Conte dice no a Berlino & C. Poi si rinvia all’Eurogruppo

L’Unione europea si presenta a quello che doveva essere un appuntamento storico divisa come forse mai. Se il Consiglio europeo di ieri pomeriggio, la riunione (in videoconferenza) dei capi di Stato e di governo, non è finito a pesci in faccia è perché il mercato ittico era stato consumato tutto per la riunione tra gli ambasciatori dei vari Paesi europei a Bruxelles che precede il Consiglio: l’Ue non ha una strategia comune per rispondere alla recessione innescata dal coronavirus e, per la prima volta, vede un conflitto aperto tra una maggioranza all’interno del board della Bce e i Paesi guida dell’Unione, cioè il blocco del Nord o, riassumendo, la Germania. Il Consiglio si è concluso buttando la palla avanti. Come ha fatto sapere al termine Giuseppe Conte, ai “cinque presidenti” (Commissione, Consiglio, Eurogruppo, Bce e Parlamento) “è stato affidato il compito di tornare con una proposta entro 10 giorni”. L’Italia, per una volta, ha puntato i piedi e il comunicato finale è un brodino che sancisce solo che tutti sono d’accordo sul fatto di non essere d’accordo: viene dato mandato all’Eurogruppo di trovare una soluzione entro due settimane.

Per capire serve un breve riassunto. Il lockdown mondiale farà crollare la ricchezza prodotta nel mondo e anche in Europa. La cosa è senza precedenti in questa forma e richiede una enorme risposta da parte degli Stati per far sì che il dopo-virus non sia peggio della pandemia. In Eurozona questo compito è complicato dalla struttura dei Trattati, che impediscono un intervento diretto della Banca centrale. La Bce, però, ha già varato un programma di acquisti sul mercato da almeno 750 miliardi che al momento ha stabilizzato gli spread. Problema: ci sarà bisogno di più soldi. Chi può darli? Si è cominciato a parlare del Mes, l’ex fondo salva-Stati, che però concede prestiti solo se ci si impegna a ridarli a tappe forzate (le famose “condizionalità”) tagliando spese e aumentando tasse: un suicidio. Il ricorso al Mes, però, consente a chi lo chiede l’intervento diretto della Bce: sempre con le condizionalità-capestro però.

L’Italia allora ha proposto di far intervenire il Mes “senza condizionalità” e due giorni fa, insieme ad altri otto Paesi (Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, etc), ha lanciato persino una forma di “eurobond”. La Germania e gli altri Paesi del Nord (Austria, Finlandia, etc) hanno detto (al solito) no: i Trattati non si cambiano, le condizionalità restano e non ci sarà alcuna “mutualizzazione” del debito. E qui veniamo a ieri: l’Eurogruppo (i ministri delle Finanze dell’euro) aveva preparato una bozza di accordo secondo le richieste di Berlino (il sito del Fatto Quotidiano l’ha pubblicata ieri in esclusiva), ma l’Italia e gli altri hanno detto no. Per questo sono volati gli stracci.

Teoricamente, a coprire le emissioni di debito aggiuntivo degli Stati – tanto più che il Patto di stabilità è sospeso – basterebbe la Bce, ma il board è spaccato e la presidente Christine Lagarde non sa fin dove potrà spingersi (anche le banche della sua Francia sono assai in difficoltà). Il livello di scontro è tale che i vertici della Bce hanno affidato alla Reuters, loro voce “non ufficiale”, un duro attacco a Berlino & C: “La Bce non intende impiegare il programma di emergenza Omt, ritiene che sia uno strumento inappropriato per contrastare la crisi da coronavirus”.

Altrettanto irrituale la veemenza delle parole di Conte: “Nessuno pensa a mutualizzare il debito: ciascun Paese risponderà per il proprio”, “qui si tratta di reagire con strumenti innovativi e adeguati a una guerra che, per essere vinta, va combattuta insieme”.

Quanto al ricorso al Mes, la posizione italiana sembra diventata un no secco (il che pare contraddire, dunque, il lavoro di Roberto Gualtieri in seno all’Eurogruppo, sede in cui un veto italiano non è stato mai prospettato in questi giorni): “Se qualcuno pensa ai meccanismi di protezione personalizzati elaborati in passato, allora voglio dirlo chiaro: non disturbatevi, ve lo potete tenere, perché l’Italia non ne ha bisogno”.

L’Ue attualmente sono insomma almeno due, se non tre (il blocco dell’Est, al momento in traballante alleanza coi nordici): raggiungere un compromesso politicamente accettabile da tutti pare al momento impresa assai difficile, anche per cinque presidenti. “Le conseguenze del dopo Covid-19 vanno affrontate domattina, non nei prossimi mesi”, dice Conte ai colleghi. Il premier italiano è convinto di avere il coltello dell’alleanza con la Francia (e gli altri) dalla parte del manico in questo momento: le ostilità, però, sono appena iniziate.

Bertolaso lunedì stringeva mani ad Ancona senza i guanti e con la mascherina sbagliata

Sta facendo discutere la mascherina indossata dall’ex capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, durante la visita ad Ancona di lunedì scorso. Bertolaso, consulente della Lombardia, da mercoledì è ricoverato al San Raffaele di Milano, per fortuna pare in via precauzionale, dopo essere risultato positivo al tampone da Covid-19.

Altro motivo di discussione la necessità da parte sua di compiere quel sopralluogo ad Ancona, stringendo mani senza indossare guanti, in attesa dell’esito del tampone a cui si era sottoposto. Bertolaso – collaboratore del governatore lombardo Attilio Fontana per l’ospedale alla Fiera di Milano – lunedì è atterrato in elicottero al molo Rizzo del porto di Ancona, invitato dal governatore delle Marche, Luca Ceriscioli, per una consulenza urgente: creare una struttura ospedaliera ex novo da cento posti letto di terapia intensiva in 10 giorni recuperando qua e là 12 milioni di euro. Bertolaso non aveva i guanti e indossava una mascherina Ffp2 (Filtering face piece) con valvola. Questa tipologia di presidio sanitario garantisce protezione a chi la indossa, ma non alle persone con cui entra in contatto: “Quel giorno Ceriscioli (da martedì in quarantena assieme a una ventina di persone, con annesso tampone a giorni, ndr) indossava correttamente una mascherina chirurgica – ha attaccato Luisanna Cola, primaria del reparto di anestesia e rianimazione dell’ospedale Murri di Fermo –. Bertolaso invece indossava una mascherina che non va usata in pubblico, perché sputando aria all’esterno della maschera invade l’ambiente circostante e mette a rischio chi sta vicino. Le goccioline che escono con l’espirazione, con valvola aperta, si depositano sulle superfici e favorisce le infezioni da contatto, le più frequenti e per le quali si raccomanda di lavare le mani”.

Intanto anche la seconda opzione per ospitare i 100 posti di terapia intensiva, dopo la nave ormeggiata in porto, è saltata. Il sopralluogo di ieri al Palaindoor di Ancona è stato negativo e adesso manca un’alternativa. Per Ceriscioli un’altra pessima notizia in serata: il ministero della Sanità cinese ha bloccato la missione di 160 sanitari nel capoluogo marchigiano per realizzare un ospedale da campo.

Ci sono infermieri che si dimettono perché non reggono

I camici vengono parcellizzati, le mascherine non sono sufficienti per tutti. “E allora succede che i turni già pesanti di dodici ore si dilatino: fino a raggiungere le 15 ore. Perché non si può uscire dal reparto fino a quando chi deve sostituirti non è stato dotato della mascherina filtrante. La programmazione dei turni è diventata una roulette russa”. Alberto è un infermiere dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Lavora nel reparto di terapia intensiva Covid-19. “Un luogo – dice – che quando lo vedi ti cambia la vita. Il paziente è ostaggio del virus, l’impatto psicologico è devastante: e solo noi possiamo stargli vicino, aiutarlo”.

Alberto si sente abbandonato. Anche qui, al Fatebenefratelli, scarseggiano molte cose. Non solo le mascherine. Ma anche i farmaci: i salvavita, i curari, i sedativi. Mancano pure i caschi per la ventilazione invasiva degli infettati. Sono monouso. Ma adesso l’ordine è: lavateli con la candeggina. Quando alla fine si esce dal reparto, c’è la vita fuori da programmare, ci sono i figli piccoli. “Solo che al personale sanitario non è stato riconosciuto il congedo parentale di 15 giorni – spiega Alberto –. C’è il bonus baby-sitter ma di fatto è come non averlo. Perché nemmeno le baby-sitter si possono spostare a causa delle forti limitazioni alla mobilità. Percepiamo 1.500-1.600 euro al mese e abbiamo una compensazione di 100 euro: uno schiaffo morale”. Alberto non si è ammalato, non come tanti suoi colleghi e medici.

Il bilancio ogni giorno lo traccia l’Iss. E i numeri aumentano: ieri risultavano contagiati 6.414 operatori sanitari, 209 in più rispetto a mercoledì. Di fronte a una emergenza che è come uno tsunami, è anche difficile rimpiazzare chi si ammala. “Perché trovare qualcuno disposto a trasferirsi e a rischiare per trenta euro all’ora, quando devi anche pagarti l’alloggio, non è facile”, osserva Alberto. C’è poi la questione degli infermieri precari, i più ricattabili. Al San Raffaele, sempre a Milano (ospedale privato convenzionato con la Regione Lombardia), li hanno mandati in prima linea. “Sono stati i primi ad essere scaraventati nelle terapie intensive allestite per controbilanciare la forte flessione del business derivante dai ricoveri programmati – denuncia Margherita Napoletano, delegata di Sgb, sindacato generale di base della Lombardia a cui fanno capo infermieri, operatori sociosanitari, tecnici e personale amministrativo –. Molti si sono già ammalati: un infermiere e un medico sono in terapia intensiva, dieci in ossigenoterapia”. Poi ci sono quelli scossi perché non riescono più ad assistere adeguatamente le persone che hanno altre patologie. Succede a Pavia, all’ospedale San Matteo, dove le autoambulanze, sovraccaricate di chiamate, non riescono più a garantire soccorsi rapidi. Lara lavora qui, nel reparto emergenze-urgenze per gli infartuati. “I ritardi – dice –, fanno sì che ci arrivino pazienti in condizioni già gravissime. Una fonte di angoscia. È terribile vedere persone che stanno tanto male alle quali non puoi offrire l’assistenza che riuscivi a fornire prima”.

C’è chi non regge. E sceglie di licenziarsi. Sono soprattutto le nuove reclute, quelle assunte con contratti a tempo determinato per fronteggiare l’emergenza. È già accaduto nelle Marche, in Toscana. “Vengono assunti e poi subito indirizzati alla rianimazione – spiega Andrea Bottega, segretario di Nursind, sindacato nazionale di categoria –. Reparti in cui viene richiesta una specialità elevata che richiede molte ore di formazione. Invece ne vengono erogate solo quattro. Giusto il tempo di addestrarli alla vestizione, a capire come devono indossare e togliere i dispositivi di protezione per non infettarsi. La realtà è così drammatica che preferiscono dimettersi”.

Milano piange ancora: +848 casi, la curva sale

Tregua finita per Milano e la sua area metropolitana. SarsCov2 non molla la presa e così dopo due giorni di relativa calma con una curva più blanda, ieri la linea è tornata pressoché verticale con un incremento di 848 nuovi casi di Covid positivi. Si tratta di una crescita record nella giornata di ieri, rispetto ai 386 casi di Bergamo e ai 334 di Brescia, le due province che nell’ultima settimana hanno mostrato una escalation del contagio. In totale l’area metropolitana è arrivata a 6.922. Si torna dunque sulle barricate. Soprattutto nella città di Milano dove i casi in più ieri sono stati 310, arrivando a 2.748, il dato più alto tra i comuni lombardi.

La fotografia della provincia di Milano conferma l’andamento nazionale che con 80.539 si avvicina al totale di tutta la Cina. L’incremento giornaliero è stato di 4.492 casi, con il numero di decessi aumentato di 712, di questi 387 sono stati registrati in Lombardia. La regione con l’aggiornamento di ieri è arrivata a 4.861 morti in 36 giorni di emergenza, mentre la cifra nazionale è di 8.215 (41 medici), con l’ultima vittima, un 26enne capo scout di Predappio. I contagi in Piemonte e Veneto restano sotto la soglia dei 6mila. Nelle regioni meno colpite i positivi aumentano entro il 10% ma alcune situazioni nel centro-sud preoccupano, anche perché le terapie intensive sono già in sofferenza. Come nel Lazio (2.096 totali, più 10,3%) dove però i contagi aumentano non tanto a Roma quanto a Frosinone (+20%). Sale l’Abruzzo (946, più 16,4%) con un’impennata a Teramo (+34,3%) e ancora di più la Sicilia (1164, più 17,1%), in particolare Messina (+26,2%) e Enna (+51,8%), mentre Catania resta la provincia più colpita.

La curva sale anche nelle regioni meno colpite con il Molise 103 (+ 30, 41,1%) e la Basilicata 134 (+21, 18,6%). L’aumento di ieri, secondo gli esperti, è legato però al maggior numero di tamponi fatti e non a una reale ripresa del contagio. Buone notizie arrivano dai guariti che ieri hanno superato quota 10mila. Il bollino nero spetta sempre alla Lombardia con un aumento ieri di 2.500 di casi su un totale di 34.889. Si tratta, però, di cifre poco indicative e che non fotografano la reale dimensione del contagio. Questi numeri, si è ormai capito, vanno almeno quintuplicati per coinvolgere i casi non segnalati o gli asintomatici.

In Lombardia dunque la cifra supera i 200mila contagi. La situazione resta drammatica. A darne conto ieri prima della diffusione dei dati ufficiali, il presidente Attilio Fontana che si è detto “preoccupato” e ha aggiunto: “Se il trend dell’aumento ricomincia sarebbe abbastanza imbarazzante” e significherebbe che “qualcosa non ha funzionato”. Cosa, Fontana non lo spiega. Di certo la scelta, annunciata nei giorni scorsi, di tornare più sul territorio per controllare i malati domiciliari ha spinto i sindaci di Bergamo, Brescia e Milano a chiedere più tamponi e più controlli.

Cosa che in realtà sta succedendo da almeno 72 ore con i tamponi in Lombardia passati dai 73.242 del 23 marzo agli 87.713 di ieri. Un dato che anche secondo l’assessore alla Sanità, Giulio Gallera, spiega in parte l’aumento dei casi. “Ma questo – dice il professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco – non è ancora niente”. La battaglia di Milano inizia adesso. “I casi che aumentano – prosegue Galli – sono comunque casi ancora vecchi e forse dati da qualche tampone in più”. Di certo la nuova onda deve ancora arrivare. Anche perché sono di una settimana fa le immagini della metropolitana milanese piena di persone. Non solo: gli spostamenti in città monitorati attraverso i cellulari indicano una decrescita di appena 5 punti rispetto al 40% registrato nella scorsa settimana.

I dati sui comuni dell’area metropolitana di Milano confermano una maggiore presenza di positivi, come già spiegato dal Fatto, nella zona a nord della città. Qui gli incrementi sono consistenti, con Cologno Monzese arrivata a 208, con un aumento in 48 ore di ben 51 casi. C’è poi Sesto San Giovanni con 178, Bresso con 139, Pioltello passata da 72 a 120 positivi. Il bollino rosso sta qua, attorno ai quartieri di Niguarda e Crescenzago.

Resta alto il contagio nella fascia est, appena oltre i quartieri di Lambrate, Forlanini e Corvetto con un totale a ieri di 323 casi. Meno colpita, perché meno popolosa e con meno concentrazione di piccole e medie imprese, l’area sud-ovest, oltre il quartiere del Giambellino, con 158 casi tra i comuni di Corsico, Buccinasco, Pieve Emanuele e Trezzano sul Naviglio. Insomma, SarsCov2 torna ad assediare le mura di Milano.

Coronavirus: quasi 3 mesi fa il ministero era già allertato

Due mesi e 21 giorni fa, il governo già sapeva, ma nulla è stato fatto. Ai primi di febbraio addirittura si ha la certezza che SarsCov2 manderà al collasso le terapie intensive. Mancano tre settimane al caos, ma la macchina istituzionale non parte. Torniamo al 5 gennaio. L’Italia attende come al solito la vigilia della Befana. Il rischio di un’epidemia resta confinato a oltre 10mila chilometri di distanza. Tanto più che nemmeno dalla città di Wuhan arrivano notizie drammatiche. Eppure laggiù SarsCov2 gira dal 23 ottobre. Decine di casi di polmonite grave si trasformano in poche settimane in Covid-19 conclamati.

L’Oms sta alla finestra, recupera i dati e li rigira ai governi di tutto il mondo. Anche all’Italia. Il 5 gennaio il ministero della Salute invia a vari enti tra cui l’Istituto superiore di sanità, l’ospedale Spallanzani di Roma e il Sacco di Milano una nota di tre pagine. Oggetto: “Polmonite da eziologia sconosciuta”. Il ministero spiega che al 31 dicembre la Cina ha segnalato alcuni casi di questo genere. Il 3 gennaio i casi sono diventati già 44. Il mercato di Wuhan viene chiuso e da lì a poche ore inizieranno a emergere i primi Covid. La nota del ministero aggiunge dell’altro. Spiega fin da subito quali sono i sintomi precisi per riconoscere il contagio scatenato dal virus SarsCov2. Si legge: “I segni e i sintomi clinici consistono principalmente in febbre, difficoltà respiratorie, mentre le radiografie al torace mostrano lesioni invasive in entrambi i polmoni”. Si tratta delle ormai note polmoniti interstiziali bilaterali. Tutto, dunque, era già scritto oltre due mesi fa. Anche perché da lì a pochi giorni quella eziologia sconosciuta si rivelerà un patogeno molto aggressivo per il quale non c’è vaccino né cura. Eppure si prosegue come nulla fosse. Gli italiani nulla immaginano. I vertici sanitari invece sì, ma queste sintomatologie non vengono trasmesse a quei medici di base che stanno sul territorio.

Solo dopo il 21 febbraio, quando l’Italia ha il suo “paziente 1”, si tornerà a parlare di strane polmoniti avvenute tra dicembre e gennaio. Ma ormai è troppo tardi, i buoi sono già scappati. Sempre a gennaio, il 9, in Lombardia si riunisce per la prima volta l’Unità di crisi che oggi affronta l’emergenza. Dopo quella riunione non accade nulla. Il virus è roba ancora da pagine degli esteri. Eppure il documento del ministero è chiaro: “Il verificarsi di 44 casi di polmonite che necessitano di ospedalizzazione e formano un cluster deve essere considerato con prudenza”. Si arriva alla fine del mese di gennaio e la Germania, non la Cina, segnala quattro casi di Covid-19 già circoscritti. In quel momento si guarda solo alla regione dello Hubei. Si chiudono i voli e il governo afferma di essere “pronto”. Peccato non si sia accorto che il virus arrivato dalla Baviera già veleggiava per le pianure del Basso Lodigiano dal 26 gennaio. Questo, grazie al lavoro del professor Massimo Galli del Sacco, lo sapremo una settimana dopo l’emergenza. Il governo si dichiara pronto, pensa ai voli ma non agli ospedali, né a inviare linee chiare ai medici di base. Il rischio prosegue a essere sottovalutato durante almeno tre riunioni che si svolgono all’Istituto superiore di sanità dai primi febbraio. A quegli incontri partecipa anche il professor Antonio Pesenti, direttore di rianimazione al Policlinico di Milano. Il suo racconto conferma la sottovalutazione del rischio. Pesenti, come anticipato già ieri dal Fatto, spiega di “simulazioni sullo sviluppo del contagio” e rivela come “fin da subito era stato chiarito che le terapie intensive sarebbero andate in sofferenza”. Siamo a tre settimane dal primo caso italiano. Eppure i dati di quelle riunioni non spingono il governo ad anticipare il rischio. E con la previsione poi rivelatasi corretta di un collasso delle rianimazioni, solo il 17 febbraio in un’ulteriore riunione si inizia a discutere su quali strumenti acquistare. Le parole, però, restano tali e tre giorni dopo, alle 21 del 20 febbraio, il tampone conferma il primo paziente Covid in Italia. La sottovalutazione prosegue. Il 2 marzo, spiega il sito Tpi, una nota dell’Iss consigliava la creazione di una zona rossa in Val Seriana (Bergamo). Cosa che non avverrà.

Video-rissa fra Arcuri e tre Regioni: “Grazie, ma facciamo da soli”

“Almeno la metà dei ventilatori della gara Consip verrà consegnata solo alla fine dell’emergenza che, come noto, non si prevede breve”. Quando Domenico Arcuri rivela che più di qualcosa sta andando storto nella gestione degli approvvigionamenti, la videoconferenza (di cui rimangono dei file audio) organizzata ieri mattina con le Regioni in lotta contro il coronavirus si è già trasformata in una rissa. E le sue parole non placano gli animi, anzi.

Davide Caparini, l’assessore al bilancio della Lombardia, la regione più martoriata dal contagio, lo incalza: “Voglio sapere se ci darete quello che abbiamo chiesto, altrimenti mi arrangio da solo con la nostra centrale acquisti e con le donazioni dei privati. Me lo dovete dire una volta per tutte, sennò queste riunioni sono solo una seduta di psicanalisi di gruppo”. Ma prima e dopo di lui è un susseguirsi di voci, tutte ugualmente esasperate perché le risposte non arrivano: che fine hanno fatto tamponi, tute e mascherine promessi? E i ventilatori indispensabili per tentare di salvare chi sta peggio, quando saranno disponibili? Qualcuno addirittura denuncia di aver ricevuto cose diverse da quelle richieste e a lungo attese, pacchi sguarniti e pure qualche pezzotto.

Sul banco degli imputati Arcuri ci sta scomodissimo, anche se sa che l’incarico ingrato a cui è chiamato potrebbe fruttargli in futuro un balzo di carriera, magari in Cassa Depositi e Prestiti ora affidata a Fabrizio Palermo. E così, nonostante la lunga esperienza gli abbia fruttato abbondanti due dita di pelo sullo stomaco, alla fine sbotta di fronte alla gragnuola di critiche che gli arrivano dai referenti dei territori: “Se la Lombardia va sul mercato per conto suo, come hanno fatto già altri come la Regione Trentino-Alto Adige, ti chiedo anche di comprare qualcosa per me”, dice all’amico leghista Davide (Caparini) che però non vuol sentire ragioni perché la Regione è allo stremo.

Parole ben più dure il commissario Domenico Arcuri le riserva a Consip, la centrale acquisti della Pubblica amministrazione controllata dal ministero dell’Economia che nella prima fase dell’emergenza è riuscita ad accaparrarsi ottomila ventilatori per le rianimazioni. Ma a oggi solo sulla carta, a sentire Arcuri: “Ho preso atto che se ne arrivano la metà saremmo già gli uomini più felici della terra”. Ma queste parole e le altre che pronuncia non fanno breccia. E così riattacca: “Mi prendo carico delle responsabilità e dei risultati del commissario, ma non di Consip che è un fornitore della Protezione civile che quasi sempre non rispetta le tabelle di consegna” spiega cercando poi di smussare i toni: “Consip ha fatto una gara molto in fretta purtroppo in un momento di emergenza profondo: ha raccolto le offerte dei produttori e obiettivamente non ha responsabilità per i mancati arrivi. Ma certamente ha quella di non saper pianificare questi arrivi. È inaccettabile che non ci dica per tempo che le consegne programmate invece non avverranno”. E poi affonda il colpo: “Da un paio di giorni sono riuscito a farmi fare uno schema da loro: ho preso atto che almeno il 50 per cento dei ventilatori acquistati verrà consegnato alla fine dell’emergenza che non sarà breve. Spero che almeno l’altro 50 per cento riusciremo a portarvelo”.

Cosa e quando però rimane avvolto nel mistero, anche ora che il boccino è nelle sue mani. Pare di capire che le consegne, organizzate per fasce di priorità, sono tutte per aria: i lotti che dovevano esser consegnati per primi non sono arrivati e ci sono pure aziende che hanno fatto prima del tempo assegnato ma gli ordini non sono riscalati per consentire alla merce già disponibile di arrivare a destinazione. E allora dopo il leghista Caparini, pure Michele Emiliano che è di tutt’altra parrocchia politica, comincia a dire che “se esiste un mercato parallelo che voi non riuscite a gestire, allora io compro da solo in base alle relazioni internazionali che ciascuno di noi governatori ha”. Le voci si accavallano.

A un certo punto prende la parola la governatrice dell’Umbria Donatella Tesei, anche lei leghista, che teme il linciaggio perché non sa che rispondere sui dispositivi che mancano: “Ci servono camici impermeabili. E poi i caschi: a oggi consegne zero e lo stesso per le mascherine total face. Di tute per i sanitari ne abbiamo ricevute 164 in tutto quando ne occorrerebbero 130 al giorno. Attualmente abbiamo solo 13 posti in terapia intensiva, stiamo per andare in crisi: abbiamo un bisogno disperato e urgentissimo. Ma soprattutto – si lamenta Tesei – se mi si dice che arriva una certa cosa, mi aspetto che poi arrivi davvero: ieri notte nei pacchi che ci avete consegnato abbiamo invece trovato tre carrelli e soli due respiratori rispetto a quelli su cui confidavamo. Per di più sono ventilatori cinesi e non sappiamo neanche se funzionino come è successo con altri”. Arcuri la rassicura: non si spiega perché a lui risultino le consegne di cui invece non c’è traccia. Ma almeno su un punto si sbilancia: “La fornitura cinese di adesso non ha niente a che fare con quella di dieci giorni fa quando fortunatamente ancora facevo l’amministratore delegato di Invitalia”.

Questo il quadro che non promette nulla di buono. Soprattutto sui tempi. Anche perché dei nuovi canali di approvvigionamento esplorati da Arcuri si sa pochissimo in attesa che diventi operativo il consorzio italiano per produrre almeno le mascherine per limitare la totale dipendenza dell’Italia dalle esportazioni. Prendiamo ad esempio i 600 ventilatori (e le seicento mila mascherine) reperite in India e soprattutto in Cina da Snam di cui già da qualche giorno è stato dato annuncio. Si sa che verrà “finalizzata una lettera di intenti con l’azienda. Ma al momento ancora non c’è niente di scritto” fanno sapere dalla struttura commissariale. Snam chiarisce: “Tutti i beni già acquistati la scorsa settimana e in donazione saranno destinati a strutture sanitarie regionali in accordo con la struttura del commissario straordinario. I primi quantitativi, compatibilmente con le attuali tempistiche dei trasporti internazionali, dovrebbero iniziare ad arrivare da Pechino tra la fine di questa settimana e l’inizio della prossima”.

Bertoleso

Tutto ci divide da Bertolaso tranne il sentimento di umanità che ci fa tifare per lui, così come per tutti gli altri malati. Ma più leggiamo le cronache del suo contagio, più ci domandiamo che diavolo sia saltato in mente alle volpi delle Regioni Lombardia e Marche di reclutarlo. A noi, per sconsigliarne l’ingaggio, bastavano i precedenti nell’emergenza terremoto e in tutte le altre (finte) di cui B. lo nominò supercommissario con pieni poteri. Ma ora il Messaggero aggiunge motivi più attuali in uno straziante ritratto dell’Eroe dei Due Mondi partito dal Sudafrica per salvare l’Italia con le nude mani, il “super medico” che “non è tipo da adagiarsi nel letto”, ma “lavora, coordina, decide via telefono e computer” e “nel suo isolamento tutt’altro che remoto lo chiamano tutti, da Conte ad Arcuri, da Berlusconi a Salvini e a Meloni, da Zingaretti e a mezzo mondo”, “convinto che ancora una volta in hoc signo vinces”.

Il virus, secondo CaltaNews, potrebbe averlo ghermito lunedì nelle Marche, dove un filmato lo immortala con la mascherina sbagliata e resa comunque vana dalle allegre strette di mano senza guanti che, contro ogni regola e buon senso, Mister Wolf distribuisce a chiunque passi di lì. O forse alla Fiera di Milano, “parlando con tutti, avendo mille contatti e scambiando continue parole, oppure nel palazzo della Regione lombarda”. Così ora chiunque l’ha incontrato è in quarantena: i suoi “quattro collaboratori”, il “governatore marchigiano Ceriscioli, il presidente del consiglio regionale e altri”. Tutti tranne Fontana, perché è appena uscito dall’altra quarantena e poi “l’ho visto solo due minuti” e in due minuti quel bradipo del Corona non fa in tempo. Ma “come sarebbe accaduta la trasmissione?”, domanda il Messaggero. “Bertolaso non fa mistero di sentirci poco da un orecchio”. Ohibò. “E si avvicina ai suoi interlocutori per ascoltare bene quello che hanno da dire”. Purtroppo, “se non c’è distanza di sicurezza di almeno un metro, il virus può attaccare”. Già, ormai lo sanno pure i quidam de populo: possibile che non lo sappia il supermedico superconsulente superesperto? Forse lo sa ma, mezzo sordo com’è, non può tenere la giusta distanza: metti che uno gli dica “ospedale” e lui ordini un cordiale, o un pedale, o un maiale, o un pitale. Non sia mai. Quindi, a furia di tendere l’orecchio a questo e quello, uno infetto deve avergli sputato in un occhio. Ma benedett’uomo: non poteva dirlo prima che, oltre a essere a rischio per i suoi 70 anni, è pure audioleso e affetto dal raptus compulsivo delle strette di mano, e restarsene in Africa? Con tutti i guai che ha la Lombardia, le mancava giusto lui.

Opere da camera (forzata): basta coi “Capricci”. Cogliamo i “Fiori”

Il silenzio della reclusione domestica (per i fortunati che l’hanno silente) è propizio alla lettura e all’ascolto della musica. Da non sovrapporre, ché invece di sommarsi si elidono a vicenda. Vediamo di fare un’ideale isola musicale per i giorni, che speriamo brevi ma temiamo lunghi, della quarantena.

Se dovessi esser non ovvio, giusto, consiglierei di ascoltare Das wohltemperierte Clavier di Bach, i Quartetti di Haydn e le Sinfonie di Beethoven: non c’è nulla di meno noto di ciò che crediamo di conoscere. Ma voglio fare una raccolta di rarità, alcune conosciutissime ma poco frequentate. Incominciamo dall’Autunno del Medio Evo o prodromi della musica rinascimentale con la Missa cujusvis e la Missa prolationum di Johannes Oqueghem, fiorito nel tardo Quattrocento: la tecnica combinatoria del contrappunto vi raggiunge complessità che toccano Bach e Schönberg a un tempo. Suo successore, nonché sommo fra i compositori rinascimentali, è Josquin Desprez, che lavorò anche nella cappella papale e alla morte venne paragonato a Michelangelo. Egli unisce la perfetta pulchritudo melodica alla complessità orizzontale delle linee. Oltre qualche Mottetto, ascoltiamone la Missa Hercules dux Ferrariae e le due Messe dette “L’homme armé”.

Restiamo a Ferrara e a Roma per ricordare uno dei più grandi compositori d’ogni tempo, Girolamo Frescobaldi: consiglio alcune sue Toccate e Capricci, e un capolavoro organistico più semplice in apparenza, i Fiori musicali. Frescobaldi è all’origine di tutta la grande produzione organistica del Nord, ma non pezzi per organo di Bach vorrei ricordare sibbene sue delizie pianistiche meno note, come il Capriccio sopra la lontananza del fratello dilettissimo, la Fantasia cromatica e Fuga e le Sonate e Partite, opere che procurano il sommo diletto spirituale.

Di Haydn inviterei ad ascoltare la sublime serie di Adagi per orchestra riunita sotto il titolo de Le sette parole di Cristo in Croce. Ognuno degli Adagi si basa sopra un tema ch’è la scansione ritmo-melodica della parola latina pronunciata dal Salvatore appeso all’albero della Croce. Di Beethoven il meraviglioso ciclo di Lieder An die ferne Geliebte e di Schubert, per converso, una delle ultime e profetiche composizioni, il Quintetto in Do maggiore. Sempre in Do maggiore è l’opera di Schumann che più mi affascina, la Fantasia per pianoforte. In parte erede spirituale di Schumann è Brahms: due fra i più straordinarî esempî di forma di Sonata sono i due Sestetti per archi.

Nel Novecento invito ad ascoltare la Passacaglia di Webern, il Poema Sinfonico di Schönberg Pelléas und Melisande e le trascrizioni orchestrali di opere di Bach effettuate da questi due Autori: un vertice. Al Concerto per violino di Berg affiancherei un suo opposto, il Concerto gregoriano di Respighi. La somma arte della Variazione può ammirarsi sia nei Metamorphoseon modi XII, sempre di Respighi, che nelle Variazioni per orchestra di Schönberg che nelle Metamorphosen di Richard Strauss. Naturalmente tutto quello ch’esce dalla penna della famiglia Strauss, quelli di Vienna, è somma musica, e lo pensavano sia Richard che Ravel. Il Concerto in Fa di Gershwin e Un americano a Parigi sono l’elegante e snob complemento di queste opere.

Ma torniamo in Italia, per chiudere una lista di amori con due fra le somme opere sinfoniche del Novecento, Sicania e la Sinfonia in La di Gino Marinuzzi. Ho fatto una lista parziale, secondo i miei amori; nessuno potrà negarne l’obbiettività.

Le “Notti magiche” del 1990: tutti a guardare “Twin Peaks”

Il 1990 fu l’anno dei Mondiali di calcio in Italia, della Guerra del Golfo e di Twin Peaks. Tra pochi giorni, l’8 aprile, sarà il 30esimo anniversario dalla messa in onda del primo episodio della serie sul canale americano Abc. E a tre decenni di distanza possiamo dirlo forte: Twin Peaks ha cambiato la storia della televisione.

Per la prima volta un grande regista del cinema, David Lynch, si misurava con il piccolo schermo (dopo averlo definito “un medium orrendo”); per la prima volta un telefilm dalla trama complessa, in cui si parlava anche di droga, violenza e sesso, veniva trasmesso in prima serata. Fu un successo senza precedenti negli Stati Uniti e pure in Italia, dove la serie andò in onda su Canale 5 dal 9 gennaio 1991 con il titolo I segreti di Twin Peaks facendo registrare, nella prima stagione, una media di dieci milioni di spettatori a serata.

Anche oggi è difficile dire con precisione cosa fosse Twin Peaks. L’intento iniziale di Mark Frost, co-creatore della serie, era quello di “avvolgere il mistero dell’omicidio intorno alla soap opera per creare un genere ibrido”. La bizzarra e inquietante fantasia di Lynch contribuì a creare un amalgama fra poliziesco, melodramma e soprannaturale. Se si guarda a quello che è successo negli ultimi anni, con il boom dello streaming e la produzione in scala di serie tv di qualità, non è esagerato sostenere che tutto sia cominciato quell’8 aprile del 1990.

Twin Peaks dimostrò che il pubblico televisivo non era necessariamente di serie B, disegnando, con grande anticipo, il confine fra i “vecchi” telefilm e le “nuove” serie tv. Da X Files a Lost, da True Detective a Black Mirror: tutte, in qualche modo, sono figlie della creatura di Lynch e Frost.

La trama. Nell’apparentemente idilliaca cittadina di Twin Peaks, nord-ovest degli Stati Uniti al confine con il Canada, un pescatore trova il cadavere di una ragazza avvolto in un telo di plastica. La vittima è Laura Palmer, la reginetta del liceo. “Chi ha ucciso Laura Palmer?”: la frase-tormentone è anche la domanda con cui comincia la serie. Ma con il procedere degli episodi – 8 la prima stagione e 22 la seconda – le vicende prendono una piega inaspettata. Da un lato c’è il mistero, con gli investigatori e i possibili colpevoli, dall’altro gli amori nascosti, i tradimenti e i sotterfugi (la soap opera di cui parlava Frost). Ma ci sono anche elementi soprannaturali così enfatizzati da diventare grotteschi, e personaggi al limite dell’assurdo come il Nano e la Signora del ceppo. L’agente speciale dell’Fbi Dale Cooper scoprirà presto che l’omicidio di Laura è solo la punta dell’iceberg e si troverà risucchiato in una spirale di follia.

Fra le ragioni del successo di Twin Peaks ci sono sicuramente i personaggi. Lo sceriffo Truman, il cattivissimo Leo Johnson, la sensuale Audrey Horn: ognuno di loro incarnava, a modo suo, la provincia americana. L’agente Cooper interpretato da Kyle MacLachlan, che parlava con Diane attraverso il suo registratore portatile, beveva litri di caffè nero e adorava la torta alle ciliegie, è diventato un personaggio di culto. Una parte decisiva l’ha giocata la colonna sonora di Angelo Badalamenti, cui Lynch concesse uno spazio spropositato (in media 30 minuti di musica per ogni episodio). Particolarmente indovinata anche l’ambientazione bucolica, in aperto contrasto con l’omicidio e il giro di droga e prostituzione che emergerà una volta aperto il vaso di Pandora: per anni, l’immagine di quella cittadina in mezzo ai boschi che nascondeva segreti inconfessabili venne utilizzata per spiegare fatti di sangue avvenuti in luoghi insospettabili.

Twin Peaks fu vittima del suo successo. Durante la seconda stagione, la Abc impose agli autori di rivelare il nome dell’assassino, provocando un ulteriore calo di ascolti e quindi la cancellazione della serie. Anche gli attori del cast rimasero schiacciati dal loro successo: “Il personaggio di Laura era così speciale e aveva un’identità così forte che la gente mi ricorda ancora per quel ruolo”, ha detto Sheryl Lee, che nella serie interpreta sia la vittima sia la cugina Maddy. “Mi resi conto di essere intrappolato nel ruolo di Cooper e, a ben vedere, è la cosa migliore che mi sia capitata nella vita”, ha confermato Kyle MacLachlan. In seguito David Lynch provò a replicare la formula. Il film del 1992 Fuoco cammina con me, un prequel che raccontava gli ultimi sette giorni di vita di Laura Palmer, fu accolto con scetticismo da pubblico e critica; anche la terza stagione, uscita nel 2017, ha deluso le aspettative di molti fan. Il Twin Peaks originale, invece, a 30 anni di distanza rimane un prodotto attualissimo, anche perché la serie era avvolta da un’atmosfera senza tempo: “Come se gli anni Cinquanta avessero incontrato i Novanta” per usare le parole del regista.

La musica è finita (e gli artisti se ne vanno)

Ora è tutto un tirare segnacci sui calendari. Tour annullati, posticipati, rimodulati. Tra dita incrociate e cuori gonfi d’angoscia. Chi fermerà la musica? Fino a pochi mesi fa si pensava che il male assoluto, mascherato da nuova opportunità, fosse la frontiera “liquida”, lo streaming che faceva pascere Spotify e le altre piattaforme che pagavano quasi niente i poveri artisti, ma allo stesso tempo facevano girare nomi e canzoni da trasferire poi sui palchi. Perché, morta la speranza di un più consistente riscatto del disco fisico (sì, regge la nicchia del vinile, ma i cd non li vuole più nessuno, e con i negozi chiusi sarà un de profundis), il settore poggiava la propria sopravvivenza sui concerti. Con i grandi nomi disposti a spendersi in estenuanti carovanate, e le figure di mezzo a tentare il salto di qualità tra palazzetti e club. Lo tsunami-coronavirus è passato tra amplificatori e strumenti già pronti per lo show, e nessuno può prevedere quando e come si ripartirà.

In questi giorni di peste, gli artisti fanno capolino dalle case, tenendo botta con dirette improvvisate, brani unplugged, manifestazioni di solidarietà. Mostrandosi, per non essere dimenticati. Nel modo meno professionale e più spontaneo possibile, condividendo l’ansia di tutti. Ma le tournée in agenda a breve sono state spazzate via dall’emergenza, ripensate per la tarda estate o in autunno. Elencare gli eventi è inutile, la lista si aggiorna di ora in ora. Pure la tv ha preso una mazzata per il depennamento dell’Eurovision Song Contest a metà maggio, con buona pace del nostro Diodato. Semmai è curioso l’ottimismo di alcuni, che resistono a confermare appuntamenti. Il Concertone del Primo Maggio? Cast definito, si deciderà a metà aprile se fare o disfare. E ci sarebbe Gianna Nannini al Franchi di Firenze, il 30 maggio. Se cercate biglietti online, li troverete. E così per il consueto tour estivo di Vasco, che nelle intenzioni dovrebbe debuttare il 10 giugno, sempre dal capoluogo toscano, passare per Milano cinque giorni dopo, arrivare il 19 e il 20 al Circo Massimo e concludersi il 26 a Imola. Che dire, ancora, dell’annunciatissima consacrazione di Ultimo negli stadi, in quello stesso periodo? Spostando più in là le linee dei buoni auspici, sono già 85mila i tagliandi emessi per “Una. Nessuna. Centomila”, il 19 settembre nella nuovissima arena di Campovolo, con sette artiste (Emma, Mannoia, Amoroso, Giorgia, Elisa, Pausini e ancora la Nannini) a cantare contro la violenza sulle donne. Sarebbe un segnale lusinghiero se quell’evento si tenesse, e non solo per il tema.

Ma che musica sarà, in ogni caso, anche a livello globale? In queste ore Elton John ha sospeso il segmento Usa del suo interminabile tour d’addio, mentre da Glastonbury hanno già decretato la cancellazione del più prestigioso festival del mondo (in cartellone, tra gli altri, Paul McCartney e Taylor Swift); Coachella, in California, punta sullo spostamento a ottobre, e Lollapalooza, previsto in sette città del pianeta, si trova in imbarazzo a dare indicazioni definitive in piena pandemia. Come si fa con i biglietti già prenotati o acquistati nelle rivendite ufficiali, lasciando da parte l’azzardo del bagarinaggio? Prendiamo Glanstonbury. Gli organizzatori dicono: “Teneteveli, sono validi per l’edizione 2021, altrimenti chiedete i rimborsi”. Ed è qui che potrebbe saltare il banco: perché l’impresariato top, quello dei faraonici allestimenti, punta molto sugli interessi da accumulare per preziosi mesi negli istituti di credito grazie alle vendite largamente anticipate dei ticket. Ma senza certezze, gli spettatori potrebbero tirarsi indietro prima di spendere soldi per i loro idoli. Per non dire del prevedibile effetto-diffidenza post-Covid 19. Saremo disposti a intrupparci di nuovo in un carnaio da stadio? Quanti management terranno botta in una situazione sociale e industriale completamente mutata? Occorrerà pianificare al ribasso, come per il calcio? Vincenzo Spera, presidente di Assomusica (che raccoglie il gotha degli impresari italiani) ha lanciato un primo allarme: da febbraio fino a inizio aprile il caos-concerti (già tremila cancellati o spostati) sta provocando perdite per 40 milioni di euro, e 100 per l’indotto sul territorio nazionale. Il salvagente potrebbe essere proprio il decreto cura-Italia, che stanzia 130 milioni, ma per tutto il settore dello spettacolo (anche cinema, teatro e danza). E le canzoni non sembrano essere la priorità, in questo incubo distopico. Al massimo le cantiamo dai balconi, e passa la paura.