“La Regione più ricca ci ha del tutto abbandonati”

“Sono uno dei duemila medici di famiglia di Milano. Burocrate, mi chiamano. Fabbricante di ricette. Ma lavoro otto ore al giorno, tra visite ai miei 1.700 pazienti e preparazione delle ricette. Anzi: lavoravo, perché ora sto molte ore al telefono, ad ascoltare e supportare chi sta male, magari ha i sintomi del coronavirus. Ma io non ho gli strumenti per curarli”.

Giovanni Peracchi ha il suo studio nella zona di viale Monza, a Milano. Tra i suoi pazienti, anche molti stranieri. “Oggi ho 25 assistiti che hanno i sintomi del virus. Ogni giorno se ne aggiungono due o tre. Se moltiplichiamo questo numero per duemila, quanti sono i medici di famiglia a Milano, abbiamo 50 mila sospetti contagiati, più i loro famigliari. Ma nessuno li vuole contare. Del resto è impossibile: noi medici non abbiamo i tamponi per dire se davvero sono contagiati. Hanno i sintomi dell’influenza. Se continuano ad avere febbre oltre i sette giorni io li ritengo sospetti Covid-19 e li metto in isolamento a casa, con tutti i loro famigliari. Ma non ho i tamponi per saperlo con certezza. La Ats, l’azienda sanitaria territoriale, non ci ha dato alcuna indicazione di come comportarci. All’inizio dell’emergenza, ci è arrivata una email in cui ci è stato detto di non chiederli proprio, i tamponi, perché sono, testuale: ‘Riservati ai pazienti sintomatici in fase di ricovero ospedaliero’: così c’era scritto. Ho sentito l’assessore Giulio Gallera dire in tv che chi ha sintomi e vuole un tampone può andare in pronto soccorso. Non è vero. I tamponi non ci sono e io ho fatto fatica perfino a ricoverare in ospedale un paziente con polmonite: mi dicevano di aspettare, di contargli i respiri al minuto. In Germania si sono attrezzati e i pazienti possono fare il tampone drive-in, senza neppure scendere dall’auto. Io invece non posso dare alcuna sicurezza ai miei pazienti: li tengo in isolamento, anche se non ho alcuna certezza che i loro sintomi siano da Covid-19 e non da normale influenza. Famiglie che si chiudono in casa angosciate, che non possono uscire e devono trovare qualcuno che faccia loro la spesa e la lasci davanti alla porta”.

Impossibiltà a individuare l’inizio del contagio, ma anche la fine. “Per quanto tempo li tengo in isolamento, i miei 25 sospetti? Dopo 15 giorni senza sintomi? Siamo sicuri? Nessuno mi dà indicazioni. Ci vorrebbe un tampone per decretare la guarigione, ma non c’è. Eppure la Lombardia è ricca, più ricca del Veneto, ci sono state molte donazioni private. Ma i soldi per i tamponi non ci sono. E io, come tutti i miei colleghi, non riesco a stabilire né l’ingresso, né la fine del contagio. Ho visto in tv la vicesindaca di Brescia piangere, chiedendo più tamponi. E Gallera che le rispondeva che basta andare al pronto soccorso. Non è vero. Attenzione: io non chiedo il tampone per tutti, so che non si può fare, che ci vogliono ore per analizzare ciascun tampone. Lo chiedo per i pazienti malati, per sapere se sono malati di Covid e poi se sono guariti. Non lo chiedo per me, che sono stato lasciato senza protezioni, né per i miei colleghi che corrono il rischio di infettarsi, di diffondere il virus, in alcuni casi di morire. Non abbiamo alcuno strumento per difenderci, ma io li chiedo per i miei pazienti malati”.

Italiani e stranieri. “I cinesi sono scomparsi, si sono chiusi in casa dall’inizio dell’epidemia. Ma io ho pazienti filippini, sudamericani, nordafricani. Anche loro si ammalano, ma spesso non lo dicono, perché hanno paura di perdere il permesso di soggiorno o il lavoro. Niente. Andiamo avanti senza lamentarci. Ora Fontana ha detto che aumenterà i tamponi (anche in presenza di un solo sintomo). Vedremo. Ma è mai possibile che la Regione più ricca d’Italia finora ci abbia lasciato così?”.

Il piano regionale lombardo travolto dal virus in 72 ore

Il treno parte dalla stazione Termini quando sopra Roma è già calata la sera. Su una delle carrozze siede un gruppo di persone. Sono anestesisti, direttori di reparto e ricercatori dei più importanti ospedali di Milano. Poche ore prima erano in un’aula dell’Istituto superiore di sanità per una riunione scientifica sugli effetti che in quel momento SarsCov2 sta producendo nella regione cinese dell’Hubei e nella città di Wuhan. Hanno ascoltato le parole del presidente Silvio Brusaferro, si sono snocciolati scenari sul contagio e ipotesi terapeutiche.

È circa la metà di gennaio e le previsioni degli esperti sono ben distanti dallo tsunami che poco più di un mese dopo travolgerà la Lombardia. In quei giorni d’inverno però già si sa che per quel patogeno respiratorio, sconosciuto fino a poche settimane prima, non c’è al mondo né cura né vaccino. Non solo: l’ipotesi che una epidemia in Italia possa aggredire prima di tutto le terapie intensive è già molto più che concreta. Su quel treno che corre verso Milano, medici e scienziati ne parlano e mettono giù un piano. Lo annotano a mano e lo concludono con una cifra: 105. Ovvero i numeri di letti di terapia intensiva che bisognerà ricavare in più in Lombardia per fare fronte a un’eventuale epidemia. Questo sarà il piano strategico regionale fino al 20 febbraio, data in cui l’Italia scopre il primo paziente Covid. Oggi i nuovi posti di terapia intensiva sono 1.100 (non 105), senza contare i 250 che arriveranno con il costruendo ospedale alla Fiera.

L’idea di partenza pensata su quel treno di ritorno da Roma è quella di lavorare nelle strutture già esistenti, ricavando circa 7 posti letto nei 15 ospedali lombardi con il reparto di rianimazione. Si decide anche la logistica optando non per un isolamento singolo come avviene ad esempio allo Spallanzani di Roma, ma per un isolamento coorte (tutti in uno stesso ambiente), visto che i pazienti Covid non possono contagiarsi tra di loro. Questo permetterà ai medici di vestire e svestire gli indumenti di protezione solo una volta. L’idea ha un senso, non le previsioni dei numeri che imporranno un radicale cambio di strategia. Nonostante tutto, la cifra di 105 portata sul tavolo della Regione Lombardia diventerà a tutti gli effetti il piano strategico regionale per affrontare le polmoniti interstiziali bilaterali provocate dal Covid-19. Prima di quella metà di gennaio, l’Unità di crisi in Regione si era già riunita una prima volta il 9. Da quel momento e fino a ridosso del 20 febbraio poco si farà per prepararsi all’arrivo di Covid-19. Non solo, quella cifra non cambierà mai, nemmeno quando, a inizio febbraio, le immagini che arrivano dalla Cina si fanno drammatiche con decine di morti e centinaia di ricoveri.

A partire dal 21 febbraio e dopo una riunione convulsa ai piani alti del Pirellone, quei 105 posti saranno polverizzati in meno di due giorni. A oggi i letti in terapia intensiva per malati Covid sono 1.450, un numero dieci volte superiore alla cifra strategica fissata dai vertici regionali. Prima del focolaio zero di Codogno in Lombardia i letti di terapia intensiva erano 726, di questi circa 300 rientrano nel dato dei 1.450, il che significa che a partire dal 21 febbraio sono stati creati ex novo 1.150 posti, un numero che confrontato con i 105 previsti inquieta e non poco. Eppure, come già rivelato dal Fatto, nelle riunioni di febbraio all’Istituto superiore di sanità il dato di un collasso probabile delle terapie intensive viene più volte ribadito. Anche a fronte di simulazioni matematiche sulla curva del contagio. Nulla succede. Il governo minimizza il rischio, convinto che la soluzione sia la chiusura dei voli da e per la Cina. Eppure il 5 gennaio una nota del ministero della Salute descriveva con precisione i sintomi di Covid-19 specificando che “le radiografie al torace (su pazienti cinesi, ndr) mostrano lesioni invasive in entrambi i polmoni”. Insomma calcoli e comunicazioni iniziali erano sbagliati. Questo per diversi motivi. Sottovalutazione del rischio certamente, ma anche la relativa impossibilità di prevedere un tale scenario in una Lombardia che ieri ha raggiunto i 37.298 contagi. Tanto che il professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano spiega: “Attorno alla metà di febbraio pensavo, sbagliando, che l’Italia l’avesse scampata”. Non era così, anche perché il virus, come scoperto dallo stesso Galli, girava nel Basso lodigiano dal 26 gennaio. Ora, per sopperire a questo vuoto e cercare più positivi, la Regione Lombardia ha rilanciato sui tamponi anche ai monosintomatici. Alle nove di ieri sera la cifra totale superava i 95 mila test.

“Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre città”

Ieri sera, alle 18, papa Francesco è apparso da solo nel mezzo del sagrato di San Pietro per la preghiera straordinaria anti-pandemia. Dietro di lui l’immagine della Salus Populi Romani, icona bizantina di Maria conservata in Santa Maria Maggiore e il Crocifisso di San Marcellino, venerato dai romani da quando, nel 1500, “scacciò” la peste a Roma. Al termine il Papa ha infine impartito la Benedizione “Urbi et Orbi” davanti alla piazza vuota con la possibilità di ricevere l’indulgenza plenaria in streaming. È la prima volta che accade. Di seguito un estratto del suo discorso.

Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: “Siamo perduti”, così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.

È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. (…)

La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. (…)

Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli. (…)

Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. (…)

Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita.(…) È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: “Che tutti siano una cosa sola”.

Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. (…)

In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi.

(…) “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi.

Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: “Voi non abbiate paura”. E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi”.

Il giorno più nero. Il numero del diavolo è 969 Mai così tanti morti in 24 ore

Novecentosessantanove morti: 969 decessi in un giorno in Italia. È il giorno più nero quando si consuma l’ormai estenuante rito della conferenza stampa alla sede romana della Protezione civile e l’Italia davanti alla televisione non riesce a trovare conforto dalle parole degli esperti che parlano di fotografia dell’epidemia a 20/25 giorni fa, di miglioramento della situazione, di curve che si abbassano, di picco raggiunto o quasi, di risacche delle gigantesche ondate passate. Il presente s’inchioda su quel numero record, mai raggiunto prima dall’inizio dell’incubo pandemico: 969 morti in Italia.

E allora è il giorno più nero: il conto di chi non ce l’ha fatta raggiunge 9.134 vittime. Quota 10 mila pare là a un passo. Cifre fredde, percentuali, statistiche, grafici, che nascondono vite, disperazioni, vuoti per l’assenza magari improvvisa, per l’impossibilità di un saluto degno perché i funerali non si possono fare per nessuno, così ha deciso Covid-19. Tornando ai freddi numeri, l’Italia registra un altro triste sorpasso sulla Cina nel giorno più nero, il numero complessivo dei contagiati: 86.498, mentre laggiù in oriente sono a 81.897 casi ufficiali, nonostante lo Stivale sia abitato da 60 milioni di persone e il gigante asiatico da quasi un miliardo e mezzo di anime. Il giorno più nero per l’Italia è ancora una volta il giorno più nero per la Lombardia, l’estremo fronte di questa battaglia di cui ancora non si vede la fine con date-confine, come il 3 aprile, a cui nessuno crede più. E allora nel giorno più nero nella terra dei focolai lombardi, tra Bergamo e Brescia, tra Milano e il resto della regione capofila dell’operoso Nord i morti sono stati 541, più del 50% sul dato nazionale.

Però il giorno più nero, ore prima dell’estenuante rito, era cominciato con le parole del governatore della Lombardia, Attilio Fontana: “Contagi in calo, sta per cominciare la discesa”. Ha indicato la classica luce in fondo al tunnel. E infatti la curva di crescita dei nuovi malati – 4.401 che portano il totale degli attualmente positivi in Italia a 66.414 – è rimasta “stabile”. Dal 23 marzo, infatti, l’incremento giornaliero dei malati oscilla tra il 7 e l’8%, mentre una settimana fa si attestava attorno al 13-15%. Freddi numeri, fredde percentuali, che nel giorno più nero consentono di dire al presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e al direttore del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli: “Sì, siamo di fronte ad un rallentamento della crescita. Stiamo osservando segnali chiari di efficacia delle misure di contenimento”. Ma “bisogna continuare così”, ripetono gli esperti e i politici. E quindi Locatelli nel giorno più nero ufficializza che quella data-confine, quel 3 aprile, fra sei giorni, ormai è già da considerarsi un limite saltato, sarà soltanto uno di questi giorni sospesi con le vite sospese, chiusi in casa se si è fortunati, mentre c’è chi soffre e c’è chi muore. Andare oltre, molto oltre il 3 aprile “sarà inevitabile – spiega Locatelli –, non siamo in una fase marcatamente declinante ma in una fase di contenimento”. E quando la curva comincerà a scendere davvero in maniera significativa e costante, avverte l’esperto a reti unificate nell’unica televisione possibile nelle case d’Italia, bisognerà immaginare “alcuni mesi in cui adottare misure attente”. In cui le vite dei fortunati resteranno quasi sospese.

Altro che 3 aprile, ed “è improbabile che a maggio ci saranno le more e le ciliegie” (dice il virologo Massimo Galli a Skytg24), sperando che basti il 31 luglio indicato orizzonte estremo dal premier Giuseppe Conte. E arriva prima il 31 marzo: su invito di Palazzo Chigi martedì gli edifici pubblici dovranno esporre la bandiera a mezz’asta “in segno di lutto per i morti di Covid-19, di vicinanza ai familiari, di partecipazione al cordoglio”, battono le agenzie. Il giorno più nero scorre così tra l’estenuante rito della Protezione civile, le parole di papa Francesco nella surreale piazza San Pietro deserta e l’appello all’Europa del presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella.

Afghanistampa

L’altroieri vi abbiamo lasciati col fiato sospeso sulla colonna di tank russi in marcia da Roma a Bergamo, frutto della svendita dell’Italia a Putin decisa fra il lusco e il brusco dal putribondo Conte e svelata da uno dei migliori segugi de La Stampa: il leggendario Jacopo Iacoboni. Allarme raccolto da Radicali, +Europa e altre nanoparticelle, fra cui Gennaro Migliore di Iv, per dire quanto è attendibile. Ma ci sono sviluppi. Stando al piccolo Le Carré, i 32 temibili medici militari inviati da Mosca per invaderci e colonizzarci con la scusa del virus, non a caso armati di 100 mila mascherine (per non farsi riconoscere) e 30 ventilatori polmonari (per gasare i ricoverati), si sono “acquartierati nella foresteria Pio IX di Roma, di solito riservata allo Stato maggiore dell’esercito italiano” che, anziché passarli subito per le armi, li ha addirittura lasciati “acquartierare”. Poi il viaggio in autostrada, miracolosamente scampato ai viadotti griffati Benetton e concluso col “dispiegamento nell’area di Bergamo”. Ma, assicura il nostro ghostbuster, “la cosa non dissipa i timori”, anzi. Gli invasori fingono di portare aiuti, protezioni e tecnologie all’ospedale da campo, ma in realtà mirano a ben altro.

E chi meglio di quel volpone di Jacopo può spiegarcelo. È vero che, digiuno di storia, ignora i trascorsi di casa Agnelli con l’Urss. Però ha consultato “qualcuno dotato di una certa cultura storica”, purtroppo anonimo, ma munito di mappamondo e Bignami (a cui hanno strappato le pagine su Putin che, ospite di B. a Villa Certosa, sbarca a bordo di un sommergibile nel tunnel scavato negli scogli con uno dei tanti abusi edilizi poi condonati o coperti da segreto di Stato). Sentite che roba: “La data con cui si fa coincidere l’inizio dell’invasione sovietica in Afghanistan è il 25 dicembre 1979, quando gli enormi aerei da trasporto sovietici carichi di soldati iniziarono ad atterrare nella base aerea di Bagram, poco lontano da Kabul. Amin era ancora convinto che i sovietici fossero suoi alleati e li accolse con gioia. Ora sono cambiati i tempi e i modi, ma la sostanza resta la stessa”. Ovvio: Giuseppi, novello Amin, crede che i 32 medici russi siano medici, invece sono qui per invaderci, come i loro babbi in Afghanistan 40 anni fa. E non abbiamo neppure i mujaheddin per combatterli sulle montagne. A parte uno: il comandante Jacob al Iakobonh, avvistato ieri su un minareto improvvisato in cima alla Mole Antonelliana mentre chiamava alla pugna i volontari antisovranisti, brandendo il fuciletto a tappo. Finora, dalle strade inspiegabilmente deserte, il suo straziante appello è stato raccolto da due mosconi, un gatto e un pipistrello.

Astrolinda ci accompagna “Tra le stelle e un po’ più in là”

“Guardate le stelle e non i vostri piedi. Provate a dare un senso a ciò che vedete, e chiedervi perché l’universo esiste. Siate curiosi”, diceva Stephen Hawking. La ventenne Linda Raimondo, in arte AstroLinda, studentessa di Fisica all’Università di Torino e volto della divulgazione scientifica per ragazzi su Ray Gulp e Ray Play, ha fatto suo il consiglio di Hawking sin da bimba: a quattro anni chiedeva a papà di portarla sulla Luna, a sette confidava al nonno di voler diventare astrofisica. Passatempo preferito: osservar le stelle. Curiosità, umiltà, sacrificio, passione e quella determinazione che mette a tacere chi crede ancora che lo studio del cosmo sia “roba da uomini”, sono le qualità che l’hanno aiutata a non mollare e le hanno fatto tagliare già molti traguardi.

L’Esa (Agenzia spaziale europea), per esempio, la selezionò a soli 16 anni come progettista di una base su Marte. Il percorso, in fieri, per diventare la nuova Samantha Cristoforetti, è raccontato in Tra le stelle e un po’ più in là, 10 lettere indirizzate a chi l’ha supportata e ispirata – gli affetti più cari ma anche Margherita Hack (si sentivano via Skype quando aveva 11 anni) o Margaret Hamilton, la donna che evitò che lo sbarco dell’Apollo 11 sulla Luna finisse in disastro – ma anche 10 step motivazionali per ogni giovane con un sogno nel cuore.

 

Tra le stelle e un po’ più in là – Linda Raimondo, Pagine: 152, Prezzo: 14 Editore Mondadori

Non sempre i cigni neri portano catastrofi, a volte nascondono tesori

Il tempismo è quasi ironico. Il nuovo graphic novel disegnato da Paco Roca, il più grande autore spagnolo in circolazione, si chiama Il tesoro del cigno nero (Tunuè) ed esce in un momento in cui tutti associano il concetto statistico del “cigno nero” all’epidemia. Un evento altamente improbabile, quasi impossibile, davanti al quale ci scopriamo impreparati. Forse nessun autore più di Roca, diventato famoso con un libro sull’Alzheimer, saprebbe raccontare la tragedia del Covid-19. Ma questo è un libro diverso, uno di quelli che permette anche a chi è bloccato in casa di evadere per un minuto (legalmente) e di dedicarsi a un’avventura assai più spensierata della mera sopravvivenza: la caccia a un tesoro sottomarino. Anzi, alla battaglia legale, burocratica e politica per il suo possesso. In questo libro Roca è affiancato da Guillermo Corral Van Damme, un alto funzionario spagnolo che trasforma in una sceneggiatura da fumetto le sue avventure da capo di gabinetto al ministero della Cultura (anche i capi di gabinetto, pare, hanno una vita intensa). Nel 2007 una nave di cacciatori di reperti martini trova un tesoro dal valore di centinaia di milioni di euro, conteso tra Spagna e Inghilterra. L’avventura si dipana con modalità che ricordano i libri del compianto Clive Cussler (non faremo spoiler) e Roca si conferma un genio del montaggio: i suoi fumetti hanno ritmo e musica costruita con la variazione di piccoli dettagli tra una vignetta e l’altra, niente scorciatoie spettacolari, ma continue trovate tecniche per costruire una vera narrazione per immagini. La chicca: mentre alcuni personaggi parlano sotto la pioggia, le gocce attraversano anche le nuvolette con le parole, così il lettore “vede” lo scrosciare dell’acqua.

Il tesoro del cigno nero – Paco Roca, Pagine: 220, Prezzo: 19, Editore: Tunuè

 

L’intuito di Amaia Salazar, poliziotta basca dell’Fbi a caccia di un killer

Il titolo depista, richiama altri generi. Eppure Il lato nord del cuore è un gran bel thriller che in questi imprevisti giorni di quarantena pandemica può tenere a lungo compagnia, visto che si tratta di un tomo di quasi settecento pagine. L’autrice è una garanzia: Dolores Redondo, in passato definita impropriamente come la Fred Vargas dei Paesi Baschi.

In realtà il suo personaggio, l’ispettrice Amaia Salazar, rappresenta un unicum che mescola tenacia e un intuito ai limiti del magico, a causa di un passato tragico. Amaia è della Navarra, proveniente dalla Valle del Baztán. Il suo paese si chiama Elizondo. Qui si è svolta la cosiddetta trilogia del Baztán e quest’ultimo volume è il prequel alla serie. La poliziotta è infatti giovanissima, venticinque anni, e si trova per un seminario a Quantico, nella mitica sede dell’Fbi, in Virginia. Gli americani da tempo tengono d’occhio il suo talento investigativo e l’occasione perfetta per reclutarla sono gli omicidi seriali di uno strano killer. Il “compositore”. L’uomo stermina intere famiglie all’indomani di una catastrofe tipo tornado o uragano. Predilige sempre la stesso numero di persone: padre, madre, tre figli e la nonna. Poi camuffa i cadaveri con macerie e mobili distrutti per farli apparire come uccisi della natura violenta. Allo stesso tempo, Amaia, viene in seguita dalle ombre sinistre della sua infanzia: una madre folle e psicotica che aveva tentato di ammazzarla. Un dolore che però le ha dato una dote particolare. Come dice il suo capo Dupree: “Questo tipo di conoscenza si ottiene solo quando ci si aspetta il comportamento di un demonio, e se ne conosce la natura intima al punto da potersene distanziare per osservarla”.

Il lato nord del cuore – Dolores Redondo, Pagine: 670, Prezzo: 18, Editore: DeA Planeta

Noi, la guerra e il romanzo popolare

Dei libri scritti con amore, innamorarsi è facile. È quel che succede prendendo in mano Di guerra e di noi, appena uscito per i romanzi di Marsilio. L’ha scritto Marcello Dòmini, ma dell’autore per ora non vi diremo null’altro che il nome (e il cognome, rigorosamente sdrucciolo). Prima la storia. Siamo a Castenaso, campagna bolognese, è il settembre 1917. In un mulino popolato di fattori, domestiche, braccianti, un cane dal nome diabolico, una zia brutta come il peccato, una nonna capace di preparare il miglior ragù del mondo, una mamma energica e spiccia e due fratellini. Il papà è andato in guerra contro gli austriaci, nel cuore di quella carneficina che inaugurò il Novecento. Chiusoli Gaetano come tanti non farà ritorno. “Tuo padre è un eroe” è la frase che si porta via l’infanzia dei protagonisti, Riciotti e Candido del fu Gaetano. Tutto cambia: i due inseparabili e dispettosi fratelli si devono dividere, uno dei due andrà a studiare a Bologna, come orfano di guerra. L’altro resterà al mulino. Riciotti detto Ciotti inizia così l’avventura della vita in un collegio di ricchi, dove non c’è verso di fargli entrare in zucca il sentimento dell’autorità (il che gli farà guadagnare, alla fine, il rispetto dell’arcigna direttrice). Nell’istituto c’è un Carlo Nobis sotto le spoglie di Bruno Albergati, ricco figlio di papà (possessore di una Fiat S57/14B, fiammante quanto sfortunata) e destinatario di scherzi al sapore di lotta di classe; ma c’è anche, anzi soprattutto, un Franchi Vladimiro U., che non è affatto un Franti essendo un precocissimo anarchico tutto pane e politica che Riciotti ritroverà da adulto, dall’altra parte della barricata. Le similitudini con il deamicisiano Cuore finiscono qui. Anche se le pagine del collegio sono tra le più belle perché nella ruvidezza del cameratismo – tra bravate, scappatelle notturne, punizioni alimentari e furti di uova – fa capolino l’irresistibile candore della fanciullezza. Lo stupor mundi della scoperta. “Anarchia significa libertà” spiega Vladimiro U. all’ingenuo Ciotti. “Gli anarchici sono uomini liberi. Te credi di esser libero, invece ti comanda lo stato, questo collegio, il preside, gli insegnanti, tutti quelli che ti mettono delle regole da rispettare”.

Finisce la guerra, non la miseria, non i tumulti. Finisce anche la scuola, e i ragazzi devono lavorare. Albeggia il Fascismo quando la famiglia Chiusoli si trasferisce a Bologna dopo la vendita del mulino. E qui c’è una trovata riuscitissima del corposo romanzo che si snoda per 670 pagine, ed è la comparsa di un protagonista pescato dalla Storia: Leonardo Arpinati, fedelissimo di Mussolini della prima ora, fondatore dei Fasci di combattimento bolognesi, poi dissidente finito male (rifiutò di aderire alla Rsi). Arpinati è l’innesco che consente all’autore di raccontare le sfumature (anche Ciotti è affascinato dal Fascismo di piazza San Sepolcro), di andare oltre il bene e il male della Storia per indagare la complessità dell’animo umano.

È stato scritto che Di Guerra e di noi è un romanzo popolare: definizione azzeccatissima, perché dentro c’è la vita dei protagonisti ma anche un documentatissimo pezzo di storia del costume (il primo telefono che intimorisce, le automobili) e della società del tempo. Ci sono i primi amori e quelli duraturi (bellissime le pagine in cui Riciotti corteggia la futura moglie fioraia, come quelle in cui Candido spiega la teoria “meglio le brutte delle bruttine”); c’è la morte, una lacerazione improvvisa “come un braccio strappato dal corpo, il dolore feroce e assoluto che sembra non poter aver mai fine, la consapevolezza che non c’è rimedio”.

Poi c’è il come la lunga vicenda familiare e corale che si conclude con la Liberazione, viene raccontata. Una lingua sincera che al principio è piena del dialetto bolognese rotondo e stropicciato, affollato com’è di zeta sonore, e poi si modella su un italiano che non rinuncia né alla melodia né alla colloquialità popolare.

Da ultimo, come promesso e premesso, una breve biografia dell’autore. Che noi conosciamo come medico, professore universitario, bolognese doc (il romanzo è anche un canto d’amore alla città delle Due Torri). È il suo libro d’esordio, non ha voluto dire quanto ci ha impiegato a scriverlo. In questo momento in cui tutti evocano la guerra, lui che ogni giorno opera i bambini, ci ricorda che un tempo gli uomini in guerra ci andavano davvero. E assai spesso non tornavano.

 

Chi siamo veramente lo dicono i nostri baffi

Esiste la realtà? E cos’è? Ma, soprattutto, quanto conta davvero? Più o meno della percezione che ne abbiamo? Più o meno della nostra immaginazione? Siamo svegli, sogniamo, oppure sogniamo di essere svegli? Chi, tra mente e realtà, condiziona l’altro? E dov’è la verità? Nelle 149 pagine di questo imperdibile I baffi – scritte in soli (anche se decisamente ispirati) trentacinque giorni e riproposte da Adelphi nella nuova, avvincente, traduzione di Maurizia Balmelli – Emmanuel Carrère non pone mai queste domande. Non esplicitamente. Non c’è un solo istante, però, nel quale non ci si senta incalzati dal loro incessante tamburellare sul lucernario della coscienza. Una riga dopo l’altra, ci ritroviamo tra le spire di un’angoscia che non lascia scampo. Senza nome, come il protagonista del romanzo. Con noi, un unico ammonimento: “Bisognerebbe conservare tutto, sempre, non trascurare alcuna prova”. Servirà?

C’è qualcosa – carta d’identità, fotografie, numeri di telefono, oggetti, souvenir, ricordi – che possa sfuggire alla furia devastatrice del dubbio? Qualcosa o qualcuno che possa garantire della effettività e della stabilità del tutto?

È la storia di un big-bang e dei suoi effetti travolgenti. Un uomo decide di tagliarsi i baffi. Piacerà a sua moglie Agnès, che non l’ha mai visto senza? Niente di devastante. Né di irrimediabile. In fondo, può farseli ricrescere quando vuole. Eppure. Comincia come un gioco, uno scherzo senza importanza: “Che ne diresti se mi tagliassi i baffi?”; “Sarebbe una buona idea”. All’improvviso, però, tutto precipita. Nessuno – moglie, amici, colleghi di lavoro – ricorda di aver mai visto quei baffi. “Sai bene che non hai mai avuto i baffi. Smettila”, sbotta Agnès. Altro che gioco: è una macchinazione; una congiura. Non vogliono farlo passare per pazzo: vogliono renderlo pazzo. La congiura presto diventa allucinazione, incubo, ossessione. Follia. Già: ma chi è folle? Lui o lei? Impossibile stabilirlo. “Un andirivieni tra due ipotesi […] che non portava da nessuna parte, se non dall’una all’altra, dall’altra all’una”. L’uomo si ritrova nel labirinto senza uscite di una realtà opprimente: “Le pareti di una stanza che si avvicinano fino a imprigionarne l’occupante, maciullandolo nella loro morsa”. Pirandello e Kafka, ma anche Philip Dick ed Edgar Allan Poe. Nell’ordine del mondo si è verificato un guasto “che era sfuggito all’attenzione di tutti tranne che alla sua”, e questo lo mette “nella posizione dell’unico testimone, che in quanto tale va abbattuto”. Scomparire non è un capriccio ma un “obbligo vitale”. Voltare pagina e ripartire da zero. L’uomo vola a Hong Kong, dove la salvezza ha le sembianze di un ferry che fa la spola tra città e isola. Il traghetto lo conquista, perché offre “un contesto alle sue oscillazioni pendolari”. L’andirivieni della sua mente e quello del ferry si annullano algebricamente. Pace. Durerà? Una sera, uno sconosciuto convince l’uomo a salire sul battello per Macao. Scenderà al “Bela Vista” e comincerà a cullarsi in un dolce far niente, ascoltando ricrescere i baffi. Un pomeriggio, però, di ritorno dalla spiaggia: “The lady is upstairs”, gli sorride il receptionist cinese. E un “brivido freddo” gli percorre la “schiena bruciata”.

I baffi – Emmanuel Carrère, Pagine: 149, Prezzo: 17, Editore: Adelphi