Zanda pignora Montecitorio

“Idee nuove”. “Molto coraggio”. A presentarla così, uno si aspetta come minimo l’annuncio dei 14 punti del presidente americano Wilson o chissà quale teoria politica ed economica per uscire dall’emergenza coronavirus. E invece Luigi Zanda, di mestiere senatore e tesoriere del Pd, sta solo riproponendo sulle pagine del Corriere della Sera una vecchia ma sempre interessante ricetta, già protagonista di celebri scene in un film di Totò: ricorrere al patrimonio immobiliare pubblico per risolvere i guai economici. Non siamo ancora alla vendita della Fontana di Trevi, ma un inizio c’è: “Serviranno idee nuove, molto coraggio e tanti, tanti soldi – avvisa Zanda – e siccome nessun prestito ci verrà mai concesso senza garanzie, per far fronte al nostro fabbisogno straordinario senza far esplodere il debito pubblico potremmo mettere in garanzia il patrimonio immobiliare di proprietà statale, almeno per la parte costituita dagli edifici che ospitano uffici, sedi delle grandi istituzioni, ministeri, teatri, musei. È una vecchia tesi che può tornare attuale”. Ohibò, senatore, intende anche Montecitorio o Palazzo Chigi? “E perché no? Siamo in guerra. E poi parliamo di garanzia, non di vendita”. Prossimo passo, come insegna il medesimo Totò: stamparsi le banconote in casa. Potrebbe funzionare.

Covid-19, “l’Ebola dei ricchi”: ora siamo tutti naufraghi

 

“In questo nostro mondo che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci di tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.

Papa Francesco

 

Se guardiamo con attenzione la mappa dei contagi Covid-19 nel mondo, pubblicata sui giornali, salta subito all’occhio che il colore rosso scuro dell’espansione massima dell’epidemia copre, come una lugubre macchia di sangue, da destra a sinistra l’Australia, la Cina, poi il cuore dell’Europa – dal Nord Italia, alla Francia, alla Spagna, alla Germania, all’Inghilterra – quindi gli Stati Uniti (con epicentro New York e la California) e il Canada. Ovvero, la fascia del globo più ricca e sviluppata. Mentre tutta l’Africa ha il colore rosa pallido e bianco, che segnala un contagio non ancora allarmante o sotto controllo, così come l’Europa dell’Est e le altre zone più povere e meno fortunate del pianeta. Si parla, soprattutto in Africa, di una possibile esplosione ritardata dell’epidemia. Vedremo, anche se non occorre certo uno scienziato per comprendere che l’espansione dell’infezione trova terreno fertile e fertilissimo nella zone più densamente popolate, quasi sempre le più prospere. E quando i medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo definiscono il Coronavirus “l’Ebola dei ricchi”, fotografano un dato e non intendono certo interpretare la malattia come un castigo di Dio. Anche il Pontefice nell’implorare il Cristo del Vangelo che rassicura gli apostoli nel mare agitato (“Svegliati Signore!”) non divide gli uomini nella bufera tra ricchi e poveri (o tra buoni e cattivi). Egli si fa carico di tutti con l’espressione: “In questo nostro mondo che Tu ami più di noi”. Ma chi ha orecchie per intendere comprende bene a chi si riferisca Francesco quando parla di chi sentendosi forte e onnipotente e invulnerabile è andato avanti senza fermarsi mai a riflettere su se stesso e sugli altri, spinto dall’avidità per i soldi e per il potere, dalla passione per le cose. Di certo non interroga gli ultimi e i diseredati, falcidiati da guerre, ingiustizie, carestie, da epidemie forse molto più devastanti delle nostre, ma di cui non si ha neppure notizia. Così come non riguarda certo i disperati in fuga da violenza e miseria – gran parte dei quali destinati a finire in fondo al mare o nei lager degli schiavisti – l’arroganza e la superficialità di chi alza le spalle davanti ai disastri ambientali e si gira dall’altra parte. Adesso però il Papa dice che nella tempesta “su questa barca ci siamo tutti”, e mai immagine fu più colma di pietà nel cogliere la condizione umana della sofferenza, che improvvisamente, nella parte rossa o in quella bianca del pianeta, ci rende naufraghi accanto a tutti gli altri naufraghi.

Calvino e le città invivibili: “Ci è utile essere agitati per accorgerci del cielo”

La parola biblica che ci è suggerita oggi dal lezionario Un giorno una parola (Claudiana 2019), quinta domenica del tempo della Passione (o Quaresima) è: “Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura” (Ebrei 13,14). Una parola che richiama i credenti a una riflessione particolare sul tema dello “stare a casa”.

Partiamo dal commento di Giovanni Calvino, il più importante riformatore religioso del cristianesimo protestante del 1500 insieme a Martin Lutero: “Noi siamo come stranieri e vagabondi in questo mondo, noi non abbiamo una dimora stabile se non in cielo. Così dunque, tutte le volte in cui siamo cacciati fuori da qualche luogo, o che subiamo un qualche cambiamento, meditiamo su ciò che l’Apostolo ci insegna qui: che noi non abbiamo proprio una sede certa sulla terra, perché il cielo è la nostra eredità, ed essendo così esercitati, prepariamoci tutti i giorni al fine ultimo”. E ancora: “Poiché quelli che vivono troppo a loro agio, e in riposo, soventemente si forgiano un nido in questo mondo. E dato che siamo tutti inclini a una tale noncuranza, ci è utile essere agitati e portati sovente di qua e di là, affinché apprendiamo ad alzare i nostri occhi al cielo, i quali, altrimenti, inclinano troppo verso il basso” (in Commentaires de Jehan Calvin sur le Nouveau Testament).

Si tratta di una lettura autobiografica: Calvino, come tanti altri in quel secolo cruciale per la storia europea, aveva sperimentato nella carne la sofferenza di dover errare di continuo per cercare un luogo in cui poter vivere ed esprimere la propria comprensione della fede cristiana. In questo errare aveva imparato a fare affidamento soltanto in Dio e a riconoscere che solo in Lui e nella sua “città” avrebbe trovato riposo e stabilità, in quella città “che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio” (Ebrei 11,10).

Una situazione esistenziale, la sua, simile a quella di chi ancora oggi è costretto a spostarsi per motivi esterni alla propria volontà, come i rifugiati politici o religiosi o gli sfollati per la guerra, o i migranti per motivi economici o ambientali, su cui abbiamo ferocemente polemizzato fino a solo poche settimane fa e che oggi appaiono dimenticati di fronte alla pandemia del Coronavirus. Eppure continuano a esserci e a occupare un posto tra i più fragili. Noi, al contrario, costretti oggi nelle nostre case e nei nostri Comuni, agogniamo comprensibilmente a poter tornare al nostro “errare” moderno, a quella mobilità che è parte essenziale della nostra libertà. E ci auguriamo di poterlo fare veramente presto.

Ma la parola biblica di oggi richiama i credenti a una riflessione particolare sul tema dello “stare a casa” e dell’“errare per il mondo” invitandoci a lasciare la situazione di “cristiani accomodati” e ad assumere quella di “cristiani scomodati”, a uscire fuori dal nostro “accampamento mentale”, dalla nostra “città fortificata”, dal nostro “nido nel mondo” per essere, o tornare a essere, cristiani “agitati” dallo Spirito, come scrive Calvino: “Ci è utile essere agitati e portati sovente di qua e di là, affinché apprendiamo ad alzare i nostri occhi al cielo, i quali, altrimenti, inclinano troppo verso il basso”.

Il periodo liturgico della Passione (o Quaresima) è un periodo di “scuotimento” per le persone di fede, a cui si aggiunge quest’anno lo “scuotimento” delle misure conseguenti al Coronavirus che ha costretto a interrompere le consuete modalità di presenza e comunicazione religiosa e a svilupparne di nuove “a distanza”. Speriamo che, al termine di questo periodo, le persone di fede sappiano recuperare la “vicinanza” senza però tornare ad “accomodarsi” nei consueti “nidi”. Ne hanno bisogno sia coloro che vogliono trasmettere una parola vivificante sia coloro che l’attendono.

* Già Moderatore della Tavola valdese

L’inverno è tornato, ma il virus blocca le rilevazioni meteo

In Italia – L’inverno, che quando era stagione non c’è stato, è venuto a visitarci da lunedì 23 marzo con fredde raffiche di bora e tramontana. Rispetto alla tiepida settimana precedente le temperature sono piombate giù di 15 °C, portandosi a circa 5 °C sotto media. Le minime talora sono scese a valori che – curiosamente – non s’erano visti negli scorsi mesi invernali, specie in montagna (-13,1 °C a Sestriere, -14,5 °C al Passo Pordoi), ma qua e là anche in pianura, con -6 °C nella Bassa modenese e -4,5 °C presso Oristano. Spruzzate di neve hanno imbiancato le spiagge di Rimini e Bari, oltre che città interne come Arezzo e Perugia. Molti allagamenti in Sicilia, da Palermo a Siracusa, sotto il diluvio di mercoledì 25 marzo (161 mm a Catania, record in almeno 18 anni di misure, e ben 309 mm sui fianchi dell’Etna). Un evento freddo vistoso e tardivo, ma non eccezionale, come in questo periodo se ne sono visti diversi (e fin peggiori) anche in anni recenti: il 24 marzo 1998 caddero 20 cm di neve sui Castelli Romani, l’8 aprile 2003 si imbiancò Lecce, e il 25 marzo 2013 la pioggia congelantesi paralizzò Trieste. Quest’anno il problema è semmai il precoce sviluppo della vegetazione per il caldo anomalo delle settimane scorse: il gelo è arrivato su fiori e germogli che erano in anticipo di tre settimane, danneggiando frutteti e vigneti dall’Emilia-Romagna alla Sardegna. E da domani tornerà più freddo, con neve a quote collinari. L’Ispra stima che con le restrizioni alla mobilità per il Covid-19 le emissioni serra nel primo trimestre 2020 in Italia siano calate del 5-7% rispetto a un anno prima: tuttavia per contrastare i cambiamenti climatici serviranno misure strutturali a lungo termine per l’efficienza energetica, le rinnovabili, il trasporto pubblico ed elettrico, e il telelavoro.

Nel mondo – Il freddo degli ultimi giorni ha interessato anche gran parte d’Europa, talora più anomalo che in Italia. Ad Antibes, Costa Azzurra, una minima di -1,6 °C (26 marzo) non si era mai registrata così tardi nella stagione, e la neve ha imbiancato la Baviera e i Balcani. Invece in molte città degli Stati Uniti meridionali (New Orleans, Corpus Christi, Houston) si sta chiudendo un marzo tra i più caldi, con 3-4 °C sopra la media, e un’ondata di calore è in corso con punte di 38 °C, inedite in questa stagione. Più a Nord sono le alluvioni a fare disastri: il 20 marzo nell’Indiana 6 automobilisti sono morti nel crollo di un ponte sul fiume Sanes in piena. Nello Yemen già dilaniato da povertà e guerra civile, martedì scorso un nubifragio da 75 mm di pioggia e la conseguente alluvione-lampo hanno investito la città di Aden facendo due vittime. Inondazioni anche nelle province meridionali dell’Iran (almeno 11 morti) e in Papua Nuova Guinea (10 vittime per una frana). Invece la siccità, gli scarsi deflussi d’acqua dolce e la conseguente salinizzazione stanno gravemente colpendo le risaie del delta del Mekong (Vietnam). Il 5 marzo, dopo l’inverno polare, la banchisa artica ha toccato un massimo stagionale di estensione di 15 milioni di chilometri quadrati, lontano dai record negativi del 2015, 2016, 2017 e 2018, ma mancavano pur sempre 590.000 km² rispetto alla media, due volte la superficie dell’Italia. In tempo di Coronavirus molti aerei restano a terra, così vengono a mancare preziose misure meteorologiche d’alta quota (Amdar, Aircraft Meteorological Data Relay) che di solito alimentano i modelli previsionali: secondo il Centro Europeo per le Previsioni a Medio Termine (Ecmwf) l’effetto negativo si fa sentire con un calo di qualità soprattutto nei pronostici di vento e temperatura ad altezze di 10 km, proprio al livello delle rotte aeree, e si sta cercando di rimediare lanciando più palloni-sonda dagli aeroporti.

Il papa, Salvini e il presidente

Hanno detto spesso gli esperti che le malattie sono il più delle volte la trasformazione di un male interiore (mentale o morale) in un male fisico, ovvero una misteriosa infezione in cui l’anima (o la mente) contagia il corpo. Si usa di solito la parola “stress” per indicare sia uno stato di inquietudine sia una tragedia e serve a spiegare tante improvvise catastrofi in persone che si consideravano al sicuro. Non mi avventurerò nella verifica di questa persuasione. Ma credo che si possa descrivere così ciò che sta accadendo: una paurosa infezione colpisce un Paese spaccato. Parlo dell’Italia, s’intende, anche se non è il solo a patire questo cocktail sfortunato.

Della paurosa infezione medica abbiamo detto tutto e non sappiamo niente. Ma, forse per scaramanzia, non ci siamo molto occupati della spaccatura profonda che ci tormenta, e solo adesso quelli di noi che hanno vocazione letteraria direbbero che la spaccatura si è infettata e che questa è la malattia con un contagio pauroso. Forse ci conviene passare lungo un percorso, la storia, che a volte aiuta a comporre i pezzi di realtà frantumate: la storia ci dice di alcuni errori madornali, come l’amnistia immediata e universale a favore degli assassini della Shoah (non tanto le omesse condanne della folla, quanto la comprensione della vastità, del senso, della pratica di quel genere di azione politica e militare di quei regimi). La storia ci guida dentro la Guerra fredda, un pauroso lunghissimo intervallo di minacce estreme e di distensioni improvvise, fra maschere di ideologie più o meno stravolte. Ha prodotto una immensa e mai più riducibile quantità di armi di sterminio. Erano e restano sospese sulla vita di tutti e – più o meno consciamente – giustificano lunghe catene di orrori e di indifferenza agli orrori.

Ecco la parola chiave per capire il pianeta dopo la guerra: l’indifferenza. A un certo punto, come le macchie di umidità, l’indifferenza si è allargata al punto dal far saltare alleanze, patti, legami, impegni reciproci fra leader o (come si ama dire) fra popoli, dal Patto Atlantico all’Unione europea. Compare, sulle mappe, una frantumazione annunciata mai vista nella storia contemporanea, un mondo inagibile di troppo grandi e di troppo piccoli, in cui ciascuno promette di non far nulla per l’altro, e in cui chi si sente più potente o più sicuro non vuole intorno l’ingombro di sudditi e seguaci. È un cattivo sentimento ma anche la cronaca di fatti veri. Solitudine e isolamento sono ormai le prime due parole del diritto internazionale. Qui si scatena la natura. Non per vendetta magica e pianificata. Non per la mano irata di Dio, come il Papa sta per spiegarci, da solo, sotto la pioggia… Ma perché le cose in natura accadono quando possono accadere. Ciascuno, da solo, persino l’America, può essere aggredito, umiliato e infettato come l’India e l’Italia.

Ma l’Italia è spaccata due volte. È spaccata dall’Europa che tenta di sganciare il partner (e fondatore) malato. Ed è spaccata dentro, dove una voce è il Papa, una voce è Mattarella, una voce è Salvini. Il Papa adesso è profeta di un canto paziente, fermo, non consolante, con la voce di chi ha già letto le scritture. Venuta la sera, “fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città riempiendo tutto di silenzio e di vuoto desolante che paralizza ogni cosa, si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto che siamo tutti sulla stessa barca, fragili e disorientati, chiamati a remare insieme, a confortarci a vicenda. Così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto proprio, ma solo insieme”. Il Papa adesso è un poeta. Non vuole farti ubbidire, vuole farti capire. L’immagine di piazza San Pietro vuota, sotto la pioggia, intorno a un uomo solo vestito di bianco, conferma il canto profetico, come in un film indimenticabile.

Il presidente della Repubblica ha in mano i fatti e deve guidare: “Stiamo vivendo una pagina triste. Abbiamo bisogno di unità e coesione. In Europa sono indispensabili iniziative comuni, la solidarietà è nell’interesse di tutti”. Matteo Salvini, capo dell’opposizione ha detto una frase più breve e più semplice. Ha detto, come se non fosse mai stato vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno: “Ma andate a cagare”. Vedete bene che il presagio non è buono. Il Papa ha voluto dirci la sua visione: ci si salva solo insieme. Mattarella ha voluto che sapessimo ciò che ci dice la nostra parte di mondo come condizione di salvezza. A Salvini non importa come andrà finire, importa di essere citato (fra “i bastardi senza gloria” che ormai popolano il mondo) in questa pagina. Malgrado i molti eroi che tentano e hanno tentato di tener testa a questa vicenda, la brutta avventura non promette bene. Piove infezione su un Paese spaccato dove è ancora forte la volontà di allargare la spaccatura.

Donne e bimbi resistono

Dalle statistiche cinesi, poi confermate anche nel resto del mondo, le donne e i bambini sembrano avere meno probabilità di un esito fatale quando si ammalano di Covid-19. Uno studio del Chinese Centres of Disease Control ha esaminato 44.000 persone e ha messo in evidenza la morte del 2,8% degli uomini infetti, rispetto all’1,7% delle donne. I decessi fra i bambini e gli adolescenti erano lo 0.2% dei casi. Negli over 80, la percentuale si attestava intorno al 15%. Per i bambini, dovremmo considerare che, solitamente, sono difficilmente a stretto contatto con i malati. Pertanto questo fattore potrebbe contribuire a contenere la possibilità di contagio. Le donne sono solitamente più attente alla loro salute e anche al loro peso corporeo (molti uomini ricoverati in gravi condizioni mostrano media o grave obesità). Almeno per la fascia degli attuali over 60, i fumatori sono soprattutto uomini. Questo fattore è molto presente nelle statistiche cinesi, dove il 52% degli uomini sono forti fumatori, rispetto al 3% delle donne. Se guardiamo a fattori di interazione virus-ospite, le possibilità sono due: o donne e bambini hanno meno possibilità di essere infettati o hanno risorse di risposta diverse. La motivazione del differente esito rispetto agli uomini va ricercata in altre capacità che vengono esplicate successivamente all’infezione e si aggiungono, non dimentichiamolo, ai fattori comportamentali. È noto che il sistema immune delle donne è molto più efficiente di quello degli uomini. Le donne hanno anche una migliore risposta anticorpale in seguito a una maggiore vaccinazione antinfluenzale. Nulla in natura avviene per caso.

L’ultima del “bomba”: ci risparmi l’abisso

Finché quel che resta di Renzi blatera col suo finto straziante inglese-shish alla CNN, pazienza: fa ridere. Finché sparla all’estero del governo di cui pure farebbe parte, pazienza: il soggetto resta quello dell’osceno #enricostaisereno. Finché straparla di inciuci, Draghi e renzusconismi, pazienza: l’uomo è così. Ormai, nel mondo reale, lo vota giusto il tricologicamente vilipeso Marattin. Quando però la Diversamente Lince di Rignano arriva ad asserire (oggi: non un mese fa) quel che ieri ha vomitato ad Avvenire e poi ribadito in un’esteticamente straziante diretta Facebook, non c’è più spazio per l’ironia. Non è dato sapere se il Bomba abbia straparlato per calcolo politico, protagonismo o reale convinzione. Quel che è certo, è che le sue parole (“riaprire le fabbriche subito, scuole a maggio”) sono di una gravità inaudita.

Le “teorie” di questo genio, che ieri come oggi resta la più grande sciagura politica mai abbattutasi su quel che resta dell’italica sinistra, sono scellerate. Agghiaccianti. Uno sgangherato schiaffo in faccia al buon senso, a chi soffre, a chi piange. E sono “teorie” ancor più colpevoli perché dette da uno che sta al governo, e così facendo mina – in un momento tragico – l’equilibrio di per sé sottile dell’esecutivo attuale. Asserire poi che il coronavirus durerà due anni e ci abbracceremo se va bene tra un anno, dall’alto di una cattedra di virologia che ai più sfuggita, è un messaggio terrificante per un paese che ha già abbastanza paure. La comunità scientifica ha trasecolato: persino Burioni, a Renzi certo non ostile, ha commentato l’uscita del Berlusconi che non ce l’ha fatta come “irrealistica”. Non importa: lo statista quasi-fiorentino andrà comunque avanti, dritto verso la catastrofe. La sua, di sicuro. Il rischio, però, è che – contando ancora molto in Parlamento – trascini pure noi dentro l’abisso. Se gli riesce, e ne dubito, si vergogni.

Il senso di Salvini per i metri quadri

Preso com’è dalla sua ultima infatuazione, quella per Mario Draghi – “ben venga una testa come la sua contro il germanocentrismo”, ha detto ieri a proposito dell’ex presidente della Bce – Matteo Salvini perde di vista il senso della realtà. E incurante della logica che dovrebbe far tacere chi, come lui, non ha certo problemi economici nel fronteggiare questa crisi, ieri ha vestito i panni dell’italiano medio, anzi di più: “Io sono in un bilocale nella periferia di Milano… Sono al primo piano di un condominio”, si è lagnato il leader della Lega con i suoi seguaci in diretta Facebook. Poi ha aggiunto: “Lo dico senza nessuna invidia. Ci sono persone che stanno facendo la quarantena in ambienti enormi, vuol dire che se li sono meritati, buon per loro…”. Ora, nessuno dubita che l’ex ministro dell’Interno menta sulle dimensioni del suo appartamento, per carità. Ma tutto ce lo immaginiamo tranne che uno che possa permettersi di lamentarsi delle condizioni in cui vive. D’altronde, lui stesso un paio di ore prima aveva lanciato il suo appello alla misura: “A emergenza finita, valuteremo chi ha detto e non ha detto. Ora stringiamoci. E pensiamo che senza interventi rischiamo rivolte”. Ecco, lui ha detto. E pure troppo.

Avevamo in casa i respiratori. L’hanno scoperto il 4 marzo

Soltanto ai primi giorni di marzo in Italia si è scoperto che esiste un’azienda italiana, la Siare Engineering, che produce ventilatori polmonari, i macchinari necessari per ampliare le terapie intensive e curare i malati più gravi. È accaduto un mese dopo il decreto legge per proclamare lo stato di emergenza per il coronavirus, il mandato a coordinare i lavori alla Protezione Civile di Angelo Borrelli, elaborati scientifici, oculate pianificazioni, ospedali lombardi intasati, già migliaia di contagi, decine di morti.

Il 2 marzo la società statale Consip viene indicata “soggetto attuatore” per gli acquisti per fronteggiare il Covid-19; il 4 marzo la Protezione civile comunica il fabbisogno ospedaliero. In poche ore, scorrendo l’elenco dei fornitori della Pubblica amministrazione, Consip individua la Siare Engineering, sede a Valsamoggia in provincia di Bologna, fondata nel 1974, un’azienda con una trentina di dipendenti che vende all’estero il 90 per cento della propria produzione, in tempi ordinari non supera i 40 respiratori alla settimana. Consip avverte la Protezione civile, il capo Borrelli allerta Palazzo Chigi.

Il 6 marzo a mezzogiorno, il premier Giuseppe Conte, con accanto Borrelli e Domenico Arcuri (non ancora nominato commissario), chiama in videoconferenza Gianluca Preziosa, direttore generale di Siare Engineering. In più di un mese della laboriosa gestione dell’emergenza, questo è il dato che segna il ritardo e l’errore, nessuno ha chiamato Preziosa, neanche per una semplice informazione, non la Protezione civile, non il ministero della Salute.

Conte si scusa con Preziosa del mancato preavviso e gli chiede uno sforzo per fornire al suo Paese almeno 2.000 ventilatori polmonari e la risposta deve arrivare entro le 16: “Mi dispiace – dice Preziosa – della situazione drammatica dell’Italia e per le occasioni perdute. A dicembre dal mercato asiatico hanno aumentato le commesse proprio per il coronavirus, non volevano farsi trovare impreparati, sprovvisti dei mezzi più utili”. Preziosa accetta la proposta di Conte, il ministero della Difesa manda nei capannoni di Valsamoggia i militari dell’esercito, il gruppo Fca e la Ferrari forniscono del materiale, i turni non finiscono mai e si spera di sfondare il limite di 500 ventilatori polmonari al mese. Anche Preziosa è rammaricato: “Si poteva fare meglio con un po’ di anticipo. Dopo il contatto con Conte ho subito bloccato i respiratori già imballati nei cartoni per partire verso l’Asia, così ne abbiamo recuperati più di trecento per gli ospedali italiani. Ho vuotato il magazzino. Adesso dal Sudamerica mi domandano 3.500 pezzi, ma ho rifiutato perché la mia fabbrica è a totale disposizione del governo”.

Gennaio e febbraio sono il prologo della catastrofe, la lunga pausa che non tempera il disastro sanitario di marzo. Al ministero per la Salute studiano il fenomeno, l’Organizzazione mondiale della sanità alla vigilia dell’Epifania lancia l’allarme sul coronavirus che aggredisce i polmoni e richiede l’utilizzo della terapia intensiva. Nella sede della Protezione civile si riunisce spesso il comitato operativo, in forma plenaria il 31 gennaio, come scritto nei giorni scorsi, non si fa un minimo accenno alle condizioni degli ospedali, ai posti letto per il ricovero col Covid-19, alla capienza per i reparti di rianimazione, alla ricerca di tamponi, mascherine, strumenti medici.

Il 17 febbraio, ancora al ministero per la Salute, viene compresa l’urgenza di comprare i respiratori, però non si procede. Finché il governo non cala la serranda sull’Italia e negli ospedali non si muore a decine al giorno, non succede niente. Con la disperazione addosso, a marzo ci si affanna a cercare i ventilatori polmonari, senza sapere neppure da dove cominciare, a chi rivolgersi. Per caso Consip pesca la Siare Engineering dall’archivio e si tenta l’ennesimo miracolo italiano dopo la solita approssimazione.

Rebus mascherine dall’estero: ci sono ma nessuno le compra

Ci sono milioni di mascherine che possono arrivare da oltreconfine, anche in poche ore, ma che tra beghe burocratiche, inefficienza, scelte ponderate di chi deve venderle e norme che rendono svantaggioso farlo finiscono ad altri o restano in attesa per settimane, in piena emergenza e di fronte a un’autosufficienza produttiva che, per quanto auspicata dal commissario Arcuri, non arriverà prima di due mesi. Si sa, ad esempio, che sul tavolo di “Invitalia Emergenza CV19” e del commissario straordinario Domenico Arcuri sono arrivate dal primo giorno del suo insediamento, il 18 marzo, offerte concrete, a prezzi considerati congrui dalla stessa Protezione Civile ( 3/3,50 dollari per 1,5 milioni di FFP2 da consegnare in 24 ore a Fiumicino) , passati anche attraverso diverse contrattazioni istituzionali, e con disponibilità immediata che, però, inspiegabilmente non vengono prese in considerazione. Inutili le mail, i canali formali e informali, i tentativi da parte degli intermediari di comprendere se sia un problema di fondi o di conti bancari della struttura commissariale: dal momento in cui la partita di mascherine è stata portata all’attenzione delle autorità italiane (Protezione Civile prima e Invitalia, poi) a quando si è interrotta ogni comunicazione, sono passati 10 giorni. E ora che il paese di provenienza dei dispositivi è in lockdown, non sarà più possibile recuperarle.

Si indebolisce così la storia delle mascherine che gli altri Paesi non vendono “per tenerle per sé”: sono uno dei beni più preziosi al momento e nonostante molti avrebbero interesse a vendere in Italia, non riescono. Pietro Operti è un consulente marketing e commerciale e ha segnalato l’11 marzo alla Regione Piemonte e all’unità di crisi la disponibilità di mascherine chirurgiche e KN95 da un fornitore cinese conosciuto per lavoro e con certificazione CE e FDA. “In allegato ci sono le foto, i certificati e i contatti – scrive in una prima email – dovrebbero averne circa 100mila in magazzino”. Indica anche i link dove controllare l’attendibilità del venditore. Assicura la gratuità del suo ruolo nell’operazione (1,7 dollari il costo della singola mascherina). Avvisa di star cercando di capire la disponibilità di un altro fornitore che può avere una capacità produttiva di 100mila al giorno. “Non dico che avrebbero dovuto credermi – spiega – ma quanto meno riscontrare ciò che dicevo o dirmi a chi parlare. Nulla”.

Non è un caso isolato. “Di Maio è andato in Cina per farsi dare in proiezione futura 100 milioni di maschere – racconta il titolare di una delle aziende presenti negli elenchi dei fornitori di Confindustria -. Io ho un network molto grosso e ho accesso a uno stock di diverse decine di milioni di pezzi in giro per il mondo pronte per essere spedite. La scorsa settimana sono passato attraverso 5 persone, alcune di livello molto alto, di Milano, Torino e Roma per cercare di parlare con la Protezione civile e altri enti, ma non mi hanno mai richiamato”. Il Fatto ha chiesto l’elenco di tutti gli acquisti fatti dall’inizio dell’emergenza e l’uso dei conti e dei fondi. Né Protezione civile né Invitalia han voluto fornirli.

C’è poi chi potrebbe importare ma sceglie di non farlo. Il dl “Cura Italia” prevede infatti che il commissario possa requisire i carichi di “presidi sanitari e medico-chirurgici” che arrivano in aeroporto e pagarli al prezzo che la merce aveva al 31 dicembre 2019. Una restrizione anti-speculazioni che non funziona se siamo i soli a usarla. “Se l’Italia non le compra – spiega un altro fornitore – son pronte Romania o Polonia a prezzo di mercato”.

A fine anno, fuori dall’emergenza, i prezzi di una mascherina erano infatti molto più bassi, ci spiega un imprenditore. “Prima dell’epidemia una chirurgica in Cina costava 2 centesimi – spiega Fabrizio Piana, operativo su Genova della Labrosped Srl, azienda di logistica di Livorno – oggi la si paga anche 40 cent al pezzo”. “Quindi se far arrivare dalla Cina 100mila mascherine, una quantità molto piccola, mi costa 40mila euro – conclude l’imprenditore – lo Stato me le requisisce e me ne dà 2mila”. Importare, poi, costa. Le spese di trasporto fanno salire il presso. “Sono quadruplicate – spiega ancora Piana –. A dicembre una compagnia aerea ti chiedeva 3 dollari per portare dalla Cina un kg di merce. Ora servono almeno 10,5 dollari”. In tempi normali i container arrivano via mare, ma ora non si può aspettare la nave per un mese. Così la merce deve volare, ma i voli cargo con la Cina sono chiusi. Prima del Covid i Dpi viaggiavano anche nelle stive degli aerei di linea. Ora anche quelli sono al minimo. E non è detto che lo stock arrivi, perché spesso i Paesi di scalo li requisiscono.