Caro Tullio, i tedeschi tutti nazisti? No, ti prego

Caro Tullio Solenghi, Zorro gay (o meglio “Zovvo”), RAI2, fu orgoglio. Io scrivevo, tu zovveggiavi e non si stava seri un nanosecondo. Un mio libro recitato da te è nel mio Palmares. Prima che te lo dicano altri te lo dico io che ti voglio bene: ne hai dette di stronzate. Rabbia per la spilorceria, certo. Anch’io, europeista convinto, mi chiedo a che serva l’Europa se Germania e Olanda non sborsano. Ma dire che i tedeschi sono tutti nazisti, ringhiare che ancora oggi si sentono superiori, “ariani come diceva il criminale coi baffetti “ (tutti? Pure Einstein? E Brecht? E Rosa Luxembourg che ci ha lasciato la pelle? E i miei amici Rolf, Thomas, Silke così gentili?) è una misera performance, perfetta per coglioni sbavatori d’odio su tastiera.

Quanto agli italiani “empatici e umani”, di cui sei fiero, ti ricordo il generale Graziani (uno che gasava popoli e bombardava la Croce Rossa) e i bravi fascisti che segnalavano le case degli ebrei. Via sragionando (ma avevi bevuto?) hai esultato “Saremo pure mafiosi, come dicono i tedeschi…”. Tullio, che in Italia vivono e prosperano i mafiosi non lo dicono i tedeschi. Lo dicono, anzi lo dicevano, i magistrati morti ammazzati, fratello del Presidente compreso.

Sul Paziente Zero tedesco responsabile della pandemia (nazista pure lui, l’ha fatto apposta) sorvolo, come detto ti voglio bene. Tullio, non c’è di peggio che generalizzare. I tedeschi nazisti, gli italiani mafiosi, gli ebrei strozzini e i genovesi tirchi (sì, pure te!). La generalizzazione è una stupida bestia, produce odio per sentito dire (magari da uno famoso come te) e chi approfondisce è nemico, anzi, peggio, un intellettuale.

Sono un amico vero, di quelli che a volte ti mandano affanculo, ma continuano a volerti bene. Continuo a volerti bene, spero tu faccia altrettanto.

Gallera per tutti. Tutti per Gallera (pazienza gli altri)

Non ci sarebbe nulla di male (o quasi). Se non fosse per quella frase incauta (seguita da una smentita un po’ scontata) pronunciata nove giorni fa in un’intervista a Repubblica: “Sono milanese, sono stato vent’anni al Comune, conosco ogni via della mia città e ne sono innamorato. Mi sono sposato qui, ho due figli al liceo, se servirà candidarmi, non mi tirerò indietro”. Giulio Gallera, 50 anni, avvocato, assessore lombardo al Welfare, cultura liberale e militanza assidua in Forza Italia, è la vera faccia televisiva della Lombardia nell’emergenza Coronavirus: un po’ per l’iniziale quarantena del presidente Fontana dopo il primo contagio nel suo staff e un po’ per la manifesta incapacità di quest’ultimo nel “bucare il video” e soprattutto nell’offrire un’immagine di capacità e conoscenza dei problemi. Così Gallera compare ogni giorno, e più volte, in dirette via facebook sulle reti locali, ma soprattutto sulle all news di Rai, Sky e Mediaset, un appuntamento ormai fisso che precede la conferenza stampa della Protezione civile destinata ad aggiornare gli italiani, in diretta, sui numeri dell’epidemia. Una prima anomalia (anche se non è la più grave): per la Protezione Civile, infatti, compaiono sempre e solo i suoi più alti dirigenti, accompagnati al massimo dagli esperti dell’Iss. Per la Regione Lombardia, invece, tocca sempre allo stesso assessore, che è anche un uomo politico e che sta trasformando il suo volto in un’icona politico-amministrativa degna di un piccolo culto della personalità in salsa meneghina.

Da quel momento in poi, però, comincia un sentiero che si fa via via sempre più sconnesso e dissestato per quanto riguarda l’obiettività e la parità nella comunicazione istituzionale e delle quali le reti televisive nazionali ora non possono disinteressarsi.

Anche Gallera, infatti, fornisce dati sull’epidemia, quelli sulla Lombardia, ma prima, durante e dopo, pronuncia anche brevi discorsi politici e, insomma, “fa politica”: polemizzando sovente col governo nazionale e con i sindaci di centrosinistra di importanti Comuni della sua regione, a cominciare da quello di Milano e, soprattutto, da quello della martoriata Bergamo. È proprio a questo punto che la vetrina offerta ogni giorno all’assessore si offusca per un cortocircuito comunicativo ingiustificato. La Lombardia è di certo la regione più colpita dal contagio, per il numero di morti e per la proporzione del dramma dei medici e del personale sanitario che cercano di contenere gli effetti dell’epidemia, ma il freddo bilancio dei numeri (restando solo ai primi posti di un’angosciante classifica) dice che non stanno certo meglio gli abitanti e il personale sanitario dell’Emilia-Romagna, del Veneto e del Piemonte.

Non sarebbe giusto, allora, introdurre un più mite criterio di alternanza? Qualcosa che, per essere giustificato, non avrebbe neppure bisogno di affidarsi al tradizionale canone della politica televisiva che va sotto il nome di “par condicio”. Il centrodestra, com’è noto, governa anche in Veneto e in Piemonte, e se proprio si vuole continuare a offrire una conferenza stampa locale più “politica” e intesa quasi come un contraltare a quella asettica della Protezione Civile, nessuno potrebbe gridare alla faziosità o alla censura se, alternandosi a Gallera, in video cominciassero a comparire il presidente veneto Luca Zaia (Lega) o quello piemontese Alberto Cirio (Forza Italia). Se invece si volesse privilegiare nonostante tutto proprio la regola della “par condicio”, continuando a ritenere la Lombardia il fulcro di una comunicazione più legata al territorio, le possibilità non mancherebbero: concedendo un diritto di tribuna alternato al sindaco di Milano Giuseppe Sala (Pd) o a quello di Bergamo Giorgio Gori (Pd). Ancora più attenuata, anche se sempre targata centrodestra, potrebbe poi essere persino la scelta di chiamare a partecipare alle conferenze stampa regionali il presidente della Liguria, Giovanni Toti (giornalista televisivo, tra l’altro), che guida la regione più anziana d’Italia ma che, nonostante ciò, è riuscita per ora a contenere i contagi e le vittime.

Da quando però Gallera ha cominciato ad alimentare la possibilità di una sua futura candidatura a Milano come sfidante proprio di Sala, anche riflessioni pacate come queste non sono più possibili. E il problema per Rai, Sky e Mediaset è, da adesso in poi, quello di continuare a permettere a un possibile candidato politico di costruire, “all news”, la propria immagine pubblica ed elettorale.

Scommetto su Conte, Pd e M5s. Non su Draghi

Ho scommesso tutti i miei averi sul fatto che Conte e i suoi eroi, Pd e 5Stelle, sapranno affrontare la vera sfida della gestione finanziaria, economica e sociale del dopo-virus, allorquando non saranno più i tecnici della sanità e della protezione civile a dettare l’agenda, né la responsabilità, la professionalità e il civismo di medici e infermieri potranno salvarci.

La ragione della scommessa è semplice: se il governo non ce la farà, i miei risparmi andranno in fumo lo stesso. Consiglierei ai due Mattei e agli altri amici, auspicanti più o meno larvatamente il ritorno del premier ai suoi studi giuridici, di pensarci due volte prima di segare il ramo su cui sono appollaiati. Già ora la situazione è vicina al punto di rottura. L’economia di un Paese, poco in forma per conto suo, non può “restare a casa” per mesi. Gli aiuti decisi – e che sarebbe opportuno venissero immediatamente erogati – raggiungono alcuni settori, ma non possono garantire un reddito al “popolo delle partite Iva”, alle migliaia e migliaia di precari e stagionali e tantomeno al sommerso (sì, c’è anche quello da calcolare).

Mettiamo che con interventi tampone, meramente assistenziali, si possa tirare avanti senza sconquassi ancora uno, due mesi. Poi occorrerà ripartire. Pd e 5Stelle dovranno mostrare di aver capito la lezione, non perdere un minuto in micro-campagne elettorali interne e rivolgere al Paese un discorso di verità: per risalire dal fondo del pozzo in cui siamo caduti è necessario: a) sburocratizzare, semplificare, delegiferare; b) rivedere il rapporto tra Autonomie e poteri centrali, la cui inefficienza è stata messa a nudo proprio dalla gestione iniziale dell’epidemia; c) definire quali sono le assolute priorità dell’intervento statale – formazione, ricerca, innovazione, sanità, assistenza, esattamente quei settori oggetti di tagli su tagli da vent’anni a questa parte; d) realizzare una vera spending review, guidata da un ministro ad hoc incaricato anche della dismissione di tutto il patrimonio pubblico non necessario.

Pd e 5Stelle dovranno procedere uniti su questi obbiettivi strategici – e fare i conti con realismo, conti che tutti comprendano bene, sulle risorse disponibili. Se il Consiglio europeo vorrà che l’Unione ancora esista varerà le manovre auspicate da Draghi, altrimenti la sua fine verrà sancita dal notaio e pace all’anima sua – ma nessun alibi da parte nostra, nessuna fuga dalle responsabilità. Anche con tutti gli euro-bond del mondo, la nostra situazione, con centinaia di miliardi di debito in più, meno occupati e meno reddito, sarà tremenda. Il governo dovrà comunque ricorrere a misure finanziarie eccezionali. Non sarà la Grecia, rifiuteremo commissariamenti, Conte non farà la fine di Tsipras. Molto bene, giuriamolo a Pontida – ma si dovrà per forza decidere, operare scelte drastiche: da qui le risorse, questi i settori in cui intervenire, queste le categorie sociali che si intende proteggere.

Un governo “inventato”, senza alcuna base culturale e progettuale comune, come questo (e come circa tutti quelli che si sono succeduti da trent’anni), potrà reggere? Un primo ministro che si è speso finora a mediare e conservarsi potrà diventare un’autentica “guida”? Non lo so. So che sarebbe necessario. Altrimenti la crisi economica diverrà conflitto, scontro sociale generalizzato, tutti contro tutti, entro l’autunno. E nessuno può prevedere che cosa potrebbe uscire da un tale caos. Anzi, sì, è del tutto prevedibile: qualcosa di analogo a ciò che avvenne quando lo spread schizzò a quasi 600 punti e Napolitano chiamò Monti.

È del tutto utopistico pensare che la soluzione Draghi avvenga in condizioni diverse. Chi tarocca per un Draghi premier di una Grosse Koalition-mega inciucio con dentro tutti delira. E forse neppure conosce Draghi – ve lo vedete a presiedere un gabinetto con Salvini, Meloni, magari Di Battista, oltre agli attuali ministri? Draghi può soltanto essere il prodotto dello sfascio definitivo dell’attuale governo contro i durissimi scogli del dopo-virus; Draghi può succedere soltanto al fallimento conclamato del governo Pd-5Stelle, allorchè gli italiani constatassero la sua inettitudine ad affrontare la crisi e si trovassero, di conseguenza, nel pieno di una catastrofe finanziaria e sociale. Allora Mattarella dovrebbe, per quanto nolente, far la parte del Napolitano. Conviene a qualcuno? No, neppure ai Salvini e alla Meloni. Scommettiamo che Pd e 5Stelle sapranno trasformare il loro governo posticcio in un’alleanza dotata di volontà riformatrice? Scommettiamo che sapranno comprendere che soltanto così è concesso loro, anche come forze politiche, di sopravvivere? Scommettiamo che Conte non è soltanto Giuseppi? Sì, scommettiamo. Davvero non ci resta altro.

Dopoguerra e dopovirus, la lezione delle origini Dc

Tutto fa supporre che il dopovirus – drammaticamente somigliante a un dopoguerra – trasformerà il sistema politico. Vedremo cose sorprendenti, come i nostri padri e nonni dopo la Liberazione. Ce lo ricorda Marco Follini nel suo Democrazia cristiana. Il racconto di un partito, immeritatamente oscurato dal coprifuoco. L’osservazione è lasciata cadere senza enfasi: “Alla fine degli anni Quaranta l’affermazione democristiana era giunta inattesa”. Il senno di poi rimane incredulo. È il partito che ha dominato per 50 anni prima di essere schiantato di colpo dall’inchiesta Mani pulite.

Un altro volume appena uscito per sfidare suo malgrado il coprifuoco delle librerie ci regala numerose sorprese sulla storia della Dc, e spiega come la partita politica del Dopoguerra fu apertissima e i suoi esiti siano stati tutt’altro che scontati. Simile anche nel titolo, Una storia democratico cristiana è la lunga intervista con cui Ivo Butini – storico luogotenente di Amintore Fanfani nella Toscana che fu baricentro della storia Dc con leader come Fanfani ma anche Giovanni Gronchi, Attilio Piccioni, Giorgio La Pira – si racconta al figlio Francesco.

Follini, 65 anni, ha vissuto in prima persona la parte finale della parabola scudocrociata e la analizza con qualche incredulità, oscillando tra nostalgia e autoflagellazione. Ne risulta un ritratto in chiaroscuro, come se il Dna della Dc fosse caratterizzato dall’inestricabile intreccio di virtù e peccati, a somiglianza dell’Italia. Butini, morto nel 2016 a 89 anni e iscritto alla Dc dal ‘45, ha vissuto l’epopea delle origini ed è molto più netto e sanguigno nel racconto. Ma entrambe le testimonianze, nate al servizio di un’appassionata memoria diventano nella tempesta Coronavirus preziosi vademecum per il futuro.

Dallo sconvolgimento bellico nasce una cosa impensabile: un grande partito cattolico nel Paese in cui la Chiesa, dopo l’Unità d’Italia, con il non expedit per 50 anni aveva vietato ai fedeli la partecipazione alla politica. Uno scherzo della storia che Follini descrive attraverso la parole del grande giornalista Enzo Forcella: “Il primo impatto con i cattolico-democristiani provocò una reazione di sorpresa e di incredulità. Sapevamo qualcosa del liberalismo, del socialismo, dell’azionismo: non sapevamo assolutamente nulla di questi uomini che si presentavano all’insegna piuttosto buffa dello scudo crociato, cantavano Biancofiore, andavano a messa tutti i giorni e citavano in continuazione le encicliche e i messaggi papali… Più propriamente non immaginavamo neppure che potessero esistere”. Lo scrittore Pietro Citati è ancora più graffiante: “Chi era ragazzo negli anni tra il 1945 e il 1948 vide improvvisamente apparire alla luce una razza che non aveva mai conosciuto: i democristiani. Fino ad allora, avevano condotto una vita nascosta attorno agli arcivescovadi, le sacrestie, le scuole e le associazioni cattoliche; e sembravano stupefatti di apparire ai raggi del sole”. Ma non erano alieni. Butini rivendica origini proletarie e padre socialista.

Ricorda che la Dc, come il Pci, fa fare carriera ai figli degli operai e racconta come la sua generazione andata a scuola nella dittatura vuole vivere dentro la politica fino in fondo, fino a scontrarsi con i capi del partito: “Mi volete spiegare perché io vengo al partito e si parla dell’esistenza di Dio, e per parlare della Costituzione devo andare all’Azione cattolica?”. Erano anche tempi di furia giovanile contro la vecchia politica: “C’era una contestazione del mondo prefascista, per una ragione molto semplice: perché non siete stati in grado di impedire il fascismo? Ora sembrano sciocchezzuole, ma a quel tempo queste robe erano serie”.

Come serio era il sogno europeo, idee forti di gente che si guardava negli occhi: “De Gasperi, Schuman e Adenauer quando parlavano fra di loro parlavano tedesco”, ricorda Butini. Eppure, nota Follini, nella gerarchia dei valori di quel ruggente Dopoguerra, per i cattolici “il bene – quello profondo – risiedeva altrove, la politica era molto, ma non tutto”. E spiega: “Negli scritti giovanili e nelle riflessioni più attempate dei leader politici democristiani ricorre assai spesso la consapevolezza che la politica non è tutto e non può tutto, che c’è tanta vita che si svolge al di fuori dei suoi confini”. Già, c’è la politica ma c’è anche la società, ciò che oggi molti dimenticano, convinti che la realtà coincida colTruman Show dei teledibattiti.

Follini cita Robert Musil, l’autore di L’uomo senza qualità: “Democrazia, per dirlo con la massima concisione, significa: fai quel che accade”. La Dc vuole accompagnare i movimenti della società con un peculiare “rovesciamento del gattopardismo”. Ma ha idee diverse di come farlo. Ricorda Butini: “De Gasperi aveva come primo obiettivo la ricostruzione dello Stato, dalla burocrazia fino ai prefetti. La sinistra della Dc diceva: prima si cambia tutta la società e poi si vede di rimettere a posto quello che c’era prima”. E ripercorre la sua parabola giovanile, prima seguace di Giuseppe Dossetti, padre nobile della sinistra Dc, poi vicino all’atlantismo europeista di De Gasperi, poi con Fanfani continuatore di Dossetti. “De Gasperi è riformatore perché vuole correggere l’eccesso della presenza statale nell’economia, Dossetti era contestato nel mondo cattolico perché sosteneva una visione forte dello Stato. Io che ero stato educato nelle scuole fasciste, dello Stato non avevo paura”.

De Gasperi cade, tocca a Fanfani: “Quando De Gasperi perde nel 1953 perché la destra monarchica, e probabilmente borghese, non lo segue più, arriva Fanfani e dice: ‘Si sfonda a sinistra’, con la politica sociale si recupera a sinistra quello che si è perso a destra”.

Fanfani firma la stagione delle grandi riforme che avranno il culmine nella nazionalizzazione elettrica. Ma è lì che sfuma la luna di miele della Dc con il Paese. Follini affida la descrizione a Leonardo Sciascia, che in Todo modo scolpisce il sinistro raduno di “quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela”. La Dc si fa spietata bisca di correnti: “Se i leader non ci sono, sono i colonnelli che comandano, non il generale, e i generali hanno ciascuno il suo reggimento. La fine di De Gasperi apre questa partita, che dura fino alla fine della Dc”. Già, la fine: “Il sistema politico si è corrotto non perché uno fa anche carriera, e va bene, ma perché uno passa di lì per fare solo più carriera. Allora questa è politica privata”. E sembra impossibile non leggere in queste parole l’annuncio di una prossima moria di guitti e mestieranti. Spazzati dalla pandemia, in Italia e non solo.

 

Limiti alle emissioni: l’industria chiede il rinvio delle scadenze

A partire dal primo gennaio 2020, le nuove norme europee sulle emissioni impongono ai costruttori di non oltrepassare la media dei 95 g/km di CO2 sul 95% della loro gamma, percentuale destinata a toccare il 100% nel 2021. I trasgressori verranno puniti con una penale di 95 euro per ogni grammo emesso oltre il suddetto limite, moltiplicato per il numero di auto vendute. Fin qui, la teoria. Ma la pratica potrebbe essere di tutt’altro tipo, perché i costruttori hanno inviato una lettera alla presidentessa della Commissione, Ursula von der Leyen, per chiedere la proroga di scadenze e relative sanzioni. In calce, c’è la firma di Acea (Associazione europea dei costruttori auto), Clepa (fornitori di componentistica), Etrma (produttori di pneumatici) e Cecra (riparatori).

Nello specifico, gli estensori si lamentano dello sconquasso che stanno attraversando l’industria automobilistica e della componentistica – tutti gli stabilimenti produttivi sparsi per il Continente e in altre regioni del mondo sono fermi – e le buie previsioni di mercato per il 2020. Chiedendo per l’appunto clemenza.

“Attualmente non si sta svolgendo alcun tipo di lavoro su produzione, sviluppo, test o omologazione. Uno stop che sconvolge i piani che avevamo fatto per prepararci a rispettare per tempo le leggi presenti e future”, si legge nella lettera, che fa istanza di “apportare qualche aggiustamento alla tempistica di queste leggi”. Anche se, va detto, i costruttori avrebbero dovuto farsi trovare pronti alle nuove leggi già all’inizio dell’anno in corso. E che qualsiasi sanzione dev’essere calcolata in base ai veicoli venduti, cosa che in questo momento accade ben poco con i concessionari deserti. Ma è pur vero che, con un mercato alle corde e multe milionarie da saldare, molte aziende rischierebbero il baratro, portandosi appresso migliaia di posti di lavoro. Già adesso “la maggior parte dei dipendenti è tecnicamente disoccupata o – quando possibile – lavora da casa”. Come risponderà l’Europa?

Ecco le stime del tracollo. In Europa lo scenario peggiore

Si parlava delle difficoltà del mercato globale dell’auto già a inizio 2020, quando all’orizzonte europeo non si affacciava ancora neppure l’ombra della pandemia da Covid-19: era un’emergenza lontana, che riguardava la città di Wuhan, poi la Cina e, a doverla estendere, il continente asiatico. A metà gennaio le case automobilistiche europee e americane temevano il collasso produttivo cinese – Wuhan, nella fattispecie, è un hub tecnologico cruciale per molti settori tra cui quello dell’auto – e, nel giro di qualche giorno, cominciavano a chiudere stabilimenti, a interrompere produzioni e viaggi di lavoro non indispensabili.

In appena un mese la certezza di dover chiudere i siti produttivi e di assemblaggio ha toccato anche l’Italia e poco dopo, a cascata, Germania, Spagna, Francia e il resto d’Europa: qualche settimana, e la paralisi industriale ha investito anche gli Usa. Così che le stime commerciali pessimistiche, tracciate a inizio anno per pronosticare come il mercato dell’auto avrebbe affrontato l’alba del nuovo decennio, sono diventate poca cosa confrontate con quelle a tinte cupe diffuse in questi giorni dai maggiori istituti di analisi.

Per Moody’s, l’agenzia di rating americana, il calo di vendite a livello globale toccherà il -14%: niente a che vedere – sottolinea Falk Grey, senior vice presidente della società – con il -2,5% previsto a marzo. Le ultime analisi evidenziano che a farne le spese sarà soprattutto il mercato dell’Europa occidentale con -21% di vendite, mentre la Cina riuscirà a fermarsi al -10%.

IHS Markit, che tra gli istituti risulta essere il più ottimista, prevede a fine anno una perdita delle immatricolazioni a livello mondiale del 12%, ovvero 10 milioni di unità vendute in meno rispetto a quanto riportato nelle analisi di gennaio: cioè prima che l’epidemia di Coronavirus colpisse l’Italia e l’Europa, fino a tramutarsi in vera e propria pandemia globale.

“Una flessione notevolmente peggiore rispetto al picco dell’8% raggiunto nei due anni della recessione globale del 2008/2009”, ha sottolineato Colin Couchman, direttore di Ihs Markit. L’analisi dell’istituto, citata da Autoactu, rivista francese di settore, ha preso in considerazione non solo un possibile andamento della domanda ma anche l’impatto economico delle misure restrittive adottate dai governi dei vari Paesi, in primis la chiusura degli stabilimenti. L’istituto S&P Global Rating, poi, propone previsioni addirittura più buie di Moody’s, arrivando a ipotizzare una flessione del mercato auto globale del 15%.

A destare più preoccupazione, però, è ancora la situazione europea. Secondo Ihs Markit il Vecchio Continente chiuderà il 2020 con perdite del 13,6% e una riduzione delle immatricolazioni a 15,6 milioni di unità. S&P, invece, usa l’accetta, prevedendo un calo che potrebbe oscillare tra il 15 e il 20%.

Per quanto riguarda il mercato statunitense, invece, Ihs prevede un calo più sensibile, del 15,3%: secondo l’istituto britannico, le misure monetarie e fiscali già annunciate dal governo non basteranno a tenere lontano “un imminente crollo della domanda”; le analisi di S&P non risparmiano il loro pessimismo, arrivando a calcolare per gli Usa un -20%. La Cina, al contrario, potrebbe subire un calo del 10% secondo Ihs (questo vale anche per S&P, 8-10%, e per la stessa Moody’s), ma con un’acutizzazione della crisi nella seconda metà dell’anno.

Le ricadute economiche dell’epidemia: dov’è meglio tenere i risparmi al riparo

Tante sono le domande che si pone chi ha risparmi da parte, preoccupato per le ricadute economiche e finanziarie dell’epidemia in corso. Abbiamo già messo in guardia dalle garanzie farlocche di recuperi più o meno rapidi e meriterebbe anche discutere dei rischi, non nulli, per i titoli di Stato italiani.

Ma prima vogliamo dare qualche risposta a chi, angosciato, cerca beni o soluzioni rifugio, avendo in mente gli scenari peggiori: insolvenze, fallimenti e default a catena. Quali sono alternative più sicure? Le esaminiamo proprio in ordine crescente di sicurezza, precisando che innanzitutto bisogna comunque evitare fondi, polizze e simili, perché uno non sa, cosa davvero hanno dentro. Per cominciare sono alquanto sicuri conti correnti e libretti, perché nella situazione attuale il governo italiano ma anche la Banca Centrale Europea vogliono assolutamente evitare crisi bancarie. Fosse capitato adesso, le banche venete sarebbero state salvate. Hanno addirittura infilato nel decreto Cura Italia in pratica la nazionalizzazione dell’Alitalia, in cancrena da ben prima del coronavirus.

In quanto alla liquidità lasciateci dire una cosa. Per mesi e mesi i saccenti soloni dell’educazione finanziaria hanno sconsigliato di tenerla sui conti, con l’obiettivo nascosto di facilitare il collocamento di fondi e altre trappole. Chi ha dato retta al Fatto Quotidiano, anziché a loro, ha evitato le perdite delle settimane scorse.

Ancor più sicuri dei soldi in banca sono buoni fruttiferi e libretti postali, in virtù della garanzia dello Stato. Ciò varrebbe anche per i Btp e altri titoli del Tesoro, soggetti però a flessioni e anche crolli delle quotazioni.

All’apice della sicurezza nei riguardi di fallimenti, insolvenze ecc. abbiamo i contanti, cioè le banconote o biglietti di banca, che dir vogliasi. Sono infatti la moneta delle banche centrali, le quali non falliscono a differenza di cosa capita, a volte, alle banche private. Per maggior prudenza ci sarebbero le banconote in valute estere, in particolare in dollari o franchi svizzeri. Ma un normale risparmiatore ha grandi difficoltà a procurarsele per importi significativi.

E i beni rifugio tradizionali? Di opere d’arte, diamanti o tappeti non merita neanche parlare. C’è l’oro, che non è una scelta assurda, ma con due gravi difetti. Per cominciare il costo dell’investimento per le monete auree arriva al 10-15%. Ma soprattutto all’occorrenza bisognerà trovare aperti i pochi canali esistenti per venderlo, visto che nei negozi o supermercati la spesa non si paga certo coi Krugerrand, le Elisabette o i lingotti d’oro.

 

Bollette, mutui, bollo e tasse: ecco i tempi di conservazione

Le pulizie di primavera – dei documenti fiscali – per battere la paura e la noia. Potrebbe essere questa una soluzione, dedicando un paio di ore alla sistemazione delle pile di dichiarazioni, fatture, estratti conti e bollette pagate, ma mai adeguatamente riposte. Un buon proposito che, tuttavia, si scontra con un primo grande interrogativo: quali conservare e quali cestinare perché si ritengono carta straccia? L’articolo 2934 del Codice Civile prevede che il diritto a richiedere un pagamento scada dopo un certo periodo di tempo. Ma spesso non ci sono obblighi di legge che prevedono termini certi per chi non esercita un’attività d’impresa. Tanto che per svariate certificazioni il Fisco ha 10 anni di tempo per perseguire gli evasori e recuperare il dovuto. E, in caso di contestazioni, è meglio avere le “pezze d’appoggio” per difendersi. Facciamo un po’ di chiarezza utilizzando il vademecum della Guardia di finanza e di Altroconsumo con l’indicazione dei relativi termini che vanno da 1 a 10 anni.

Rette e palestre. Le ricevute di iscrizione vanno conservate 1 anno. Sono i documenti con la data di scadenza più breve. Ma va anche ricordato che se sono state detratte dalla dichiarazione dei redditi (sono detraibili le spese per l’iscrizione annuale e l’abbonamento ad associazioni sportive, palestre o piscine dei figli di età compresa tra 5 e 18 anni) sono da conservare per 5 anni.

Bollo, cambiali e parcelle. Le Regioni possono fare accertamenti sui bolli fino a 3 anni da quello in cui è stato fatto o sarebbe dovuto essere fatto. In questi giorni, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Campania hanno però posticipato al 30 giugno le scadenze per l’emergenza coronavirus. E altre Regioni potrebbe adottare lo stesso provvedimento. Trentasei mesi di conservazione, a partire dalla scadenza, valgono anche per le cambiali e le parcelle dei professinisti (avvocati, medici, dentisti, architetti, ecc.).

Tasse. Il fisco ha tempo fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello della presentazione dei modelli 730 o Redditi (l’ex Unico) per effettuare controlli. Ad esempio, quello presentato nel 2019 va conservato con la relativa documentazione fino al 31 dicembre 2024. Tra queste rientrano: le spese mediche e le polizze vita. Ma nel caso in cui si sarebbe dovuta presentare la dichiarazione e non lo si è fatto, il fisco può fare i controlli fino a 7 anni successivi alla mancata presentazione della dichiarazione dei redditi.

Mutui. La conservazione delle rate hanno termine al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello nel corso del quale sono stati detratti gli interessi passivi pagati. È bene, però, in via precauzionale, conservare tutte le ricevute fino al momento in cui l’ipoteca non sarà stata cancellata.

Bollette e canone Rai. Le fatture di acqua, gas e telefono vanno tenute per 5 anni. Ma dal 2016, con l’introduzione del canone Rai nelle bollette della luce, quest’ultime vanno conservate per 10 anni per evitare contestazioni sul pagamento del balzello da parte del fisco.

Multe. Il termine di prescrizione per infrazioni al Codice della strada è di 5 anni. Bisogna però fare una distinzione: i 5 anni valgono per le violazioni accertate da polizia stradale o carabinieri (come per l’eccesso di velocità in autostrada), mentre per quelle rilevate dal Comune, il termine di prescrizione è di 2 anni dall’iscrizione a ruolo della multa.

Casa. Le ricevute delle spese condominiali, del canone di locazione della tassa sui rifiuti si prescrivono in 5 anni. I controlli da parte dei Comuni per le imposte locali sugli immobili, Imu e Tasi, possono arrivare fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui si deve pagare o presentare la dichiarazione.

Ristrutturazioni. Le fatture sulle ristrutturazioni edilizie, gli interventi di risparmio energetico, gli acquisti di mobili e grandi elettrodomestici vanno conservate fino al 31 dicembre del decimo anno successivo a quello dove è avvenuta la detrazione dello sconto.

Estratto conto. Vanno conservati più a lungo di altri documenti, fino a 10 anni, perché consentono di impugnarlo nel caso di errori e omissioni.

Scontrini. Per far valere tutti i diritti previsti dalla legge nel caso si acquisti un prodotto che presenta difetti o non funzionante, è opportuno conservare lo scontrino di acquisto per il tempo di durata della garanzia del bene. Se si è sottoscritta una garanzia di maggiore durata, bisogna conservare lo scontrino e il certificato di garanzia per tutta la sua durata.

Per sempre. Rientrano in questa speciale categoria: atti notarili, rogiti, atti di matrimonio/separazione/divorzio, attestati e diplomi.

Fosse Ardeatine, la strage della burocrazia disumana

Su una parete esterna della casa in cui vivo a Roma c’è una lapide con i nomi di Alfredo Mosca e Mario Felicioli. “Strappati da questa officina caddero colpiti alle spalle, essi che avevano nel cuore l’ideale di un’umanità affratellata nel lavoro e nella fede. Fosse Ardeatine, 24 marzo 1944. Nel secondo anniversario gli amici Q. P.”. Non avrei saputo nulla di Mosca e Felicioli, salvo l’indicazione di professione (elettricisti) e di religione (cattolica) che compare negli elenchi scritti (fra informazioni a voce, dati di arresto e di carcerazione) subito dopo la Liberazione di Roma.

Ora però c’è un libro, Le Fosse Ardeatine, appena pubblicato da Anfim (Associazione nazionale famiglie italiane martiri caduti per la libertà della patria). Insieme alla Fondazione Terzo Pilastro, alla Regione Lazio, al ministero della Difesa, che si avvale del lavoro di due gruppi di straordinari protagonisti. Uno, per la verifica e il coordinamento scientificio dei fatti, guidato da Umberto Gentiloni Silveri e Stefano Palermo. L’altro, per la ricostruzione e la narrazione degli eventi, ha la voce, la memoria e i sentimenti di Alessandro Portelli; con altre voci competenti, indicate nel colophon del libro. Ma il testo si fonda sulla rigorosa organizzazione dell’impianto progettuale e del coordinamento editoriale (dalla organizzazione dei dati, delle storie, delle immagini, alla impaginazione) che fa capo al gruppo Alicubi e al suo principale esperto (oltre che fondatore e direttore) Augusto Cherchi.

Ora c’è dunque sulle Fosse ardeatine (crimine mai abbastanza ricordato tra le vicende della Resistenza e della Liberazione) un volume che, se non è “ufficiale” dal punto di vista della burocrazia, certo lo è per la ricomposizione accurata del grande delitto; e dell’accoglienza, l’una accanto all’altra, delle storie di tutte le 335 vittime della strage, organizzata con estrema rapidità e precisione omicida.

Le pagine di Fosse Ardeatine vi accompagnano lungo un pauroso tragitto: prima si decide quanti devono assolutamente morire; poi c’è la selezione, doppiamente delittuosa perché senza alcun rapporto con ciò che è accaduto prima e con ciò che deve risultare dopo. Un semplice e sanguinoso atto d’obbedienza burocratica. Un’indifferenza disumana distingue il criterio di composizione delle liste. Persino la qualifica di “ebreo” diventa pretesto per raggiungere il numero prescritto dalle autorità, insieme a “cattolico”, “operaio” e “contadino”.

La partecipazione alla “banda armata” (partigiani), non è il punto. Il punto è una, 5 o 10 persone in più da uccidere per completare un conto che si direbbe, come in una storia di terrore, redatto direttamente dalla morte. Certo le Fosse Ardeatine sono rimaste, nello sterminio arbitrario della libera selezione, una sorta di sostituto del destino. Ma il libro, con la scrittura emozionante di Portelli e il perfezionismo organizzativo di Augusto Cherchi (che ha composto il volume) è un documento straordinario sulla nascita (dolorosa e coraggiosa) della Repubblica, dopo e contro l’orrore fascista. Leggete il cumulo di documenti: generali e contadini, manager e operai, ebrei e cattolici, militanti selezionati a caso. Ci sono tutti, ci siamo tutti, intorno alle 2 persone il cui nome è ancora nella lapide della casa in cui abito, a Roma, Mosca e Felicioli. Due operai romani “strappati al loro lavoro”. Certo da polizia fascista (bisognava sapere che erano socialisti). Essi, con tutti gli altri della cieca strage, sono i primi cittadini della nuova Italia che ora dobbiamo difendere. Questo libro è una efficace arma nonviolenta.

Il coronavirus ha infettato la logica: il dibattito muore di contraddizioni

Impossibile che su un fatto l’autorità costituita dia una valutazione e poi ancora l’esatto opposto della stessa.Ogni proposizione che implichi A e la sua negazione – ovvero non-A – è falsa. Ipse dixit, è il caso di dire ma col Coronavirus siamo passati dall’#abbracciauncinese all’abrogazione della stretta di mano; dall’Amuchina prima di ogni cosa siamo arrivati all’Amuchina che non serve a niente; dall’impossibilità che il contagio arrivi dagli oggetti ci ritroviamo a lasciare le scarpe fuori dalla porta e così, sulle ali del pipistrello di Wuhan, il principio di non contraddizione cede il passo all’obbligatorietà antinomica.

Nell’epoca del Covid-19, dunque, non possiamo non dirci contradditori. C’è tutto un frasario per non sfigurare nella conversazione. Muoiono solo i vecchi, invece no: anche i giovani. Se lo prendono solo quelli con malattie pregresse, ma a seguire ce l’hanno anche i sani. È poco meno che un’influenza, poi un’epidemia, quindi una pandemia. La natura torna a respirare, perfino la laguna, nei canali di Venezia, è trasparente. #tuttoandràbene ma intanto le persone se ne vanno all’altro mondo come le mosche. I loro cofani – le bare – sono impilati al modo della collezione dei Topolino dove, manco a dirlo, nessun papero muore mai. Come il mio amico papero Massimo Vincenzi – il capo redattore di un’intera stagione di Repubblica, vice direttore de La Stampa – che ha lasciato questa terra l’altro giorno ma è immortale, per gli infiniti valori di verità come solo i veri disneyani sanno essere.

Tautologia e polivalenze, si dirà. La stessa cronaca è un groviglio di date in contrasto, numeri inconciliabili e assalti ai forni. L’opera di Alessandro Manzoni è più che mai l’autobiografia d’Italia. Ci si ritrova nelle sue pagine e non solo per la peste di Milano, o per i Dpcm – i decreti – che fanno il paio con le grida, piuttosto con l’Azzeccagarbugli che si materializza, oggi, per interposta autocertificazione. Il latinorum trasborda nella neolingua del Coronavirus e ci vincola all’imperativo della contraddizione.

Così accade sulle durate delle quarantene, sulle esatte misure di distanza sociale e sulle norme igieniche se perfino sul lavaggio delle mani – sul medesimo attributo, nel medesimo tempo – circolano due proposizioni: una si regola con Happy Birthaday – da cantare due volte, mentre ci s’insapona – un’altra cronometrando l’amplesso che, Decamerone a parte, nell’acme si regola con un’approssimazione. Un po’ è come il qb di sale e pepe nei ricettari di cucina, e nemmanco è più Eros e Thanatos il contrasto obbligato. La polarità di tutti si sfalda in una gelatinosa apnea. L’obbligatorietà di contraddizione ci costringe al paradosso esistenziale e tutto lo spasso di fuori è – ahinoi – soltanto un tribolo, a casa. Strade vuote e piazze metafisiche che sono come i quadri di De Chirico si lasciano bagnare dalla luna e baciare dalle belle giornate, ed è uno spreco pari alla fatica che fa il sole nei libri di Achille Campanile.

Povero sole ahilui – sfolgora come non mai, irradia i suoi luccicanti raggi, rinfocola i fuochi, abbaglia al meglio con le sfumature dell’oro, del paglierino e del giallo. S’affaccia infine all’alba per il suo spettacolo ma – ecco – a parte qualche zotico, nessuno lo vede. Dormono tutti. Tutto è un dormire, ciascuno nella propria monade, e nessuno sa cosa potranno mai dirsi in tutta questa solitudine gli incroci, i vicoli e i tram in corsa verso i deserti di A e del sua falsificante coinquilino, il non-A .

Tutto è un morire. Tutto un impossibile. Nell’esatto opposto della vita.