Gli italiani in casa seguono i siti meteo (ma per l’estate)

Indifferenti alle regole della quarantena, untori senza scrupoli, smaniosi di tornare in strada? A guardare il nostro popolo da una prospettiva molto peculiare non sembra proprio che sia così. Infatti, stando ai dati del sito ilMeteo.it, pare che gli italiani – frequentatori compulsivi di siti meteo – abbiano spostato le loro ricerche su sole e nubi ben dopo Pasqua, a dimostrazione di una rassegnazione-accettazione senz’altro positiva. Intendiamoci: i cittadini del Bel Paese non hanno perso la loro abitudine-dipendenza a cliccare ansiosamente sulle previsioni del tempo, pur se chiusi in casa. Nel mese di marzo, rispetto a quello del 2019, c’è stato un aumento di lettura di notizie con previsioni a lungo periodo del 54%. E sempre le prime tre settimane di marzo hanno visto un raddoppio di fruizione rispetto alle prime tre di febbraio. Ma appunto: le ricerche degli italiani, notano gli esperti del noto sito meteo, sono tutte di medio o lungo periodo, tanto che anche sulla pagina Facebook del sito le interazioni sulle previsioni a medio-lungo termine appaiono dieci volte superiori rispetto a quelle a breve-medio termine. Insomma, si punta tutto sull’estate – tema commentatissimo – sperando che sia magari un po’ prima della discussa e fatidica data del 31 luglio, ma comunque ben dopo Pasqua (e infatti le ricerche meteo per questo periodo sono calate del 70%). Non solo. Il coronavirus ha reso gli italiani – un vero miracolo – persino più attenti alla questione climatica. Certo, si conta sul cambio di clima non solo per mettersi in short ma anche perché, anche se gli esperti frenano sul legame, tutto sommato si scommette sul fatto che il caldo umido possa stroncarlo.

“Non c’è dubbio che l’interesse sul tema dei cambiamenti climatici stia aumentando esponenzialmente negli ultimi anni”, spiega Andrea Garbinato, coordinatore de ilMeteo.it. “Tuttavia, appare chiaro che in questo momento di fragilità, anche psicologica, ogni argomento che possa in qualche modo interfacciarsi con l’epidemia diventa non solo interessante, ma direi quasi imprescindibile”. Ma potremo sperare in un’estate relativamente serena o dovremo pagare l’eventuale scomparsa del virus con un caldo torrido? “Le proiezioni, basate su modelli matematici con parametri ben precisi e conosciuti, almeno allo stato attuale fanno pensare ad una stagione con temperature sopra le medie di circa 1/1,5 gradi”, continua Garbinato. “Si tratta, peraltro, di dati purtroppo in linea con il trend delle ultime stagioni, a causa soprattutto di una presenza sempre più costante, alle nostre latitudini, dell’anticiclone africano. Insomma, tutto ci fa pensare che la prossima estate possa essere ancora molto calda, ma non parlerei affatto di crisi climatica, tanto meno in contrapposizione alla crisi sanitaria che purtroppo stiamo vivendo. Potremo fare delle vacanze sicuramente serene, anzi, se riusciremo a superare questa difficile situazione potranno probabilmente essere le vacanze migliori di sempre”.

Aggressioni e minacce in strada: quando parte la caccia all’untore

Qualcuno gli ha urlato dal balcone, altri lo hanno fotografato con il cellulare, fino a una signora che in edicola lo ha aggredito alle spalle minacciandolo con una scopa in mano: “Devi stare a casa, hai capito? Se no ci infetti tutti”. Uno degli effetti nefasti dell’emergenza coronavirus è la manzoniana caccia all’untore. Anche se “untori” non si è perché “obbligati” a uscire di casa per guarire da una polmonite, che con il letale Covid-19 nulla ha a che fare. È il caso di Lorenzo Lorenzi, originario di Follonica, che di mestiere fa l’agente di viaggio per la “Picasso Viaggi” di Venturina, in provincia di Livorno. Come ha raccontato Il Tirreno tutto inizia il 17 febbraio quando, per lavoro, Lorenzo si imbarca per tre giorni su una nave da crociera, con 5.000 passeggeri, tra cui molti cinesi. Quattro giorni dopo si sente male in ufficio: inizia a tremare, manda via i clienti e poi sviene. Si risveglia alle 21.30 dopo aver ricevuto diversi messaggi whatsapp e lì capisce che potrebbero essere i sintomi del virus che in quel momento sta provocando così tanta sofferenza in Cina. Così, con un una moglie e un bambino piccolo, non può tornare a casa e telefona al 118 che gli consiglia di chiamare il medico curante e poi la guardia medica, una prassi errata con un sospetto caso positivo. Una volta visitato, la guardia medica consiglia a Lorenzo di fare una lastra toracica all’ospedale di Massa Marittima o Grosseto ma ci deve andare da solo perché nessuno lo può accompagnare: “Come non potete?” protesta Lorenzo. “Eh hai fatto 30 farai 31” risponde il dottore. Lorenzo, tremante e con la febbre a 39, arriva in macchina autonomamente all’ospedale di Massa Marittima intorno alle 2 di notte e dopo il trasferimento a Grosseto viene visitato dagli infettivologi alle 6: “Sono entrati in cella di isolamento vestiti come in cassandra crossing(o breaking bad), un film che vidi da piccino, che mi ha segnato: da quel momento ho iniziato ad avere paura”.

Il tampone però, dopo mezza giornata, risulta negativo: Lorenzi aveva “solo” una brutta polmonite virale accompagnata da un “adenovirus”, una forma strutturata di congiuntivite. Dopo essere stato dimesso e dopo un periodo di convalescenza in casa, il medico gli ha prescritto di fare almeno una passeggiata al giorno nonostante la quarantena obbligata per ridare aria ai suoi polmoni: “Finchè il mio polmone non tornerà in forma – spiega Lorenzi – mi trovo ad uscire ogni giorno, per andare in edicola, per andare in farmacia, piccoli spostamenti, tant’è che ci vado spesso coi sandali”. Tutto con l’assenso delle forze dell’ordine. Eppure in molti suoi concittadini lo hanno fotografato e “messo alla gogna sui social”, come dice lui, fino a minacciarlo fisicamente. Ma Lorenzi non vuole personalizzare e pensa che oltre al suo ci siano molti altri casi simili in Italia: “Siccome si doveva trovare qualcuno a cui addossare una qualche colpa – conclude amareggiato – qualcuno ha iniziato a prendere il telefonino e a fotografare quelli che escono. Di un clima del genere, in questo momento, non ne abbiamo proprio bisogno”.

Aprile, mese crudele: “Il Vernacoliere” non esce

C’è la vignetta di Matteo Salvini che dialoga con il Coronavirus: “Prima gli italiani”. “Okey, me lo segno”, risponde il parassita che sta provocando morti e contagi nel mondo. Ma ci sono anche le vignette contro i media, in cui c’è un “focolaio d’imbecilli e nessuno che cerca la cura”, o contro la retorica del “balcone” e dell’“andrà tutto bene”: “C’è tanta paura ma anche tanta solidarietà e tanto amore – dice tra sé e sé un anziano livornese – comunque be’ (bei, ndr) mi’ tempi quando ci si mandava affanculo senza problemi”.

Il Vernacoliere, storico mensile di satira livornese, quest’anno ha compiuto sessant’anni dalla prima pubblicazione ma ad aprile non uscirà con il numero 1044 a causa della pandemia che avrebbe messo in pericolo corrieri e postini per distribuire il giornale nelle edicole. E allora la rivista ha deciso di adeguarsi e di contrastare il Coronavirus pubblicando le vignette satiriche su Facebook: “Quella che sta succedendo è una tragedia, ma l’umorismo è importante per tenere alto il nostro morale – spiega il direttore Mario Cardinali –. Noi siamo un giornale libertario e du’ risate ci vogliono per superare questo momento difficile”.

Difficile prendere in giro il virus che sta provocando morte e sofferenze, mentre è molto più facile farlo con quei politici che, dice Cardinali riferendosi a Salvini, “campano sulla tragedia”: “Ha notato come sembrano piccolini i politicanti di fronte a questa immane tragedia? – continua il direttore – e soprattutto come questi miserabili ricominciano a mettere fuori la faccia quando si vedono i primi dati positivi”.

I politici su cui fare satira dovrebbero essere soprattutto quelli che hanno approvato i tagli alla sanità per decenni: “Da Poggiolini a Formigoni, il sistema sanitario è stato depauperato e tutti si sono spartiti la torta. Ora, però, la tragedia è fuori dall’uscio (dalla porta in livornese, ndr)”.

Il dissacrante mensile del vernacolo livornese non può non mettere nel mirino anche la retorica della musica sui balconi e della solidarietà patriottica: “Adesso ci sentiamo tutti uniti ma in realtà l’italiano pensa solo a se stesso e a fregare l’altro – continua il direttore del Vernacoliere –. Basti pensare alla patrimoniale: se qualcuno la propone per aiutare i più poveri, vedrà che casino succede. Scoppia la rivoluzione”. Eppure, una parola di speranza la dedica anche ai livornesi che in questo momento si sentono “ingabbiati” nelle proprie case: “Il livornese è uno spirito libero, un anti-sistema per origine perché non nasce dalla guerra tra guelfi e ghibellini ma da una cacciuccata di etnie del Cinquecento. Tra loro ci sono grandi banditi e persone perbene, ma in comune hanno l’irriverenza verso il potere. In questo caso però bisogna rispettare le regole per salvaguardare se stessi e gli altri. Poi, da buon livornese, speriamo che tutto questo passi presto per tornare al mare e a respirare l’aria aperta, che non può essere ingabbiata dai padroni”.

Quel che resta del porno: l’amore si fa solo in Rete

Viviamo giorni strani, si sa. E #dobbiamostareacasa, tempio supremo e sconsacrato di ogni forma d’amore. Ma come ne usciranno, quando l’incubo finirà, le coppie sposate/conviventi e quelle ognuno nel proprio tetto, gli amanti clandestini e gli “amici con benefit”, i single per scelta e quelli obtorto collo?

Il sesso in Italia, ai tempi del Coronavirus, è un’entità bizzarra e geneticamente modificata, e stanno freschi i sessuologi a pontificare sull’importanza del farlo veramente “perché così si producono endorfine e aumentano le difese immunitarie”. Scommettendo sul picco della libido tra un bollettino della Protezione civile e l’altro, nel bel mezzo di una quarantena e in un pigiama party permanente. In questa indistinta e infinita domenica, senza il beneficio di un lunedì. E allora poco sex reale, largo a quello virtuale. Tutti in Rete spassionatamente, sullo smartphone o davanti a un pc. E poi, assicura chi la sa lunga, “l’unico contatto sicuro, oggi come oggi, è quello con se stessi”. Un “ansiolitico naturale”.

Ecco quindi la trovata magnanima di Pornhub, il portale a luci rosse tra le 45 pagine più visitate al mondo. La piattaforma ha infatti regalato agli italiani un mese gratis alla sua formula Premium. Con tanto di messaggio ad hoc: “Forza Italia, we love you”. Basta registrare un account dal nostro perimetro nazionale, senza gli estremi della nostra carta di credito, per poter prendere visione di tutti i suoi contenuti hard, compresi quelli ad alta definizione, fino a inizio aprile. E chissà non ci scappi, anche qui, una proroga. A migliaia i connazionali che hanno approfittato dell’offerta, ma già a metà marzo, quando non era ancora attiva, nel Belpaese il ricorso al paradiso voyeuristico aveva conosciuto un incremento del 13,8 per cento, con un raddoppio dell’utenza alle 2 di notte, l’orario di massimo share. Diavolo di un Pornhub che ha aperto un solco, in cui si è infilata subito la giapponese Soft on Demand, che ha elargito 200 filmati senza veli e nemmeno il problema di capire la lingua. Moto di riprovazione, invece, per xHamster, la terza potenza globale in materia, che aveva sì concesso un abbonamento premium in comodato d’uso, ma solo ai residenti della zona rossa originaria, lombardi e veneti.

E sui siti di incontri occasionali, c’è vita nelle app di dating? Come se la passano i Grindr, Lovoo, Badoo, OkCupid e, va da sé, Tinder? Scaricata 340 milioni di volte, 5,9 milioni di abbonati nel 2019, su quest’ultima ci si limita a tenere viva una parvenza di fiamma per quando sarà tutto terminato, tra un sì e un no di circostanza. È saltato in blocco il cerimoniale, a cominciare dall’aperitivo di conoscenza: i bar sono interdetti, e comunque non si potrebbe andare oltre con la regola del metro di distanza. Su Once, però (più di 1,2 milioni di affiliati in Italia, 480 mila donne) si è verificato un aumento delle attività del 40 per cento: già a fine febbraio le connessioni erano lievitate del 30. Mettiamola così: ci si organizza per l’estate.

Non resta perciò che la passione fredda da remoto, da accendere con parole licenziose e lo scambio di immagini hot: il classico sexting da praticare in collegamento dalle rispettive abitazioni grazie a Messenger, Skype, House Party, WhatsApp, Zoom o Telegram. Stando bene attenti al cyberbullismo e al revenge porn. Persino il mondo di sotto del sadomaso si adegua, con le Mistress che non potendo più frustare e umiliare i loro schiavi dal vivo ripiegano sulla dominazione online. Per non dire del mercato delle escort, ormai ai minimi termini. Sulle prime avevano cercato di attrezzarsi come potevano, loro espertissime di smart working, magari con un termoscanner e una bella mascherina alla Eyes Wide Shut. Poi sono arrivati i decreti e la domanda è crollata. Anche l’offerta: “La media di annunci quotidiani è di solito di 12.500, e il 13 marzo erano calati a 6.500”, sottolinea Escort Advisor, il primo sito di recensioni “dedicate” in Europa. Racconta Francesca, una professionista milanese del settore: “Adesso faccio chat e videochiamate erotiche. Mi ha fatto molto ridere quello che mi ha contattata con la doccia accesa, bisbigliando… era chiuso in bagno e fingeva di lavarsi per non farsi beccare dalla moglie”.

Blues e Sugo. Oggi sono (ancora) io

Ci mancherebbe, la chitarra c’è, è sempre protagonista nella vita di Alex Britti, e quando ne parla usa aggettivi e costruzioni mentali sedimentati nei decenni (“ne ho tante, le riconosco anche solo dall’odore”); ma attenzione alle spuntature di maiale, al quinto quarto (“mi manca, non lo posso più mangiare”) e alla descrizione di come si prepara un sugo a regola d’arte (“impiego ore, perfetto per queste giornate libere”). Ed è qui che si svela l’altro lato del musicista nato prodigio (“a undici anni già mi esibivo e firmavo contratti”), con il tempo scandito da infiniti riti a tavola (“per le feste ci sedevamo alle 11 del mattino e andavamo avanti fino a sera”), il padre macellaio, le consegne a casa (“ero un piccolo rider”), la scuola come intralcio e il plettro perennemente tra le dita.

Adesso, da quando è scoppiata la pandemia, due volte la settimana (martedì e venerdì alle 17) offre le sue lezioni di chitarra. E spesso assiste suo figlio di pochi anni. “È un modo per offrire compagnia, ma non voglio sentirmi professore, non voglio una cattedra, mi piace girare tra i banchi e dispensare consigli”.

La chitarra va scoperta…

E va trattata come un oggetto importante, con rispetto; non è solo accordi da eseguire, ma va coccolata, toccata.

Insomma, insegna. Ma com’era ai tempi della scuola?

Come adesso, solo più piccolo.

Tradotto.

Non sono cambiato molto, già allora sapevo cosa volevo, sapevo cosa mi piaceva, e non me ne fregava nulla di studiare. Suono da quando ho sette anni.

Come ha iniziato?

Grazie a un prete: da un anno avevo una chitarra, ma non sapevo suonare; un giorno trovo dei volantini per un corso in parrocchia e mi presento con una mandria di ragazzini scatenati.

E poi?

Nel 1979 una delle televisioni private organizza una sorta di X-Factor, si chiamava La grande occasione: mi iscrivo e conquisto le finali, ma a quel punto era necessario andare lontano da Roma e i miei non se la sono sentita.

Non la sostenevano?

Inizialmente sì, si divertivano, poi si sono preoccupati: suonavo e basta, e poi la televisione era diventata un impegno, perché oltre alla gara mi chiamavano come ospite, “fa audience” sostenevano i registi dei programmi.

Si emozionava?

No, solo contento e determinato, anzi gasato come accade ancora adesso. E poi per me era un gioco.

I suoi compagni di scuola come la trattavano?

Ciò che accade da piccoli spesso lo ritroviamo da grandi, mutano solo le dimensioni: c’erano i ragazzini incuriositi, quelli solidali e gli invidiosi.

E lei uguale a oggi.

Avevo più capelli, un capoccione di ricci; comunque tornavo a casa, salutavo e prendevo in mano la chitarra.

Con le ragazze funzionava…

Il ragazzino un po’ solitario, che suona, con i capelli lunghi e un mondo suo, è uno stereotipo ben oliato.

Primo palco.

A 12 anni avevo un contratto per le feste di piazza tra Lazio e Abruzzo (abbassa all’improvviso la voce: “Devo cambiare stanza, si se sveja – il figlio – è la fine”).

Prodigio vero.

A 16 anni stavo sul palco con Roberto Ciotti, il top del blues in Italia, a 17 avevo un mio trio e mi esibivo al Big Mama (celeberrimo locale di Roma); a 20 avevo bruciato tutte le tappe. Non potevo crescere di livello. E così sono partito.

Destinazione?

Amsterdam e dopo aver conosciuto una cantante statunitense: “Quanto guadagni? Se mi segui ti do il triplo”.

Anche i soldi contano…

Con il blues non ne girano molti, faticavo ad arrivare alla metà del mese, e da quando ho 19 anni vivo da solo.

Finita la maturità.

Terminato l’esame sono partito in tournée e non ho neanche aspettato i quadri con i risultati: è andata mia madre a leggere il fatidico “36”.

Contenta.

Felicissima! Era già un miracolo, frutto di un obbligo: “Solo il musicista non puoi: o vai a scuola o vieni a negozio”.

Oggi comprende quell’obbligo?

No, in quegli anni non ho acquisito nulla: passavo il tempo a capire come non andarci, magari scattava una rissa o una canna al bagno durante l’intervallo.

Rissaiolo.

Proprio non mi andava; ribadisco: per me esisteva la chitarra, tanto da non rispondere neanche alla chiamata del militare.

Ha l’aura dell’ombroso.

Sono un tipo che sorride, ma allo stesso tempo lancio un messaggio codificato: con me nun te devi allargà troppo.

Da giudice ad Amici ha turbato Pio e Amedeo: era l’unico a non ridere delle loro gag.

Chi? (realmente non ricorda).

Pio e Amedeo, i comici.

Alcune battute le trovo divertenti, non mi piacciono quando diventano troppo volgari; e poi che devo ride’ per forza?

Torniamo al militare: le hanno mandato la lettera?

A quel tempo ancora funzionavano i quartieri: papà aveva la macelleria nel centro di Monteverde, e quando accadeva qualcosa arrivava in negozio il poliziotto o il funzionario in maniera amichevole, senza troppe formalità.

Lei con l’uniforme, stona.

Dopo che mi hanno pizzicato ho passato un intero anno sempre incazzato.

Fa parte della generazione “Il locale”, dove a Roma, oltre a lei, sono nati Silvestri, Fabi, Gazzè, Sabrina Impacciatore, Favino…

E nessuno di noi si sentiva speciale, nessuno poteva immaginare cosa sarebbe accaduto: era normale, eravamo amici, e al Locale mi ha portato Max Gazzè, vivevo in Olanda.

Non conosceva nessuno.

Chi lo frequentava era molto Roma Nord, molto Parioli, mentre io ero l’unico nato e cresciuto al buio, dentro a venti metri quadri e che girava la città con un motorino Ciao scassato.

Differenti piani economici.

Tra di noi non si parlava di soldi, sognavamo d’artisti, però in alcune occasioni si percepiva la distanza: una volta partì una discussione per l’acquisto della PlayStation. Prezzo: un milione di lire. E mentre loro parlavano, pensavo a me che già pagavo le bollette e un affitto.

E quindi?

Mi domandavo: ma come possono spendere tanto, quando in teoria siamo colleghi? La risposta era: la famiglia.

Ci restava male?

No, alla PlayStation preferisco altri giochi.

Comunque una generazione di fenomeni.

Ricordo Favino spesso alla cassa, e con Rocco Papaleo e Flavio Insinna sono partito per una tournée di due mesi: avevo il ruolo del killer chitarrista.

Amsterdam.

Eravamo sei ragazzi con sei passaporti differenti: il bassista tedesco, la pianista olandese, il percussionista delle isole Molucche, la batterista polacca, la cantante statunitense e io italiano.

Giravate l’Europa.

Amsterdam era per le giornate di pausa, era il punto di ritrovo, poi partivamo con il pulmino, e quel pulmino diventava la nostra casa. Ci lavavamo in autogrill. E tutto ciò è durato dal 1990 al 1997.

Tosto.

Per me era un Luna Park: vengo da una famiglia umile, i miei non hanno mai visto nulla, una vita diversa dalla mia, per questo dovevo uscire dal Raccordo Anulare.

Quando le hanno detto “siamo orgogliosi di te”?

Da subito, mi accompagnavano sempre, si alternavano; solo con mio padre a un certo punto sono entrato in conflitto, ma lui aveva un carattere particolare, duro, un po’ padre-padrone, il vero macellaio di una volta.

Le ha trasmesso una passione per la carne.

Per il cibo in generale: cucinava in maniera meravigliosa, come mia madre e i miei nonni. Da noi c’è sempre stato qualcosa sul fuoco: entravi a casa e l’unico odore persistente era quello in cottura.

È stato concorrente a MasterChef Vip, rimproverato perché suggeriva a Mara Maionchi…

Lei è una persona bellissima, con una sensibilità musicale incredibile, e poi riusciva a farmi ridere, così durante la gara le cucinavo di nascosto: piazzavo sul fuoco una padella in più, poi spadellavo e le passavo il contenuto grazie a un angolo morto; all’improvviso quel contenuto compariva davanti a lei.

In questi decenni, da chi ha ricevuto un consiglio fondamentale?

Da Roberto Ciotti. Chi lo conosce sa che era un vero orso, con tanto di pelo e barba, una delle persone più pigre della storia; un giorno l’ho portato a correre e si è presentato con il giubbotto di pelle e gli occhiali da sole.

Perfetto.

Possedeva un motorino e a tutti i costi desiderava stare comodo, così sopra la sella aveva piazzato un cuscino del divano bloccato con i tiranti.

Il consiglio…

Vado a casa sua per registrare delle basi, volevo provare una chitarra distorta, però mi serviva il distorsore; lui insofferente si guarda attorno e capisce che è necessario perdere cinque minuti per i collegamenti giusti, così trova la soluzione: “Fallo con le mani”. “E come?” “Fallo”.

Quindi…

Dietro questa apparente pigrizia c’era tutto, perché quando hai uno strumento in mano, in particolare la chitarra, il suono devi sentirlo prima in testa, e trovare le soluzioni; Roberto Ciotti è stato il più grande chitarrista elettrico italiano, ma non se l’è sentita di tentare il salto verso il grande pubblico.

E quando lei è andato a Sanremo?

Contento, è sempre stato orgoglioso di me.

L’hanno accusata di essere diventato commerciale.

Quelli devono passare dallo psicologo, ma parliamo di quattro scemi, e poi al Festival sono andato con Oggi sono io, non un brano commerciale. E ho pure vinto.

Oggi sono io è una canzone trappola ai talent…

Perché la affrontano da cantanti, la usano per dimostrare quanto sono bravi con la voce, e si scordano il testo; invece quando sei sul palco devi utilizzare la pancia e il cuore…

Non la testa.

Io non so cantare, eppure l’affronto, perché ho trovato il mio stile, e quando arrivo alle parti alte mi aggrappo alla rabbia, in chiave rock o blues.

L’ha interpretata Mina.

Mai incontrata di persona, abbiamo sempre lavorato a distanza, eppure con lei ho partecipato a tre dischi e sono andato in Svizzera.

Ci è rimasto male?

È quello che mi immaginavo: è schiva, sta per cacchi suoi, ma è estremamente creativa e simpatica.

La capisce.

L’essere vip è un lato del lavoro, non lo sono.

Gossip vade retro.

Per fortuna mi è toccato poco, e quando è successo i paparazzi hanno capito che era meglio non rompere le palle.

Tra Venditti e De Gregori?

Tutti e due; perché dovrei privarmi di pagine preziose della storia italiana?

Suo figlio si chiama Edoardo, è in onore a Bennato?

No, ma forse (ci pensa) il nome lo ha deciso la mia compagna, e quando me lo ha detto ho pensato a Bennato.

Lei con Bennato è andato in tournée.

È il più grande cantautore.

Il genere Guccini non le piace.

Non ho mai amato il filone politico; la politica, l’attualità ci può stare, ma in chiave poetica, non me ne devo accorgere direttamente, solo attraverso una sedimentazione, altrimenti diventi un lettore di telegiornali.

Un suo difetto?

Ho poca pazienza.

Vizio.

Il cibo, i vini e l’olio. Se non maggio un etto e mezzo di pasta a pranzo, sbrocco.

Un chitarrista che ammira.

Paco de Lucia: quando lo sento rosico.

Un bel ricordo?

Ho suonato con Ray Charles, Billy Preston e Buddy Miles.

Lei chi è?

Un chitarrista al quale ogni tanto piace scrivere canzoni

(In “Oggi sono io”, canta: “Preferisco stare qui da solo, che con una finta compagnia. E se davvero prenderò il volo, aspetterò l’amore e amore sia”).

Bolsonaro straparla della pandemia, ma è sempre più solo

“La vita non ha un valore infinito. Anche le crisi uccidono molte persone, specialmente povere”. La frase, pubblicata mercoledì dalla Folha de São Paulo – uno dei giornali più letti in Brasile – non proviene dal presidente Jair Bolsonaro, ma da Rubem Novaes, un funzionario del suo team economico. Quell’affermazione è eloquente perché ritrae fedelmente il modo di pensare, in merito all’emergenza Covid-19, di una parte dell’esecutivo di estrema destra che governa il Brasile da poco più di un anno. Il giorno prima, lo stesso Bolsonaro aveva fatto dichiarazioni pubbliche in tv, poco prima che andasse in onda l’attesa telenovela. In quell’intervento il presidente del più grande Paese dell’America Latina ha affermato davanti a un pubblico stupito e senza vie di fuga – tutti i canali proponevano il discorso – che si deve evitare “il panico e l’isteria diffusi dai mass media”. E la diffusione in Italia? “Un Paese con moltissimi anziani e una meteorologia completamente diversa dalla nostra”.

Bolsonaro ha anche incoraggiato Stati e comuni a ritrattare le misure attuate di prevenzione sanitaria come lo stop al trasporto pubblico, la chiusura di negozi o le restrizioni a uscire da casa perché, secondo lui, la pandemia sarà superata “rapidamente” (non ha spiegato il perché o il come). Il presidente ha sminuito persino un eventuale quadro clinico personale: se dovesse ammalarsi, sarà come avere una “piccola influenza”; trattabile, nel peggiore dei casi, con la clorochina: è lo stesso argomento del suo idolo, il presidente americano Trump.

Le critiche gli sono piovute subito addosso. Tanto per cominciare, da parte dei cittadini: secondo O Estado de São Paulo, altro grande quotidiano brasiliano, ci sono state proteste rumorose dalle finestre di almeno “undici grandi città” (abitate da circa 40 milioni di persone). Critiche riprese da parte della stampa che sta diventando, sempre di più, un contrappeso politico. Il giorno dopo ci sono state critiche anche da parte dei governatori dei 27 Stati, alcuni dei quali, fino ad adesso, erano stati suoi alleati politici. Significativo, ad esempio, il caso del governatore del Goiás (centro del Paese), il conservatore Ronaldo Caiado, che ha descritto il discorso di Bolsonaro come “irresponsabile” dichiarando, inoltre, che rispetterà solo le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del ministero brasiliano della Salute. Infatti, in questo momento, la cosa più sorprendente per i brasiliani è che la prassi istituzionale del governo Bolsonaro stia prendendo una strada molto diversa dal discorso negazionista dello stesso Bolsonaro. Il ministero della Sanità, per esempio, in molti dei suoi decreti e provvedimenti (emessi prima del discorso presidenziale) ha adottato decisioni simili a quelle di altri Paesi, come l’avvio di campagne di sensibilizzazione sul Coronavirus; la sospensione delle riunioni di lavoro o i viaggi; l’esecuzione del telelavoro. Il governo ha riconosciuto ufficialmente, sempre pochi giorni prima del discorso presidenziale, che il Brasile si trovava in una “Situazione di pubblica emergenza nazionale”, quindi i poteri locali sono stati automaticamente autorizzati dalla legge a decretare eventuali lockdown. Il risultato è che vi sono misure assai eterogenee fra una regione e l’altra. La mattina dopo il discorso presidenziale, lo stesso Bolsonaro ha tenuto un’aspra teleconferenza (il cui video è finito per essere pubblicato) con João Doria, governatore dello Stato di São Paulo, il più abitato del Paese (44 milioni di persone: quasi come la Spagna), che in questo momento è diventato una specie di Lombardia del Sudamerica: è la regione brasiliana con il maggior numero di positivi (35%) e morti (75%).

I due sono ex alleati politici, ma il presidente ha rimproverato aspramente il governatore Doria, in apparenza senza trovare elementi di connessione con l’emergenza. Come mai una svolta così? La stampa attribuisce questo atteggiamento del presidente al cosiddetto “Consiglio dell’odio”, un piccolo gruppo di consulenti informali composto da fedelissimi e familiari, con idee radicali e un’attività compulsiva sui social.

Più Bolsonaro perde terreno, più la loro attività è frenetica. Una cosa è chiara: per Bolsonaro è finita la magia. Forse per quello un suo arcinemico, l’ex presidente Lula da Silva (prima arrestato e condannato nell’inchiesta Lava Jato, oggi libero in attesa che si concludano i suoi ricorsi) ha recuperato un tono presidenziale e parla bene della stampa, mentre Flávio Dino, un suo alleato (governatore comunista del Maranhão) dice che il presidente, dopo il suo discorso, ha “attivato il proprio impeachment”. Sarà vero?

Wuhan riapre le stazioni, gli stranieri sono banditi

Il primo treno ufficiale a far scendere i passeggeri a Wuhan, dopo oltre due mesi di isolamento, arriva in stazione sabato notte. I successivi sono già prenotati da settimane. I media cinesi mostrano folle con i trolley in coda all’ingresso della città, primo focolaio del coronavirus, pronti a mostrare il “codice verde” sull’app del cellulare che ne certifica la negatività al virus. Così, il capoluogo della provincia dell’Hubei inizia a riaprire i servizi ferroviari: treni in arrivo in 17 stazioni, mentre per le partenze se ne parlerà l’8 aprile. Riprenderanno oggi anche i voli interni nei principali aeroporti della regione, a eccezione di quello di Wuhan, mentre i voli internazionali da e per Pechino, Hong Kong, Macao e Taiwan sono ancora sospesi.

Dentro, la città si risveglia correndo su sei linee della metropolitana, mentre in Cina nelle ultime 24 ore si contano 54 nuovi casi di contagio da Covid-19. “Tutti importati da persone di ritorno dall’estero”, spiegano le autorità. Motivo per il quale restano chiusi gli ingressi agli stranieri. La paura è il contagio di ritorno, una seconda ondata di epidemia. “Zero casi segnalati non equivale a zero rischio”, avvisa Lui Dongru, capo della commissione sanitaria della regione di Hubei che sottolinea che Wuhan è classificata solo “zona a basso rischio”. Critiche all’allentamento della quarantena nella città che ha visto 50 mila contagi in due mesi, sono arrivate anche dalla rivista scientifica Lancet: “Permettere i contatti fisici o riaprire le scuole troppo presto potrebbe alimentare una seconda ondata di infezioni e portare a nuovi picchi dell’epidemia ad agosto”, scrivono gli scienziati, suggerendo alle autorità cinesi di aspettare fino ad aprile. Lo studio, d’altra parte sottolinea come non esista una strategia di uscita rapida e semplice dalla quarantena imposta in molti Paesi, Cina in primo luogo. “Le misure di allontanamento fisico sono molto utili, ma dobbiamo regolare con cura il loro sollevamento per evitare successive ondate di infezione una volta che lavoratori e alunni torneranno alla vita normale”, suggerisce Yang Liu, ricercatore della London School of Hygiene and Tropical Medicine e co-autore dello studio. Il leader Xi JinPing intanto ha ribadito la necessità di raggiungere obiettivi economici già fortemente messi a rischio dal coronavirus e ha inviato una task force per il Paese per assicurarsi che le autorità locali eseguano l’ordine di riavviare gradualmente la produzione prevenendo nuove infezioni.

“Spagnola”, sangue e limoni: “Ora siamo cadaveri ambulanti”

Più che un rullino dei ricordi sembra un’istantanea. La foto dell’Italia a cavallo tra due secoli, l’Ottocento e il Novecento, e due grandi epidemie, il colera e la spagnola, ha la stessa clamorosa sintesi scenica. Due secoli indietro eppure le paure, lo stupore e quell’angoscia di un mondo che si ferma e muore, di un virus che giunge misterioso e letale, assumono il medesimo ritratto delle cronache contemporanee. La scienza si interroga, la gente si tappa in casa, la medicina, se arriva, giunge quando è già tardi.

Perciò questi ricordi delle quarantene di altri tempi, da luoghi a volte miserabili, sono così preziosi e strazianti. Non c’è modernità, non c’è sviluppo, non c’è tecnologia che tenga davanti al mistero della vita.

Arriva la morte, senza un perché.

 

Luigi Tramontano (1836-1837)

Libro antico e diario di famiglia quello che Luigi Tramontano redige. Tradizione radicata tra i ceti benestanti dell’epoca per annotare nascite, morti, matrimoni, compravendite e acquisizioni di beni del casato.

“Nei mesi di Ottobre, e Novembre dello scorso anno 1836 il colera attaccò Napoli, ove fece strage, come pure Castellammare di Italia, le due Torri, ed altri luoghi limitrofi, e per ogni dove produsse spavento. (…) Nel Maggio di questo anno 1837 si sviluppò con furore e nel giugno attaccò questa Città di Pagani, ed in prima la nostra strada di San Michele. Tutto restò paralizzato. I volti erano sparuti, ed ogni cosa aportava terrore. (…) Quindi alle ore 5 di detta sera di Domenica 9 Luglio si sciolse il ventre a mia moglie, e nei seguenti giorni ebbe forze di vomito, o sia fu attaccata dal colera”. (6 agosto 1837)

 

Stefano Pucci (1837-1854)

Memoria autobiografica di un avvocato, figlio di un Commissario di Guerra nelle Calabrie e discendente della nobile famiglia toscana de’ Pucci.

“Nella giornata di S. Pietro e Paolo morirono 1800 persone. L’annunzio del flagello mi scosse oltre misura l’animo. Credetti esser venuta l’ora mia, e decisi di astenermi dal mangiare oltre il più stretto bisogno, e di bevere acqua solamente. Eravamo in Luglio Agosto, e facevo abusi di bagno, cibandomi scarsamente. Un tal sistema dietetico mi cagionò una fiera malattia intestinale e in dissenteria sanguigna e divenni un cadavere ambulante. I medici mi prescrissero la cura di latte d’asina, ed a stento, dopo alquanti mesi, mi riebbi come Dio volle”.

 

Francesco Tedeschi (1837)

Un impiegato dell’Annona nello Stato Pontificio dal 1779 scrive un diario in cui annota ogni anno i principali avvenimenti nella città di Roma sotto il governo del Papa, oltre alla sua situazione lavorativa e familiare.

“Con il massimo dispiacere si descrive esattamente quanto è stato pubblicato officialmente dal giornale di Roma relativamente al Colera Assiatico che cominciò a manifestarsi in Roma fin dal mese di Luglio del corrente anno 1837. Fu nel dì 8 Luglio, che si segnalò in questa Capitale il p.mo caso sospetto in persona di un cocchiere (…) nel dì 28 vennero a svilupparsi tre casi ed è da quel giorno, che le opinioni de’ Professori discordanti sulla natura de diversi mali che si sono qui manifestati hanno fatto oscillare il pubblico fra la speranza, e il timore fino alla metà del corrente mese di agosto, dopo di che si è finalmente riconosciuto, che mentre specialmente nell’esterno della città prevalevano le febbri algide perniciose, e di queste si moltiplicavano così gli infermi nell’Archiospedale di Santo Spirito, nell’interno poi i casi che vi si andavano segnalando di giorno in giorno non potevano caratterizzarsi più che per colerici. La somma di tutti gli attaccati dalle due anzidette infermità è ascesa, inclusivamente fino al giorno 20 di Agosto al n° di 1277 de quali 566 vi soccomberono, 151 ne guarirono, e 560 rimangono tuttora in cura. (…) il giorno 15 d.o nelle tre Basiliche di S. Pietro, S. Giovanni, S.ta Maria Maggiore, ed in tutte le Parrocchie fu cantato un solenne Te Deum, specialmente in S. M.a Maggiore ove vi andette il Papa”. (2 giugno 1837)

 

Bruno Palamenghi (1863-1887)

Nipote di Francesco Crispi, intraprende la carriera militare dopo aver frequentato l’Accademia di Modena. Presta soccorso alle popolazioni dopo le epidemie di colera a Napoli, e in Sicilia dopo il terremoto di Messina.

“Nacqui il 29 in Girgenti. È una cittadina di circa 30 mila abitanti, abbandonata da Dio e dagli uomini (…) Nel 1866-67 si ebbe il colera, falciando e facendo strage senza alcuna misericordia, in quasi tutte le Provincie della Sicilia. […] Il 30 Giugno al ritorno dall’istruzione comincia qualche caso fra la truppa – e ne succede gran scompiglio ed impressione nelle Caserme – e nell’Ufficialità. (…) Morire in guerra, si muore da eroe – si muore per la Patria – si fa una morte gloriosa – ma morire di colera, è ben triste – ben doloroso!”.

 

Tommaso Bordonaro (1918)

Il padre di Tommaso torna dall’America e subito parte per il fronte. Il bambino, ancora in tenera età, non può frequentare la scuola perché deve lavorare per aiutare la famiglia: con i suoi risparmi riesce a comprare tre capre che poi rivenderà per consentire al padre, sopravvissuto alla grande guerra e alla “spagnola”, di acquistare un asino. La Sicilia del primo novecento è descritta nella sua povertà, nelle sue feste e nelle sue tradizioni con semplicità ed efficacia.

“Così dopo tre anni è finita la guerra mondiale e io possedevo 3 capri di mia proprietà a quasi 10 anni di età, mi sentivo uomo fiero che possedevo 3 capri. Finita la guerra mio padre ritornava grazie a Dio vivo e sano, ma nella nostra casa regnava la miseria, più guaio ancora finita la guerra, vi è stata una malattia infettiva chiamata la spagnola, anche mio padre e quasi tutto il popolo era infettato, e l’agente moriva accatastrofi nel nostro piccolo paese parte 5 parte 6 al giorno. Al giorno morivano tante volte due o tre in una famiglia (…) Era l’inverno 1918 giorno dell’Immacolata. 8 Dicembre è nato il quarto mio fratello, mio padre nell’etto moribondo quel piccolo fratellino nato, mia zia Paola sorella di mia mamma lo à messo sotto il sciallo e lo andato a Battezzare e le à messo il nome Pietro Domenico, perché suo marito gli era morto in guerra e si chiamava Domenico”.

 

Giuseppina Mincio (1918-1920)

Una casalinga siciliana segue il marito in Libia. I suoi ricordi in un diario.

“L’epidemia della spagnola. Fu anch’essa un’immane tragedia. Si trattava di una influenza maligna che colpiva grandi e piccini, ma infieriva con maggiore violenza sui giovani, che mieteva senza pietà. Intere famiglie furono decimate. Le campane suonavano a morto da mane a sera. Questo, aggiunto alle ferali notizie che giungevano dal fronte, aveva creato un’atmosfera lugubre. A casa mia la prendemmo tutti. Papa, con la febbre altissima, era costretto a stare in piedi, per curarci. Allo scoppiare dell’epidemia, erano stati distribuiti alle famiglie dei medicinali e una grande quantità di limoni. Ognuno si curava da sé. Nessuno usciva di casa, neanche i medici, che d’altronde non sarebbero stati in numero sufficiente al fabbisogno. Ricordo, a casa mia, lenzuola bagnate di disinfettante appese ai balconi al posto delle tende. Erano misure precauzionali; ma tutto si dimostrava inutile. Morivano centinaia di persone al giorno. Il Comune aveva noleggiato carri trainati da buoi, con personale che trasportava rustiche casse da morto, prelevava i cadaveri dalle case e si occupava del seppellimento. Pareva di essere tornati al tempo della peste di Milano. Di tanto in tanto, urla raccapriccianti, provenienti dalla strada o dalle case vicine, annunziavano qualche altro lutto”.

 

Renato Rossi (1918)

Ventenne parte per la Prima guerra mondiale e, da Venezia, dove svolge lavori di ufficio, scrive al padre e alla sorella Bianca in Umbria. Si ammala di spagnola e il cappellano racconta alla famiglia la sua morte, avvenuta nell’ospedale militare di Postumia.

“Babbo carissimo come vedi dall’indirizzo mi trovo all’ospedale per un po’ di tosse che speriamo con un po’ di aria sparisca presto. Non impressionarti mi raccomando perché non ne è il caso. Fatevi coraggio come me lo faccio io e speriamo che Iddio continui ad assistermi come nel passato. Baci a tutti e a te un abbraccio dal tuo affezionato Renato” (3-12-18)

All’Ufficio Notizie di Castiglione del Lago

“Il Sottotenente Rossi fu ricoverato in questo Ospedale da campo nel pomeriggio del giorno 30 novembre per influenza (febbre spagnola) con broncopolmonite. La 3 dicembre si aggravò. (…) incominciò a chiamare la mamma e diceva “mamma, mamma presto vengo a trovarti”. Queste testuali parole egli ripeteva di frequente nei giorni tre e quattro. Non fece, si può dire, agonia, come suole avvenire in questa malattia e fu soffocato dal sangue che gli finiva sulla bocca. Fu da me assistito fino all’ultimo respiro e morì raccomandandosi al Signore e a Maria Vergine. Spirò nelle ore 18 del 4 Dicembre 1918”. Rev.mo D. Giovanni Dal Santo Cappellano Militare Ospedale da campo 0155

 

Gaetano Dionigi (1918-1919)

I ricordi del tempo che fu: la banda di amici, la febbre spagnola, il fascismo che non fa più cantare “Bandiera rossa”, la strada con le prostitute dietro i portoni aperti.

“La guerra era finita. Noi eravamo a letto con la ‘spagnola’. Gli unici che ne furono immuni furono il papà, e i fratelli maggiori Pippo e Bruno; mia sorella Anna, io e la mamma eravamo a letto con questa ‘spagnola’ insieme al fratellino. Il papà era diventato infermiere; beveva grappa perché dicevano che disinfettava tutto, e in più teneva continuamente una cicca di sigaro in bocca.

Questa malattia si prolungava e non finiva mai. Nelle strade imbandierate per la fine della guerra, si sentivano continuamente canti e musica. Noi eravamo a letto con la febbre che ci divorava. Un dottore molto anziano ci veniva a trovare un giorno sì e uno no, ordinava degli sciroppi, ci auscultava tutti e diceva: “Finché non vengono delle complicazioni polmonari c’è speranza”.

Mail Box

 

Tremonti: “Non ho mai detto: ‘Con la cultura non si mangia’”

Signor Direttore, ho letto nella Rubrica “Lo dico al Fatto” la lettera che vi ha inviato la Prof. Ing. Maria Letizia Corradini. Posso anche io “dirlo al Fatto”? È da tempo, in tutti i modi, in tutte le sedi e anche sul Suo Giornale che ho escluso ogni forma di mio copyright sulla frase “Con la cultura non si mangia”. Una frase che non ho mai pronunciato. Una frase che la Prof. Corradini oggi estende e con un certo grado di originalità anche alla ricerca scientifica. Posso aggiungere: nel 2005/2006 ho scritto l’articolo di legge che ha introdotto il “5 x 1000” per cultura, volontariato e ricerca. Posso ancora aggiungere questa nota: a partire dal 2011 abbiamo avuto 5 Governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte) che, correggendo gli errori (!?) del passato, avrebbero ben potuto portare i loro lumi e i loro fondi sul campo della ricerca.

Giulio Tremonti

 

Perché Fubini su Radio3 oscura il “Fatto Quotidiano”?

Acquisto il nostro giornale (uno dei tre quotidiani degni di questo nome, insieme al manifesto e all’Avvenire) dal primo numero più di dieci anni fa. Il vicedirettore del Corriere Federico Fubini, di turno a Prima pagina su Radio3 – sicuramente memore del fatto che il nostro giornale non gli ha mai perdonato le “incredibili scivolate, per essere gentile”, che hanno costellato la sua carriera – mai, neppure di sfuggita, ha citato qualcosa pubblicato sul Fatto. E dire che anche soltanto le prime pagine di tutta la settimana ben si differenziavano dai soliti giornaloni, su cui il “vicedirettore” ha impostato lettura e commento della stampa.

F. M. M.

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione ai numerosi articoli pubblicati da Il Fatto Quotidiano a partire dall’ottobre 2018 sul Presidente Roberto Garofoli, quest’ultimo dà atto del fatto che essi furono frutto del giornalismo tipico della testata e redatti sulla base delle ricerche svolte e delle informazioni acquisite dal cronista. D’altra parte, con riferimento alla vicenda dei contributi alla Croce Rossa Italiana Il Fatto Quotidiano, prende atto che – come emerso dalla articolata spiegazione fornita dal Ministro dell’economia e delle finanze il 16 ottobre 2018 – l’erogazione a favore della Croce Rossa Italiana prevista dalla bozza di legge finanziaria per il 2019 fu proposta nell’ottobre 2018 nell’ambito di una somma stanziata in favore della stessa Croce Rossa sin dalla legge del 2012 e, a tal fine, specificamente già accantonata in un decreto precedentemente adottato dallo stesso Ministro dell’economia, risalente al 14 settembre del 2019. Prende atto, in particolare, del carteggio tra Ufficio legislativo del Ministero della sanità e Ragioneria generale dello Stato da cui emerge che la destinazione delle somme al TFR fu ufficialmente chiesta, già nel mese di luglio, dal Ministero della Sanità nell’ambito dello stanziamento previsto dalla legge con conseguente accantonamento delle stesse con decreto del Ministro dell’economia in attesa di un chiarimento legislativo, dichiaratamente reputato necessario dalla Ragioneria generale dello Stato. Prende conseguentemente atto – come affermato dal Pres. Garofoli – che la proposta di emendamento prevista dalla bozza di legge finanziaria proposta nell’ottobre 2018 fu formulata a seguito e in stessa conseguenza di quella corrispondenza tra Uffici e di quell’accantonamento, su iniziativa degli uffici del Ministero, senza alcun intervento da parte sua. Sicché, come affermato dal Pres. Garofoli, non poteva esservi alcun nesso neanche lontanamente temporale con la conclusione transattiva (circa un anno prima) di una modesta controversia decennale tra il Pres. Garofoli e la stessa Croce Rossa su porzione di immobile indiviso, peraltro intervenuta sulla base dei pareri di tutti gli organi competenti. Parimenti, quanto al pagamento di un collaboratore della casa editrice “Nel diritto” (nella cui proprietà e gestione il Pres. Garofoli non ha alcun ruolo), cui si è fatto riferimento in numerosi articoli della Testata, Il Fatto Quotidiano, prende atto della contabilità fornita dalla casa editrice relativa al regolare pagamento del collaboratore stesso.

In relazione all’articolo pubblicato ieri dal titolo “Fedez: ‘Codacons vuole bloccare le donazioni’” nel quale sono contenute affermazioni false e diffamatorie si invita a rettificare: 1. Falso che Codacons sul suo sito inviti a donazioni per acquisto di beni per contrastare il Coronavirus ma vero che invita a donazioni per sostenere la Onlus e consentire di stare al fianco dei cittadini nella battaglia contro il Coronavirus mediante le azioni svolte e in corso di cui oltre 40 già elencate sul sito stesso cui la rinviamo; 2. Falso e diffamatorio che Codacons abbia chiesto o chieda di bloccare tutte le raccolte fondi private, vero che con atto formale ha chiesto di far convergere tutte le raccolte fondi sul c/c della Protezione civile a garanzia dell’uso pubblico della integrale donazione. Vero che Codacons ha diffidato Fedez a restituire il 10% ingannevolmente percepito dal fondo estero secondo il provvedimento dell’Antitrust dai donatori sollecitati da Fedez attraverso un privato con sede all’estero.

Giuseppe Ursini, Presidente Codacons

 

Prendiamo atto della rettifica che non rettifica nulla, avendo scritto che le donazioni ricevute dal Codacons vanno a diffide, ricorsi e denunce per il Coronavirus. Così come abbiamo scritto che Codacons ha chiesto che solo le commissioni pagate su GoFundMe vengano restituite.

PDR

A ciascuno il suo Draghi: il testo sacro e i suoi esegeti

Un’antica tradizione di studi si dedica all’interpretazione dei testi sacri: da qualche giorno questa nobile attività si esercita, com’è giusto, anche sull’articolo pubblicato da Mario Draghi sul FT. Il testo, d’altronde, si presta: durante una crisi come questa bisogna spendere, non importano i vincoli di bilancio. Mes, non Mes? Bce? Eurobond? Dio solo lo sa: ognuno lì dentro può trovare il suo Draghi… e ce lo trova. Sul CorSera l’ex presidente della Bce è “il puntello” di Conte; su Repubblica “voleva rivolgersi all’Europa, e non all’Italia”. Per La Stampa, si trattava di “un invito a cedere rivolto a quel ministero (il Tesoro, ndr) nel quale diversi dirigenti si professano suoi seguaci”. Sul Sole il vero destinatario dell’articolo è la Bce: “Correttamente non è mai citata, ma il consiglio non è per questo meno chiaro”. Nella stessa pagina, però, si sostiene invece che “è significativo” che non abbia nominato la Bce: sono le banche private che devono intervenire, “nella visione di Draghi, il ruolo dello Stato è fondamentale ma quasi privo di discrezionalità”. Emmanuel Macron non è d’accordo: “Credo che dica esattamente questo: i governi nazionali devono agire senza limiti”. Poi ci sono quelli che hanno già abbandonato gli studi e sono in piena crisi mistica che “Solo Draghi può salvare il Paese” (Italia Oggi). Riassumendo: Draghi puntella Conte, parla all’Europa e pure al Mef, dice alla Bce di darsi da fare, ma anche di non allargarsi troppo, ai governi di stare fermi, ma pure di agire. Unicuique suum (Mario), direbbero all’Osservatore Romano.