La svolta di Conte sulla Ue apre lo scontro con Gualtieri

La frattura è venuta improvvisamente allo scoperto giovedì sera. La veemenza con cui gGiuseppe Conte ha rifiutato la bozza di accordo proposta ai capi di Stato e di governo (Consiglio europeo) dall’Eurogruppo (ministri delle Finanze) illumina anche la distanza tra il premier e il suo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri e quella all’interno della sua maggioranza.

Un breve riassunto. C’è un pezzo di establishment italiano, Banca d’Italia compresa, che ritiene che l’Italia debba fin d’ora mettersi nelle mani della Troika accettando un aiuto del Mes con “condizionalità” (inizialmente) minime. A livello politico i fautori di questa opzione, Gualtieri in testa, sono all’interno del Pd, a partire dal commissario europeo Paolo Gentiloni, passando per il capo delegazione al governo Dario Franceschini e il ministro degli Affari Ue Enzo Amendola (tiepidamente contrarie, però, sono la “sinistra” dem e la segreteria Zingaretti, ma lo scontro non si è ancora espresso in sedi ufficiali).

La posizione dei pro-Troika è talmente scoperta che ieri firstonline.it ha pubblicato un report scritto per la Luiss School of European Political Economy e firmato da un gruppo di economisti tra cui Pier Carlo Padoan, deputato Pd e consigliere informale di Gualtieri, e da Lorenzo Bini Smaghi, ex Bce e soprattutto presidente di Société générale. Titolo: “La risposta italiana alla crisi sanitaria: pensare oggi il futuro del Paese”. Svolgimento: la crisi sarà assai brutta, bisogna fare una serie di cose per cui serviranno molti soldi (“5-10 punti di Pil”) e allora “va tenuta in considerazione la possibilità che l’Italia utilizzi una linea di credito precauzionale ‘aumentata’, offerta dal Meccanismo europeo di stabilità (Mes)”, cosa che poi “aprirebbe la strada alla possibilità di interventi illimitati della Bce in caso di bisogno” (attraverso il programma Omt, che la stessa Bce, peraltro, ha fatto sapere di giudicare inadatto a questa crisi).

Insomma, all’Eurogruppo Gualtieri ha lavorato avendo in mente questa impostazione, tanto è vero che martedì non s’è opposto formalmente all’invio al Consiglio europeo di giovedì della proposta di azionare il Mes con le previste condizionalità (modello Grecia), ancorché minime al momento in cui il programma viene attivato: una previsione priva di senso visto che da Regolamento Ue le condizionalità possono essere cambiate unilateralmente dai creditori se il Paese “aiutato” non rientra abbastanza in fretta.

Conte era stato convinto dal suo ministro (e da Banca d’Italia) che questa fosse l’unica via e che fosse possibile arrivare a un “Mes senza alcun tipo di condizionalità”, cioè l’intervento chiesto nella sua intervista al Financial Times di circa una settimana fa.

Nel frattempo però, per salvare le banche (soprattutto francesi), la Bce aveva avviato il suo programma anti-pandemia (Peep) stabilizzando gli spread e un pezzo della maggioranza giallorosa s’era ribellata al ricorso alla Troika: i gruppi parlamentari 5 Stelle hanno attaccato pubblicamente Conte. Martedì poi, alla fine dell’Eurogruppo, si è scoperto che aveva ragione chi dubitava che il blocco dei Paesi del Nord – e cioè la Germania e i suoi satelliti – avrebbe acconsentito a modificare i Trattati in senso solidaristico: la proposta era il Mes con la “rigorosa condizionalità” prevista dai Trattati.

Nasce allora il cambio di rotta del premier e il conflitto col suo ministro Gualtieri: Palazzo Chigi, a quel punto, prima ha provato a sparigliare con la lettera in cui nove Paesi (Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Slovenia, Grecia, Irlanda, Belgio, Lussemburgo) chiedevano una qualche forma di eurobond contro la crisi da Covid-19, poi – visto il no piuttosto duro di Berlino & C. – è passato allo scontro duro. “Se qualcuno pensa all’uso di meccanismi di protezione elaborati in passato allora voglio dirlo chiaro: non disturbatevi, ve lo potete tenere, l’Italia non ne ha bisogno”. Parole rivolte ai leader europei che, però, parlano anche al suo ministro dell’Economia (che non le ha gradite) e a quel pezzo di establishment (e di Pd) che vuol dichiarare la resa prima che sia iniziata la guerra.

Disegni, foto, poesie: è la nostra caccia al tesoro tra i cassetti

Visto che dobbiamo “stare a casa”, chi vuole condividere con gli altri la sua vita in quarantena può farlo sulle pagine del Fatto. Siamo una comunità e mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto, raccontateci cosa fate, cosa inventate per non annoiare i figli e non allarmare i nonni, quali libri, film e serie tv consigliate all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.

 

Papà vignettista e figlio scrittore

Siamo dei Vostri appassionati lettori e in questo momento particolare per tutto il Paese siamo lieti di condividere con voi un po’ della nostra nuova vita del #iorestoacasa. Che dire, ognuno ha la quarantena che si merita e da noi non c’è male, c’è chi scrive e chi disegna (le vignette di Sirjo sono in alto a destra, ndr). Come va? Ce la caviamo e cerchiamo di combattere la pazzia sempre latente continuando a far girare un po’ di quella materia grigia che ci è rimasta. Insomma, genio, poco, sregolatezza TANTA. Siamo anche mediamente intonati ma non cantiamo affacciati alla finestra… Così, mentre Sergio (il papà, categoria a rischio per le tante lune trascorse) fa le sue vignette, Alessandro (il figlio, categoria a rischio per mestiere) scrive, finalmente “cazzeggiando” seriamente si gustano entrambi le proprie libertà e modalità di espressione. GRAZIE sempre per l’attenzione che dedicate a noi lettori da parte di tutta la nostra famiglia…

 

State a casa o stay home?

Oltre alla pandemia dilaga l’anglomania: lockdown, smart working, checkpoint, cluster, triage, drive-thru, runner, test, clinical trial, whatever it takes… il virus mondiale diffonde con sé anche la lingua della globalizzazione. Oggi, senza conoscere questi anglicismi propalati (e non tradotti) da giornaliste/i televisivi freschi di Erasmus, non si può fronteggiare l’emergenza. Oppure occorre chiamare Amazon per farsi recapitare a domicilio un dizionario di inglese. Ah, perfida Albione… niente hanno da dire i Soloni della Crusca di fronte a questa invasione nel nostro lessico, proprio nell’anno di Dante, padre della lingua? Ideona: dobbiamo tradurre tutto in inglese, solo così ci salveremo. Come si dirà tampone o mascherina? Oh yeah… alla faccia della Brexit! Stay home …anzi stasìv a cà, come si dice in dialetto!

 

Si ritrovano pezzi di vita tra i cassetti

“State a casa, non uscite”. Dopo avere sentito questo invito da parte del Governo, la prima cosa a cui ho pensato è stata: “Ecco, ora avrò tempo per leggere quei libri e fumetti che ho comprato e non sono ancora riuscita a leggere”. Sembra facile, ma non lo è. Ho una nonna anziana, la quale, ovviamente, dato che non si può uscire vorrebbe farlo. Così, per tenerla occupata e distrarla, abbiamo pensato, con mia mamma, di iniziare a mettere a posto gli armadi e i cassetti di casa. Naturalmente la nonna ci aiuta guardandoci, dandoci il suo sostegno morale, e così passa il tempo. È l’occasione per ritrovare cose che non ricordavamo di avere, una sorta di caccia al tesoro. E i libri da leggere? Beh sono sempre lì …. che aspettano altre occasioni.

 

Piccoli maestri zen crescono in clausura

Io e il mio bimbo (nella foto, ndr) cerchiamo di non farci assalire dallo stress e dall’ansia! In bocca al lupo a tutti. Andrà tutto bene!

 

La forza di un popolo abituato alle fatiche

A protezione di Pietro che gioca con i soldatini, Papi (pastore bergamasco) vigila fingendo di sonnecchiare (nella foto in alto, ndr). È un cane abituato da secoli alle fatiche e al lavoro, come lo sono le genti bergamasche. Forza dunque bergamaschi, forza tutti noi italiani.

 

La nuova linea del Piave disegnata dal virus

In questi giorni di clausura, l’infotainment è dominato da sindaci dalla mascella volitiva, da governatori vestiti di orbace, da podestà con gli stivali, tutti con il petto in fuori per proteggere i sacri confini. Non esiste piccolo agglomerato urbano che non sia bagnato dal Piave. La parola d’ordine è: “Respingere”. Se poi intere famiglie dormono in auto sul molo di Villa San Giovanni in attesa di un lasciapassare, se i cittadini cacciati dagli alberghi del Piemonte si scoprono apolidi si tratta solo degli effetti collaterali di una guerra civile non dichiarata. Anziché organizzare i rientri dei propri “figli”, prevedendo per loro una quarantena obbligatoria presso apposite strutture o presso le proprie abitazioni, si preferisce dire: “di qui non si passa!”. Ma il Piave non mormorava solo ai danni dello straniero?

Fedez: “Codacons vuole bloccare le donazioni”

Parafrasando un noto proverbio, si potrebbe dire che tanto il Codacons è andato al comunicato stampa che ci ha lasciato lo zampino. Che, nella bagarre scatenatasi ieri a colpi di tweet e di storie su Instagram, ha preso le sembianze di Fedez che ha scoperto il peccato originale dell’associazione per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori: pubblicare in media 4 comunicati al giorno. Ma che poi lo facciano per costituirsi parte civile nel maggior numero di processi e ottenere il risarcimento è un’altra storia. Qui ci occupiamo di quella che ha coinvolto il rapper. Che andiamo a ricapitolare. Il 25 marzo il Codacons ha chiesto che GoFundMe restituisca agli utenti quanto incassato attraverso commissioni ingannevoli e costi occulti applicati alle donazioni per l’emergenza Coronavirus. Si tratta della piattaforma usata dai Ferragnez per raccogliere 4 milioni di euro a favore dell’ospedale San Raffaele. Ma i tanti italiani che hanno contribuito si sono trovati a donare anche a GoFundMe, spesso senza esserne consapevoli, come ha spiegato l’Antitrust che ha aperto un’indagine, dopo la denuncia del Fatto, imponendo la cessazione delle commissioni.

Il Codacons ha così chiesto che queste commissioni vengano “restituite ai donatori”. Apriti cielo. Prima Fedez ha chiesto che l’associazione ritirasse la richiesta per evitare che i soldi destinati agli ospedali venissero bloccati e poi ha lanciato l’accusa: “È il Codacons ad aver lanciato una campagna di crowdfunding per aiutare se stessa inserendo sulla propria home page un richiamo al Coronavirus”. Insomma, per Fedez si rischia di donare soldi a un’associazione che con l’emergenza non c’entra niente. Ma c’è di più: si spiega che chi lo fa può anche risparmiare sulle tasse future, perché sono previste agevolazioni fiscali. Il presidente del Codacons Carlo Rienzi ha smentito che le donazioni ricevute vadano alla sua associazione, spiegando che “sono già 33 le azioni, diffide, ricorsi e denunce fatte sul problema del Coronavirus”. Fatto sta che oltre alla raccolta fondi, tra i loro comunicati si possono trovare le indicazioni sui servizi messi a disposizione: ma sono numeri a pagamento, così come hanno un costo i moduli da scaricare. E se si decide di aderire, dopo aver pagato su Paypal, ci si ritroverà iscritti all’associazione. Forse senza saperlo. Così come non erano a conoscenza delle commissioni gli utenti che hanno donato su GoFundMe.

“Trasportiamo i contagiati e non ci fanno i tamponi”

In trincea, come sempre, ci sono anche in vigili del fuoco. L’incubo Coronavirus continua e nell’immaginario collettivo in prima linea ci sono solo gli operatori sanitari. Ma in realtà, soprattutto nelle zone più critiche del Nord, dove le ambulanze non bastano più da giorni, sono stati anche i pompieri a soccorrere malati sospetti Covid, avvolti in tute bianche rispondendo alle chiamate dei numeri di emergenza.

In un’area come quella di Bergamo, in Lombardia, dove il morbo più si è diffuso, spiega Massimiliano, “facciamo mediamente quindici interventi al giorno, con una percentuale prossima al settanta per cento per il trasporto di malati con tutta probabilità contagiati Covid verso gli ospedali dedicati: in buona sostanza qui abbiamo un aggravamento quindi dell’impegno sul lavoro con tutta la particolarità della vicenda: trattiamo come positivi conclamati tutti i sintomatici, perché non abbiamo una banca dati”.

Il bollettino Covid-pompieri attualmente registra un vigile del fuoco morto, Luigi Morello, 53 anni, capo del distaccamento di Sala Consilina, provincia di Salerno, nove intubati in gravi condizioni e sessanta in quarantena, “ma – denuncia Costantino Saporito del sindacato Usb – come si può pensare che i colleghi contagiati siano così pochi?”. “Lavoriamo – continua il sindacalista – quasi tutti senza mascherine perché ne abbiamo poche, le attrezzature sono inadeguate già in periodi normali… e, soprattutto, non siamo calciatori né vip, quindi a noi i tamponi non li fanno se già non rantoliamo…”. Da Varese i pompieri del distaccamento locale lanciano un appello: “Aiuto! Noi come sempre veniamo al lavoro per garantire la sicurezza di tutti, ma quello che sta succedendo è assurdo. Siamo stati abbandonati dallo Stato che serviamo. Siamo obbligati a lavorare senza mascherine perché ne abbiamo pochissime e quelle a disposizione ci servono per gli interventi di trasporto dei malati Covid. Quindi, poi, dopo l’intervento stiamo a contratto tra noi senza nessuna protezione. All’inizio dell’emergenza avevamo ottenuto di non spostarci dalle rispettive aree di competenza delle caserme, ma lo Stato che serviamo ha deciso di non pagare le ore di straordinario e così ci costringe a continui spostamenti per coprire i turni di tutti, anche fuori zona”.

E nel frattempo quando il Coronavirus comincia a diffondersi nelle caserme le stesse vengono chiuse, serrate, con ulteriore disagio per territori stremati che non possono più contare sugli “angeli in rosso”. È successo per squadre di interi turni a Crema, Alghero, Abano Terme, Padova; non è successo incredibilmente al distaccamento di Grottaminarda, provincia di Avellino, a dieci chilometri dalla zona ultra-rossa di Ariano Irpino: “Rimaniamo aperti – racconta Giuseppe – e andiamo e veniamo da Ariano Irpino, ma non abbiamo né mascherine né l’attrezzatura minima per poter agire in sicurezza. Siamo del tutto esposti al rischio esponendo di conseguenza anche i nostri familiari”.

A Lampedusa c’è Giovanni: “Sono arrivato questa mattina col volo di servizio tra Palermo, Trapani e Pantelleria. Lampedusa è ferma, immobile, a parte vigili del fuoco e sanitari per gli interventi non si vede quasi nessuno. Ieri abbiamo assistito una signora anziana con Covid, qui non ci sono molti casi ma abbiamo la preoccupazione che l’isola possa trasformarsi in un lazzaretto se il contagio esplodesse e a quel punto lo dico chiaramente: noi non siamo pronti a reggere l’urto”.

Come si svolge un intervento per trasportare un malato Covid, c’è un protocollo? Risponde da Bergamo il vigile del fuoco Massimiliano: “Il capo-squadra in posto s’informa con chiunque nel vicinato sulla condizione della persona da soccorrere e soprattutto se la persona è in casa. Perché l’equipaggio 118 è composto da due persone, quindi tutti gli interventi, siano piani alti o piani bassi, sono a supporto o in sostituzione delle squadre di sanitari che come noi hanno avuto una forte riduzione del personale qui… almeno a Bergamo abbiamo i dispositivi di protezione personale adesso, non è così ovunque”. Un vigile del fuoco mediamente guadagna 1.350 euro al mese.

Il papà del 34enne morto: “Call center sicuro”

Caro Direttore, inutile iniziare dal dolore della mia famiglia per la morte di mio figlio. Oggi, in cui avremmo desiderato solamente un po’ di silenzio, non possiamo permettere che il nostro dolore diventi oggetto di cronaca, per giunta inadeguata. Mai avrei pensato di dover scrivere al suo giornale – e in particolare in riferimento all’articolo pubblicato lunedì 23 marzo 2020 a firma di Daniela Ranieri, dal titolo “34enne morto: lavorava al call center “pollaio” – che strumentalizza la morte di Emanuele per insinuare ipotetiche colpe del call center per cui lavorava mio figlio.

La causa della morte di Emanuele non è imputabile alle condizioni di sicurezza messe in campo da Youtility, ha accusato i primi sintomi in rientro da un viaggio in Spagna. Fino all’ultimo, Emanuele si è sempre sentito al sicuro in azienda, quella era la sua seconda famiglia. Da pochi mesi aveva ottenuto la promozione a quadro e purtroppo non ha avuto il tempo di godersi questo successo.

Penso che la vostra categoria sia davvero preziosa. E ora che il nostro Paese deve fronteggiare un’emergenza così violenta e drammatica, il vostro lavoro acquista ancora più valore. È indispensabile avere un’informazione professionale che tenga conto dei valori del buon senso e del rispetto. A maggior ragione adesso.

Avremmo bisogno oggi di essere solidali con tutti coloro che sono, a diverso titolo, a servizio del Paese.

 

Gentile Signor Guglielmo Renzi, questa lettera ci addolora profondamente. Mentre non possiamo nemmeno immaginare il sentimento che l’ha determinata, sappiamo di aver scritto mettendoci al servizio di una causa giusta, che era quella di dar voce a giovani lavoratori che purtroppo non ne hanno, e non possono certo dire di aver avuto con l’azienda la medesima esperienza positiva di Suo figlio Emanuele. Nessuna delle persone che ci hanno contattato si è sentita come in famiglia nell’azienda, specialmente allo scoppiare dell’emergenza Coronavirus, quando alcuni lavoratori hanno dovuto chiamare le forze dell’ordine per veder rispettati i loro diritti. Nessuno mette in dubbio che Emanuele lavorasse in sicurezza: purtroppo non così centinaia di altri suoi colleghi. Abbiamo raccolto in queste settimane il grido di aiuto che giungeva da varie categorie di lavoratori, tra cui quelli dei call center, esposti a possibili contagi per il fatto di dover condividere spazi affollati, senza protezioni e senza potersi avvalere dello smart working, anche dopo il decreto dell’8 marzo che lo raccomandava. Il caso ha voluto che la lettera di denuncia di un operatore giungesse proprio dalla Youtility pochi giorni prima dell’evento luttuoso che ha riguardato la Sua famiglia, infatti noi l’abbiamo pubblicata in data 10 marzo. L’articolo del 23 marzo dava conto di un aggravamento dell’allarme ed era diretto a tutelare i lavoratori che ancora prestavano la loro attività nell’edificio (dove lavorano di regola circa 2000 persone), ulteriormente preoccupati dopo aver appreso la notizia mediante il passaparola e non dai loro datori di lavoro. Ci siamo fatti portavoce di colleghi di Suo figlio, Signor Guglielmo, suoi coetanei o anche più giovani, ciascuno figlio o nipote di persone magari anziane o malate, comprensibilmente spaventati dopo la notizia della tragica morte del loro collega e amico, preoccupati di non ricevere sufficienti informazioni dall’azienda, in particolare circa l’ultimo ingresso di Suo figlio nell’edificio, circostanza su cui esiste una denuncia dei Cobas. Mai abbiamo detto o insinuato che Emanuele si sia contagiato in azienda; abbiamo piuttosto segnalato che tutti i luoghi di lavoro organizzati in quel modo, senza distanze di sicurezza e in situazione di promiscuità e condivisione di microfoni, possono diventare focolai di infezione se ci fosse anche uno solo lavoratore contagiato. Non spetta a noi muovere accuse di carattere legale, che spettano a ben altre Istituzioni. Noi abbiamo il dovere di dare notizie e descrivere quello che avviene a tutti i livelli della società, e lo facciamo scegliendo di metterci sempre dalla parte dei più deboli. Ci permetta ad ogni modo di farLe le nostre più sincere condoglianze.

Morandi, virus tra gli operai. Ma il cantiere andrà avanti

Un operaio ammalato. Un secondo con la febbre a 38. Altri venticinque in quarantena. Il Coronavirus arriva nei cantieri del ponte Morandi. Genova è deserta, nei grandi stradoni del Ponente cittadino si vedono soltanto camion diretti in porto e rarissimi pedoni strattonati dalla tramontana con le borse della spesa e la mascherina. L’unico rumore nell’aria è quello delle gru e dei martelli che sollevano blocchi di cemento e picchiano sull’acciaio per realizzare il progetto di Renzo Piano. Centinaia di operai con i guanti e la mascherina continuano a lavorare.

Adesso, però, il virus ha superato le grate del cantiere: un operaio della ditta Fagioli di Reggio Emilia è stato fermato all’ingresso. Come ogni mattina all’inizio del turno gli era stata misurata la temperatura ed è emerso che aveva la febbre. Subito sono scattate le procedure di controllo e si è capito che era affetto da Coronavirus. In pochi minuti lui e i colleghi della sua ditta sono stati messi in quarantena nell’albergo dove alloggiano. Intanto in cantiere un secondo operaio ha manifestato sintomi di raffreddamento e febbre ed è stato immediatamente sottoposto a tampone. I lavori, però, procedono. Così era stato concordato tra governo, enti locali, commissario e sindacati. Ora, però, c’è chi comincia a domandarsi se non sia il caso di fermare i lavori per salvaguardare la salute degli operai impegnati. Anche a costo di far slittare la consegna (nelle scorse settimane un nuovo troncone è stato completato). “Abbiamo avuto una videoconferenza con il sindaco Marco Bucci. Non abbiamo chiesto il fermo del cantiere, ma un rallentamento, perché qui c’è gente che lavora in condizioni complesse, rischia. Adesso si aggiunge questa preoccupazione anche perché ci sono lavoratori che arrivano da molte regioni d’Italia, anche da zone dove il Covid-19 è particolarmente diffuso. Ma se lavori con la paura in un cantiere puoi farti molto male”, spiega Federico Pezzoli, segretario generale Fillea Cgil di Genova. Aggiunge: “Finora, va detto, nel cantiere le norme sanitarie sono state rispettate in modo molto scrupoloso. Il sindaco ci ha dato garanzie, tutto il cantiere sarà sanificato. Ora speriamo che il contagio non si diffonda, in quel caso sarà la Asl a decidere se bloccare i lavori. Certo, per noi la sicurezza viene prima di tutto, di qualsiasi smania di andare avanti e tagliare nastri”.

Molto preoccupato Stefano Giordano, consigliere comunale M5S, che negli ultimi mesi è già intervenuto più volte sulle condizioni dei lavoratori del cantiere: “Il ponte ormai più che un’opera pubblica è diventato un simbolo. In tanti si sono impegnati sulla data di completamento dell’opera. Ma proprio per questo occorre stare attenti che i diritti e le tutele dei più deboli non passino in secondo piano. Mi preoccupano certo gli aspetti sanitari e le precauzioni prese contro il contagio”, spiega Giordano. Ma aggiunge: “Bisogna, però, stare molto attenti anche allo stress. Parliamo di operai che già lavorano sospesi a cinquanta metri d’altezza e maneggiano masse enormi. Insomma, fanno un lavoro pericoloso.

Intanto sono continuamente pressati da scadenze, inaugurazioni e tappeti rossi. Adesso devono anche operare con la mascherina, i guanti di lattice e con il timore di rispettare distanze di sicurezza ed evitare contatti. Non solo: diverse ditte in subappalto hanno già ritirato i loro dipendenti”. Giordano già negli scorsi mesi ha presentato diversi esposti in Procura sulle condizioni di lavoro nel cantiere del ponte: “Ho chiesto ai magistrati di fare chiarezza perché a noi risulta che ci siano stati molti infortuni. Ci risulta che si lavori anche con condizioni meteo difficili, mentre in altri cantieri scatta la cassa edile. Siamo sicuri – conclude Giordano – che si debba continuare a lavorare per rispettare una data o forse sarebbe meglio chiudere il cantiere?”.

Fin dal 17 febbraio sapevano: nessuno comprò respiratori

Il 17 febbraio, al ministero della Salute, viene presentato dal direttore della Programmazione sanitaria Andrea Urbani il piano per un’eventuale pandemia da Covid 19. Ci sono una trentina fra sottosegretari, dirigenti, professori, responsabili della Protezione civile, qualche ufficiale, insomma la task force che il ministro della Salute Roberto Speranza riunisce dal 22 gennaio, con tanto di foto giornaliera su Facebook, dopo aver detto che “il Servizio sanitario nazionale è dotato di professionalità, competenze ed esperienze adeguate ad affrontare ogni evenienza”. Roba che a leggerla oggi, tre mesi e novemila morti dopo, con migliaia di medici ammalati per mancanza di mascherine, corre un brivido lungo la schiena.

Professionalità e competenze, certo. Al servizio sanitario mancano i mezzi. Il dottor Urbani però ha le idee chiare. Scenari, modelli matematici, previsioni su come l’Italia può essere colpita dal virus, che il 17 febbraio in realtà è già arrivato ma l’hanno trovato solo su due cinesi ricoverati allo Spallanzani di Roma e poi curati; per il resto non l’hanno cercato granché. Urbani spiega che ci può andare bene, male o malissimo. Dove male vuol dire qualche migliaio di contagi, secondo alcune fonti otto/novemila in breve tempo e comunque richiedere un potenziamento delle terapie intensive, alle quali sono destinati circa il 5 per cento dei pazienti secondo gli studi sull’epidemia in Cina. Malissimo significa milioni di contagi.

Gli scenari del dottor Urbani rimangono segretissimi, non vengono nemmeno consegnati a tutti i presenti, né alle Regioni che hanno quasi tutte le competenze sulla Sanità. Ma non si muove nulla. La Protezione civile, il cui direttore Angelo Borrelli è dal 31 gennaio commissario per l’emergenza, sta già cercando mascherine, che non troverà perché all’estero se le tengono. Nessuno pensa, in quel momento, a comprare ventilatori per la terapia intensiva, benché sappiano – come tutti – che hanno pochi posti letto. 5.300 in tutta Italia, pochissimi nel Centrosud e nelle regioni in cui la Sanità è commissariata. Nessuno valuta davvero il fabbisogno delle regioni, forse anche perché l’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, è stata decapitata a dicembre. Al ministero aspettano. Al governo sono fieri di aver chiuso i voli dalla Cina a fine gennaio. Due giorni dopo la presentazione di Urbani, il 19 febbraio, siamo in emergenza: a Codogno (Lodi) scoprono il presunto “paziente uno”, capiscono che il virus è già andato in giro per il Basso Lodigiano e in Veneto. Il 23 fanno le zone rosse al nord. Ma per le terapie intensive aspettano ancora. Riunioni, scenari. Una lenta ricognizione sulle esigenze regionali.

Il 29 febbraio (1.130 casi che raddoppiano in 2-3 giorni e 29 morti) dalla Salute chiedono informazioni alle Regioni sui posti disponibili e danno qualche indicazione sui trattamenti. Il 1° marzo chiedono di aumentare del 100% i letti di Pneumologia e Malattie infettive e del 50% in Terapia intensiva, utilizzando le sale operatorie con la sospensione dell’attività chirurgica. Ma per i maledetti ventilatori perdono ancora tempo. Solo il 5 marzo (148 morti e le Rianimazioni lombarde già in crisi) il ministero indica alla Protezione civile un fabbisogno di 2.375 apparecchi tra terapia intensiva e subintensiva (caschi Cpap). Il giorno dopo il bando Consip per altri 5.000, si chiude il 9 ma è tardi: molte di quelle macchine non arriveranno mai. Servono ad altri Paesi, più forti di noi, ma non l’hanno previsto. Chiamano il commissario Domenico Arcuri per fare l’impossibile. Ora i 5.300 letti sono quasi novemila. Intanto l’impossibile lo fanno medici e infermieri. Le terapie intensive sono in sofferenza anche nel Lazio, dove ci sono solo 126 malati Covid in rianimazione e però c’è sempre meno spazio per chi ha l’ictus, l’infarto e tutto il resto.

Oggi Speranza non risponde al Fatto. I suoi ammettono che “siamo in affanno”, perché “l’impatto è stato enorme” e “noi tutti speravamo che non lo fosse”. Il ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia, nega di conoscere i modelli del 17 febbraio e dice: “Il raccordo con la Protezione civile è stato la Salute fino al decreto dell’8 marzo, quando sono intervenuto in corsa per il raccordo con le Regioni”. La politica si nasconde dietro i tecnici. Urbani non può parlare. Fonti qualificate del ministero della Salute dicono che “non si potevano comprare cinquemila ventilatori quando c’erano solo due cinesi allo Spallanzani. Avremmo speso un miliardo di euro, saremmo stati accusati di sperperare denaro”. Cinquemila no. Mille, nel dubbio, forse sì. Se fosse andata benissimo, sarebbero serviti per altre emergenze.

“Indosso la stessa mascherina da un mese: ci mentono mentre noi rischiamo in corsia”

“Un mese. Guardi questa mascherina, dall’inizio dell’emergenza indosso la stessa. Non ce ne hanno date altre, né a me, né agli altri medici o infermieri”. Parla Augusto, chiede di essere chiamato così perché “sennò va a finire che mi licenziano perché ho detto la verità”. Augusto lavora in un ospedale ligure, è un medico esperto, ha passato la sessantina, dal primo marzo lavora “dalle dodici alle sedici ore al giorno per curare malati di Covid 19”.

Non serve chiederglielo, glielo leggi addosso: gli occhi spenti, il camice stazzonato, il fonendo che pende da una tasca. Scusi, dottore, ma lei non ha paura? “Di morire? Certo, sono in un’età a rischio e ho patologie pregresse. Se me la prendessi e la terapia intensiva fosse a tappo… i miei colleghi potrebbero decidere di non ammettermi nel reparto e non potrei biasimarli, bisogna scegliere chi ha maggiori possibilità di guarire”. Quindi è vero che qualcuno non può essere curato? “C’è una regola non scritta che, però, tutti conosciamo. A parità di altre condizioni i nati dopo il 1960 hanno accesso prioritario alla terapia intensiva. Per chi ha più di sessant’anni la precedenza va a chi non ha commorbilità… cioè non io”. Eppure è qui in corsia: “Non sono un eroe. Non è vero, ci verrebbe anche lei se avesse dedicato la vita a fare il medico. Verrebbe senza farsi domande e la paura, come a me, le verrebbe alla sera togliendosi il camice e questa mascherina che va bene per Carnevale”.

Non le fa rabbia rischiare la pelle così? “Mi fa rabbia la mancanza di verità. I primi giorni mi sono sentito dire che non ci davano le mascherine perché non servivano: una balla colossale, non ce le davano perché non c’erano. Perché, nonostante si sapesse da mesi che poteva arrivare il Coronavirus, non si èprovveduto a procurarle. Vale per lo Stato, come per le Regioni. Manca verità quando si tace che da decenni in Liguria, con la sinistra o la destra, si sono smantellati ospedali pubblici. Prima dell’epidemia volevano privatizzarne quattro o cinque rischiando di lasciare ai privati le attività redditizie e rifilare al pubblico le più onerose. Hanno smantellato anche pneumologie. Ecco il risultato”.

Intanto si leggono i dati della mortalità: in Germania si muore molto meno. Bisticci statistici? “Forse, ma non solo. Credo davvero che in Italia si muoia di più, non solo perché abbiamo più anziani. Da noi ci sono 5 mila posti di terapia intensiva, in Germania 28 mila. Questo è essenziale per salvare vite umane visto che non esistono vaccino, né cura”. Anche questa è mancanza di verità? “Sì, quando tutto sarà finito dovremo ricordarci che nell’Est asiatico avevano imparato dalla lezione della Sars e hanno affrontato il Coronavirus in modo efficace. Ci accorgeremo finalmente che lo smog aumenta il rischio in caso di virus: non è soltanto che forse il particolato trasporta il virus. Chi vive in zone inquinate ha il sistema respiratorio danneggiato ed è più vulnerabile. Ora scusi, vado in corsia”. Con la solita mascherina? “Sì, e dovremmo cambiarla ogni nove ore. Posso accettare il rischio, ma diteci la verità”.

Ventilatori, solo 16 in Puglia e 273 in tutta la Lombardia

In Puglia ne sono arrivati appena sedici, in Umbria una ventina e nella regione più colpita dal Coronavirus, la Lombardia, appena 273. È la corsa al reperimento dei ventilatori polmonari, fondamentali per le terapie intensive dove vengono curati i casi più gravi di contagio. Mancano ovunque e i 3918 previsti dopo l’aggiudicazione della gara Consip del 9 marzo arrivano a rilento. Durante la video-conferenza di due giorni fa con le Regioni, il commissario Domenico Arcuri di fronte alle critiche di molti governatori ha ammesso: “Almeno la metà dei ventilatori della gara Consip verrà consegnata solo alla fine dell’emergenza che, come noto, non si prevede breve”. E poi ieri in conferenza stampa ha detto: “Oggi consegnamo 136 ulteriori impianti di terapia intensiva, negli ultimi due giorni ne abbiamo consegnati 242. Negli ultimi 3 giorni abbiamo consegnato 9,6 milioni di mascherine”. Ma vediamo fino a ieri, tra mascherine e ventilatori polmonari, quanti ne sono stati consegnati alle diverse Regioni e se sono sufficenti a coprirne il fabbisogno.

Lombardia. L’assessore al bilancio Davide Caparini in video-conferenza con Arcuri due giorni fa ha detto chiaramente: “Voglio sapere se ci darete quello che abbiamo chiesto, altrimenti mi arrangio da solo con la nostra centrale acquisti e con le donazioni dei privati”. Stando ai numeri raccolti fino al 26 marzo, di fronte a una richiesta di 1.152 ventilatori polmonari per la terapia intensiva necessari per i primi trenta giorni, ne sono stati consegnati appena 236. A questi si devono aggiungere 37 ventilatori da subintensiva. Non va meglio per le mascherine: la Lombardia ha calcolato, tra quelle chirurgiche e quelle professionali (le Ffp2 e Ffp3, considerate più sicure per la trasmissione del virus) un fabbisogno di circa 30 milioni di pezzi sempre per i primi 30 giorni. Dalla protezione civile ne sono state consegnate 2,1 milioni. La Regione quindi ricorre anche alle donazioni private, come quella di Generali che ieri ha portato alla consegna dei primi ventilatori importati dalla Germania.

Puglia. Sulla stessa linea dell’assessore al bilancio della Lombardia, anche Michele Emiliano: “Se esiste un mercato parallelo che voi non riuscite a gestire, allora io compro da solo”, ha detto il governatore della Puglia in video-conferenza con Arcuri. E anche nella sua Regione i ritardi si sentono: a fronte di un fabbisogno di 408 ventilatori polmonari, ne sono stati consegnati finora appena 16. Non va meglio per le mascherine. Fino a ieri pomeriggio, di quelle chirurgiche ne sono arrivate 304 mila a fronte di una richiesta di 135mila al giorno. Di quelle Ffp2, la Protezione civile ne ha consegnate 59.615, ma il fabbisogno giornaliero della Regione è di 33.500. Necessitano anche di 30 mila mascherine Ffp3 al giorno, ma ne sono state inviate fino a ieri appena 6.355.

Umbria. La Regione ha richiesto una 60ina di ventilatori polmonari con l’obiettivo di aumentare i posti letto nelle terapie intensive. Ne sono arrivati venti: 12 per la terapia intensiva, otto per la sub-intensiva. E alcuni avevano anche dei “difetti”: arrivando dal mercato estero alcuni mancavano dell’attacco per l’ossigeno oppure riportavano indicazioni per l’utilizzo in cinese. Problemi ora risolti. Per quanto riguarda le mascherine, invece, fino a ieri in Umbria ne sono arrivate circa 500 mila, di cui almeno 260 mila “montrasio”, ossia quelle ritenute inefficienti per il loro utilizzo in ambito ospedaliero. La Regione ha poi reperito autonomamente altre 500 mila mascherine.

Toscana. Dei sei ventilatori polmonari che erano stati richiesti, non ne è arrivato neanche uno. E così la Regione, che ha intenzione di aggiungere altri 280 posti letto in terapia intensiva ai 447 già esistenti, ne ha noleggiati una trentina. Altrettanti dovrebbero arrivare dalle donazioni. Per le mascherine si è ricorso al “made in Tuscany”: una quindicina di aziende (tra cui terzisti delle grandi firme, da Gucci a Dior a Ferragamo) ne stanno producendo in “tessuto-non tessuto” che sono state anche analizzate dalla facoltà di chimica dell’Università di Firenze. Il fabbisogno giornaliero, secondo i dati della Regione, ammontano a 230 mila mascherine. Di quelle Ffp2 e Ffp3, la Protezione civile ne ha consegnate 65 mila e altre 30 mila dovrebbero arrivare oggi.

Lazio. Nella regione di Nicola Zingaretti dal 6 al 26 marzo, ossia due giorni fa, sono state distribuite circa un milione e mezzo di mascherine. Di queste 55 mila “montrasio” sono quelle fornite dalla Protezione civile. Le altre sono state reperite in modo autonomo: 980 mila mascherine chirurgiche, 336 mila Ffp2 e 15 mila Ffp3. La Regione ha acquistato anche 5.200 camici impermeabili monouso, 36 mila tute idrorepellenti e 32 mila calzari.

Sicilia. Rispetto alle richieste, le forniture arrivate in Sicilia sono davvero poche. Sono state richieste 5.249.557 mascherine di tipo Ffp2 e Ffp3, ne sono arrivate 60.480, di cui 18.820 ieri. 13.649.000 era il numero di mascherine chirurgiche richieste e ne sono state consegnate dalla Protezione Civile 174 mila. Molto a ribasso anche i rifornimenti di occhiali protettivi (1.397 quelli arrivati a fronte dei 476.987 chiesti) e di mascherine full-face (ieri ne sono state consegnate 2.614, 6.073 erano le richieste). E poi ci sono i tamponi: ne erano stati chiesti 500 mila, fino a ieri la Protezione Civile ne ha forniti 4.200. Così anche la Sicilia ha avviato l’auto-produzione dei dispositivi anti Covid-19.

Dimessi ma spediti in Rsa e hospice: 2.400 ex pazienti

Ottomila e zero uno. Tanti sono i dimessi in Lombardia, dall’inizio dell’epidemia a oggi. Tra i numeri del bollettino che l’assessore al Welfare Giulio Gallera ogni giorno legge nella sua diretta Facebook “Lombardia notizie online”, sono quelli di solito accompagnati dalla rincora al sorriso. “MA oggi abbiamo avuto ANCHE 200 dimessi, 200 pazienti Covid che non sono più malati e hanno lasciato i nostri ospedali. Questa è una buona notizia”: ha detto ieri. Il giorno prima, i dimessi erano stati 1.501, quello prima ancora 990. Ma degli 8.001 dimessi in tutto, da quel maledetto 21 febbraio, il 30% – circa 2.400 persone – ha sì lasciato l’ospedale, ma è stato re-indirizzato verso gli hospice, le strutture per le cure palliative e l’assistenza ai malati terminali, e verso residenze sanitarie assistenziali, le case di riposo, presenti in tutta la regione.

A lanciare l’allarme qualche giorno fa era stato Marco Agazzi, presidente Snami-medici di famiglia di Bergamo. “Poiché negli ospedali bisogna liberare posti letto – aveva detto al Fatto – i pazienti Covid convalescenti vengono mandati nelle strutture per gli anziani, col rischio che queste diventino a loro volta dei focolai”. Per lo più si tratta di pazienti Covid “clinicamente guariti”. Vale a dire senza più sintomi come tosse, febbre, mal di gola. Questo però non significa che “guariti” in effetti lo siano. “Noi non sappiamo se hanno ancora una carica virale”, spiega Agazzi. Per averne certezza, è necessario eseguire due tamponi a distanza di 24 ore l’uno dall’altro e, entrambi, devono risultare negativi (con esito validato dall’Istituto superiore di sanità). Ma sappiamo che coi tamponi, visti i numeri dell’emergenza, In Lombardia non si riesce a star dietro ai “sospetti” Covid, figurarsi ai pazienti dimessi.

La questione, però, è fondamentale. Perché è proprio con il rischio di essere potenzialmente ancora contagiosi che i pazienti Covid dimessi dagli ospedali varcano la soglia di altre strutture sociosanitarie. E – stando anche al dato confermato dallo staff dell’assessore Gallera – succede per un dimesso su tre. La strada per liberare posti letto del resto è tracciata. Lo ha deciso la giunta del governatore Attilio Fontana di fare ricorso alla rete degli hospice. Con una delibera del 23 marzo che stabilisce, con “ulteriori determinazioni in ordine all’emergenza Coronavirus”, l’istituzione di un supporto di cure palliative, “per la presa in carico dei pazienti Covid complessi, cronici e fragili” sia in ambito domiciliare, sia attraverso l’attivazione di percorsi di consulenza.

I nuovi ricoveri per questi pazienti – nella maggioranza dei casi tutti over 75 – sono già scattati, come conferma la case di cura Domus Salutis di Brescia. Assieme all’istituto Maugeri e a una struttura della Fondazione Don Gnocchi hanno preso in carico i pazienti Covid dimessi a Brescia, una delle zone più colpite dal virus. “Ci sono due tipologie di trattamento: quella domiciliare e quella in reparto”, spiega Luigi Leone, direttore sanitario della Domus Salutis. “Parliamo di pazienti che possono essere ancora contagiosi e quindi dobbiamo attrezzarci per garantire la tutela dell’operatore sanitario e per assicurare l’assistenza adeguata. Arrivano tutti da ospedali pubblici che devono essere alleggeriti. Noi abbiamo separato i percorsi di accesso per non ripetere gli errori che sono stati fatti in passato dai pronto soccorsi, ma dobbiamo stare molti attenti. Nelle Rsa o in altre strutture sociosanitarie è già entrato qualcuno infettato: ed è stata una strage”.

A Milano anche l’Istituto Palazzolo della Fondazione Don Gnocchi ha aperto le porte ai pazienti Covid dimessi. In questo caso non parliamo però di un istituto per “cure palliative”, ma di una residenza per gli anziani (Rsa). È sempre Regione Lombardia ad aver chiesto alla Fondazione Don Gnocchi la disponibilità ad accogliere i “clinicamente guariti” nei due hospice afferenti la struttura. Disponibilità ancora in corso di valutazione, secondo i vertici della Fondazione. All’istituto Palazzolo, dopo i primi ricoveri, sono arrivati infatti anche i problemi. E, per molti dei parenti degli anziani che si ammalano, e che spesso già versano in condizioni precarie, l’accusa di “procurata epidemia” inizia a levarsi sempre più forte. È il caso della figlia di un’ospite 71enne, una donna in buona salute ma affetta da demenza senile, morta di Covid19: la figlia ha consegnato un esposto in procura. Il legale della famiglia chiede l’autopsia della 71enne: ipotizza il reato di omicidio colposo per una cattiva gestione e per la diffusione colposa dell’epidemia.

Il ricorso alle Rsa e agli hospice per i pazienti dimessi Covid non piace ai parenti degli ospiti ma nemmeno ai medici. “Parliamo di strutture, soprattutto le residenze per anziani, dove ci sono persone estremamente fragili”, dice Agazzi. “Un paziente Covid impone misure di protezione importanti: non bastano divisioni fisiche, serve anche personale addestrato, che non può e non deve muoversi da un reparto all’altro. Servono i dispositivi di sicurezza… Ecco perché continuo a ripetere: gli errori che stiamo facendo continuano a essere tanti. Troppi. Perché se ora siamo in guerra, combattiamo, ma quando finirà, ci sarà la resa dei conti. E porteremo i nostri amministratori in tribunale”.