ciò che aumenta, anche solo di un punto, la possibilità di salvezza e non preoccupatevi dei cosiddetti diritti. Li abbiamo già perduti, perché su internet c’è già la traccia della nostra intera vita. Gli inquirenti prima interrogano telefono e computer del sospettato, poi si rivolgono a lui. Certo, non siamo ancora in una trama di fantapolitica dove i governi spiano tutti, ma nemmeno così distanti. Già ora la privacy (anche dell’intimità) è sotto scacco. Adesso ci dicono che se rinunciamo spontaneamente a quella polvere di diritti che rimane, le ‘autorità’ potranno curarsi meglio e più prontamente di noi. Non ci resta che dire sì nella speranza, non tanto sicura, che ci sarà, come conseguenza, più protezione per noi”.

Gian Carlo Caselli, ex magistrato: “Difficile parlare di controllo degli spostamenti quando mancano i respiratori e le mascherine negli ospedali. Sembra il tempo del Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. E oggi la Sagunto che il Coronavirus sta espugnando siamo noi. La risposta, del resto, è nel calcolo costi-benefici. C’è un virus contagioso e molte persone circolano come niente fosse: risultato, il Paese paga costi terribili, in termini di morti e sicurezza sanitaria con gli ospedali in tilt. Non solo: un popolo chiuso in casa chissà per quanto tempo e relazioni sociali quasi azzerate. Sono sotto attacco diritti fondamentali come la salute, la vita, gli affetti, la libertà di movimento, il lavoro. Sacrificarli per la privacy, sarebbe ragionare come il don Ferrante del Manzoni, che negava la peste mentre ne moriva. Se vietassimo il tracciamento dei movimenti ritarderemmo, o peggio, la fine dell’epidemia. E le città potrebbero diventare un cimitero. Non vedo un problema nel porre termine alle misure speciali: cominciamo col farla finire, questa emergenza”.

Gianfranco Pasquino, politologo: “Il diritto alla privacy non è assoluto. Di sicuro si può limitare per ragioni chiare, che riguardano la vita e la sopravvivenza. Ad un patto: la limitazione deve essere definita nel tempo e nello spazio. Strutture, strumenti, rilevazioni, dovranno essere distrutte superata la crisi: nessuno metta in cassaforte i dati dei cittadini”.