Ecco chi ha diritto agli “aiuti” e come fare per ottenerli

Il d-day di famiglie, lavoratori e imprese per richiedere gli aiuti previsti dal governo ha ufficialmente una data: il 1° aprile. È dal prossimo mercoledì che sul sito dell’Inps potranno essere presentate le domande per richiedere congedi, bonus, indennità e permessi. Da lunedì 30 marzo, invece, si possono già presentare le domande per la cassa integrazione anche se in queste ore le Regioni stanno finendo di sottoscrivere gli accordi quadro con sindacati e associazioni di categoria. Un maxi-pacchetto da 10 miliardi di euro che coinvolgerà 11 milioni di italiani e che mai come oggi metterà alla prova la nostra burocrazia. Il solito rompicapo per l’utente medio, messo ancor più in crisi: con commercialisti e Caf chiusi, dovrà fare tutto da solo. Le domande vanno inoltrate con una procedura telematica, che è stata semplificata: si può accedere al sito dell’Inps con un unico Pin. Chi non lo ha, si affrettasse a richiederlo all’Istituto di previdenza: si riceve subito sul cellulare la parte completa del codice. Il problema vero è che i fondi sono “ad esaurimento” e la platea è molto ampia: c’è il forte sospetto che non basteranno, anche se il governo ha promesso nuovi aiuti. Intanto vediamo chi e come può ottenere quelli già stanziati.

 

Cassa integrazione

I soldi entro il 15 aprile

Da domani, tutti i datori di lavoro di tutte le imprese – manifatturiere, trasporti, installazione, impianti elettrici e telefonici, cinematografiche, industriali e artigianali e gli enti pubblici – anche al di sotto dei 5 dipendenti (come bar, negozi o uffici) e che mai avevano utilizzato gli ammortizzatori sociali, potranno richiedere la cassa integrazione ordinaria con causale specifica “Covid-19”. La domanda è retroattiva e può essere presentata dal 23 febbraio 2020 al 31 agosto 2020 per una durata massima di 9 settimane. Non va allegata la relazione tecnica, come normalmente si fa, ma solo l’elenco dei lavoratori beneficiari. Non è dovuto il pagamento del contributo addizionale e possono chiederla anche le aziende che hanno in corso un’altra domanda. Il bonifico arriverà direttamente sull’Iban del lavoratore e non in busta paga. I pagamenti saranno attivati entro il 15 aprile. Ma se l’Associazione bancaria italiana e l’Inps troveranno un accordo nelle prossime ore, le banche potrebbe anticipare il versamento della cassa integrazione direttamente sui conti correnti dei lavoratori. L’importo dovrebbe essere pari all’80% dello stipendio, ma varierà a seconda dei settori in cui si lavora. Secondo la Uil si può parlare di una perdita media rispetto allo stipendio di 376 euro netti.

 

Cassa in deroga

La richiesta alle Regioni

Rientrano in questo intervento tutti i datori di lavoro e i loro dipendenti per i quali non sono disponibili gli ammortizzatori sociali ordinari, come i lavoratori intermittenti, somministrati, gli apprendisti, i lavoratori agricoli, della pesca, del terzo settore, compresi gli enti religiosi civilmente riconosciuti. Anche in questo caso il periodo non deve superare 9 settimane e ai beneficiari viene riconosciuto il trattamento d’integrazione salariale e la contribuzione figurativa. Ma per i datori di lavoro con più di 5 dipendenti è necessario l’accordo sindacale. Le domande di accesso devono essere presentate esclusivamente alle Regioni e alle Province autonome interessate, che effettueranno l’istruttoria secondo l’ordine cronologico di presentazione. Tra gli importi più rilevanti spiccano la Lombardia (198,3 milioni di euro), il Lazio (144,4 milioni) e l’Emilia-Romagna (110,9 milioni).

 

Partite Iva e autonomi

Apertura ali “fondi”

Dal primo aprile hanno diritto all’indennità da 600 euro una tantum partite Iva, autonomi e i lavoratori con contratti di collaborazione coordinata e continuativa (attivi al 23 febbraio) iscritti alla gestione separata dell’Inps. La somma spetta anche ai dipendenti stagionali del settore del turismo e degli stabilimenti termali che hanno cessato involontariamente il proprio rapporto di lavoro dal 1 gennaio 2019 al 17 marzo 2020, ai lavoratori iscritti al Fondo pensioni lavoratori dello spettacolo con almeno 30 contributi giornalieri versati nel 2019 e con un reddito non superiore ai 50mila euro. Sull’indennità non si pagheranno tasse. La domanda va sempre presentata all’Inps. Mentre gli autonomi e i professionisti iscritti alle casse di previdenza private per percepire i 600 euro devono fare richiesta alla propria cassa: potranno farne richiesta i lavoratori che hanno percepito nell’anno di imposta 2018 un reddito complessivo non superiore a 35mila euro; chi, sempre nello stesso anno di imposta, ha percepito un reddito complessivo compreso tra 35mila e 50mila euro cessando, riducendo o sospendendo la propria attività autonoma o di libero-professionale di almeno il 33% nel primo trimestre 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019 a causa dell’emergenza sanitaria; chi ha chiuso la partita Iva va dal 23 febbraio al 31 marzo. Ad aprile, se saranno confermate le indiscrezioni sul nuovo decreto, l’indennizzo salirà a 800 euro.

 

Agricoltori

Ok solo con 50 giornate

L’indennità di 600 euro spetterà anche agli operai agricoli a tempo determinato, non titolari di pensione, che nel 2019 abbiano effettuato almeno 50 giornate effettive di attività di lavoro agricolo. L’importo, come tutti gli altri, non è cumulabile con il reddito di cittadinanza. Sarà erogata dall’Inps nel limite di spesa complessivo di 396 milioni di euro. Prorogato al 1° giugno 2020 il termine per la presentazione delle domande di disoccupazione agricola.

 

Congedi

15 giorni per ogni figlio

È la misura straordinaria di massimo 15 giorni complessivi che possono richiedere all’Inps tutti i genitori di figli fino a 12 anni dal 5 marzo al 3 aprile se sono dipendenti privati o autonomi. I dipendenti pubblici devono fare domanda alla propria amministrazione. Per il congedo sono riconosciute un’indennità del 50% della retribuzione e la contribuzione figurativa. Se invece si hanno figli dai 12 ai 16 anni ci si può assentare dal lavoro sempre per 15 giorni, ma senza alcuna indennità e senza copertura figurativa. I genitori che hanno già fatto richiesta e, alla data del 5 marzo hanno in corso un periodo di congedo parentale “ordinario”, non devono presentare una nuova domanda. I giorni di congedo parentale saranno direttamente convertiti d’ufficio dall’Inps.

 

Baby sitting

Fino a esaurimento soldi

Il bonus di 600 euro spetta ai genitori per ogni figlio di età inferiore a 12 anni alla data del 5 marzo 2020. Possono chiederlo sul sito dell’Inps (dove non è ancora attiva la procedura) i lavoratori dipendenti pubblici, privati, iscritti alla gestione separata Inps e i lavoratori autonomi iscritti e non all’Inps. verrà erogato “in ordine cronologico di presentazione”. Il voucher diventa di 1.000 euro per medici, infermieri, tecnici di laboratorio e radiologia, operatori sociosanitari e per le forze dell’ordine. Il bonus non si può chiedere se l’altro genitore è disoccupato/non lavoratore o con strumenti di sostegno al reddito e se è stato richiesto il congedo.

 

Ricercatori

“Dis-coll” e sussidi

Il decreto Cura Italia, al fine di agevolare la presentazione delle domande di Dis-coll, il sussidio di disoccupazione dei collaboratori come gli assegnisti di ricerca e i Co.co.co, ha previsto la proroga dei termini di presentazione della domanda che consente di ottenere l’assegno di disoccupazione quando scade il contratto, ampliando il termine da 68 giorni a 128 dalla data di cessazione involontaria del rapporto di lavoro.

 

Disabilità

Legge 104 e indennità

Ai genitori di figli con handicap in situazione di gravità senza limiti di età, purché iscritti a scuole di ogni ordine e grado o ospitati in centri diurni a carattere assistenziale, viene riconosciuta dall’Inps un’indennità pari al 50 per cento della retribuzione e la contribuzione figurativa. Inoltre è previsto un incremento dei giorni di permesso retribuiti: in aggiunta ai 3 giorni mensili già previsti dalla legge n. 104/92 (3 per il mese di marzo e 3 per il mese di aprile) è possibile fruire di ulteriori 12 giorni complessivi per i mesi di marzo e aprile. Tali giorni, anche frazionabili in ore, possono essere usati consecutivamente nello stesso mese. I lavoratori dipendenti per i quali è previsto il pagamento diretto dell’indennità da parte dell’Inps (lavoratori agricoli e lavoratori dello spettacolo a tempo determinato) devono presentare una nuova domanda solo nel caso in cui non ne sia già stata presentata un’altra relativa ai mesi per cui è previsto l’incremento delle giornate.

“Un reddito di sopravvivenza o mezza Italia rischia la fame”

Marco Revelli, viviamo giornate terribili. Le immagini delle forze dell’ordine fuori dai supermercati suggeriscono che il prossimo virus rischia di essere la fame.

I segnali sono davvero spaventosi. Siamo presi in una tenaglia: da una parte la necessità di fermare il virus, dall’altra la povertà e la miseria. Fermare il virus vuol dire chiudere tutto, ma questo significa portare la gente all’indigenza, soprattutto in quella parte del Paese in cui sono forti lavoro nero, sommerso e precariato. Per un pezzo d’Italia il confinamento è una condanna alla fame.

Come risponde lo Stato?

Siamo arrivati a questa prova terribile con un corpo già malato: prima che arrivasse il virus c’era la malattia della fragilità sociale. L’Italia è malata di impoverimento e di taglio dei servizi, a cominciare dalla sanità. Il corpo è indebolito da 25 anni di austerità che hanno distrutto le difese immunitarie. Biologiche e sociali.

Insisto: come si reagisce?

Verrebbe da dire: se solo avessimo un reddito di cittadinanza vero. Quello attuale è una misura giusta ma insufficiente. Se ci fosse un reddito generalizzato – una coperta che mette al riparo tutti al di sotto di una determinata soglia – non vedremmo l’esercito davanti ai supermercati. Chiamiamolo “reddito di sopravvivenza”. Le misure per tutelare la sopravvivenza del tessuto economico sono giuste, ma poi ci sono le famiglie: serve un credito diffuso.

Come valuta l’azione del governo fino a oggi?

Dal punto di vista sanitario, a livello centrale sono state prese le decisioni giuste, pur con tutte le resistenze incontrate. Perché non dimentico mai quanto Confindustria e affini si siano messi costantemente di traverso. Dal punto di vista sociale invece è stato fatto poco, anche perché c’è poco in cassa. Il discorso rimbalza fuori dall’Italia: le ragioni sono sempre le stesse, le politiche che hanno distrutto le risorse essenziali.

Ha ragione Salvini quando dice che nell’economia devono essere pompati subito 75 o 100 miliardi?

Salvini mi fa orrore. È uno che gioca al rialzo per un briciolo di visibilità, come nei giochi all’asilo infantile.

Ma sostiene come lei che sia il momento di spendere senza vincoli.

Non c’è dubbio. Ma dirlo lascia il tempo che trova: bisogna avere idee chiare; indicare meccanismi, scelte concrete, spiegare come si creano le risorse. Aumentando il debito? Con una politica finanziaria comune europea? Stampando moneta? Si tratta di proporre soluzioni tecniche, che sono inevitabilmente politiche.

L’Europa che prova sta dando di sé?

Cecità, cinismo e irresponsabilità. A iniziare dalla Germania della Merkel, accompagnata dal capo del governo olandese, una figura che ricorda lo Scrooge di Dickens. È il solito asse del Nord, malato di egoismo cronico. Come nel 2015 con la crisi greca e nel 2011 con l’Italia: ogni volta che il continente entra in sofferenza, scatta questa solidarietà dei forti con sé stessi, a scapito degli altri. È un calcolo suicida. Ho letto con disgusto l’intervista del governatore della banca centrale austriaca, Robert Holzmann: ha definito la crisi economica una “purificazione” nella quale soccomberanno i deboli e da cui si potrà uscire più forti. Una pulizia.

Crede che in Europa Conte sia stato all’altezza della sua responsabilità?

Credo che si sia mosso con dignità e con il giusto stile. Continuo a ringraziare il cielo che mr. Papeete Salvini si sia autoaffondato ad agosto e che sia nato il Conte due. Pensi cosa saremmo oggi se avessimo a Palazzo Chigi un Salvini, una Meloni o uno del loro entourage. Conte si è mosso bene dentro un consesso di lupi. È riuscito a costituire alleanze, a fare rete con i paesi del Mediterraneo.

Persino Mattarella ha detto parole feroci sull’Unione.

Se manca questo appuntamento l’Europa si disfa. Mancano i requisiti minimi morali per stare insieme.

Le sembra che Mattarella abbia voluto anche tutelare Conte da chi sta facendo il nome di Draghi?

Proporre un governissimo a guida Draghi, in questo momento, lo considero un attentato alla sicurezza nazionale. Uso un’espressione paradossale, ma aprire un fronte interno in questa fase drammatica è inaccettabile. Siamo nel pieno di un’emergenza che non dovrebbe lasciare spazio a operazioni di questo tipo.

Ancora scontro fra Italia e Ue (cioè Germania)

Ursula von der Leyen, oggi presidente della Commissione europea, è tedesca ed è anche l’ex ministra della Difesa del governo di Angela Merkel. Non deve stupire dunque se ieri, parlando con la principale agenzia di stampa del suo Paese, la Dpa, ha fatto formale atto di adesione alla posizione del blocco del Nord, guidato proprio da Berlino, sulla risposta economica da dare alla crisi innescata dal coronavirus.

“La parola coronabond – ha detto – è in realtà solo uno slogan: dietro c’è la grande questione delle garanzie e su questo le riserve della Germania, come di altri Paesi, sono giustificate”. Comunque, ha aggiunto Von der Leyen, “non stiamo lavorando ai coronabond: il Consiglio ha incaricato la Commissione di elaborare un piano di ricostruzione, che ora è la strada che stiamo approfondendo”.

Posizione magari legittima ideologicamente, ma scorretta nei fatti e che ha irritato profondamente il governo italiano, che è poi l’inventore del “tormentone” coronabond fatto proprio anche da altri otto Paesi (Francia, Spagna, Belgio, Lussemburgo, Grecia, Irlanda, Portogallo e Slovenia). La risposta di Giuseppe Conte, ieri sera in conferenza stampa, è stata molto dura, sulla scia dei toni già usati giovedì con i leader europei: “La risposta all’impasse è stata affidata all’Eurogruppo, non alla presidente della Commissione, e l’Eurogruppo entro 14 giorni dovrà elaborare proposte, al plurale. Ovviamente c’è un dibattito in corso e i dibattiti vanno bene, ma qui c’è un appuntamento con la storia: l’Europa deve dimostrare se è all’altezza di questo appuntamento. La storia non avvisa quando arriva: questo choc riguarda tutti gli Stati membri e devono esserci risposte eccezionali. Si tratta di dimostrarsi adeguati o no: quanto a me non passerò alla storia per chi non si è battuto, anzi mi batterò sino alla fine per una soluzione europea”. Posizione netta, per una volta condivisa anche dal ministro Roberto Gualtieri, seduto ieri sera al fianco di Conte: “Quelle di Von der Leyen sono parole sbagliate e mi dispiace che le abbia pronunciate. Nell’Eurogruppo noi siamo impegnati affinché tra le proposte finali ci sia l’emissione comune di titoli per fronteggiare questa emergenza. Ci aspettiamo che tutti si rendano conto che l’Europa deve essere all’altezza di questa sfida”.

Anche il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, sempre Pd, ha usato toni insolitamente battaglieri: “I Paesi più timidi nell’accettare logiche comuni sono quelli che hanno più benefici dal mercato comune europeo”. Tornando a Gualtieri, il ministro dem sostiene che “l’Ue dovrebbe fare due cose: aiutare i Paesi a superare l’emergenza e poi aiutarli a ripartire. Serve uno sforzo comune senza precedenti per la ricostruzione, un Piano Marshall per sostenere i sistemi sanitari, per modernizzarli”. E questo esclude, ha spiegato Gualtieri, che i 9 Paesi fautori degli eurobond si muovano da soli, magari attraverso la Bei: “La risposta deve essere di tutti, tutti devono essere all’altezza della sfida: invito anche Ursula Von der Leyen a leggere il monito di Jacques Delors”. L’anziano ex presidente francese della Commissione ha twittato questo: “La mancanza di solidarietà europea fa correre un rischio mortale all’Ue. Il microbo è di ritorno”.

400 milioni a tutti i Comuni per comprare cibo ai poveri

Le emergenze si sommano alle emergenze durante questa “chiusura da coronavirus”. In particolare nel Sud, ma non solo lì ovviamente, ne esiste anche una difficile da immaginare in un Paese tutto sommato ricco: l’emergenza fame a cui ieri il governo ha dato una prima risposta stanziando 400 milioni di euro. Lo ha annunciato ieri sera Giuseppe Conte in conferenza stampa da Palazzo Chigi: “Siamo consapevoli che ci sono persone che soffrono: ci sono le sofferenze psicologiche per il fatto di non poter uscire, certo, ma anche tante sofferenze materiali di chi ha difficoltà ad approvvigionarsi di prodotti alimentari e farmaceutici”.

La risposta del governo è in due atti predisposti ieri: un Dpcm che anticipa (rispetto a maggio) il pagamento di 4,3 miliardi su 6,5 totali del Fondo di solidarietà per i Comuni e, soprattutto, il suo rafforzamento immediato con 400 milioni di euro attraverso un’ordinanza di Protezione civile che vincola i fondi all’aiuto di chi è in difficoltà a fare la spesa.

Col lockdown, infatti, molte più persone del solito – chi lavorava in nero, certo, ma anche disoccupati, precari rimasti senza reddito, eccetera – fanno fatica a comprare da mangiare: giusto ieri il Banco Alimentare (che attraverso 21 banchi regionali e circa 7500 strutture assiste oltre un milione e mezzo di poveri ogni giorno) ha segnalato a livello nazionale un aumento del 20% delle richieste di cibo con punte fino al 40% in alcune zone, come ad esempio la Campania.

Una bomba sociale pronta a esplodere, secondo i report dell’intelligence pubblicati in questi giorni dai media, e che ha già visto alcuni casi di cronaca confermare gli allarmi: in Sicilia e in Campania, ad esempio, alcune decine di persone hanno tentato nei giorni scorsi di fare “spesa proletaria” nei supermercati (ora presidiati dalle forze dell’ordine); tentativi di “svaligiare” un paio di macellerie a Roma; scippi di sacchi della spesa in Puglia.

Per questo il governo ha deciso di intervenire in tutta fretta: “I Comuni potranno aiutare chi ha bisogno attraverso buoni spesa o con la consegna diretta di generi di prima necessità, anche avvalendosi delle associazioni di volontariato e del terzo settore – ha spiegato Conte –. L’obiettivo è che già la prossima settimana si possano erogare i buoni o consegnare direttamente le derrate alimentari. Non vogliamo lasciare nessuno da solo, siamo tutti sulla stessa barca, per questo invito la Grande distribuzione a fare uno sconto del 5 o anche del 10% a chi acquisterà con questi buoni”. In sostanza saranno i sindaci a doversi preoccupare di far arrivare gli aiuti dove serve e il presidente dell’Anci, Antonio Decaro (primo cittadino di Bari) ha garantito una “risposta velocissima”: “Le risorse – ha spiegato – saranno ripartite tra i comuni con due criteri: la popolazione residente e l’indice di povertà”. In questo modo, almeno si spera, i fondi finiranno nelle zone in cui ce n’è più bisogno.

Quanto al resto, il presidente del Consiglio ha promesso che i soldi già stanziati nel decreto Cura Italia per cassa integrazione e altri sostegni al reddito arriveranno a destinazione altrettanto rapidamente: “Entro il 15 aprile, ma io spero anche prima. La burocrazia va azzerata e stiamo facendo tutto il possibile”.

Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, invece, ha sostanzialmente bocciato la proposta di un’estensione del Reddito di cittadinanza arrivata dal suo collega (anche di partito) Giuseppe Provenzano, ministro del Sud, una proposta peraltro subito appoggiata dai 5 Stelle, che l’hanno lanciata come “reddito di emergenza”: “Noi stiamo lavorando per rendere fruibile il prima possibile l’erogazione della cassa integrazione e dei 600 euro per gli autonomi: vogliamo rafforzare questa misura e allargarla nel prossimo decreto, il punto non è tanto modificare strumenti ordinari, ma trovare il modo di far fronte a una situazione straordinaria”. Niet anche sull’altra proposta di Provenzano, peraltro solo accennata: una più accentuata progressività del sistema fiscale. Gualtieri è ancor più sbrigativo: “Noi ci dobbiamo occupare dell’emergenza, non stiamo facendo una riforma fiscale”.

Quoziente zero

Lo zero ha sempre avuto un fascino irresistibile, e non solo nella numerologia. I matematici sostengono che fare 0 al Totocalcio è molto più difficile che fare 13. Anche gli esperti di ascolti televisivi hanno studiato la materia: la notte del 15 aprile 1997, dall’1.39 all’1.59, Raiuno interruppe le trasmissioni mandando in onda il monoscopio e l’indomani l’Auditel calcolò che in quella fascia oraria ben 57mila spettatori erano rimasti inchiodati sulla prima rete Rai, per un ragguardevole 4,62% di share. “Non è un incidente di rilevazione”, spiegò Walter Pancini, dg Auditel, “càpita a tutti di addormentarsi davanti al televisore acceso: è quel che è accaduto a quei 57 mila. Il dato cala progressivamente nella notte perché quelle persone, man mano, hanno spento la tv e sono andate a dormire”. Il che spiega fra l’altro come mai, malgrado i titanici sforzi compiuti, storici e soporiferi samiszdat del servizio pubblico come Politics di Gianluca Semprini, Lessico amoroso di Massimo Recalcati, Lineanotte di Maurizio M’annoi non abbiano ancora raggiunto il peraltro meritato 0% di share.

Lo stesso vale per i sondaggi politici che, grazie a sofisticatissimi strumenti di precisione, riescono talvolta a rilevare, sia pur con i decimali o i centesimi percentuali, forme di partito e anche di vita da tempo estinte. Fra queste, oltre a +Europa (cioè la Bonino) e ad Azione (cioè Calenda), si segnala quell’ossimoro vivente (si fa per dire) che ha nome Italia Viva. È ormai evidente ai più che il suo leader, detto l’Innominabile, sta facendo di tutto per portarla allo zero assoluto. Ma, per quanto s’impegni allo spasimo, ancora non ci è riuscito e ora galleggia intorno al 2%. Che comunque, per uno che voleva “svuotare il Pd come Macron ha svuotato il Partito socialista francese”, non è male. Anzi, da quando è guidato da Zingaretti, il Pd si finge morto per sopravvivere. E, da quando ha perso l’Innominabile, anziché scendere è addirittura salito nei sondaggi. Ora, visibilmente frustrato e innervosito per la mancata scomparsa dai sondaggi, lo Statista di Rignano tenta il tutto per tutto in vista dello zero assoluto. Ha capito che il coronavirus è un’occasione unica per giungere alla definitiva estinzione del suo partito, condicio sine qua non per liberarsi di una zavorra di servi sciocchi e scemi e potersi finalmente dedicare a tempo pieno alla nuova fiorente vocazione di uomo d’affari. Da quand’è iniziata la pandemia, passa il suo tempo a sciacalleggiare più e peggio di Salvini, attaccando il governo che lui stesso aveva propiziato con la celebre piroetta di mezza estate.

Quel governo che, fino ai primi contagi, aveva deciso di affossare con la celebre e popolarissima battaglia in difesa della prescrizione. Ma, in questi tempi bui, la vita è grama pure per gli sciacalli. Che faticano a trovare giornali, tg e talk show che li ospitino, fra un virologo e un epidemiologo, per sbavare e rosicare in santa pace a favore di telecamera. Nemo sciacallus in patria. Infatti, non trovando più chi lo prendesse sul serio in Italia (il che era tutto dire), l’Innominabile aveva preso a molestare le principali testate straniere per sparlare del suo governo dalla Spagna al Regno Unito (lui, del resto, è linguamadre inglese). Come Fantozzi quando si martella il dito montando la tendina canadese e, per non svegliare gli altri campeggiatori, corre per chilometri nel bosco prima di urlare il suo dolore lontano da orecchi indiscreti. Il gioco ha funzionato finché il Covid non ha iniziato a fare strage anche in quei paesi, che han copiato tardivamente le misure del governo Conte, additandolo addirittura come modello da seguire. Così il tapino ha ripiegato sul suolo patrio, spremendo al massimo i giornali che ancora lo stanno a sentire: Repubblica, che lo tenne a balia nei primi tempi; il Corriere, grazie alla sua fatina Maria Teresa Meli; il Foglio, a opera della lingua ad personam Salvatore Merlo; il Riformista dell’amico e coimputato di famiglia Alfredo Romeo. Poi, a corto di microfoni, ha ripreso il giro delle sette chiese per piazzare la solita sbobba, invano. Tant’è che inscenava oscene dirette Facebook, in evidente sovrappeso e sottopensiero, per lanciare Draghi premier e Bertolaso supercommissario, farfugliare di non meglio precisati “piani choc” e abolire il reddito di cittadinanza (una sommossa popolare, in questo momento, è proprio quel che ci vuole).

Finché l’altroieri, forse per sfinimento o più probabilmente per un sentimento di umana pietà e carità cristiana, ci è cascato l’Avvenire. L’intervista è un capolavoro di autopubblicità negativa, mai visto nella storia della comunicazione. Un suicidio in diretta. Basti pensare che, nel giorno del record di quasi mille morti in 24 ore, la volpe italo-viva chiede di riaprire subito fabbriche, scuole e tutto il resto. E, siccome Salvini si accontenta di 150 miliardi, lui ne chiede 200, “subito”. Resta da capire chi abbia sequestrato e se i 200 miliardi gli vadano bene in banconote di piccolo taglio o preferisca quelle da 500. Le sue ideone vengono accolte da salve di fischi e pernacchie persino sulla sua pagina Fb e difese da Scalfarotto e la Annibali (sono soddisfazioni). Financo Burioni lo propone per un Tso, tant’è che di lontano si odono le sirene dell’ambulanza. Non per il virus: per lui. Che però sta benissimo. È lucidissimo. Lo fa apposta. Non cerca visibilità per aumentare i consensi, come l’altro Matteo (che, dopo il vaffa di Conte alla fu Europa, è passato all’“andate a cagare” perché qualcuno si accorga di lui). No, lui la cerca per perdere i pochi consensi rimasti, in vista dell’agognata, definitiva autorottamazione. Lo vedrete dalle prossime mosse. Il Matteo maggiore strillerà: “Merkel, baciami il culo!”. E il Matteo minore limonerà duro con Bertolaso.

Dua Lipa, uno sguardo alle donne e uno alla disco

Il secondo album di Dua Lipa, star globale erede di Madonna, è uno schiaffo ai tempi lugubri che stiamo vivendo: leggerezza e ritmi dance anni Ottanta senza mai essere manieristica. Storie di relazioni e attrazioni prodotte dai beatmaker più hipster del momento e, in particolare, il nome dietro al successo di Confessions On A Dance Floor di Lady Ciccone: Stuart Price. “Volevo musica che distogliesse dalle preoccupazioni e dalle cose negative del momento”. E con un occhio di riguardo all’emancipazione femminile: “Boys Will Be Boys parla di tutte le cose che facciamo noi donne per proteggerci. Voglio portare i pantaloni: nella musica, non abbiamo ancora abbastanza spazio”. Dua ha anche presentato alla Cambridge University un piano per affrontare la disuguaglianza di genere oltre a supportare i candidati labour in Inghilterra e democratici negli Usa. Nella title track canta “So che non sei abituato a una donna-alfa” mentre Good In Bed è l’antidoto alle storie di sesso: “Quando è la sola cosa che tiene insieme due persone non dura mai; è un ammonimento”. Physical evoca il bisogno di un corpo a corpo agognato come una cartina di tornasole, per capire se una relazione possa iniziare. Hallucinate cita Lady Gaga, Break My Heart – il nuovo singolo – contiene il riff di Need You Tonight degli Inxs ed è una hit folgorante: “Qual è l’unica cosa che manderà tutto a puttane? Sono un’inguaribile romantica e mi chiedo sempre come proteggerò una storia”. Il tour riprogrammato al 2021 la porterà a Milano il 10 febbraio.

17 minuti per Kennedy: anche Bob Dylan si sente in guerra

“Un saluto ai miei fans, grato per il supporto e la fedeltà in tutti questi anni. Questa è una canzone inedita che abbiamo registrato qualche tempo fa, penso possiate trovarla interessante. State al sicuro, rispettate le regole e che Dio sia con voi”. Con queste semplici parole, singolarmente premurose ed empatiche per un artista dalla riservatezza leggendaria, Bob Dylan ha presentato ieri on line i quasi diciassette minuti di Murder Most Foul. Il brano più lungo della sua carriera, nonché il primo scritto da poeta laureato con il Nobel.

Una canzone composta presumibilmente all’epoca dell’ultimo disco di materiale dylaniano originale (Tempest, risalente ormai a otto anni fa) o forse addirittura prima. L’incisione, a giudicare dal timbro vocale e dall’accompagnamento, in linea con la figura di crooner sinatriano ritagliatasi da Dylan negli ultimi anni, parrebbe invece più recente. Coerentemente con la mistica dell’indeterminatezza e del mistero che lo contraddistingue, quel “un po’ di tempo addietro” potrebbe voler dire l’altro ieri o tre anni fa. Ma certamente non è casuale la scelta di renderla pubblica proprio ora.

Nel momento in cui il mondo sta affrontando la crisi collettiva peggiore dalla Seconda Guerra Mondiale, sgomento davanti alla propria paura, Bob Dylan torna a far sentire la sua voce con un lungo, dolente, straordinario monologo che assomiglia molto a un requiem. In prima battuta per John Fitzgerald Kennedy, intorno al cui assassinio è incentrato il testo, ma più in generale proprio per quel mondo che forse dovremo lasciarci alle spalle per sempre. Il ’900 per come lo abbiamo conosciuto, con i suoi drammi e le sue illusorie speranze. L’uomo che descrisse con toni biblici la catastrofe fortunatamente mai avveratasi dell’inverno nucleare, oggi che un’altra durissima pioggia sta cadendo su di noi fa sfilare in parata quasi sessant’anni di storia, condensati in una sinossi di incredibile potenza lirica e immaginifica che sembra davvero una Desolation Row per questi giorni tormentati. Partendo dal giorno in cui l’America si confrontò con un altro shock capace di incidere in profondità la psiche del paese e di cambiarne la storia. “Era un giorno cupo a Dallas, novembre del ’63/un giorno che vivrà per sempre nell’infamia”: così inizia il racconto del “delitto più abbietto” (probabile citazione dall’Amleto shakespeariano), srotolato su un tappeto soffuso e malinconico di pianoforte, archi, una impalpabile batteria jazzata e “recitato” con una dizione che da tempo immemorabile non ricordavamo così chiara in Dylan. In una sorta di geniale montaggio alternato, gli ultimi pensieri di JFK mentre viene portato in ospedale (“sto correndo in una Limousine nera con mia moglie/sto correndo nel sedile posteriore verso ciò che c’è dopo la vita/ mi chino a sinistra, poggio il capo sul suo grembo”) lasciano spazio al punto di vista dell’autore, e spesso non è facile distinguere gli uni dall’altro. Ogni strofa, ogni rima racchiudono nella migliore tradizione dylaniana più riferimenti e metafore. Ecco quindi che una citazione da Mary Poppins e il titolo di un celebre pezzo pop inglese rimandano ai nomi di personaggi coinvolti nell’omicidio Kennedy.

Ecco che partendo da quel giorno a Dallas si attraversano gli anni Sessanta e oltre con i Beatles, gli Who, Woodstock e Altamont. Ecco il personaggio del dj Wolfman Jack, il leggendario Lupo Solitario della radio americana al quale JFK (o Dylan?) si rivolge, diventare pretesto per sgranare un rosario di nomi che appartengono alla storia della musica e della cultura pop, e che di quel breve sogno novecentesco nato da una tragedia hanno rappresentato la parte più luminosa. Fonte di conforto, spesso l’unica, in tempi difficili. “Play me a song mr. Wolfman Jack, play it for me in my long Cadillac”. Suonaci Etta James, Nat King Cole, Charlie Parker, Thelonious Monk, Art Pepper i Fleetwood Mac, i Beach Boys…. Ma soprattutto suonaci Bob Dylan, ancora una volta. Non ne abbiamo mai avuto così bisogno.

Facchinetti: “A Bergamo c’è l’inferno e con D’Orazio è nata una canzone”

Quel messaggio. “Me l’ha inviato poco fa una persona contagiata, dall’ospedale”, confida Roby Facchinetti. “Dice: ‘ho appena ascoltato la tua canzone. Sto piangendo. Non so cosa mi succederà, ma la musica è la miglior medicina’. Vorrei fosse vero”, sospira l’ex tastierista e cantante dei Pooh. Giorni fa, quando ha visto passare quella carovana di mezzi militari sotto le finestre della sua casa di Bergamo, è crollato. “Con la famiglia eravamo già barricati dentro da tre settimane, e l’interminabile corteo di camion ci ha fatto capire definitivamente ciò che non ci viene raccontato: in una delle bare poteva esserci mio cugino, o uno degli amici di cui ho perso le tracce. Dei parenti che non ce l’hanno fatta so solo che sono in attesa di cremazione, credo ad Alessandria. Chissà se un giorno potremo avere delle ceneri su cui pregare”.

È stato in quel momento che Facchinetti ha deciso che doveva fare qualcosa per la sua città: “Ero in lacrime, straziato da una rabbia incontenibile. Così mi sono seduto al piano e in cinque minuti ho composto la musica di Rinascerò, Rinascerai. Poi ho telefonato a Roma a Stefano D’Orazio, il mio amico batterista di una vita in tour. Anche lui aveva visto le immagini alla tv, era sconvolto. In poche ore ha scritto il testo, poi abbiamo dato via a una produzione-lampo, via Internet, con altri collaboratori, che hanno fatto un miracolo”.

La canzone è da ieri in tutte le radio, corredata da un video cui partecipano anche medici e infermieri, giocatori dell’Atalanta con il mister Gasperini, artisti e cittadini di Bergamo: stamattina dalle 8 alle 9 all’interno di Non Stop News su Rtl 102.5 Facchinetti e D’Orazio saranno protagonisti di uno speciale dedicato all’iniziativa di beneficenza.

Tutti i proventi verranno infatti destinati all’ospedale Papa Giovanni XXIII per l’acquisto di macchinari. “Perché la situazione di Bergamo è molto più tragica di quanto non si veda da fuori”, sottolinea Roby.

“I numeri reali dei contagiati e delle vittime sono almeno quindici volte più alti di quelli ufficiali. Due paesi, Alzano e Nembro, sono stati letteralmente decimati. Tanti anziani muoiono in casa, anche da soli. Nelle valli Seriana e Brembana abbiamo molti conventi, e delle suore non abbiamo notizia. Trenta parroci sono deceduti. Qui in città è un’apocalisse: il mio medico ha il Coronavirus, il pediatra dei miei nipoti non c’è più, ogni famiglia è alle prese con i propri lutti. Apro il giornale e trovo pagine e pagine di necrologi su conoscenti. A ogni squillo del telefono trasalisco: sento la frase ‘hai saputo di…’ e capisco che qualcun altro se n’è andato. Tra amici ci si saluta con la formula ‘speriamo di rivederci…’, e non è più una formalità, ma un terrore che ci pervade. Blindati dentro una polveriera che continua a esplodere”.

A dargli forza è l’esempio del personale sanitario che non molla, “e ne muoiono tanti nella prima linea dei reparti. Mia moglie è volontaria dell’Avio al Giovanni XXIII e mi racconta del loro coraggio. Spero che i giovani, quando la peste sarà sconfitta, vogliano intraprendere questo mestiere. Ma tutti, qui, si adoperano con dedizione: gli alpini e i ragazzi della Curva Nord dell’Atalanta si sono rimboccati le maniche per costruire il nuovo ospedale da campo, che è pronto”.

È tempo di dare una mano, non di polemizzare, sottolinea Facchinetti. “Ma forse, anche per mandare un segnale a chi ancora non ha capito cosa stia accadendo, sarebbe dignitoso decretare tre giorni di lutto nazionale in nome dei morti. Di Bergamo e di tutta Italia. Sperando poi di poter celebrare, presto, la fine di questo tempo d’orrore”.

Peste e colera, quei classici sempre citati (a sproposito)

L’amore ai tempi del colera di Gabriel Garcia Márquez è il romanzo più citato negli ultimi 30 giorni.

Suona classico, è apparentemente romantico, fa riferimento a una malattia causata dalle feci nell’acqua, tutti sono felici perché pochi l’hanno effettivamente letto, quindi ognuno può citarne brani a casaccio senza correre troppo il rischio di essere contraddetto.

Un passepartout culturale abbastanza mainstream da non dare l’impressione che chi lo cita sia un radical-chic che parla di cultura pop in videoconferenza su Zoom (versione free), mentre appoggia sulla scrivania di mogano i gomiti fasciati dalla giacca di vigogna. Luxury.

Certo, il dubbio che ti stiano impartendo una lezioncina di cultura rimane, ma solo a livello limbico. Un sospetto, più che altro. Come quando mangi il risotto ai funghi freschi della zia e ogni boccone ti lascia uno sfrizzicorino sulla lingua.

Poi però cerchi su Google e leggi che L’amore ai tempi del colera parla di un tizio innamorato e di una tizia che aspetta cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni per dargliela, polverizzando così il record assoluto di elargizione di due di picche detenuto dagli arroganti Proci di Itaca per duemilaottocento anni e che il colera è solo un escamotage per inquadrare il periodo.

Ti tocca quindi rivolgerti ad Albert Camus. La Peste, come titolo, invece spacca di brutto, ma fai fatica a fantasticarci sopra. Parla di gente che muore coi bubboni, di ratti e di immani tragedie. Certo, c’è il degrado, la paura, la perdita graduale della speranza che ti ricorda tanto quello che provano i netturbini di Venezia al terzo giorno del Carnevale, ma su una roba del genere non ci puoi lavorare più di tanto. Al massimo, può essere utile per dire alla persona che hai spasmodicamente voglia di portarti a letto che la amerai fino alla fine dei tuoi (o dei suoi) giorni, ma se poi sopravvivete?

L’extrema ratio è La montagna incantata di Thomas Mann. Gli ingredienti per renderlo profetico ci sono tutti: c’è il relais sulle Alpi che fa tanto seconda casa, c’è la malattia polmonare, ci stanno l’esilio per sette anni, la città natale del protagonista Hans Castorp, che poi è Davos in Svizzera. Ve lo ricordate il World Economic Forum? Ecco, lo fanno lì. Stuzzicante. Cosa manca? Ah, sì: la dama russa, metafora del filo-putinismo, un gesuita (salutiamo tutti Papa Francesco) e il nemico plutocrate. Voilà, ecco servito il sogno bagnato di ogni sovranista. Mettici poi che l’amico di Castorp è un massone e abbiamo la proverbiale fettina di limone sul cocktail.

È fatta: La montagna incantata è il romanzo perfetto, altro che Márquez e il suo colera.

È un vero peccato che Mann descriva i prodromi della repubblica di Weimar e che qui da noi la Germania non abbia mai goduto di una grandissima reputazione, specie se si parla di soldi.

Quando si cerca un modello culturale da usare si tende a minimizzare il fatto che gli autori, specie se morti, sono refrattari ai problemi che creano ai lettori. Come dire: mancano di scaltrezza.

Qualcuno dovrebbe spiegarglielo prima che la gente cominci a rivolgersi a Topolino come riferimento culturale per dissertazioni socio/filosofiche sulla realtà quotidiana.

D’altro canto chi mai avrebbe avuto il coraggio di dire a Saramago che il suo Cecità in questi giorni avrebbe aperto un collegamento sospetto – ancorché catechistico – tra masturbazione e isolamento forzato? Nessuno.

Quindi adesso ci ritroviamo con un branco di scrittori tenuti sotto tiro da redattori, editor e direttori di collana che mordono il freno per vedere chi di loro pubblicherà il primo romanzo post-pandemia. Quello che si troverà la rampa di lancio lucidata dall’ondata di instant-book più veloci di un post di Salvini. Quelli che sono già stati lanciati nel vuoto editoriale – ora e sempre – dai soliti quattro cavalieri dell’Apocalisse. Immaginatevi questi novelli scrivani fiorentini, tumulati in smart-working nei loro studi domestici, costretti a sorridere a denti stretti durante estenuanti videocall aziendali, obbligati per contratto sociale ad augurarsi reciprocamente tutto il bene possibile.

Immaginateli mentre riverniciano con un significato un tantino inquietante l’hashtag pandemico #celafaremo.

Ci siete riusciti?

Se la risposta è sì, siete pronti per il prossimo romanzo del secolo.

Siria, Libia e Yemen La guerra continua lontano dai riflettori

Il Coronavirus cancella le guerre: Siria, Iraq, Yemen, Afghanistan, i capitoli più cruenti del Grande Medio Oriente; e la Libia, a due passi da noi. Sparite. Detto così, sembrerebbe un dato positivo: l’epidemia si porta via un sacco di anziani dalle nostre case, ma riduce lo spreco di vite di giovani sui fronti dei conflitti.

In realtà, non è così: il contagio cancella sì le guerre, ma solo mediaticamente, dai notiziari radio e tv, dai siti e dai giornali; non ne azzera gli orrori. Anzi, in qualche caso – sta certamente accadendo in Afghanistan e in Libia – vi sono belligeranti che cercano di approfittare del disinteresse generale per acquisire vantaggi sul terreno: gli attentati dell’Isis a Kabul come i bombardamenti di Tripoli del generale Haftar avvengono nella distrazione (quasi) globale dei media e dell’opinione pubblica.

Non parliamo poi dei conflitti già di solito più dimenticati: nell’Africa sub-sahariana, per esempio, o nel Darfur o nel Sinai, tra il regime del generale golpista al-Sisi e gli oppositori criminalizzati della Fratellanza Musulmana. Non sono solo percezioni soggettive. Ricorriamo a un criterio oggettivo: la Siria è il fronte di guerra più mediaticamente esplorato negli ultimi mesi, perché vi sono di mezzo Turchia, Russia, Usa e perché le vicissitudini dei curdi suscitano emozione ed empatia. Nei primi due mesi di quest’anno, l’Ansa, la maggiore agenzia di stampa italiana, ha dedicato al conflitto siriano, che va avanti, cruento e senza sbocchi da nove anni, 404 dispacci, senza contare quelli diplomatici collaterali; dall’inizio di marzo, solo 155, di cui una trentina sul Coronavirus in Siria. Un arretramento netto, che può in parte spiegarsi con il fatto che tra gennaio e febbraio c’erano state recrudescenze del conflitto, con riflessi anche europei: gli scontri tra lealisti siriani e militari turchi, in territorio siriano, hanno innescato una nuova stagione di pressione di migranti alle frontiere dell’Unione, essendosi il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sottratto agli impegni sottoscritti nel 2016 con gli europei (e lautamente compensati). A marzo, una sorta di tregua: delle notizie, quanto meno. Anche quelle sui migranti alle frontiere con la Grecia e la Bulgaria hanno avuto meno attenzione di quanta ne avrebbero meritata e normalmente ricevuta. Scenari analoghi sugli altri fronti dell’arco di crisi: sull’Iraq, 376 notizie tra gennaio e febbraio (all’inizio dell’anno, c’era stata l’uccisione a Baghdad del generale iraniano Qasin Soleimani), soltanto 33 a marzo, di cui una dozzina sul Coronavirus; e sullo Yemen 14 notizie tra gennaio e febbraio, soltanto quattro a marzo, di cui una sul Coronavirus. Fa parzialmente eccezione l’Afghanistan: 74 notizie tra gennaio e febbraio, 42 a marzo e soltanto una manciata sul Coronavirus. Qui, la spiegazione è che dopo una lunga stasi – una fase d’attesa o una parentesi, dentro un conflitto che va avanti dal 2001, il più lungo e costoso mai combattuto dagli Usa –, alla fine di febbraio è scoppiata la pace tra americani e talebani; e s’è immediatamente riaccesa la guerra, in un Paese dove tutti la fanno da padrone e dove nessuno lo è: due presidenti l’uno contro l’altro proclamati; gli Stati Uniti e i loro alleati che stanno andandosene; i talebani, che si preparano a riprendersi il potere; gli sbandati del sedicente Stato islamico, che li osteggiano; e quel che resta di Al Qaida. Il sussulto d’attenzione era nei fatti: accordi, faide, attacchi, attentati.

Là dove l’effetto Coronavirus è stato più forte è però sulla Libia: 1225 notizie tra gennaio e febbraio, un sacco di attenzione sulla Conferenza di Berlino e le mosse sul terreno e le alleanza diplomatiche di Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar vivisezionate come fossero di vitale interesse nazionale. Dopo, nulla o quasi: a marzo, una cinquantina di titoli, di cui una decina sul Coronavirus. E non è che Haftar e al-Sarraj si siano messi in quarantena, anche se pochi giorni or sono hanno convenuto l’ennesima tregua nel segno dell’emergenza contagio. Quando usciremo noi dall’incubo della pandemia, scopriremo che le guerre di cui non si parla hanno magari fatto nel frattempo più morti del Covid-19. Una certezza ci consoli: avremo modo e tempo di recuperare le notizie perdute; quelle guerre ci aspettano, non finiscono mai.