Niente panico siamo inglesi, ma ora il governo ha il virus

Boris Johnson è positivo al virus, forse vittima della strategia iniziale del suo governo, quella che favoriva il contagio per garantire l’immunità di gregge. Lo ha annunciato lui stesso in un messaggio video da Downing Street ieri mattina: ha sintomi lievi, si è auto-isolato, continuerà a guidare il governo e, in caso di peggioramento, sarà sostituito dall’attuale ministro degli Esteri Dominic Raab. Positivo anche il ministro della Salute Matt Hancock, mentre il Chief Medical Officer Chris Whitty ha i sintomi e si è auto-isolato. Ora si teme il contagio dei ministri dei dicasteri più rilevanti, che si sono visti regolarmente alle riunioni del comitato di emergenza Cobra, fra cui il responsabile dell’Economia Rishi Sunak, di un numero imprecisato di parlamentari e funzionari e dei cronisti presenti alle conferenze stampa sull’emergenza, insomma il cuore della risposta britannica al Covid. Il Regno Unito ha sia l’erede al trono Carlo che il primo ministro infettati da un virus che nel paese si sta diffondendo a ritmi elevati: ieri un salto del 31% nel numero dei morti, 181 in 24 ore per un totale di 759.

Come in Italia, sulla affidabilità dei dati c’è più di un dubbio, visto che le procedure di raccolta non sono omogenee e che la legge di emergenza appena approvata dal parlamento consente la constatazione dei decessi da parte dei medici da remoto. Il governo continua i preparativi a rotta di collo: ieri ha iniziato a funzionare, con i primi 500 letti sui 4.000 previsti e un’ampia sala mortuaria, l’ospedale di emergenza Florence Nightingale al centro congressi Excel nell’est di Londra. Due simili saranno costruiti a Birmingham e Manchester, rispettivamente con 5.000 e 1.000 letti.

Che ci si aspetti un numero molto ampio di vittime è confermato dall’allestimento di una camera mortuaria all’aeroporto di Birmingham, inizialmente per 1.500 cadaveri. Resta enorme il problema della scarsità di materiale protettivo per il personale medico in prima linea: il Guardian ha rivelato che, nel 2017, l’allora ministro della Salute, il conservatore Jeremy Hunt, rifiutò di farne scorte perché sarebbe costato troppo. Scelta di risparmio per cui ora il paese paga un prezzo altissimo, politico e in vite umane.

 

Francia
L’ultimo saluto a Julie, 16 anni I poliziotti senza mascherine

Alle 20 di ieri delle candele accese sono comparse ai balconi di tutta la Francia in ricordo di Julie, 16 anni, morta giovedì all’ospedale Necker di Parigi: la più giovane vittima francese del Covid-19. Poco prima, come tutte le sere, Jérôme Salomon, direttore generale della Sanità, ha stilato il quotidiano bollettino del contagio: i casi ufficiali in Francia sono ormai 32.964, 3.809 di più in 24 ore. Il numero di morti è salito a 1.995, 299 in 24 ore. I francesi vivono “confinati” dal 17 marzo, ma le due settimane previste in un primo tempo, come sembrava inevitabile, non sono sufficienti. Ieri il premier Edouard Philippe ha annunciato che il blocco totale sarà prolungato almeno di altre due settimane, fino al 15 aprile. “Siamo soltanto all’inizio dell’ondata epidemica – ha detto Philippe – che ha sommerso le regioni dell’est e di Parigi”. Le regole non cambiano: si può uscire solo per necessità o per fare sport, ma non più di un’ora. In caso di controllo bisogna presentare l’auto-certificazione. Già 3,7 milioni di controlli sono stati effettuati, 225 mila multe. I poliziotti hanno minacciato lo stop per carenza di mascherine.
Luana De Micco

 

Spagna
La partita dei 9 mila test rapidi poco affidabili “falsa” i numeri

Sono 659 mila in tutto i test rapidi per il Coronavirus acquistati dal governo di Pedro Sanchez da un’azienda cinese e risultati non funzionanti. Di questi, 9 mila sono stati distribuiti alla Comunità di Madrid, la regione con più casi di Covid 19 in Spagna (19.243.) e subito utilizzati. La sensibilità dei tamponi – il 30% al posto dell’80 come i normali test ¬ non soltanto non ha rilevato le persone positive al Covid-19, ma evidentemente ha ritardato la conta dei contagiati e così “falsato” le statistiche degli ultimi giorni. Il ministro della Sanità, Salvador Illa, e lo stesso Sanchez hanno rassicurato i cittadini spiegando che i test sono stati rimandati indietro e che al loro posto è già stato acquistato un nuovo stock. Ma il dato non è irrilevante, se si pensa che il governo rosso-viola aveva puntato proprio sui tamponi con risposta in 15/20 minuti per frenare il contagio. Questo mentre il Paese iberico ieri contava il più alto numero di morti per Coronavirus in un giorno: 769, arrivando a 4.858 vittime totali. Quanto ai contagi, al contrario, ieri il trend è sembrato scendere per la prima volta in 15 giorni con il 14% di nuovi infettati, che in tutto sono ora 69.059.

 

Brasile
Bolsonaro minimizza l’epidemia ma i ministri non gli credono più

Fosse solo l’aspra accusa del britannico The Economist, che lo definisce “Bolsonerone”, cioè un Nerone che se la ride mentre il Brasile piange, il presidente Jair Bolsonaro, si farebbe una grassa risata. Peccato che minimizzare la pandemia di Coronavirus dapprima definendola “un’influenzina” e un “raffreddorino” e violando le norme minime contro il contagio, e poi opponendosi a misure di restrizione e isolamento per il suo Paese, gli stia mettendo contro anche i suo sostenitori, dai quali dipende la sua presidenza. Malgrado la positività al Covid-19 di ben 23 membri del suo staff, 3.000 contagi e 77 morti in Brasile, Bolsonaro infatti ha lanciato la campagna “Il Brasile non può fermarsi”, per promuovere la flessibilità nelle misure di distanziamento e puntare sulla ripresa economica. Una posizione contraria a quella del ministero della Salute, che lunedì ha chiesto di “restare in casa il più possibile”, nonché dei brasiliani, per l’80% favorevoli alla quarantena. A voltare le spalle al presidente sono stati anche i “suoi” governatori, i medici e il suo vice, Hamilton Mourão. Intanto al Congresso si fa spazio l’ipotesi impeachment.

“Da Siti a ‘Bel Amì’: tutte le mie mappe della quarantena”

“In questo periodo è inutile leggere romanzi distopici o di fantascienza, perché si è ribaltato il rapporto tra realtà e finzione. Meglio tornare ad altri mondi”. Teresa Ciabatti è, come tutti, costretta all’isolamento con marito e figlia di 10 anni in casa, “che andrà riabituata allo stare fuori, una volta finita l’emergenza”. E se lei, scrittrice finalista allo Strega 2017 con La più amata, è per mestiere costretta alla lettura, durante queste settimane di reclusione domestica vive un fenomeno particolare.

Quale?

Mi costruisco mappe nuove.

Ci spieghi meglio.

Le faccio un esempio. Ho appena letto il nuovo Walter Siti, La natura è innocente, nel quale vengono raccontate le vicende vere di un matricida e di un arrampicatore sociale, uno che attraverso il porno diventa ricco. Una sorta di Bel Ami contemporaneo. Siti costruisce mondi iperrealisti, storie che fino a un mese fa sarebbero state possibili, mentre oggi ci sembrano fantascienza.

E che c’entra la mappa?

Mi sono andata a rileggere Bel Ami! In questo periodo, la lettura permette di tracciare collegamenti che con l’urgenza del lavoro non ti puoi concedere. Qualcosa di appena uscito ti riporta ad altre letture.

Un secondo esempio?

Suite per Barbara Loden di Nathalie Léger, appena pubblicato da La Nuova Frontiera. La protagonista è stata un’attrice americana, che non tutti conoscono, seconda moglie di Elia Kazan. Nel 1964, Barbara recitò nel ruolo di “Maggie” nel dramma di Arthur Miller Dopo la caduta. Miller era stato a sua volta fino al ’61 marito di Marilyn Monroe.

Un intreccio contorto.

“Maggie” era chiaramente ispirata all’ex moglie morta e Barbara sembrava la Marilyn sbiadita. Ma questo mi ha portato a rileggere – e qui la mappa – Blonde, la biografia romanzata della Monroe scritta da Joyce Carol Oates. Un capolavoro.

Altri link?

Virginia di Emmanuelle Favier (Guanda): una bio, anch’essa romanzata, meravigliosa. E ora voglio riprendere tutta Virginia Wolf: un desiderio mai potuto realizzare per la mancanza di tempo.

E se dovesse suggerire un classico, invece?

(ride) Charles Dickens.

E perché ride?

Perché lo ripeto sempre, ma io per prima lo rileggo in continuazione, con trasporto, in modo ossessivo. Grandi speranze lo rileggo una volta ogni due anni e ci trovo sempre qualcosa di nuovo. Lo stesso vale per Alice o per il Giovane Holden (ride nuovamente).

Non è un romanzo divertente.

È un capolavoro. Sono io che sono una cretina.

Si butta giù?

L’avevo letto a vent’anni e avevo pensato: sì, carino. Non avevo colto nulla, tutti i rimandi, i sottintesi… Se non coglievo quelle cose pensa la vita…

I libri cambiano a seconda dell’età in cui li si legge.

(torna seria) Cambiamo noi, ed è per questo che andrebbero letti una volta ogni dieci anni.

La quarantena avvicinerà alla lettura?

Me lo auguro. Certo, è vero che le persone in questa condizione leggono, guardano film, organizzano uno spazio e un tempo che prima non avevano.

Sua figlia come la sta vivendo?

L’ha presa benissimo. Fino a un mese fa aveva paure, controllava tutto, temeva che i personaggi potessero uscire dallo schermo; adesso di colpo le ansie sono sparite. All’inizio ho pensato che questa situazione stesse mettendo a fuoco il fatto che i bambini vogliono tempo da passare con i genitori. Chiuse a casa, le persone che amano non sono in pericolo. Mi sembrava una risposta.

E invece?

Il sollievo è durato un giorno, perché mi sono resa conto che si tratta di una regressione. Ciò che fa paura è fuori e, se la quarantena durerà a lungo, una volta usciti avranno ancora più paura. È un benessere illusorio.

Vale anche per noi adulti?

Un adulto dovrebbe aver capito la differenza tra dentro e fuori, dovrebbe sapere che le paure e le angosce dipendono da quello che non si conosce. Per un bambino è diverso. Ho sempre cercato di abituare mia figlia al mondo e il mondo procura ansia, conflitti, però è esperienza.

Cosa consiglierebbe di leggere a un bambino in questo periodo?

Harry Potter, sempre per il discorso del ribaltamento.

Senta, i suoi rapporti con i social sono sempre stati conflittuali. Il 19 marzo è tornata su Facebook. Voglia di “contatti”?

Dovevo presentare un libro su Facebook! Non c’era altro modo. Richiuderò presto il profilo: mi affatica, non ho niente da dire. Mi sembra tutto così fuori logo.

Però ce lo confessi: sta scrivendo un nuovo libro?

Sì. È previsto per l’inizio del prossimo anno.

Arbasino-Mura e il paradosso del lettore calviniano

Nel giro di una settimana il giornalismo ha perso due fuoriclasse, tanto più tali per quel lettore che, come un personaggio di Calvino, ha l’abitudine di sfogliare il giornale partendo dal fondo. Subito, nelle pagine dello sport, il lettore si immergeva nei pezzi di Gianni Mura, erede di un giornalismo che traduce il gesto in parola e l’azione in epica (Hemingway era partito dal pugilato perché voleva diventare uno scrittore, non un pugile). Gemello diverso di Gianni Brera, meno espressionista, più umorale, ugualmente materico, se c’è stato qualcuno capace di mostrare che la scrittura è una disciplina agonistica dove si va in fuga e si taglia il traguardo soli, quello è stato lui. Avanti di qualche pagina, il nostro lettore trovava la sezione Cultura e Spettacoli completamente invasa dai pezzi di Alberto Arbasino, un narratore che aveva passato il confine con il giornalismo a Chiasso e non era più tornato indietro. Reportage e name-dropping senza frontiere dalle capitali, dalle mostre, dai teatri d’opera, dalle fiere… tutto ciò che difficilmente gli scrittori di oggi si adatterebbero a raccontare, se ancora ci fossero dei giornali disposti a pagarli per questo. Nell’informazione del terzo Millennio, si chiede il nostro lettore calviniano, ci saranno ancora dei Mura, degli Arbasino? O come consiglieri ci resteranno solo le Chiara Ferragni? Poi chiude il giornale e solidarizza con i due fuoriclasse. A volte, nella vita, non sappiamo più dove andare. Allora ce ne andiamo.

Pino Strabioli: “Attività fisica? Ma siete matti? Però cucino”

Dopo i saluti di rito (brevi), Pino Strabioli (subito) specifica la sua condizione: “Sono confuso”.

Non è il solo.

Lo so. Lo vedo. Lo sento in giro: è tutto stravolto.

Fa le pulizie?

Abbastanza (cambia tono, un po’ sorride) Mica tanto.

Quindi?

Ho un amico che è più bravo di me; io mi dedico alla spesa, almeno esco da casa.

Fondamentale.

Per fortuna il week end ho la trasmissione su Radio 2, ossigeno, e ci vado a piedi. (resta in silenzio).

Che succede?

In realtà è ossigeno sul momento, ma quando rientro in casa la domenica, e dopo aver finito, mi assale la depressione.

Legge?

Molto; consiglio il libro di Marco Risi, Forte respiro rapido. Bellissimo; poi Angelo Longoni; (cambia discorso) lo sa che oggi (ieri) è la Giornata mondiale del teatro?

E…

È la prima volta dal 1962 che non viene celebrata.

Film?

Quasi nulla, resto sui libri e la musica.

Allora musica…

Mina soprattutto e, siccome mi sto deprimendo, anche De Gregori, Tenco e Pino Daniele.

Attività fisica?

Ma che siete matti? Al massimo scendo qualche volta con il cane.

Scoperte?

Mi sono arreso alla tecnologia, e allora ho capito Skype e Instagram.

È già qualcosa…

Ah, ho pure cucinato la pasta con le zucchine e il filetto di merluzzo. (silenzio) Va bene, non è un granché, ma è qualcosa!

@A_Ferrucci

Bisogna fermare

“Lei comprende come, in un momento politico tanto delicato quale il presente, un’Autorità non perfettamente equilibrata, non compiutamente padrona di sé e dei suoi atti, possa rappresentare una seria fallanza, foriera d’imprevedibili sviluppi”

(da “La concessione del telefono di Andrea Camilleri – Sellerio, 2000 – pag. 33)

 

Ricorda un po’ La concessione del telefono, il romanzo epistolare di Andrea Camilleri trasposto qualche sera fa in tv con esiti alquanto opinabili, la grottesca “epidemia della modulistica” esplosa in questa emergenza sanitaria contro il contagio del Coronavirus. E lo diciamo, ovviamente, con tutto il rispetto per le cosiddette Autorità che hanno dovuto aggiornare e applicare le norme di contenimento disposte via via dal governo. Siamo arrivati ormai alla quinta edizione del modulo per compilare l’autodichiarazione che occorre per uscire di casa e recarsi al lavoro, per cause di “assoluta urgenza” e “situazione di necessità” o per “motivi di salute”. Ma ogni volta diligentemente stampiamo il nuovo testo, ammesso che si disponga di una stampante domestica, consumando carta, toner e cartucce: fra poco, continuando di questo passo, bisognerà aggiungere nel prossimo modulo anche la motivazione dei relativi rifornimenti di cancelleria. C’è evidentemente un rigurgito tecno-burocratico in questo rispettabile sforzo per contenere la diffusione del virus e imporre agli italiani l’isolamento domiciliare. È paradossale che, nella società della comunicazione, istantanea e interattiva, si debba ricorrere ancora a carta e penna per riempire un’autodichiarazione che – diciamo la verità – lascia il tempo che trova. E sappiamo bene che fine ha fatto nel nostro Paese la pratica dell’autocertificazione, con buona pace dell’ex ministro Franco Bassanini che ebbe il merito di introdurla nel lontano 1997.

“Ignorantia legis non excusat”, dice un antico brocardo del Diritto romano: l’ignoranza della legge non discolpa, non esime dall’obbligo di conoscerla e di rispettarla. E allora che bisogno c’è, nell’era della televisione e di Internet, di emettere ogni due per tre un nuovo modulo per l’autodichiarazione che si riduce in realtà a un lasciapassare fai-da-te? Tanto più che i cittadini ne apprendono normalmente l’emanazione dagli stessi media da cui apprendono l’introduzione delle nuove disposizioni governative. Delle due, l’una: o sanno già che non devono tassativamente uscire di casa se non per giustificati motivi, e li rispettano nell’interesse proprio e di tutti gli altri, oppure non lo sanno e allora non stampano e non riempiono il modulo. E purtroppo, non rispettano le regole.

In tutto questo, appena si prospetta l’ipotesi di controllare gli spostamenti individuali attraverso il telefonino, o magari una delle 319 app proposte al ministero dell’Innovazione, non manca chi protesta per la violazione della riservatezza, l’attentato alla privacy o addirittura alla libertà personale. È quella che il sociologo anglo-canadese David Lyon ha denominato la “società sorvegliata”, in un saggio pubblicato nel 2002 da Feltrinelli con una magistrale prefazione di Stefano Rodotà. Molti giuristi hanno già chiarito che, in casi di emergenza come questo, la telesorveglianza è giustificata in forza dei principi di proporzionalità e limitazione nel tempo. Qui non c’è il pericolo di un “Grande Fratello”, come potrebbe intenderlo Rocco Casalino, l’ex “gieffino” televisivo e oggi portavoce del presidente del Consiglio. C’è il rischio, piuttosto, che l’overdose di modulistica indebolisca la credibilità e l’autorità del governo, insidiando la fiducia dei cittadini nei suoi confronti.

Eppure la vita si è ripresa il suo spazio

C’è una liturgia che si compie fuori, dietro i vetri delle finestre, oltre gli scuri. Siamo finiti nell’immane privazione, eppure, fuori di noi – quasi fosse uno Spirito superiore a sussultare nella pietosa misericordia, a indicarci con il dito (che chiameremo persino salvezza) un inedito procedere – si sgrana un rosario di equilibri ristabiliti e rivelazioni celesti. Dove assediava l’uomo, oggi dimora la gentilezza. Straziante metafora.

Togliamo l’assedio dalla vita e scopriamo creature immacolate abitarla ancor meglio, con un gusto prezioso dedicato all’innocenza. Gli strali funesti dalle tv avvertono: moriremo. Certo. Prima o poi. Di cosa? In un tg, va meglio se si potesse affermare a scanso di equivoci: morire di Coronavirus e restiamo sul pezzo. Al limite, si vedrà. Nell’angoscia pandemica, si chiude la porta a doppia mandata, eppure, nel frattempo le rondinelle in cielo si lanciano in un volo nitido di sollecitudine e grazia, che ha una narrazione diversa da quel che il mondo sembra darci a sussiego delle nostre paure. La natura è cattiva, produce virus che stermineranno l’umanità. Piuttosto la natura si convoca nei giardini di una città siciliana, un cenobio di conigli par discutere animosamente sotto l’ombra di una magnolia. Dove un tempo dormicchiavano ubriaconi, all’ombra di una magnolia con il tronco punterellato di siringhe di insulina. Oggi la magnolia svetta sotto il sole incerto di marzo, alla sua ombra riparano creaturine animose. Leprotti dispettosi scattano più in là.

La tragicità della costrizione dimostra di non reggere un miracolo più saldo, perenne, e indifferente ai timori, all’elenco di morti, a parole dettate da oscuri profeti, in una visione catacombale di contagio apocalittico. La natura vibra il suo feroce ammonimento, è il sottotesto da leggere in talk monotematici e in qualsiasi conversazione, che non sa ancora scegliere tra complottismo e millenaristi di sette di fachiri della modernità. La natura piuttosto si convoca nelle acque del porto di una città siciliana, acque stranamente tese e verdi, barbagliano il sole di marzo verso raggiere indaco e nella complicità di un disegno marino: la curva dorsale è lucida, risplende negli sbuffi di una compagnia di delfini, agili come caprioli, raggiungono l’attracco, svuotato da ingombri in ottone e rovere. Così la grazia sostituisce l’assedio, delfini miti, dallo sguardo buono e vivace, osservano il mondo indirizzato nel dialogo serrato di una opportunità liberata, la propensione alla bellezza che stride opportunamente, perché dovremmo continuare a parlare di morte e malattia, ma fuori, dietro i vetri, la vita esplode in direzione di molteplici uscite di eternità o speranza sovrumana, miracoli alla portata dei nostri occhi, ancorché intristiti. In Spagna i tori non entrano nell’arena. Sono vivi. Smettono di morire infilzati, per un gaudio collettivo. Gli auditori della mattanza iberica sono a casa, serrati e costretti dal virus. A Wuhan riferiscono cronache clandestine come samizdat che il cielo avesse assunto in certi giorni il colore della carta da zucchero. Un cherubino sulla cima di un palazzo suonava il liuto nel pentagramma di una fiamma ardente d’amore. Non ci dovrebbe sorprendere questa ultima epifania, benché non sia accaduta. E nondimeno, perché no?

Le acque della laguna veneziana rinverdite, simili a ruscelli gettati in una fonte che non smette di dissetare, si susseguono placide, così come la nostra esistenza. Le acque si succedono nella laguna, limpide fino a raggiungere imi di insperata profondità e scovarli. Sembrano soltanto esempi di irragionevole antinomia. Potremmo pensare – fosse pure nel modo di una provocazione – che sia il mistero che si replica, come un soldato fiero e ardimentoso non si risparmia, in quella militanza orgogliosa e inarrestabile: la chiamiamo vita.

Virus, la scienza non è innocente

L’emergenza Covid-19 offre l’occasione per un ripensamento di molte cose: stato, finanza, lavoro, Europa. È importante partire con il piede giusto. A tale scopo propongo alcune riflessioni sul rapporto scienza/società. In un articolo sul Corriere della Sera del 26 marzo, Paolo Mieli parla di “colpe accumulate nel nostro rapporto con la scienza” e di autocritica da parte di chi oggi chiede di “fare presto” ma ieri “ha flirtato con il cosiddetto ‘popolo no vax’”. Mieli è un commentatore lucido e acuto. Mi preoccupa che anche lui, come molti altri, riduca la questione a un conflitto tra “pro” e “contro” la scienza, di cui il Covid-19 si incaricherebbe di dichiarare il vincitore. Le cose non sono così semplici. Proviamo a fare un po’ d’ordine. La ricerca è stata mortificata da tagli sempre più cospicui e sconsiderato era chi diceva che un paese che fa le scarpe più belle del mondo non ha bisogno di scienziati. Speriamo quindi di assistere a un robusto cambio di rotta. Ma se c’è stato un sottofinanziamento non è certo per colpa di veri o supposti oppositori della scienza, bensì perché altri interessi sono stati privilegiati, inclusi quelli di un ceto imprenditoriale nell’assieme poco vocato a ricerca e innovazione. L’emergenza offre l’opportunità di chiarire un punto cruciale, anche per capire il come e il perché degli interventi contro il virus: la differenza tra scienziato ed esperto. Stesso individuo, magari, ma ruoli diversi. Lo scienziato controlla oggetto e domande d’indagine. L’esperto affronta un problema che altri (o altro, come il Covid-19) gli pongono, tipicamente non inquadrabile in un singolo campo disciplinare. Nel dare indicazioni virologi ed epidemiologi devono tenere conto di aspetti economici, di ordine pubblico, di organizzazione ospedaliera, di disponibilità di presidi medici e così via, sul cui assieme nessuno è propriamente “competente”. Da qui esitazioni e oscillazioni, che, per non creare danni (ulteriori) in un pubblico disorientato non vanno negate ma spiegate. Come si comunica l’incertezza è fondamentale, in questa come in molte altre vicende. Mieli cita i no vax, assurti a emblema di chi è “contro la scienza”. Ma in questa come in analoghe controversie chi davvero considera la scienza inutile o dannosa è una sparuta minoranza. Molte ricerche, anche su vasti campioni come gli Eurobarometri, lo dimostrano. Ciò che spesso è descritto come “disagio pubblico verso la scienza” ha a che fare con altro. Tre i problemi principali.

1) La crescente commistione della ricerca, e quindi dell’interesse pubblico per il sapere, con altri interessi, privati e commerciali, con conseguente focus su programmi considerati più remunerativi e uso a tale scopo anche dei laboratori universitari, nella convinzione che, parafrasando quanto un tempo si diceva per la General Motors in USA o la Fiat in Italia, ciò che è bene per Big Pharma è bene per tutti. Non si tratta di colpevolizzare il settore privato ma di affrontare senza paraocchi ideologici le implicazioni della “neoliberalizzazione” della ricerca, spesso sottovalutate o “dimenticate” dagli scienziati ma ben presenti negli argomenti degli “oppositori”.

2) Il fatto che la scienza che combatte il Covid-19 è anche alla sua origine. Qualcuno ipotizza che il virus sia sfuggito a un laboratorio. Anche se non è così, e lo speriamo, c’è un consenso che la mutazione e trasmissione di agenti patogeni è agevolata dall’intensificazione dello sfruttamento di piante, animali, territorio, resa possibile dall’innovazione tecno-scientifica. In che forma e misura la libertà di ricerca vada contemperata con una riflessione pubblica sugli scopi cui si orienta è un tema cruciale, non liquidabile appellandosi alle virtù salvifiche della scienza. Anche di questo parlano gli “oppositori”.

3) ll “doppio binario” nell’uso pubblico della scienza. Da un lato, nei panni dell’esperto, si chiede affidamento ai cittadini. Dall’altro, quando le cose volgono al peggio, si reindossano velocemente i panni dello scienziato, ricordando la natura imperfetta di ogni evidenza scientifica e rimproverando il cittadino per la sua pretesa di certezza, quando questi chiedeva semmai chiarezza sui limiti di ciò che si può garantire e che sola consente una valutazione pubblica del rapporto costi/benefici dell’azione.

Chi oggi pensa che il Covid-19 sia una lezione salutare che riporterà nel recinto della scienza individui diffidenti e riottosi potrebbe trovarsi domani di fronte a un’amara delusione. Non è con la paura che si (ri)conquista fiducia e legittimazione, ma andando al fondo delle sue cause che l’emergenza sta facendo affiorare. Se non si approfitta dell’occasione per ripensare la relazione scienza->economia->politica->società il ritorno alla “normalità” potrebbe creare pericolosi contraccolpi di rigetto. I

science and technology studies, ignorati quando non avversati da molti scienziati e decisori, offrono indicazioni utili al riguardo.

 

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Noi genitori e il nostro Everest da scalare ogni giorno

Vorrei cercare di spiegare la difficile situazione di noi genitori in questo tempo. Abito a Carrara, zona fortunatamente senza nessun focolaio e con casi di positività ancora contenuti. Premetto che fare il genitore è il mestiere più bello del mondo, sicuramente difficile, soprattutto in un mondo alla deriva in termini sociali e culturali. Cerchiamo in maniera coerente di infondere nei figli la capacità di critica, allontanandoli dal pensiero unico e avvicinandoli al dubbio come mezzo di crescita. Spiegando magari in maniera semplice la differenza tra Ernesto Guevara e un Cazzaro Verde. Fare i genitori delle nostre tre figlie, per me e mia moglie vuol dire quotidianamente scalare l’Everest, difficile e impervio certo, ma sempre sul tetto del mondo. Adesso tutto è elevato all’ennesima potenza, non ci sono cuscinetti (scuola, attività sportive ecc.) ad ammortizzare le giornate e noi genitori ci siamo ritrovati in una full immersion con i nostri figli, a cui, ahimè, non eravamo pronti, abituati. Dico ciò, un po’ per sfogarmi, un po’ per mandare un abbraccio solidale a tutti i genitori del mondo che in questi tempi mantengono tra mille difficoltà, il loro ruolo primario nella società. Buon lavoro, siete l’unico giornale che leggo.

Simone Domenichelli

 

Prendiamola a ridere, almeno con Salvini

Il Prof. Conte dice a Matteo Salvini: “Caro Matteo, te lo dico con il cuore. Tu potresti essere un grande presidente se solo imparassi a pensare meglio”. Salvini va a casa con in testa la parola pensare e dice: “Mi sfugge il significato, ora lo vado a cercare sul vocabolario. Pensare, pensare, pensare… Ah, ecco: attività della mente per elaborare un’idea. Mente, fammi trovare che significa… Ah, questa la so: è la terza persona singolare del tempo presente del verbo mentire. Me la ricordo la grammatica, io! Io mento, tu menti, egli mente… eccolo! Quindi Conte voleva dire che devo imparare a mentire meglio. Eh già, pensare e mentire sono sinonimi. Eureka! I conti tornano. Sono un genio”.

Roberto Calò

 

Torneremo a parlarci come nel dopoguerra?

Ho pensato varie volte alla comunicazione tra le persone. Viaggio spesso in treno e vedo giovani e adulti che non staccano gli occhi dal tablet o dal telefonino, qualcuno ha le cuffie. Nessun cenno di saluto ai vicini. A me piacerebbe parlare con i giovani, sentire quali studi affrontano, quale autore letterario amano. Niente. Allora ho pensato spesso a quando ero piccola e andavo al mare con mamma, in autobus. Appena partiva iniziavano tutti a chiacchierare, a cominciare dall’autista (si poteva): chi voleva un finestrino più aperto, chi si offriva di sistemare i bagagli al vicino, tutti comunicavano e raccontavano, senza timore, la loro storia, eventi di guerra, lutti, ritorni, feste. Ognuno aveva un’esperienza da condividere. Mi sembra ancora di sentire la voce di mamma: “Mio marito è morto per le conseguenze della prigionia” altre donne intervenivano “anche il mio”, “quanti figli ha?” “solo una, questa” e mi indicava; io ero appiccicata al finestrino per timidezza e la odiavo. Poi aggiungeva: “Peccato è così magra, la porto al mare perché prenda un po’ di appetito” ed ecco i consigli su ricette portentose. A quel tempo non mi piaceva quel vociare, preferivo il silenzio e vivere la mia vita parallela nella fantasia, eppure adesso capisco che quel contatto era un desiderio di sentirsi uniti, di affrontare il dopoguerra. In questi terribili giorni mi sono ritrovata in una fila per la spesa, e una giovane signora si è rivolta, in malo modo, alla vicina anziana chiedendole di spostarsi perché, a suo parere, non rispettava la distanza. Nessuno è intervenuto, silenzio, sguardi cupi, addirittura qualche cenno di assenso. Mi chiedo con ansia, quando tutto sarà finito, se riusciremo ad avvicinarci, a comunicare le nostre emozioni o la distanza sarà ancora più completa? Ho nostalgia di un chiacchiericcio da vecchio autobus sbuffante.

Maria Simonetti

 

Passerà l’emergenza e la sanità tornerà (privata) come prima

Passata la festa, gabbato lo santo! Vecchio proverbio che potrebbe tornare di moda. Leggo sul Fatto di come la sanità si sia impoverita negli ultimi 30 anni. Ascolto di quanti sacrifici fanno i dottori, gli infermieri, il personale delle ambulanze, le forze dell’ordine in questi momenti così difficili. Ricordo che in occasione dei terremoti più vicini a noi tutti inneggiavano agli stessi eroi e alla stessa difficoltà di reperire ospedali. Poco è stato fatto e, passata la pandemia, tutto tornerà come prima. Le Regioni continueranno a foraggiare le cliniche private, il corpo sanitario continuerà a essere sottopagato e a fare turni impossibili? Le forze dell’ordine dovranno ancora presidiare uffici e scortare vecchi “personaggi”. Qualcuno metterà mano alla evidente stortura del SSN gestito male dalle Regioni?

Massimo Rossi

 

Il vero guaio sono le cliniche convenzionate

Mi è piaciuta la risposta del dr Barbacetto al professorone di Milano. Faccio il medico (chirurgo ortopedico da 32 anni e nel pubblico) e vi garantisco che la sanità pubblica risulta essere una rimessa economica per chi la gestisce (ma è un servizio pubblico e si presuppone che possa andare in perdita), mentre il vero distinguo va fatto tra sanità privata e convenzionata. Quest’ultima è il vero cancro dal punto di vista economico: gli utili vanno al privato e le perdite al pubblico. Andate a controllare gli stanziamenti per la sanità convenzionata e chi sono i proprietari (azionisti) delle case di cura convenzionate: troverete molti nomi conosciuti, spesso di politici e loro familiari, che partecipano agli utili del privato convenzionato che è una rendita incredibile. Poi sarebbe interessante controllare i Drg con cui vengono pagati gli interventi e scoprirete anche tanti interventi inutili o “forzati”. Poi, non a caso, a seconda del variare del “peso” dei Drg, variano anche le tipologie di interventi che vengono eseguiti nelle case di cura convenzionate in cui, nessuno si senta offeso, lavorano fior di professionisti e anche fior di furbacchioni. Tanto di cappello invece al “privato non convenzionato” in cui chi ci lavora e chi amministra ci mette il massimo e rischia il massimo.

E. G.

Università e ricerca. Ora tutti ci puntano, ma prima era solo un fardello da tagliare

Trovo sorprendente e nauseante l’enfasi con cui si sta continuamente facendo riferimento, nell’ultimo mese, all’importanza della ricerca. Persino da chi, per decenni, al grido di “la ricerca non si mangia” (cit. Berlusconi/Tremonti) ha contribuito in modo determinante allo svilimento sociale ed economico del ruolo del ricercatore. Ora si pretende una risposta immediata dalla scienza con l’emissione di ridicoli bandi di finanziamento a effetto immediato, come se una ricerca dagli esiti significativi si costruisse dall’oggi al domani… La questione del ruolo della scienza, delle sue possibili risposte e del finanziamento alla ricerca è certamente complessa, e non può essere affrontata sull’onda dell’emozione o dell’emergenza. Assistere alla santificazione quotidiana dei medici, dei sanitari, dei ricercatori, delle persone “competenti”, da parte di chi ne ha per anni deriso, infangato, svilito il ruolo denota una inaccettabile ipocrisia. Penso in particolare a tutti i mezzi di informazione e a tutti coloro che ne fanno ora, con giravolte e carpiati vari e senza vergogna, il loro cavallo di battaglia. Questo accade paradossalmente anche da parte di personaggi che, pur appartenendo (aggiungo indegnamente) alla categoria dei ricercatori, spasimano e fremono da anni dal desiderio di trovare un posto al sole in politica (si veda il vergognoso spettacolo dei candidati “civici” ex-rettori nelle Marche). È ora che si ripensi, a mente fredda e con lucidità, al ruolo della ricerca nella società.

L’agenda digitale svecchierà L’italia

Gentile direttore, concordo con l’invito di Roberta Lombardi al governo per rimodulare l’Agenda politica puntando su sanità, istruzione, ricerca, ambiente. Sono convinto inoltre che oggi non ci sia austerity che tenga e che sia necessario prendere le decisioni giuste per contrastare la pandemia e rilanciare il Paese. Fatte queste premesse, mi sento di evidenziare quanto sia importante per il futuro affrontare con coraggio la sfida della digitalizzazione. Qualche caso concreto può essere utile a capire di che cosa si tratta. Prendiamo ad esempio la pubblica amministrazione. Lo snellimento delle procedure potrebbe tagliare di 20-30 miliardi l’anno il cuneo fiscale. Nella sanità, introducendo il fascicolo sanitario digitale e centralizzando l’amministrazione sanitaria, le Regioni potrebbero risparmiare fino al 20% dei costi investendo poi il “tesoretto” nel potenziamento di strutture e personale. È incredibile che oggi in Italia esistano solo 7 Regioni che utilizzano la ricetta digitale perché il Garante della Privacy, interpellato sulla sicurezza dei dati nel 2016, non ha ancora fornito alcun indirizzo. Così come è incredibile che, nonostante una legge del ’99, la pubblica amministrazione abbia ancora un sistema misto carta-digitale che di fatto limita la trasparenza e blocca la diffusione dello smart-working, risolutivo per non fermare aziende. Su questi temi si può fare moltissimo.

Si intuisce quindi come le prossime nomine del Garante della Privacy e dell’Agcom siano un banco di prova importante. Trascorsa l’emergenza, la prima dovrà favorire la digitalizzazione, la seconda dovrà sostenere lo sviluppo della rete tlc in fibra. Mi auguro quindi che l’Agenda politica si concentri su questi temi, che potranno rilanciare l’Italia svecchiandola da una paralizzante burocrazia. In nome della trasparenza e di un cambiamento non più rimandabile nell’interesse dei cittadini, come da sempre auspicato dal Movimento 5 Stelle.