La privacy violata a tempo: cari saluti dal Patriot Act

Il governo dell’emergenza è una brutta bestia per vari motivi. Per spiegarci useremo Luca Zaia, che è santo in senso flaubertiano o, come si dice a Roma, beato: “Sono convinto che in questo momento bisognerebbe sospendere le norme sulla privacy (…) Sulla tracciabilità abbiamo disponibilità anche da Israele”. Il presidente del Veneto dice a suo modo (“topi vivi”) quello a cui il Garante della privacy ha già consentito e che il governo ha già realizzato col decreto del 9 marzo, affidando alla Protezione civile, anche regionale, la possibilità di derogare alla norme sulla privacy con semplici ordinanze (cioè senza controllo parlamentare): e così sono arrivati i droni (già autorizzati da Enac) e arriverà l’utilizzo dei dati ottenuti dai provider per controllare gli spostamenti. Solo temporaneamente, per carità, e solo per sconfiggere il virus: in emergenza niente “fisime” (il dottor Burioni). Va bene – credere, obbedire, combattere – ci permettiamo solo di ricordare che leggi e poteri che si spostano in emergenza tendono a farci compagnia a lungo: ci sono voluti decenni tra riforme e giurisprudenza a cancellare la legge Reale sul terrorismo dall’ordinamento italiano; il Patriot Actpost-11 settembre è ancora lì a “proteggere” gli statunitensi; una legge di Alfano (beato) varata dopo l’attentato a Charlie Hebdo consente oggi ai giudici di Torino di mettere sotto sorveglianza speciale per due anni una 28enne torinese che non ha commesso alcun reato. Uno potrebbe dire: e il Mes? Ma perché non è di quello che si sta parlando?

Arbasino guidava e Gadda si teneva al freno a mano

Ho conosciuto Alberto Arbasino nel ’56. Lui già collaborava al Mondo di Pannunzio. Noi, in pochi a Voghera, lo leggevamo divenendo presto amici e facendo insieme un settimanale. Italo Pietra, già comandante partigiano, inviato del Corriere e direttore del Giorno, mi avrebbe poi detto più volte che la madre di Arbasino, Gina Manusardi, era di una intelligenza abbagliante. In città aleggiava la presenza di Franco Antonicelli, di Dino Provenzal, oltre che di Pietra e di Ugo Alfassio Grimaldi. Vi aveva lasciato il segno quale insegnante al liceo classico Grattoni anche il poeta Diego Valeri. Per dire che Arbasino si forma in una sorta di “crocevia aperto” fra Milano e Genova, Torino e Piacenza. Vieux Piemont dal ’700 all’Unità. Molto proiettata, più che su Pavia, direttamente su Milano. Arbasino, lettore onnivoro, subito buon conoscitore sia del francese sia (caso raro a quel tempo) dell’inglese, coglie questi esempi. Uno ce l’ha sotto casa, si può dire, quello di Alberto Pisani alias Carlo Dossi, scrittore bizzarro, estroso, irriverente, uno degli Scapigliati, di famiglia pavese, i Pisani, ma con cascina a un passo da Voghera, a Bastida de’ Dossi. Lui comincia l’Università, col piede sbagliato. Medicina a Pavia. Passa a Milano, Giurisprudenza alla Statale, con uno dei massimi studiosi di Diritto Internazionale, Roberto Ago. Ne diventa assistente, Parigi, Londra, incontri coi maggiori intellettuali, ritratti per il Mondo. E però continua a partecipare alle “provocazioni” locali. Il 1957 è l’anno di uscita del primo libro narrativo di Arbasino: Le piccole vacanze, lo vara Italo Calvino da Einaudi con storie etero e omosessuali in cui sono riconoscibili personaggi locali. Lo scandalo cittadino è dei più sonori e noi ovviamente siamo i primi difensori del suo anticonformismo. Nei passeggi serali di via Emilia, nei caffè, nei circoli.

Torno sull’idea di Alberto di giocare nella vita il doppio ruolo di diplomatico, di esperto di diritto internazionale e di letterato. Dossi è amatissimo anche da Carlo Emilio Gadda, al quale Arbasino dedicherà il delizioso L’ingegnere in blu. Lo scarrozzava con la sua spider verso casa, su al Trionfale, e il terrorizzato Ingegner Gadda si aggrappava disperato al freno a mano. Alberto Pisani esercita come Scapigliato il mestiere militante di scrittore per la prima parte della vita in cui scrive scrive scrive. Sparando migliaia di aforismi. Uno per tutti : “Papa Leone XIII dà sempre colpa alla Massoneria anziché alla sua Minchioneria”. In seguito però si dedica totalmente alla diplomazia, con Crispi. Arbasino avrà un approccio iniziale col diritto internazionale e poi, dopo le Piccole vacanze, farà lo scrittore, il narratore, il saggista, l’avanguardista del Gruppo ’63, il regista di opere liriche (Carmen al Comunale di Bologna), il regista di cinema (La bella di Lodi) con l’amico Mario Missiroli, l’arbitro in tv di “duelli” fra attrici, attori, registi, il deputato repubblicano, insieme a mille altre cose intelligenti, estrose, pungenti, dissacranti. Come i corsivi di venti righe che pubblica sulle pagine dei libri del Giorno di Italo Pietra. Poi passerà al Corriere della Sera e successivamente a Repubblica, fino a ottenere di poter firmare (caso unico) su entrambi i quotidiani. Pazzo per la musica. Su tutti Claudio Abbado e Carlos Kleiber. Capitammo vicini a Pesaro alla “prima” del ritrovato Viaggio a Reims di Rossini nel 1984 all’Auditorium Pedrotti, con un cast meraviglioso diretto da Abbado. Afa terribile, spettacolo indimenticabile. “Finiremo bolliti”. “Già, peccato che stia terminando…”. Lo ritrovo a Ravenna, per un concerto eccezionale di Kleiber che esegue un Mozart raro e difficile e Alberto nell’intervallo per poco non cade in deliquio dopo aver alzato mani e occhi al cielo: al Paradiso.

Nonni, La strage non aiuta figli e nipoti

C’è un diffuso “non detto”, implicito, sottinteso, rimosso, in questo psicodramma collettivo provocato dall’epidemia di coronavirus. Ed è, per usare l’espressione più raffinata del cardinal Ravasi, “la cultura del limite”. O per essere più espliciti, l’assunzione di consapevolezza della propria mortalità. “La vecchiaia – come avverte Tolstoj – è la più inattesa fra tutte le cose che possono capitare a un uomo”.

Tutti nasciamo e moriamo, sapendo che prima o poi dovremo finire, magari il più tardi possibile. Ma l’emergenza sanitaria, il “distanziamento sociale”, l’isolamento domestico ci hanno messo di fronte improvvisamente alla nostra precarietà esistenziale, alla nostra fragilità e vulnerabilità. E quindi, anche all’ansia di invecchiare: ciò che riguarda fatalmente ciascuno di noi.

Davanti ai dati inquietanti del bollettino di guerra emesso quotidianamente dalla Protezione Civile, è stato il presidente Mattarella a parlare nei giorni scorsi di “decimazione della generazione più anziana”, definendola lui stesso “punto di riferimento per i più giovani”. Un richiamo che vale per tutti. “Contrapporre giovani e anziani – ha ammonito il capo dello Stato – mina la coesione sociale”. E deve averlo capito anche il truce premier inglese, Boris Johnson, che prima aveva immaginato di salvare il sistema sanitario nazionale attraverso l’emarginazione degli anziani e poi è stato costretto a fare marcia indietro per decretare il lockdown dell’intero Paese, arrivando perfino a elogiare il modello italiano.

Gli anziani sono un “punto di riferimento per i più giovani”, come predica Mattarella, innanzitutto sul piano umano e affettivo. Sul piano più sentimentale che lega i genitori ai figli o i nonni ai nipoti e viceversa. Sul piano dell’esperienza e diciamo pure della saggezza. E anche su quello più materiale del cosiddetto “welfare familiare”, in termini di reciproca solidarietà e mutua assistenza.

Ma è onesto riconoscere che gli anziani, arrivati a un certo punto della vita, possono diventare anche un peso per i più giovani, perché restano soli, deperiscono, s’ammalano e a volte non sono più autosufficienti. Ed è proprio per questo che una società civile e umanitaria deve organizzarsi per farsi carico di quella che si potrebbe chiamare la “questione generazionale”: una questione di solidarietà e appunto di coesione nazionale. Né bastano evidentemente i badanti o le badanti, ormai per lo più immigrati; né tantomeno le cosiddette case di riposo che diventano spesso case di riposo eterno, come dimostrano purtroppo giorno per giorno le “stragi dei nonni” in molti ospizi al tempo del coronavirus da un capo all’altro della Penisola. Occorrono apparati sanitari e tecnologici; residenze e strutture d’accoglienza; servizi di assistenza domiciliare; condomini sociali, pubblici e privati, per consentire agli anziani di trascorrere nella condizione più dignitosa l’ultima stagione della loro vita.

In un apprezzabile saggio intitolato Vecchiaia per principianti, pubblicato recentemente da Laterza, il geriatra Alberto Cester scrive che “la vecchia ‘vera’ esiste fisicamente dopo i 70-75 anni”. Per cui anche l’ipotesi di apartheid negli orari d’ingresso ai supermercati lombardi oltre i 65 anni d’età sarebbe tanto assurda quanto aberrante. È vero, come nota l’autore del libro, che “l’Italia si contende con il Giappone il primato di nazione con più elevate speranze di vita alla nascita”: da noi, l’aspettativa media varia statisticamente per gli uomini dai 79,2 agli 82,3 anni, a seconda del livello socioeconomico; mentre per le donne va da 84,5 a 86. Ma questo è a ben vedere un indice positivo di sicurezza e di prosperità. E comunque, non autorizza nessuno a istituire una specie di “Rupe Tarpea” per gli anziani, quasi fossero da considerare al pari dei traditori della Patria.

Draghi e Gualtieri sulla retta via

Nei momenti di crisi vengono a galla i fondamentali, anche dell’economia. La ricetta illustrata da Mario Draghi sul Financial Times riporta al centro l’unico modo con cui il capitalismo ha salvato se stesso nei suoi oltre 150 anni di esistenza. L’intervento del debito pubblico, la liquidità, l’utilizzo delle banche “come veicolo di politiche pubbliche” con una consapevolezza essenziale: “I debiti pubblici cresceranno, ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa”.

L’avvertimento, salutato positivamente da destra e da sinistra in una consacrazione collettiva dell’ex presidente della Bce (dalle conseguenze politiche che vedremo nel prossimo periodo), è diventato già una norma consuetudinaria, un “lodo” che difficilmente potrà essere ignorato.

Quel che è importante è che non l’abbia ignorato il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che alle parole di Draghi si è allineato con convinzione prendendo impegni: “Come giustamente richiamato da Draghi, a fianco di interventi di sostegno al reddito occorre mettere a disposizione ingenti garanzie pubbliche per consentire al sistema finanziario di erogare alle imprese tutta la liquidità necessaria per sostenere il sistema economico nella crisi”.

Conte ha ieri annunciato che con il prossimo decreto economico di aprile si arriverà a un intervento complessivo “non inferiore” ai 50 miliardi (25+25). Probabilmente saranno di più. È abbastanza?

Sul Fatto abbiamo osservato che quello italiano è inferiore agli sforzi degli altri Paesi anche se va precisato che il paragone in termini di incidenza sul Pil e con misure omogenee non vede sfigurare l’Italia.

L’Italia ha già messo sul tavolo 25 miliardi validi per un mese che stanno per essere raddoppiati, sforzo che ieri Morgan Stanley ha stimato in circa il 3% del Pil: “In linea di massima – scrive la banca d’affari – si tratterà di un pacchetto di stimoli simile a quello della Germania”. Che ha un Pil superiore dell’88% a quello italiano e sul quale i 156 miliardi di aiuti diretti, di cui 122 a debito, peserebbero per il 4,7% o, calcolando solo la parte a debito, per il 3,6%.

Se addirittura valessero i calcoli che vengono fatti all’Economia, che valuta solo 67,5 miliardi di miliardi immediatamente stanziati e quindi effettivamente confrontabili con i 20 miliardi italiani scaturiti dal debito, si avrebbe un confronto tra un impegno tedesco all’1,9% del Pil e uno italiano all’1,1%. Ma bisognerà vedere quali altri stanziamenti saranno fatti dagli altri Paesi e dall’Italia.

Soddisfa di più il confronto con la Francia che nei 45 miliardi di misure economiche contiene anche una quota di rinvii fiscali che l’Italia non ha conteggiato nei 25 miliardi stanziati ed è buono quello con la Spagna che, in termini di soldi freschi, stanzia 20 miliardi, ma va detto che Sánchez muove 100 miliardi di impegni a garanzia delle imprese.

Qui c’è un punto decisivo: in termini di garanzie alle imprese o, come in Germania, di fondi strutturali per intervenire direttamente in eventuali salvataggi economici, gli altri Paesi sono più avanti. Lo stanziamento tedesco supera ormai i mille miliardi, la Gran Bretagna è a 330, la Spagna a 100 miliardi e la Francia a 300.

“Con le misure già adottate – ha dichiarato ancora Gualtieri – e quelle in preparazione stiamo varando un sostegno alla liquidità basato su garanzie pubbliche che non ha precedenti e che è al livello delle iniziative più consistenti e ambiziose messe in campo in Europa”. Quindi, anche l’Italia dovrebbe allinearsi su questi valori con un intervento “senza precedenti”.

Come finanziare tutto questo sarà il problema di fondo. L’Italia sta già viaggiando verso un rapporto deficit/Pil a -4%, ma è chiaro che andrà oltre. Il rapporto debito/Pil, che oggi è al 134%, potrebbe veleggiare verso il 160% se non di più. L’idea di ricorrere al Mes sembra accantonata e gli eurobond appaiono gli unici strumenti per poter gestire una situazione di emergenza.

Ma anche quelli, alla fine, sia pure non cumulati sul debito sovrano, costituiscono forme di debito. A essere onesti ci vorrebbe un pizzico di fantasia in più, per quanto distruttiva di equilibri consolidati. Tanto più che la Ue, come si è visto ieri, preferisce dividersi piuttosto che trovare soluzioni utili.

Alla fine si torna al ruolo della Bce e alla sua capacità di fare il lavoro che spetta a tutte le banche: immettere denaro fresco nell’economia. Whatever it takes.

Mail box

Sarebbe meglio la didattica dei soliti programmi 

Viviamo un momento difficilissimo e tragico per le sue conseguenze. Non sarebbe ora che almeno la Rai smettesse di trasmettere programmi come I soliti ignoti, L’isola dei famosi, L’eredità e altre simili scemenze, per potenziare la didattica, il teatro, la letteratura come da voi comunicato sul Fatto di ieri? Per non parlare della pubblicità, che piuttosto irrita gli ascoltatori! Quando c’è la pubblicità, preferiamo spegnere il televisore.

Fernando Mastursi

 

Banalizzare la pandemia con gli “orari” di Conte?

Quali saranno le conseguenze sui comportamenti della gente, della banalizzazione di alcuni (De Angelis, Mieli…) giornalisti rispetto alle drastiche, dolorose limitazioni imposte dal governo se il focus professionale non è il merito o le loro conseguenze future, ma gli orari in cui parla Conte e altre sciocchezze?

Se chi mi deve accompagnare in questo nuovo, buio percorso focalizza il suo mestiere dal portato pubblico in tali banalità come reagirà la mia mente?

Il mio inconscio sta elaborando:

– quanto serio è il momento?

– quanto mi devo sentire responsabile se Conte è così “irresponsabile” da parlare in orari “sbagliati”?

– se il problema sono gli orari allora possiamo prenderla alla leggera?

Paolo Toniolo

 

In futuro ricordiamoci di tutelare il Servizio sanitario

Quando questo incubo sarà finito (speriamo prima possibile) e quando dovremo ricostruire il SSN ricordiamoci di metterlo al riparo dalle tante ruberie e troppi sprechi ai quali l’abbiamo abbandonato. Potevamo gestirlo meglio, con maggiore trasparenza e onestà da parte di tutti, proprio come qualunque altro patrimonio pubblico e bene collettivo. Invece l’abbiamo lasciato depredare e manipolare da tutti quelli che avessero interesse a farlo. Ricordiamoci e domandiamoci dove sono finiti i fiumi di denaro pubblico sperperato senza che nessuno rendesse conto del proprio operato… ospedali costruiti e poi abbandonati, reparti inaugurati e poi chiusi. Non è colpa dei privati. Loro hanno investito dove il mercato prometteva profitto in cambio di servizi anche di qualità. Sono gli amministratori pubblici, i politici che avrebbero dovuto vigilare, proteggere la “la cosa pubblica” assecondando il mandato loro affidato dai cittadini. Invece le conseguenze di quello che è stato fatto sono sotto gli occhi di tutti. Per anni hanno cercato di sviare l’attenzione degli utenti contro un facile bersaglio come il personale sanitario pubblico. Il quale è ora chiamato a salvare, oltre alla vita dei cittadini, anche la faccia di coloro dai quali sono stati per anni negletti in ogni modo. Ancora oggi i medici sono costretti a supplicare per ottenere Dpi e tamponi, non per portarseli a casa o chissà dove, ma solo per non ammalarsi e contagiare pazienti, parenti e tutte le persone con le quali vengono a contatto. I medici non sono tutti santi, a qualcuno avrà fatto pure difetto l’etica. Ma nella maggior parte dei casi (e adesso si vede!) sono persone dotate di rispetto per l’umanità e spirito di sacrificio. Vostra assidua lettrice ed estimatrice.

Caterina Bangrazi

 

Che bello riscoprire Sordi attraverso Edoardo Pesce!

L’Informazione sul tema del giorno è ovunque, ognuno può scegliere e confrontare fonti, media o social. Certamente ci troviamo di fronte a un’overdose, come a un’unica estesa prima pagina che tutti ci avvolge, ci prende, ci appassiona, ci angoscia. Così abbiamo bisogno di ritrovare qualche piccola oasi quasi per dimenticare un po’, inseguiti poi da sensi di colpa per la “terribilità” di ciò che accade… Allora, ecco che ci si fa prendere da certe storie che corrono in un’altra direzione e in altri tempi, come il racconto degli esordi, cinematografici e sentimentali, di Alberto Sordi. Che meraviglia! Il grande legame che aveva con la sua famiglia, il rapporto profondo e quasi simbiotico con l’amata e ascoltata madre, il trauma della perdita e quell’amore riversato poi sulle sue sorelle, quasi un parallelo doloroso percorso a mo’ di Pascoli, che volle anche lui rimanere legato al nido originario chiudendo per sempre la porticina di un futuro d’affetti nuovi e personali. L’attore che ha ricoperto il ruolo di Sordi, Edoardo Pesce, è eccezionale, ogni sua interpretazione lo è, come in Dogman e in Fortunata, ruoli diversissimi l’uno dall’altro, ma a cui dà interiorità e gesti che ne fanno interpretazioni uniche.

Alessandra Savini

 

Il mio auspicio: evitare che si torni a come era prima

Caro direttore, sono un sostenitore del Fatto, ho 64 anni e ne ho viste tante, ma cose del genere mai. Le invio questa mia lettera che vuole essere un auspicio: quando tutto questo sarà finito, io non voglio che tutto torni come prima. Grazie per il lavoro che fate per tutti noi con coerenza e professionalità.

Michele Granata

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’edizione di ieri abbiamo scritto che l’accordo tra Rai e Miur per portare la scuola in tv è avvenuto dopo l’appello lanciato dal Fatto. In realtà le due iniziative sono nate praticamente in contemporanea. Una duplice buona notizia, insomma.

FQ

Donne vittime di violenza: le app e le piattaforme per chiedere aiuto

Gentile redazione, ho letto con apprensione che, durante questo isolamento imposto, sono crollate le telefonate al numero antiviolenza da parte di quelle donne che in casa subiscono di tutto. Mi metto nei loro panni: già è difficile denunciare un marito violento o chiedere aiuto nei periodi “normali”; farlo avendo accanto proprio il partner che ti picchia diventa impossibile. Perché non si è pensato a queste donne? E cosa si può fare per aiutarle? Bisogna correre ai ripari, o alla fine della quarantena ci ritroveremo a contare, oltre ai morti con coronavirus, anche i femminicidi.

Lorella Terenzi

 

Cara Lorella,ha perfettamente ragione. In queste settimane di “reclusione” imposta – giustamente – per arginare il contagio da Covid-19, ci si è dimenticati di un altro contagio, che non conosce cura efficace, ma dovrebbe imporre quanto meno una prevenzione. Le case sono diventate prigioni soprattutto per quelle donne che subiscono violenza e che almeno, prima, potevano approfittare della temporanea assenza dei propri compagni per chiedere aiuto. Le chiamate al numero verde 1522 si sono dimezzate, così come le denunce presso polizia e carabinieri, e non sono affatto buone notizie. Nei giorni scorsi i centri della rete D.i.re hanno inviato una lettera a governo e Parlamento affinché vengano attivate anche nelle case-rifugio quelle misure di sicurezza sanitaria che possano garantire la permanenza delle vittime. La ministra della Famiglia, Elena Bonetti, ha annunciato lo stanziamento di un milione di euro per il reperimento di nuovi alloggi e, insieme con la collega dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha sollecitato i prefetti affinché trovino strutture adeguate. Basta? No di certo, ma bisogna soprattutto fare in fretta. Negli ultimi giorni il governo, sollecitato da una lettera sottoscritta da 500 donne, ha rilanciato con una campagna il numero verde e la app del 1522, dove è possibile chiedere aiuto a un’operatrice senza dover parlare. Molti i volti della musica e del cinema che si sono spesi per la diffusione del messaggio. Tra le altre iniziative, merita di essere citata anche quella degli Stati Generali delle Donne, che hanno lanciato una piattaforma (www.adottaunalavoratrice.it) sulla quale è possibile prenotare una consulenza, che possa essere antiviolenza o di supporto psicologico. Restare a casa è fondamentale, purché la casa non si trasformi in una stanza delle torture.

Silvia D’Onghia

“Ermini e Mattarella volevano rinviare la nomina”

Il Quirinale e David Ermini, vicepresidente del Csm, nel maggio 2019 tentarono inutilmente di rimandare la nomina di Marcello Viola a capo della Procura di Roma. A riferirlo è Riccardo Fuzio, all’epoca pg della Cassazione, in due diverse occasioni. La prima è la conversazione intercettata con Luca Palamara, pm a Roma e gran tessitore della candidatura di Viola. La seconda è il verbale del suo interrogatorio a Perugia, dove è indagato per rivelazione del segreto d’ufficio nei confronti dello stesso Palamara, accusato invece di mercimonio della funzione per viaggi e altre utilità (circa 60 mila euro, secondo i pm) ottenuti dall’imprenditore Fabrizio Centofanti.

Il 9 maggio 2019, Palamara viene intercettato mentre parla con i parlamentari Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri. Lotti dice: “Si vira su Viola”. Ed è quello che accadrà il 23 maggio quando la V commissione del Csm attribuirà 4 voti a Viola, uno ciascuno a Giuseppe Creazzo e Francesco Lo Voi. “Il 20 maggio – spiega Fuzio – abbiamo avuto indicazione di inviare una lettera al presidente della Commissione che occorreva seguire un ordine cronologico nelle nomine in ordine alla vacanza del posto”. In sostanza: non bisogna accelerare Roma. “Il 21 maggio – continua Fuzio – mentre stavamo elaborando i contenuto della lettera, il presidente Ermini è uscito (dal comitato di presidenza del Csm, ndr) in quanto è stato chiamato da Morlini (presidente della V commissione, quella che si occupa delle nomine, ndr). Al suo rientro mi ha comunicato che avrebbero votato subito per la Procura di Roma. Ho chiesto che venisse chiamato Morlini, gli ho chiesto in modo severo se avesse calendarizzato tale nomina, Morlini rispose che l’avrebbero messo in minoranza anche sulla scelta di anticipare la nomina del procuratore di Roma. S’è lasciato sfuggire che sarebbe stato calendarizzato per il giovedì successivo. In quel momento sono riuscito quindi a far bloccare quella votazione. Il 23 maggio nonostante il mio dissenso s’è votato per la nomina del procuratore di Roma”.

E allora: da un lato c’è chi accelera per il voto del 23, dall’altro chi tenta di rallentare. Il 16 maggio gli atti su Palamara – il fascicolo è aperto da oltre un anno, ma lui è stato iscritto 5 mesi prima – vengono trasmessi al Csm. Sulla tempistica lo stesso Fuzio, intercettato proprio la sera del 21 maggio, quando con uno stratagemma Palamara riesce a incontrarlo, commenta: “…quindi tu mi devi dire come mai dopo un anno non esce nulla…”. Fuzio descrive un dialogo con qualcun altro (il riferimento pare a Ermini) e continua: “…due la mossa di questa tempistica come pensate di gestire voi ritenete che questa tempistica sia contro Luca? Che già lo sapeva? Evidentemente non sappiamo come vogliono gestire questa cosa… Se vuole essere un condizionamento… poi non potevo dire chiaramente… Viola non Viola…”. Poi Fuzio aggiunge: “Nel frattempo era intervenuta questa indicazione da Mattarella di… non temporeggiare… ma perché non fate le audizioni? La vicenda Lo Voi di Palermo… Perché dovete dare l’impressione del pacchetto? Perché dovete cominciare dall’ultimo?”. Interrogato a Perugia Fuzio precisa che il 21 maggio “sia in mattinata sia in serata nessuno sapeva della cena del 9 magio e degli accordi intercorsi tra alcuni componenti del Csm”. Non si capisce a che titolo, allora, nella conversazione con Palamara faccia quel riferimento a Viola.

Il Csm vota contro Bonafede: “Troppo poco sulle carceri”

Il Csm boccia il decreto del governo anticoronavirus sui domiciliari a una fascia di detenuti e lo fa con la gran parte dei componenti collegati via Skype proprio per le misure anti-contagio. La maggioranza – risicata – di 12 consiglieri approva un parere in cui si dice che sono “misure inadeguate” quelle contenute nel decreto “Cura Italia”. Prevedono, per contrastare il contagio, che fino al 30 giugno, i detenuti con pene fino a 18 mesi e non per gravi reati, vadano ai domiciliari con una procedura semplificata. Avrebbero voluto che il decreto fosse più ampio e per questo si sono astenuti i 5 di Area, la corrente progressista, che si è vista bocciare un emendamento con proposte al legislatore.

Per motivi opposti hanno votato contro il parere Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, i laici M5S, Fulvio Gigliotti e Alberto Benedetti, Stefano Cavanna ed Emanuele Basile, Lega. Per Di Matteo siamo di fronte a “un indulto mascherato” e potrebbero uscire persino dei mafiosi per il cosiddetto scioglimento del cumulo. Cioè se da scontare come pena residua è quella per un reato minore, non di mafia, potrebbero andare ai domiciliari.

Nel parere approvato da 12 tra togati e laici, compresi i capi di Corte, si sostiene che l’aver condizionato i domiciliari alla disponibilità del braccialetto elettronico “contribuirà significativamente” a rendere questo istituto “inadeguato” rispetto all’obiettivo di contastare il contagio, perché, di fatto, di braccialetti elettronici ce ne sono meno di quanti ne servano. D’accordo su questo punto anche i consiglieri di Area, che però, alla fine si sono astenuti perché chiedevano un allargamento della platea di detenuti con diritto ai domiciliari con procedura semplificata. “Data la drammaticità del momento – ha spiegato Giuseppe Cascini –, l’unica soluzione per garantire una sicurezza sanitaria in carcere è che per pene fino ai 2 anni, tranne per reati gravi, i detenuti debbano andare ai domiciliari e se non hanno un domicilio adeguato se ne deve far carico lo Stato”.

Ai consiglieri Alberto Benedetti di M5S e Stefano Cavanna della Lega, l’emendamento è sembrato una invasione di campo. Radicalmente opposto l’intervento di Nino Di Matteo: “Un indulto mascherato e senza un’assunzione di responsabilità politica, si scarica sulla magistratura di sorveglianza la facoltà di decidere chi scarcerare, senza poter bloccare i domiciliari per pericolo di fuga o reiterazione del reato”. Il consigliere ravvisa anche un’aggravante: il decreto è stato emesso dopo “le rivolte violente” dietro le quali è “assai probabile” che ci sia la criminalità organizzata: “Chi ha preso parte alle proteste non può beneficiare di tale misura, ma costoro sono solo la manovalanza” e il decreto può apparire “un cedimento dello Stato al ricatto”. Sebastiano Ardita, ha sostenuto che “si apre la strada all’uscita dal carcere di mafiosi e persone pericolose”.

Nel decreto si stabilisce che il giudice di sorveglianza concede i domiciliari “salvo che ravvisi gravi motivi ostativi”. Il ministro Bonafede non ha risposto a queste critiche durissime ma mercoledì, alla Camera, aveva risposto all’accusa della Lega di aver concepito un indulto mascherato: “La legge 199 del 2010, che per comodità chiameremo legge Pdl-Lega Nord, ha permesso nei primi tre anni a circa 9 mila detenuti in carcere di passare alla detenzione domiciliare. Il numero degli effettivi destinatari della nuova legge, invece, tra i 6 mila detenuti circa non condannati per reati cosiddetti ostativi e con pena residua fino a 18 mesi, tutti potenziali destinatari della 199, dipenderà da diversi requisiti, tra cui un domicilio idoneo, che dovrà essere accertato dalla magistratura in virtù di un procedimento più semplice”. A oggi, ha ricordato Bonafede, “circa 50 detenuti hanno beneficiato della misura” e tutti con braccialetto elettronico obbligatorio se la pena è sopra i 6 mesi. Sulla critica, anche del Csm, per la mancanza di braccialetti aveva detto: “Fino al 15 maggio ce ne sono 2.600 da installare in via progressiva settimanalmente”.

Mille e una Puglia, il reportage di Loft

Puglia, terra di sole, mare e vento. Di campagne e paesi bianchi, di grandi città e immense contraddizioni. La raccontiamo nell’ottavo documentario della serie Italia.doc, i video reportage sulle regioni italiane realizzati dai giornalisti del Fatto Quotidiano con Loft Produzioni, il ramo di produzione televisiva della Società Editoriale Il Fatto. Il documentario sarà disponibile in esclusiva su www.iloft.it e sull’app di Loft a partire da venerdì 27 marzo.

Alessio Viola, scrittore e anima critica della città, ci racconta la “sua” Bari, città dalle mille contraddizioni. Ex operaio, rugbista per passione e stazza fisica, poi animatore culturale, Alessio è uno scrittore che conosce le pieghe più nascoste della città che ha raccontato in vari libri. Nei suoi scritti ha raccontato quella mafia in doppiopetto che per anni si è divisa le spoglie di Bari.

Giovanni Ladiana è un prete gesuita che non ama farsi appellare “don”. Dopo anni vissuti nelle periferie del mondo e in quelle italiane (da Napoli a Catania, fino a Reggio Calabria) è approdato nel capoluogo pugliese. Cura le anime degli studenti all’Università e cerca, insieme a gruppi di volontari, di lenire i dolori delle periferie. Mille città nella città.

Puglia, sole e mare. Quello del Salento rischia di essere devastato dal Tap, il Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto da 45 miliardi di dollari. Gianluca Maggiore, animatore dei Movimento “No Tap”, ci ha raccontato le battaglie della gente e dei sindaci del Salento contro quella che giudicano un’opera inutile e mortale per il territorio e la sua economia.

Tappa a Squinzano, paese notissimo per le sue bande musicali. Qui nacque un grande della musica jazz e swing, Nicola Arigliano. A casa di suo nipote Franco ci siamo divertiti a ricordare la meravigliosa avventura umana di questo artista apprezzato anche dai grandi jazzisti americani suonando al suo pianoforte i suoi successi col maestro Larry Franco. È stato un viaggio non solo musicale, ma anche nella storia di questo Paese dal dopoguerra fino agli anni Duemila. “Zio Nicola – ci ha raccontato il nipote – partì da Squinzano appena tredicenne. Voleva fare il sarto, poi incontrò il jazz e se ne innamorò”. Passione e talento, tenacia e voglia di resistere. Doti che sono nel Dna di Daniela Marcone. Con lei, donna impegnata a livello nazionale in Libera, abbiamo parlato di mafia foggiana. Daniela ha trasformato il dolore atroce della perdita del padre, funzionario dello Stato ucciso a Foggia solo perché faceva il suo dovere, in impegno sociale. Nel cuore della città e sulle rive del mare della bellissima Manfredonia, analizza la “quinta mafia” che dai paesi del Gargano muove alla conquista della città e del mare.

Sapete che nel cuore dolente e avvelenato del quartiere Tamburi, a Taranto, c’è un teatro? Ci siamo stati per parlare di Ilva con Giovanni Guarino. Trent’anni di lavoro nella più grande acciaieria d’Europa e la passione per la scrittura e il teatro coltivata da sempre. “Eravamo guerrieri. Eravamo spartani…”, inizia così il suo racconto della città.

Assoli di chitarra e lunghe sfide a scacchi da un balcone all’altro

 

Sono bloccato a Parigi Unica amica: la chitarra

Ciao amici del Fatto, sono bloccato a Parigi, non posso tornare in Italia. Sono 15 giorni che non accorcio la barba, che non indosso il mio cappello e non metto una giacca con la camicia. Ogni forma di creatività si è azzerata, non riesco a scrivere, guardo lo schermo del mio computer e dopo cinque minuti lo chiudo e prendo in braccio la chitarra, ma faccio solo qualche breve fraseggio. Quello che sono riuscito a tirare fuori di positivo nella mia vita è stato suscitato dal contatto con le persone; persone belle, brutte, ciniche, esagerate, scontrose, iperattive, creative, distratte, egocentriche, altruiste, gelose… Osserviamo le regole, perché senza il contatto con le persone, lentamente, giorno per giorno, ci spegniamo.

 

Battere il ferro per battere la noia

Buongiorno. Approfitto di questo periodo di quarantena per dare libero sfogo alla mia creatività, trascorro il tempo tra libri, lettura del Fatto Quotidiano e il ripetitivo rumore del martello sull’incudine. Vi allego una foto del mio lavoro (le tre rose di ferro in alto, ndr). Grazie della compagnia.

 

Reinventarsi i giochi da un terrazzo all’altro

Valentino è un bambino di sette anni che vive ad Abbadia San Salvatore, sul monte Amiata. A causa del “noi restiamo a casa” si è dovuto rassegnare a non incontrare più gli amici. Con estremo dispiacere, perché sono proprio loro, gli amichetti, la maggiore mancanza che sente in questo periodo. Smesso di giocare insieme a loro in casa o all’aperto, con Andrea e Gabriele, i dirimpettai che vivono al di là della strada, ha cominciato a giocare – ognuno dalle rispettive terrazze – a battaglia navale e/o a scacchi, facendo impegnative gare a squarciagola. E così, finché è durata la bella stagione, hanno potuto trascorrere insieme alcune ore di gioco “a distanza”. Vedremo in seguito cosa escogiteranno di nuovo!

 

La musica di Beethoven è medicina per l’anima

Per questi difficili giorni di isolamento, ci sentiamo di condividere il suggerimento del nostro amico Uwe Ralph Fricke, pedagogo ed educatore musicale, direttore artistico del centro terapeutico Abaton in Baviera. Una “Medicina Musicale” che utilizza l’ascolto consapevole dei grandi compositori per aumentare la forza di resilienza, necessaria a trasformare gli eventi negativi in opportunità per crescere. Parlando di forza e resilienza, il pensiero va subito a Beethoven, ma in questo caso, non all’Eroica o alla Quinta, bensì alla Sesta sinfonia in fa maggiore, op. 68 Pastorale, antidoto ideale contro una crisi che ci priva del contatto con la natura. In nostro aiuto giungono i temi stessi della Pastorale, seducenti e cantabili: I. Risveglio di liete sensazioni all’arrivo in campagna II. Scena al ruscello III. Gioconda riunione di contadini IV. Temporale e tempesta V. Canto dei pastori. Sentimenti di gioia e gratitudine dopo la tempesta. Sono i singoli titoli che Beethoven stesso ha dato ai vari tempi della sinfonia, per invitare a meditare sul significato nascosto e simbolico della sua musica, il cui ascolto consapevole (non come semplice sottofondo!) nell’arco della giornata, o alla sera prima di coricarsi, contribuirà a erigere in noi quella barriera protettiva di cui tanto abbiamo bisogno. Fidiamoci e affidiamoci alla Grande Musica, autentica Medicina per l’Anima.