Briatore preoccupato per il Gp L’influencer per i morti sbagliati

Politici, leader, pseudo leader, vip, influencer a nostra insaputa, imprenditori: è un fluire di dichiarazioni, neanche verbose, ma certe, perentorie e dirette. Ieri abbiamo pubblicato la prima parte, quella che segue è la seconda e ultima.

28 febbraio Flavio Briatore, imprenditore: “Questa roba qui è un’influenza. Pensa a quante persone muoiono ogni anno in Italia per la polmonite”. Poi una preoccupazione: “E adesso magari sospenderanno anche il Gran Premio del Bahrain”

29 febbraio Luca Zaia, governatore del Veneto: “Li abbiamo visti tutti i video con persone che mangiano topi vivi o questo genere di cose”.

2 marzo Greg Clarke, vicepresidente della Fifa: “Mi aspetto di disputare regolarmente le amichevoli in programma contro Danimarca e Italia a Wembley. Noi continuiamo con il nostro programma”.

2 marzo Gianni Infantino, numero 1 Fifa: “Non possiamo escludere nulla, ma non dobbiamo lasciarci prendere dal panico. Personalmente non sono preoccupato”.

2 marzo Vittorio Sgarbi: “Hanno umiliato l’Italia davanti al mondo. Perché non si può andare al museo egizio di Torino e invece al Mart di Trento le persone stanno una attaccata all’altra? Siamo alla demenza assoluta: sono morti solo anziani che avevano già gravi patologie!”.

3 marzo Davide Faraone, Italia Viva, su Dario Franceschini: “Spero faccia più il ministro e si occupi di più di aprire i musei. Ad esempio domenica in Sicilia abbiamo sperimentato i musei aperti: una bellissima giornata”.

4 marzo Diletta Leotta, showgirl, va a Courmayeur con il fidanzato. Il blocco del lavoro le permette relax.

4 marzo Paolo Crepet, psichiatra: “Questo si chiama panico, istruzioni per accrescere il panico. È evidente che tutto questo ha un senso per chi è sintomatico, per chi non è sintomatico vuol dire paralizzare la nazione”.

4 marzo Maurizio Costanzo: “Io esco comunque”.

5 marzo Chiara Biasi, influencer: “Non ce la faccio più (…) E nessuno che mi sta sul cazzo che muore”.

6 marzo Donald Trump: “Ho parlato con molta gente e ritengo che il numero sia molto al di sotto dell’1%”. E aggiunge: “Molte persone che contrarranno il virus si riprenderanno rapidamente, senza neanche il medico. Alcuni continuano a lavorare”.

9 marzo Barbara Saltamartini, della Lega, festeggia pubblicamente e in gruppo la vittoria alle suppletive.

12 marzo Christine Lagarde, presidente della Bce: “Non siamo qui per ridurre lo spread”. La Borsa di Milano perde il 14 per cento.

13 marzo Boris Johnson, premier britannico: “La diffusione del contagio è inevitabile, molte famiglie devono prepararsi a piangere dei morti. E l’idea più sensata sarebbe quella di provare a teleguidare il tutto attraverso misure parziali e graduali”, per poi “favorire un’immunità di gregge”.

13 marzo Christian Jessen, 43enne medico britannico, scrittore e presentatore televisivo: “Il coronavirus? Una scusa degli italiani per prolungare la loro siesta”.

15 marzo Emmanuel Macron, presidente francese: “Per evitare il contagio mentre votate, portate una penna da casa, blu o nera”.

15 marzo Matteo Renzi: “Dare colpa alla politica, all’Europa o alla Lagarde per me è populismo”.

16 marzo Salvini e la fidanzata vengono fotografati per Roma: “Non stavo andando a spasso al Colosseo, stavo andando a fare la spesa”.

17 marzo il padre di Boris Johnson: “Continuerò ovviamente ad andare al pub”.

19 marzo Georgina, fidanzata di Cristiano Ronaldo, è impegnata a Madeira nello shopping.

19 marzo Jair Bolsonaro, presidente del Brasile: “L’Italia è un Paese pieno di vecchietti, in ogni palazzo ce ne sono almeno una coppia, come a Copacabana, per questo motivo ci sono tanti morti”.

20 marzo Mark Rutte, premier olandese, punta sull’immunità di gregge: “La realtà è che gran parte del popolo olandese verrà contagiato”.

2. fine

Torna lo Stato, ma non sarà solo

Da Madrid a Parigi, da Berlino a Varsavia, lo Stato-nazione sembra attraversare una sorprendente fase di rinascita. Sono tornate le frontiere, e con esse l’egoismo nazionale. Di fronte all’emergenza, ogni governo nazionale pensa al proprio popolo e tutti sostengono di essere più preparati del vicino. Da un giorno all’altro le capitali europee hanno rivendicato autonomia e sovranità rispetto all’Unione europea, senza chiedere il permesso né al loro popolo né tantomeno a Bruxelles, e adesso governano per decreto come in stato di guerra. “Siamo in guerra”, ha ripetuto del resto Emmanuel Macron mentre schierava agenti armati per le strade di Francia con il compito di far rispettare le sue disposizioni draconiane. E come lui, o quasi, hanno agito molti altri capi di Stato. L’epidemia di Coronavirus sembra aver invertito il corso della storia: svanite nel nulla la globalizzazione e l’integrazione europea, parrebbe che siamo tornati alla lotta titanica tra gli Stati per garantirsi la sopravvivenza nazionale.

L’idea di un ritorno in auge del quadro statale è suggestiva ma fuorviante. Il Coronavirus ha effettivamente messo in primo piano la necessità di affidare all’autorità pubblica la gestione dell’emergenza, ma questa autorità opera solo in parte a livello statale, muovendosi anche su scala locale e a livello europeo. Negli ultimi trent’anni circa, il settore privato è cresciuto notevolmente di dimensione a spese del settore pubblico, in genere privatizzando i profitti e lasciando che fosse lo Stato a farsi carico dei rischi. Ora, di fronte al rischio di proporzioni storiche, il settore pubblico è stato richiamato alle armi ed è possibile che sia destinato a rimanere in scena anche dopo, come è già successo dopo la Seconda guerra mondiale. Stavolta, però, la sua azione dovrà essere sempre più distribuita su diversi piani territoriali, e questo obbligherà gli Stati, se vorranno mantenere la loro utilità e la loro legittimità, a operare all’interno di una rete complessa di attori.

Il Coronavirus ha messo a nudo il pesante stato di abbandono in cui versa il settore pubblico dopo la lunga stagione della follia neoliberalista. Oggi, in Europa, nessuno osa affermare che gli ospedali privati possano combattere il virus meglio di quelli pubblici. Un infermiere sottopagato di un ospedale pubblico vale molto di più di qualsiasi consulente sanitario privato. Ma gli ospedali e i presidi sanitari pubblici vengono generalmente gestiti al livello regionale, e spesso devono fare affidamento su farmaci e attrezzature prodotte in paesi diversi dal proprio. Inoltre, le autorità locali sono sempre più insoddisfatte delle disposizioni provenienti dalle istituzioni nazionali, soprattutto perché ritengono che le soluzioni da esse elaborate siano inadatte a risolvere la loro specifica situazione.

Gli Stati stanno facendo a gara a promettere aiuti finanziari agli ospedali, alle imprese e ai lavoratori, ma di fatto le loro promesse potranno concretizzarsi soltanto se si troverà una soluzione comune al livello della zona euro, dell’Ue, e forse addirittura del G7 e del Fmi. Inoltre, l’impatto reale di queste iniezioni finanziarie dipenderà anche dalla reazione dei mercati transnazionali, senza parlare del fatto che senza la collaborazione delle autorità locali la politica nazionale non potrà mantenere nessuna promessa.

È vero, gli Stati hanno chiuso le frontiere nazionali. Si tratta però di un atto più che altro simbolico, dato che i confini davvero cruciali in questo momento non sono quelli statali, ma quelli intorno alle città o alle regioni dove si sono verificati focolai di infezione. Dubito che prima dell’epidemia un ministro italiano avesse mai visitato Codogno o Vo’ Euganeo, epicentri del primo contagio nel paese. Eppure è all’interno di queste piccole comunità, e non a Roma, che si sta combattendo la vera battaglia contro il virus. Dopo la fine della pandemia gli Stati potranno essere tentati di mantenere la stretta sui loro confini, ma una mossa del genere diffilmente avrebbe effetti positivi. Per sviluppare una politica migratoria efficace, infatti, ci si deve necessariamente impegnare in accordi multinazionali e transfrontalieri con i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Inoltre, le frontiere non fermano gli attacchi informatici e le comunicazioni via Internet e i flussi finanziari non rispettano i confini degli Stati. Infine, è difficile immaginare come gli Stati nazionali possano affrontare da soli il cambiamento climatico.

Alcuni politici hanno promesso di rendere i loro rispettivi Stati indipendenti dalle importazioni di prodotti sanitari. L’idea può essere ragionevole in alcuni casi: non c’è niente di sbagliato nel pensare di produrre guanti o mascherine sanitarie direttamente in Italia o in Belgio invece di dover chiedere l’elemosina ai cinesi in caso di emergenza. Tuttavia, non è possibile fare ricerca e produrre farmaci antivirali o antibatterici aggiornati ed efficaci senza lavorare anche a livello globale, oltre che locale. L’autarchia economica non favorisce l’innovazione e la prevenzione delle crisi.

C’è anche da aggiungere che le identità culturali di oggi sono molto più complesse di quanto sostengono i politici nazionalisti, non solo nel caso degli Stati multinazionali come il Regno Unito, il Belgio o la Spagna, ma anche in paesi come l’Italia e la Germania, dove esistono forti identità regionali senza ambizioni statali. Anche le identità urbane stanno acquisendo sempre più importanza nel mondo di oggi, ma le città non sono interessate a emettere passaporti o a stabilire sovranità e frontiere. Perfino uno Stato-nazione così tradizionale come può essere la Polonia è scavato da divisioni profonde tra polacchi progressisti e conservatori, tra polacchi di città e di campagna, tra cattolici e laici (è impressionante il grado di secolarizzazione dei giovani polacchi). Però, se esiste qualcosa che accomuna i polacchi in questo momento è l’entusiasmo per l’Unione europea, sostenuta da quasi il 90% della popolazione. Nel XXI secolo, l’idea sovranista che vuole i popoli di tutto il continente riuniti sotto proprie bandiere nazionali è una chimera, perciò è molto difficile ricreare un’Europa composta di Stati-nazione.

Concludendo, l’attuale protagonismo della sfera pubblica non è il preludio di un ritorno ai passati fasti dello Stato-nazione. Questa è una cattiva notizia non solo per i sovranisti, ma anche per i socialisti tradizionali, per cui lo Stato-nazione è l’unico fornitore possibile di beni pubblici. Rimarrà deluso anche chi crede che lo Stato-nazione sia l’unica cornice in cui una democrazia può funzionare bene.

Per assicurare il corretto funzionamento di un settore pubblico rivitalizzato dopo la crisi servirà più creatività e una migliore ingegneria istituzionale rispetto a quelle attualmente offerte dai liberali e dai sovranisti. Passata la crisi, gli Stati-nazione potrebbero restare in scena, ma saranno obbligati a lavorare in tandem con altre entità pubbliche.

 

La Figc vuol resuscitare gli sponsor dell’azzardo

Colpo di spugna al divieto di pubblicità sulle scommesse sportive. Uno dei punti cardine del decreto Dignità. È una delle proposte che la Federazione Italiana Giuoco Calcio (Figc) vorrebbe avanzare al governo per curare gli effetti del coronavirus sul mondo del pallone. Insomma, tutto dovrebbe tornare come prima che il divieto, atteso per anni, fosse introdotto. Porte di nuovo spalancate, è la proposta, a pubblicità e sponsorizzazioni. Così come richiesto anche dal presidente del Coni, Giovanni Malagò. Secondo l’Agcom portavano nelle casse delle società 100 milioni l’anno. Secondo i sostenitori del divieto, però, gli effetti ‘positivi’ sui bilanci dei club non compensano quelli di gran lunga più pesanti sui portafogli di cittadini e tifosi. Gli italiani infatti spendono 110 miliardi l’anno nell’azzardo legalizzato, una tassa nascosta.

L’ipotesi della Figc è stata subito oggetto di pesanti critiche. A cominciare da un gruppo di parlamentari M5S da sempre in prima linea contro l’azzardo legalizzato: Massimo Baroni, Giovanni Endrizzi, Matteo Mantero e Francesco Silvestri. Che dichiarano: “C’è un Paese che lotta contro il coronavirus con medici, infermieri, farmacisti, forze dell’ordine e lavoratori in fabbriche e negozi di beni di prima necessità in prima linea a rischio di vita e salute. E cosa fa la Lega Calcio? Chiede che venga abolito il divieto di pubblicità di azzardo e scommesse varato nel 2018, per salvare i profitti di società professionistiche private. Non ci sono parole per un’ iniziativa simile a cui rispondiamo con un no”.

Il cavallo di Troia per il ritorno a questa pubblicità è lo stato disastroso dei bilanci del nostro calcio: un’inchiesta pubblicata ieri dalla Gazzetta dello Sport parla di un rosso di 2,5 miliardi. Cui si aggiunge il disastro del ccoronavirus. Endrizzi e i parlamentari M5S, però, respingono seccamente l’idea che l’azzardo possa salvare il nostro calcio dal buco dell’epidemia: “Il calcio deve essere testimone di valori positivi e di coesione sociale, non il veicolo per diffondere l’abitudine a scommettere che svuota le tasche degli italiani, soprattutto dei meno abbienti. Perché – aggiunge Endrizzi – è provato che la propensione a scommettere è più diffusa tra chi ha minori disponibilità economiche. E aumenta nei periodi di crisi, come dopo il 2008”.

Dal M5S arrivano proposte alternative: “Si possono tentare altre strade virtuose per aiutare i bilanci del calcio, senza mettere le mani nelle tasche di cittadini e tifosi”. Quali soluzioni? “Sappiamo che gli stipendi dei calciatori incidono per oltre il 50 per cento del bilancio delle società calcistiche. In Germania ci sono già state prese di posizione in proposito”. Ma Endrizzi tiene a sottolineare altri aspetti: “In questo periodo di isolamento gli italiani stanno accumulando un tesoretto che invece di essere speso per le scommesse potrebbe essere utilizzato per andare allo stadio. Senza contare che i miliardi finiti in scommesse sono anche sottratti ad altre filiere. Gli italiani si tolgono il pane di bocca per giocare. Non si deve finanziare il calcio così, con i risparmi dei più poveri”.

Virus, anche Benetton & C. chiedono soldi al governo

Fino a un mese fa, la paura più forte era di subire la revoca della concessione per il disastro del ponte Morandi di Genova. Ora, Autostrade per l’Italia (Aspi) dei Benetton guida la carica dei concessionari che chiedono soldi al governo per far fronte all’emergenza coronavirus, ventilando il rischio di fallimento. La lettera, allarmata e minacciosa, è stata spedita lunedì scorso ai ministri dei Trasporti e dell’Economia Paola De Micheli e Roberto Gualtieri. La firma il presidente dell’Aiscat, l’associazione delle concessionarie, Fabrizio Palenzona, uomo di fiducia dei Benetton.

La mossa viene incontro ai problemi degli associati più piccoli ma vale oro per la famiglia di Ponzano Veneto (che tramite la holding Atlantia controlla Aspi) visto che il gruppo controlla due terzi dei quasi 5 mila chilometri di autostrade in concessione dell’associazione dopo che il secondo gruppo italiano, Gavio (1.400 chilometri), ha lasciato Aiscat. E infatti ha seguito una linea diversa, lanciando il suo grido di dolore al governo ma senza chiedere iniezioni di denaro pubblico.

La missiva, tre pagine, ha come oggetto “Emergenza Covid-19, ripercussioni su comparto autostradale. Richiesta provvedimenti urgenti”. Palenzona mette in guardia dalle “inevitabili ricadute sul settore delle limitazioni agli spostamenti imposte dalle norme emergenziali: le autostrade – si legge – stanno assistendo a un crollo del traffico veicolare senza precedenti nella storia”, stimato in “circa l’80 per cento sull’intera rete”. Questo “comporta sin da ora gravi ripercussioni sulla capacità dei concessionari di poter sostenere i costi operativi connessi alla necessità di mantenere in esercizio le infrastrutture, nonché un grave pregiudizio alla possibilità di generare sufficiente cassa dalla riscossione delle tariffe”. Palenzona avvisa che “è a rischio la sopravvivenza stessa di molti operatori” se l’emergenza durasse oltre marzo.

Un allarme che ha senso per le associate più piccole, non certo per Autostrade: nel 2017, ultimo bilancio non intaccato dall’effetto Morandi, ha incassato dai pedaggi 3,9 miliardi spendendone solo 1,5 per gestione e manutenzione e consegnando alla controllante Atlantia 2,45 miliardi di margine operativo lordo (Ebitda). In sostanza, fattura 350 milioni al mese, con costi intorno ai 100 milioni, ora ridotti per il ricorso alla Cassa integrazione e, comunque, sopportabili per qualche mese visto che Aspi produce ogni anno un utile netto attorno al miliardo. Discorso diverso per le piccole concessionarie, tanto più – si legge nella missiva – che perderanno le “royalties dei subconcessionari per le aree di servizio”.

Palenzona lamenta che i concessionari sono esclusi dalle misure del decreto “Cura Italia” e perciò detta la ricetta, chiedendo una misura che sospenda “qualsiasi imposta, tassa o debito a favore delle amministrazioni dello Stato o di enti o società a prevalente capitale pubblico”.

Una formula che sembra scritta per comprendere anche gli 1,7 miliardi di debiti che Aspi ha nei confronti della Cassa Depositi e Prestiti. Non solo. Palenzona chiede anche “una moratoria garantita dallo Stato” dei debiti verso le banche e “la sospensione dell’ammortamento dei beni devolvibili” e, già che c’è, pure “un contributo in conto esercizio, da erogarsi per assicurare la continuità e la sicurezza del servizio” e che vada a coprire lo sbilancio tra costi manutentivi e i pedaggi realmente incassati.

La mossa è arrivata nello stesso giorno in cui Aspi lamentava a mezzo agenzie di stampa di “non aver ricevuto alcuna risposta da parte del governo alle proposte inviate formalmente” per chiudere la partita del Morandi ed evitare la revoca della concessione. In realtà il plenipotenziario dei Benetton Gianni Mion non ha mai davvero voluto aprire una trattativa seria in attesa che le difficoltà giuridiche facessero desistere il governo. La mossa di Palenzona sembra far pesare nella trattativa i sacrifici dei Benetton. Atlantia ha perso la metà del suo valore in Borsa nell’ultimo mese e non è un mistero che, grazie all’asse con Mion, Palenzona punti alla presidenza della holding al posto di Fabio Cerchiai.

Gli esperti: “Il virus non è arma biologica”. Ma non escludono la fuga dal laboratorio

La rivista scientifica tra le più accreditate al mondo sul controllo degli armamenti – il Bulletin of Atomic Scientists americano – rilancia la necessità di indagare a fondo l’origine dell’attuale pandemia. I massimi esperti di biosicurezza internazionali non concordano nell’escludere la possibilità che l’attuale pandemia possa essere stata innescata da un incidente di laboratorio (che avrebbe visto la fuoriuscita del virus, ndr) in uno dei due centri di ricerca presenti a Wuhan, noti per conservare e studiare da anni i coronavirus dei pipistrelli. Secondo quanto riporta il Bulletin, gli esperti concordano sul fatto che SarsCov2 non sia stato manipolato in laboratorio con lo scopo di creare un’arma biologica, ma non escludono la fuoriuscita accidentale. I centri di Wuhan hanno il livello di biosicurezza BSL-2, che “fornisce solo una minima protezione contro eventuali infezioni del personale”, scrive il Bulletin. Un livello di biosicurezza è un insieme di precauzioni di biocontenimento richieste per l’isolamento di agenti biologici pericolosi in un ambiente chiuso.

Il livello di contenimento varia dal più basso, il BSL-1, fino al più alto, il BSL-4. Il BSL-2 è quello per le attività che implicano l’impiego di agenti patogeni che possono rappresentare un pericolo moderato per il personale e per l’ambiente. Il BSL-4, invece, è quello necessario per lavorare con agenti pericolosi ed esotici che presentano un elevato rischio di trasmissione di infezioni in laboratorio per via aerea, con agenti che causano gravi malattie mortali in esseri umani per le quali non sono disponibili vaccini o altri trattamenti. La definizione dei livelli è stata messa a punto negli Usa dal Centers for Disease Control and Prevention (CDC).

L’articolo del Bulletin analizza lo studio di Nature Medicine del 17 marzo scorso e che a sua volta analizza la caratteristiche dell’attuale SarCov2, in particolare quelle che riguardano la porzione di virus che gli permette di legarsi alle cellule umane con tanta efficienza. Gli autori concludono che non sia stato ingegnerizzato in laboratorio e che pure lo scenario della fuoriuscita accidentale sia implausibile. Ma su questo secondo punto, ricorda il Bulletin, gli esperti non concordano. Richard Ebright, esperto di biosicurezza della Routger University’s Waksman Institute of Microbiology, sostiene che è possibile che la pandemia Covid-19 possa essere stata innescata da un incidente di laboratorio avvenuto in uno dei centri presenti a Wuhan – il Centre for Disease Control e il Wuhan Institute of Virology – che da anni studiano i coronavirus di pipistrelli e il Sars. Il loro livello di biosicurezza, il BSL-2, non è adeguato a quello dei rischi che questi esperimenti con tali patogeni rappresentano per l’uomo.

Ma Ebright sottolinea che gli autori dello studio di Nature Medicine si sono basati, per giungere alle loro conclusioni, su ipotesi che non permettono di escludere l’incidente di laboratorio. L’articolo di Nature Medicine, sostiene Ebright, offre una base solida per escludere che il virus sia stato creato di proposito in laboratorio, ma non può altrettanto escludere che un progenitore del Sars Cov 2 sia stato fatto evolvere in vitro su cellule umane nel tempo e che possa essere sfuggito nell’ambiente a causa di un incidente.

Il Bulletin cita anche le opinioni di Yanzhong Huang, ricercatore di Global Health presso il Council on Foreign Relations americano. Respinge molte teorie cospirazioniste sulle origini della pandemia, ma menziona anche prove circostanziali a supporto della possibilità che possa essere fuoriuscito da un laboratorio. Tale prova include uno studio (The possible origins of 2019-nCov coronavirus, il cui autore è Botao Xiao della China University of Technology, ndr) che conclude che l’attuale coronavirus possa essere nato nel Centro di Wuhan per il controllo e la prevenzione delle malattie, situato a soli 280 metri dal mercato del pesce di Hunan, spesso citato come primo focolaio dell’epidemia. Lo studio è stato successivamente rimosso da ResearchGate, un sito per scienziati e ricercatori, ha scritto Huang. Ma ha aggiunto che “finora, nessuno scienziato ha confermato o confutato i risultati di quello studio”.

Thomas Gallagher, virologo alla Loyola University di Chicago, invece respinge l’idea che la pandemia potrebbe avere origine da un incidente di laboratorio. “Gli autori dello studio di Nature Medicine sostengono che la Sars-CoV-2 è nata negli animali, non in un laboratorio di ricerca”, dichiara Gallagher al Bulletin. E l’ipotesi che sia fuoriuscito da un laboratorio è indifendibile, aggiunge. L’argomento, comunque, non può essere considerato chiuso senza ulteriori approfondimenti. Tracciare l’origine dell’epidemia è importante tanto quanto trovare cure e vaccini contro il Covid-19.

Walter Ricciardi, commissario digitale (con prole al seguito)

Saranno resi noti oggi i nomi che compongono il gruppo di esperti che valuterà tutte le proposte tecnologiche arrivate in questi giorni con la call gestita da ministero della Sanità, ministero dell’Innovazione e Istituto superiore di sanità. Un gruppo di tecnici, nomi più o meno noti tra giuristi, esperti di privacy, economisti, giornalisti e anche ricercatori in ambito medico e universitario.

Tra quest’ultimi, ci sono il rappresentante italiano all’Organizzazione mondiale della sanità e consulente del ministero della Salute, Walter Ricciardi, e alcuni suoi collaboratori. Per la parte che riguarda l’aspetto medico, infatti, è stato legittimamente Ricciardi a scegliere i membri: il tracciamento digitale dei contagiati e l’analisi dei dati sono argomenti che ha particolarmente a cuore, in Italia è uno dei maggiori portavoce e fautori – anche con diverse importanti interviste e con dichiarazioni in tv – della necessità di accelerare verso il modello della Corea del Sud dove, va ricordato, oltre al tracciamento digitale dei contatti vengono effettuati tamponi praticamente a tappeto. Ed è quindi anche sotto la sua lente che passerà nell’immediato la mole di dati a cui la task force lavorerà in un primo momento, ovvero set aggregati e anonimi che arrivano da fonti pubbliche per studiare i macro fenomeni e cercare di capire se le strategie applicate abbiano funzionato o no e per capire quali siano le strategie future da adottare. Un prezioso bottino per la ricerca, in ogni ambito, interessantissimo per qualsiasi studioso o ricercatore.

Nella costituzione della task force (che lavorerà, almeno inizialmente, pro bono) c’è stato però un curioso retroscena che ha creato qualche malumore. Nella lista dei primi nomi che hanno iniziato a circolare mercoledì sera c’era quello di Maria Luisa Ricciardi, lo stesso che compariva in una pubblicazione del 2015 firmata assieme a Walter Ricciardi e ad altri autori.

Maria Luisa è infatti la figlia di Ricciardi. Il Fatto non è riuscito a rintracciare un suo curriculum o a trovare riferimenti nel database mondiale delle pubblicazioni di medicina, PubMed, che abbiamo potuto consultare. Nell’unico articolo disponibile online e che porta la sua firma, risulta una collaborazione come parte dell’Istituto di sanità pubblica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, la stessa dove Ricciardi padre è professore ordinario.

“È mia figlia – ha spiegato Ricciardi al Fatto – che collabora con me da anni e sta partecipando con altri miei collaboratori a titolo gratuito alle attività. Quel documento ne registra trasparentemente lo status, ma per ovvi motivi di opportunità non sarà inserita nel gruppo né avrà alcuna nomina ufficiale, lo stesso varrà per altri componenti del gruppo di lavoro che potrebbero avere potenziali conflitti di interesse”. Quindi darà una mano ma non ricoprirà alcun ruolo ufficiale? chiediamo. “Nessun ruolo ufficiale” è la risposta.

Nella lista che il ministero dell’Innovazione pubblicherà oggi, ci saranno circa 30 nomi e quello di Maria Luisa Ricciardi non sarà presente. È stato espunto. La spiegazione è che quella prima lista fosse solo una ipotesi di tavolo di lavoro. Quale che sia stata l’esatta dinamica, meglio così: l’emergenza non è certo il momento giusto per far nascere incertezze sugli esperti che la stanno gestendo e a cui milioni di italiani stanno per affidare la loro privacy e la loro intera vita.

Il rebus della App anti-Covid. Il governo: “Serve prudenza”

Poco più di 300 proposte per il monitoraggio (319) attivo (quindi per il tracciamento digitale) e 504 per la telemedicina: è il bilancio delle idee e dei progetti arrivati fino a ieri al ministero dell’Innovazione, in chiusura della call lanciata nei giorni scorsi e destinata ad aziende e startup per effettuare una ricognizione delle soluzioni tecnologiche già esistenti in Italia tra cui, in caso, scegliere la più adatta al sistema e alla strategia che la politica (il governo) deciderà di applicare per contenere il contagio da Covid-19 anche attraverso il cosiddetto contact tracing digitale. Un raggruppamento che per il momento non ha vincitori, ma che tornerà molto probabilmente utile quando sarà rimosso il lockdown e si ricomincerà lentamente a “vivere”.

Le idee, comunque, iniziano a delinearsi più chiaramente. La ministra dell’Innovazione Paola Pisano, ieri ha parlato delle prospettive con un certo livello di concretezza. “Bisogna essere molto prudenti e non pensare che l’app, se mai venisse selezionata e si decidesse di usarla, sarebbe la soluzione di tutto – ha spiegato su Radio Rai Uno – per fare in modo che funzioni la prima cosa è testarla in un’area, quindi non diffonderla subito su scala nazionale”. Una procedura graduale. L’idea è che, dopo che il cittadino riceverà il messaggio che lo avvisa di essere stato a contatto con un contagiato, potrebbe esserci un numero verde da chiamare per confrontarsi.

Poi, la necessità di fare i test all’insorgere di eventuali sintomi. “Quindi la logistica, in un’applicazione del genere, deve essere pronta e strutturata – spiega ancora la Pisano – posto che l’informazione importante non è l’identità del contagiato ma se sei stato a contatto con un soggetto contagiato. Non serve, insomma, marcare nessuno”. Anche perché, nelle ultime ore, ha fatto molto discutere uno studio del Mit Media Lab che ha mostrato come nei paesi dove sono stati usati sistemi di tracciamento ci siano stati episodi di razzismo e violenza o la nascita di veri e propri “vigilantes” social.

I livelli di privacy sono ad ogni modo diversi: i dati vanno accumulati, custoditi, anche analizzati. Sarà importante capire fino a che livello si possa automatizzare e rendere anonima la loro raccolta, il loro processamento e infine anche il meccanismo che genererà gli alert. Una sfida non indifferente, visto che evidentemente – per il monitoraggio attivo – qualcuno dovrà sapere, per forza di cose, nomi, cognomi e altre informazioni personali delle persone contagiate e anche degli eventuali spostamenti, contatti e frequentazioni via Gps e celle telefoniche, ad esempio. Fondamentale sarà garantire che quei dati non arrivino nelle mani sbagliate o in quelle di chi possa nutrire un qualsiasi tipo di interesse nell’ottenerli (da interessi commerciali e di mercato, ma anche statistici e scientifici). Bisognerà capire quali siano le strutture che li custodiranno e quali siano le garanzie di controllo su di essi. La ministra assicura che l’app che verrà scelta “in nessun caso dovrà mantenere traccia dello status di malato e che i dati eventualmente raccolti dovranno essere cancellati non appena non saranno più indispensabili alla lotta contro il virus”.

Sempre ieri, in una intervista a Repubblica, il garante della Privacy Antonello Soro ha mostrato una “apertura condizionata” sul tema, spiegando quello che gli esperti sostengono da settimane, ovvero che il contact tracing digitale, essendo di fatto una identificazione massiva, ha bisogno di una legge che tenga conto della correttezza e della proporzionalità del trattamento dei dati. Il suggerimento del garante è che, data l’urgenza, si ricorra anche in questo caso a un decreto legge purché abbia una durata “strettamente collegata al perdurare dell’emergenza”. Bisogna evitare, ha poi aggiunto, che si scivoli senza volere “dal modello coreano a quello cinese” scambiando per efficienza “la rinuncia a ogni libertà e la delega cieca all’algoritmo per la soluzione salvifica”.

Sono 1.533, invece, le proposte arrivate per Innova Italia che riguardano tutti gli ambiti in cui l’innovazione tecnologica può apportare vantaggi, quindi dai dispositivi di protezione individuale ai respiratori passando per kit e tecnologie per la diagnosi del Covid-19 fino all’intelligenza artificiale (ad esempio robot e droni) che possano aiutare a contenere il contagio.

La Lega che fa (Zaia) e quella che Parla

Attento a ciò che accade negli Usa, Mauro della Porta Raffo segnala l’accresciuta popolarità di Andrew Cuomo: “Intervenuto assai efficacemente a proposito dell’epidemia in corso e della necessità assoluta di salvaguardare tutte le vite umane”, il governatore dello Stato di New York, “è improvvisamente diventato l’oggetto di non poi del tutto immaginari scenari”. Vedremo se e come di una candidatura Cuomo si parlerà nelle primarie del Partito democratico, ma il tema degli homines novi, selezionati sul campo dall’emergenza Covid-19, riguarda tutte le democrazie, a cominciare dalla nostra.

Il premier Giuseppe Conte homo novus della politica non lo è, ma resta il fatto che chiamato a una sfida senza precedenti, i sondaggi gli danno oltre il 50% di gradimento. Lo stesso dicasi del ministro della Salute, Roberto Speranza, politico ancora meno nuovo, ma la cui leadership a sinistra sembra incontestabile per l’efficienza dimostrata. È a destra, tuttavia, che il post potrebbe creare scenari assai diversi dal pre. Se in Forza Italia, ridotta al lumicino, l’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera già si propone come possibile sindaco di Milano, dentro la Lega la distinzione tra chi si smazza in prima linea tra mille problemi e chi invece lancia proclami dagli studi televisivi è sempre più evidente.

A emergenza finita non sarà facile per Matteo Salvini evitare un impietoso per lui confronto interno. Da una parte, la “Lega per Salvini” in costante decrescita, avvicinata perfino dal Pd. Dall’altra, i tanti sindaci e amministratori leghisti (a cominciare dal governatore del Veneto, Luca Zaia) che dopo essersi spesi a difesa delle comunità (e a rischio della propria salute) forse si chiederanno perché continuare a professare obbedienza a quel tipo che parla, parla, parla.

Renziani, ultima balla: “Col Sì al referendum avremmo gestito meglio questa emergenza”

Ieri in Senato il bellicoso (da giorni ripete che siamo in guerra) Pier Ferdinando Casini (gruppo per le Autonomie, non sfuggirà la coerenza filologica) ha preso la parola sull’emergenza coronavirus con un intervento nostalgico. Che ha toccato “il rapporto tra Stato, Regioni, Comuni per evitare conflittualità istituzionale” e la “moltiplicazione di ordinanze e indicazioni date al cittadino che non capisce assolutamente più nulla”.

Dice Casini: “Qualcuno ha irriso il referendum costituzionale che si fece nella scorsa legislatura sul tema del riordino tra Stato e Regioni: era assolutamente necessario. E i fatti di questi giorni lo dimostrano”. A parte il fatto che il referendum stravolgeva un terzo della Costituzione abolendo di fatto il Senato e complicando a dismisura l’iter legislativo, sullo stesso punto (il moltiplicarsi continuo dei provvedimenti di governo, regioni, comuni) si era espressa il giorno prima alla Camera anche Maria Elena Boschi. Che esprimeva curiosi dubbi (curiosi perché quella riforma portava il suo nome). “Spesso (i provvedimenti, ndr) sono stati contraddittori. Non so se la riforma costituzionale avrebbe risolto del tutto questo problema ma ormai è andata come è andata”. Proviamo a rispondere.

Tralasciando i tagli e i definanziamenti alla sanità di quel governo (luglio 2015, 10 miliardi in tre anni spacciati per “razionalizzazione”) bisogna ricordare che la riforma Renzi-Boschi modificava la lettera “m” del secondo comma dell’articolo 117 accentrando “le decisioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare”. Sarebbe la clausola di supremazia che è tornata in auge in queste settimane. Sul tema però esiste già l’articolo 120 comma 2, che stabilisce che il governo può sostituirsi a Regioni (e agli altri enti locali) per molte materie tra cui “il pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”.

E poi: la lettera “q” dello stesso comma dell’articolo 117 (lasciato invariato sul tema dai “costituenti” del 2016) stabilisce la potestà statale sulla profilassi internazionale. E poi ancora: quel Senato regionale ridotto da Camera alta a camerino avrebbe complicato e non semplificato i rapporti istituzionali.

Sia detto anche che il decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri il 24 marzo, cerca di riordinare la gerarchia decisionale disciplinando le procedure per l’adozione delle misure. Si prevede che siano introdotte con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro della Salute o dei presidenti delle Regioni interessate, nel caso in cui riguardino una o alcune specifiche Regioni, o del presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, nel caso in cui riguardino l’intero territorio nazionale.

Tornando alle mirabili sorte progressive della riforma 2016, ci sia consentito ricordare che in campagna elettorale la propaganda più odiosa fu proprio quella sui presunti effetti taumaturgici del Sì. “La riforma costituzionale darà al Sud gli stessi livelli di cura del Nord: se c’è un farmaco sull’epatite C, perché in Lombardia ci si mette tre mesi per liberarlo e in altre Regioni tre anni? Il livello di assistenza sarà uguale in Lombardia e in Calabria”, disse Matteo Renzi il 27 novembre 2016 (Maria Elena Boschi aveva già tirato in ballo i malati di cancro). L’uguale trattamento, come scrivemmo ai tempi, è già previsto grazie all’articolo 120 della Costituzione e ai Livelli essenziali d’assistenza (Lea), cioè gli standard di cura nazionali. Che esistono dal 2003, e non c’era bisogno di cambiare la Costituzione per fissarli dato che sono già fissati. Il problema, casomai, è la sproporzione di risorse finanziarie e organizzative, che la riforma non toccava.

Il Senato s’incendia. I 2 Matteo invocano il governo Draghi

Dalla Camera in lutto alla curva, dalle rimostranze con filo di voce e le lacrime alle urla e agli avvertimenti incrociati. Il giorno dopo aver parlato a Montecitorio, Giuseppe Conte tiene la sua informativa sullo stato dell’emergenza in Senato. E trova lo stesso scenario da fine del mondo, pochi eletti in gran parte coperti da mascherine e guanti, ma non lo stesso clima. Perché a Palazzo Madama ci sono Matteo Salvini e Matteo Renzi, tecnicamente su versanti opposti ma di fatto gemelli diversi, che gli citano Mario Draghi: uno schiaffo e un auspicio di sfratto. Ma c’è anche il capogruppo dei 5Stelle Gianluca Perilli che accusa proprio Salvini: “Lei è un monumento all’incoerenza, dopo Codogno voleva aprire tutto”. E tutto diventa una brutta seduta condominiale, con la presidente Maria Elisabetta Casellati a strepitare: “Tenete le mascherine e smettete di urlare, o sospendo la seduta”. Ma Conte aveva già parlato.

Innanzitutto, rilanciando sui soldi per l’emergenza: “Nel dl Aprile prevediamo stanziamenti non inferiori ai 25 miliardi già stanziati a marzo, ma vorremmo potenziare ancora di più quest’intervento”. Lo dice soprattutto alle opposizioni, che su spinta del Quirinale cerca di coinvolgere: “Per il dl Marzo abbiamo incontrato i leader di opposizione, ora c’è un nuovo decreto e darò mandato al ministro Federico D’Incà di elaborare un percorso di più intenso confronto”. E proprio il 5Stelle, ministro ai Rapporti con il Parlamento, ha convocato per le dieci di oggi una “cabina di regia” con i capigruppo di Lega, FdI e FI e i loro responsabili economici.

Tra i più vicini al premier, tenterà di smussare le resistenze soprattutto del Carroccio. Ad aiutarlo ci saranno il ministro all’Economia, Roberto Gualtieri, e i suoi due vice, la grillina Laura Castelli e il dem Antonio Misiani. Nell’attesa, Conte sostiene: “È impensabile che la nostra collocazione geopolitica venga condizionata dalle forniture di dispositivi contro il Covid”. Si riferisce alle polemiche sull’ipotetico dazio da pagare a Cina e Russia per il materiale e i medici inviati in Italia. Finisce dopo quasi un’ora, e batte le mani solo la maggioranza.

Di certo non applaude Salvini, anche lui con mascherina, che dal microfono ringhia: “Non fate da soli, ammettere di aver fatto degli errori non è segno di debolezza ma di forza. Senza errori non staremmo commentando oltre 7mila morti”. Cerca il collo del premier, e per lo scopo usa anche Mario Draghi, che sul Financial Times ha auspicato un intervento finanziario della Ue, anche con “un significativo aumento del debito pubblico”. E Salvini accorre: “Ringrazio il presidente Draghi, perché ci ha detto che si può fare debito. Benvenuto, ci serve anche il suo aiuto, sono contento di quello che potrà nascere”.

Ammicca al governissimo, idea che piace anche a Renzi, ufficialmente in maggioranza. Difficile ricordarlo, ascoltando le parole del fu premier verso Conte: “Draghi le ha indicato la strada, serve liquidità. O siamo in grado di immaginare il futuro economico o faremo gli stessi errori fatti sull’emergenza sanitaria”. Per il leader di Iv “50 miliardi complessivi non bastano”. E quasi sfida il premier: “Lei ha fatto una citazione manzoniana, ‘del senno di poi son piene le fosse’. C’è un’altra citazione di Manzoni: ‘Il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Ergo, “propongo una commissione d’inchiesta, penso si possa fare di fronte a 8mila morti. Ci sarà tempo, dopo l’estate”. Però il 5Stelle Perilli non può aspettare, perché il M5S non vuole governissimi ma fiuta il pericolo. Così morde Giorgia Meloni e Salvini: “Conte ha subìto indebiti insulti, chiediamo lealtà”. E sono schiamazzi, con Salvini che risponde e gesticola verso il grillino. Le opposizioni chiedono che Conte venga a riferire anche sul Mes, ma l’Aula boccia la richiesta. Tanto in serata Salvini la dice tutta: “Draghi avrebbe il fisico e le idee per rispondere a Merkel e Macron”.