Supermercati. Allenarsi in bicicletta si può rimandare, fare la spesa no

 

Vivo in un capoluogo della Toscana. Non mi è chiaro il motivo per cui se esco a fare un giro in bici senza entrare in contatto con alcun individuo rischio una denuncia e una multa, mentre alla grande distribuzione è permesso far entrare in un punto vendita un numero tale di persone per cui non vengono minimamente rispettate le norme anticontagio. Lunedì mattina mi sono recato in un supermercato (Coop) e, dopo una breve fila di 5 minuti per l’ingresso, ho ritrovato all’interno una situazione né più né meno analoga a quella che ho sempre trovato in periodi di normalità. Un numero elevato di persone che, pur standoci attente, entrano inevitabilmente in contatto ravvicinato con decine di altri individui a causa degli spazi stretti tra gli scaffali e del numero elevato di individui stessi (la maggior parte con guanti e mascherina, alcuni senza guanti e senza mascherina). So di altri supermercati dove viene prestata maggiore attenzione e gli ingressi sono scaglionati in modo adeguato. Forse, oltre ai controlli sui singoli cittadini e i loro spostamenti, varrebbe la pena monitorare anche queste situazioni di rischio.

Giorgio Lorenzoni

 

Gentile Lorenzoni, mi sento di dissentire dal suo ragionamento: non si può pensare che farsi un giro in bici abbia lo stesso valore di andare a fare la spesa. Le misure adottate dal governo per fronteggiare l’emergenza coronavirus si fanno sempre più stringenti e, anche se l’Italia è già in lockdown, l’intesa raggiunta ieri pomeriggio dai ministri Gualtieri e Patuanelli con tutti i sindacati dimostra quanto ancora si possa e si debba continuare a chiudere e a restringere l’elenco delle attività essenziali per la sicurezza di tutti i lavoratori coinvolti. Ovviamente tra questi non potranno rientrare i dipendenti dei supermercati che, al pari di medici e infermieri, sono in prima linea per garantire una necessità primaria. Come raccontiamo da giorni, non è facile gestire le ondate ingiustificate delle persone che si accalcano nei supermercati per accaparrarsi cibo. In coda e nessuna distanza di sicurezza per riempire i carrelli. Ma la colpa non si può certo dare a chi lavora nei supermercati o alle misure restrittive: è la paura che prende il sopravvento. Il panico alimenta il panico. Il governo deve continuare a ribadire che si deve restare in casa per il bene di tutti. E andare in bicicletta, così come spostarsi a piedi, restano consentiti solo per lavoro, ragioni di salute o necessità come gli acquisti alimentari. Ritorniamo sempre lì: una pedalata si può rimandare, la spesa no. E senza che si scateni il panico.

Patrizia De Rubertis

Lombardia e virus, una disastrosa reazione politica

L’emergenza Covid-19 nel Nord dell’Italia andrà studiata a fondo. Come è stata affrontata dal sistema sanitario e dalla politica che ha il compito di proteggere i cittadini? Per rispondere saranno necessarie riflessioni accurate, dati sicuri e un certo distacco dal dolore e dalla rabbia per i morti e i contagiati. Per ora possiamo soltanto tentare di allineare qualche riflessione provvisoria, in attesa di conferme o smentite che potranno arrivare soltanto con il tempo. Sono scattati due diversi modelli di reazione politico-sanitaria: quello veneto, guidato dal presidente della Regione Luca Zaia e incarnato dal virologo Andrea Crisanti; e quello lombardo, che ha i volti del presidente Attilio Fontana e dell’assessore alla Sanità Giulio Gallera. In Veneto, l’epidemia è stata tenuta almeno in parte sotto controllo, eseguendo una mappatura dei focolai e facendo un gran numero di tamponi; il tasso di mortalità è stato finora del 3,4 per cento. In Lombardia non c’è stata invece sorveglianza epidemiologica, i pazienti asintomatici sono stati lasciati circolare, il contagio si è diffuso, le fabbriche sono state lasciate aperte, la distanziazione sociale è arrivata tardi; il tasso di mortalità è stato di oltre il 13 per cento. In realtà, spiegano gli esperti, il tasso di mortalità del virus è sempre lo stesso; in Lombardia sono molti di più i contagiati, che rimangono invisibili perché si sono fatti meno tamponi, così è rimasto sommerso (e abbandonato a se stesso) il grande popolo degli asintomatici e di coloro che hanno i sintomi ma non sono censiti come positivi. Il virus è stato lasciato circolare, non è stata neppure tentata la mappatura dei contatti. Con risultati catastrofici: “Vedo persone che muoiono a grappoli. Questo è un fallimento. Troppi morti”, constata Crisanti.

Il fallimento ha le facce di Attilio Fontana e Giulio Gallera, che hanno completamente sbagliato strategia. Hanno puntato tutto sull’ospedale da campo alla Fiera da affidare al demiurgo Guido Bertolaso (subito messo fuori gioco dal virus): ma l’impegno a valle è tardivo, se non si interviene a monte; le terapie intensive potranno essere utili, ma la strategia davvero necessaria era chiudere i focolai e tentare di fermare il contagio, per ridurre il numero di chi avrà bisogno di terapia intensiva. “Bastava mettere tutte le risorse possibili sui focolai iniziali”, continua il professor Crisanti, “come hanno fatto in Giappone, Corea e Taiwan”. Invece Gallera si balocca con le sue conferenze stampa quotidiane, che diventano incredibilmente – malgrado le smentite d’occasione – la sua campagna elettorale da candidato sindaco di Milano. Quanto al sindaco in carica, Giuseppe Sala, non sono credibili le sue scuse tardive. Il 27 febbraio, quando ha messo in Rete il demenziale video #milanononsiferma (“In questo momento Milano non può fermarsi, non si deve diffondere il virus della sfiducia: Milano deve andare avanti”), sapeva bene che l’emergenza era già in corso, tanto che quattro giorni prima, il 23 febbraio, aveva egli stesso chiesto la chiusura di tutte le scuole e università di Milano. Due giorni prima, il 25 febbraio, era stato rinviato il Salone del Mobile. E il 27 posta invece su Instagram l’incredibile foto con Alessandro Cattelan: #finalmenteaperitivo. Poi, dopo il blocco, riduce per qualche giorno la frequenza dei mezzi del trasporto pubblico, provocando affollamento in un momento cruciale per la diffusione del virus. Insomma: al disastro di Fontana e Gallera si somma, bipartisan, il disastro di Sala. Completamente assente il direttore generale della sanità lombarda, Luigi Cajazzo, che ha lasciato gli ospedali senza linee guida comuni e i medici e infermieri a infettarsi e a morire. In un Paese normale, uscirebbe dignitosamente di scena anche lui, rassegnando le dimissioni.

La viralità restituita al corpo fisico

Cronache del ventesimo anno del Terzo millennio. Un’umanità ancora in pieno hangover da rivoluzione digitale, con i riflessi rallentati e le difese immunitarie abbassate, viene sorpresa da un avvento inaspettato: nessuna nascita, nessun Dio che si faccia di carne e ossa, ma un evento destinato comunque a cambiare il nostro calendario, stabilendo anche questa volta un A.C. e un D.C., un prima e un dopo coronavirus.

Il virus irrompe sulla scena e si riappropria della viralità, sottraendone il dominio al mondo digitale. E, ironia della sorte, nel riappropriarsene ricolloca al centro della scena il corpo fisico, il grande escluso della realtà virtuale. La diffusione rapida e capillare di un contenuto virale che in brevissimo tempo si propaga in rete, del resto, altro non è che un contatto da persona a persona, semplicemente in assenza di corpo. Ma l’inattesa virulenza del morbo costringe la viralità a uscir fuori di metafora, obbligandola a rientrare nei mortiferi ranghi epidemici.

Così, da insignificante comparsa nel teatro della contemporaneità, ingombrante fardello quasi superfluo, identificato principalmente come l’elemento che rallenta la sofisticazione della sempre più mentale specie umana, il corpo rientra a gamba tesa nell’agorà contemporanea.

Fragile, esposto, danneggiabile, irrompe nel post sbronza delle specie a seppellirne le fantasie di onnipotenza, decurtandola all’improvviso di quel capitale di libertà e privilegi ormai dato per acquisito e costringendola a una reclusione domestica forzata. Ed è qui che per il corpo arriva il tempo del riscatto: costretti tra le quattro mura di casa, obbligati allo smart working (come tante volte ci saremmo augurati di poter fare, anziché doverci recare sul posto di lavoro), forzati a comunicare con l’esterno attraverso le chat, il telefono o le videochiamate, ridotti a impegnare il tempo sui social network o ad allenarci attraverso applicazioni invece che in una palestra affollata, sentiamo forte come non mai l’importanza del corpo. Il nostro e quello degli altri. Rapporti monchi di almeno tre sensi su cinque ci fanno bramare il respiro alcolico di un amico che ha bevuto troppo, il calore di una mano appoggiata sulla spalla a metà di un racconto, il sapore di un bacio, che magari non avremmo dato lo stesso, ma almeno non per cause di forza maggiore.

La realtà virtuale da libera scelta diventa scelta obbligata e improvvisamente perde tutto il suo appeal: per una sorta di nemesi, coloro che più avevano cantato le lodi di una socialità depurata da sudore, imbarazzi e promiscuità fisiche anelano a tornare a relazioni complete, in cui siano i sensi a imprimere la pellicola delle impressioni.

I contatti di cui si è a caccia non sono più le visualizzazioni, percepite oggi come le grate trasparenti della nostra reclusione, ma quelli fisici, vecchi fasti trascurati nei tempi di pace, atrocemente rimpianti in tempo di guerra.

È così che il virus riesce nell’impresa che le Sardine avevano abbozzato qualche mese fa, in un tempo che oggi appare preistorico: la rivincita della carne e delle ossa.

Tornare a riempire le piazze, gli spazi, ammucchiati come sardine, in una mescolanza indistinta di liquidi e secrezioni oggi appare come la più eretica e trasgressiva delle fantasie: nessuno ha mai agognato tanto profondamente di prender parte a una manifestazione, a un flash mob o a una parata quanto adesso lo desideriamo tutti. Là dove non hanno potuto la militanza e l’impegno civile, indiscutibilmente, oggi può il coronavirus.

Sicurezza, il lavoro agile va regolato

Pubblichiamo uno stralcio tratto dall’eBook “La sicurezza sul lavoro al tempo del Coronavirus” (editore Wolters Kluwer Italia, € 5,99 + Iva) dell’ex procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello.

Proprio l’eccezionalità di questi giorni potrebbe indurre a un appannamento magari velato delle garanzie previste a tutela della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro. Non sembra questa la scelta operata dal nostro legislatore, attento a coinvolgere le stesse imprese nella delicata opera di contenimento del virus, a tutela dei lavoratori e per conseguenza delle stesse popolazioni, anche attraverso le misure di sostegno stabilite nel D.L. n. 18/2020.

Tutti si stanno chiedendo se il datore di lavoro debba valutare il rischio coronavirus e individuare le misure di prevenzione contro tale rischio nel documento di valutazione dei rischi. A dare la risposta è, a ben vedere, l’art. 28, comma 2, lett. a), TUSL, ove si usa l’espressione “tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa”. Un’espressione altamente e volutamente significativa, in quanto fa intendere che debbono essere valutati tutti i rischi che possono profilarsi, non necessariamente a causa dell’attività lavorativa, bensì durante l’attività lavorativa: come appunto il coronavirus. Proprio quel “durante” induce a condividere la linea interpretativa accolta dalla Commissione per gli Interpelli nell’attualissimo Interpello n. 11 del 25 ottobre 2016: “il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi, compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i rischi legati alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento”.

Tra le misure anti-coronavirus a tutela della salute nei luoghi di lavoro, ha assunto un particolare rilievo il lavoro agile, anche in deroga agli accordi individuali e agli obblighi informativi. È tutt’altro che agevole coglierne le implicazioni sul terreno della sicurezza sul lavoro. Anzitutto, perché sono rimasti irrisolti i dubbi interpretativi e applicativi sollevati dalla Legge n. 81/2017 sul lavoro agile. E inoltre perché il D.P.C.M. 8 marzo 2020 impone comunque il rispetto dei principi dettati dagli articoli da 18 a 23 di questa legge. E non si pensi che gli obblighi del datore di lavoro siano circoscritti a una mera individuazione dei rischi connessi alla prestazione del lavoro agile, quasi che la predisposizione e l’attuazione delle misure di prevenzione fossero esclusivamente rimesse alla discrezione e alla sapienza del lavoratore agile destinatario dell’informativa sui rischi. A ben vedere, la Legge n. 81/2017, in articoli come il 18 e il 22, non si esime dall’imporre al datore di lavoro l’adozione delle misure di prevenzione contro tali rischi.

Non sarebbe, peraltro, il caso d’introdurre, per la durata dello stato di emergenza, un correttivo? Il D.L. del 24 marzo 2020 conferma, tra le misure antivirus che possono essere adottate con appositi D.P.C.M., la modalità di lavoro agile: però, si badi, in termini potenzialmente e magari esageratamente onnicomprensivi, anche in deroga alla disciplina vigente, e non più soltanto in deroga agli accordi individuali e agli obblighi informativi. Non sarebbe ipotizzabile una soluzione intermedia, come, ad esempio, l’applicazione esclusiva delle garanzie previste dal TUSL per il telelavoro, relative in particolare alle attrezzature di lavoro fornite dal datore di lavoro, ai videoterminali e alla vigilanza da parte del datore di lavoro?

Non sfugga poi che il D.L. n. 18/2020, si occupa dei “casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro”, e prevede che “il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”. Non va da sé che spetta al medico, altresì, l’obbligo di referto, penalmente sanzionato a norma dell’art. 365 c.p.?

Con un’ultima avvertenza, purtroppo generalmente sfuggita: che le misure pur più avanzate non raggiungono l’obiettivo preso di mira se rimangono scritte sulla carta. Basilare è il contributo delle imprese e degli RLS. Ma occorre rimuovere le carenze degli organi di vigilanza, e, dunque, si attendono azioni normative e amministrative volte ad irrobustire gli organici e le competenze degli ispettori chiamati a tutelare gli ambienti di lavoro. In questi giorni drammatici, il personale sanitario sta dando un’eccezionale risposta sul fronte della cura. Una risposta altrettanto eccezionale si attende dal personale ispettivo sul fronte della prevenzione.

E dopo il 3 aprile?

La giusta attenzione sulla pandemia non può farci dimenticare tutto ciò che non è Covid. Si muore solo con/di Covid, anche se contiamo 50.000 morti all’anno per infezioni ospedaliere, circa 70.000 per ischemia cardiaca, fino a un totale di 650.000. La prevenzione, in generale, è come se fosse sospesa. Non vorrei che nel futuro si assistesse a un incremento di patologie che avremmo potuto prevenire. Il 3 aprile sta arrivando. Cosa faremo dopo questo giorno tanto atteso? Non illudiamoci che la pandemia sarà finita. Si dovrà trovare una soluzione di sopportabile convivenza con il virus. Si stanno avanzando alcune ipotesi. Una è molto interessante: una volta abbassato il numero dei contagi, si potrebbe tornare a lavorare per fasce d’età, lasciando protetti a casa gli anziani e coloro che hanno malattie debilitanti. Applicare questo nuovo “modello Covid” non sarebbe esente da problemi. Uno è la frequenza dei bambini (che non si ammalano gravemente, ma hanno quasi nella totalità una sindrome simil influenzale, però possono contagiare), spesso affidati ai nonni. Altro problema è la convivenza con malati cronici. A questo si aggiunge l’assoluta disconoscenza della validità e durata della risposta immunologica al virus. I “guariti” e i “negativizzati” saranno protetti da reputare immuni e da reimmettere nel mondo sociale? Un ultimo aspetto non sottovaluterei. Su 10 malati Covid-19, solo due sono donne. Ciò comporterebbe il far lavorare solo due uomini e ben otto donne su dieci? Il “modello Covid” rischia di stravolgere anche le pari opportunità.

Mario Draghi e i nuovi salotti del sabato

Nei lontani anni 80, la matita di Tullio Pericoli e i testi di Emanuele Pirella crearono una striscia irresistibile dal titolo: “Tutti da Fulvia il sabato sera”, che faceva il verso a un certo salottume progressista, una fiera delle vanità piuttosto vana, prodiga di sublimi imbecillità che la padrona di casa ripeteva esultando con le braccia al cielo. Per esempio, un direttore con prestigiosa barba bianca asseriva che i veri poeti contemporanei sono i pubblicitari e subito Fulvia ebbra gongolava: “I pubblicitari! I pubblicitari!”. La strepitosa riedizione di Madame Verdurin mi è tornata in mente ascoltando ogni mattina nelle rassegne stampa le immaginifiche (e talvolta bislacche) proposte escogitate da politici e retroscenisti in quarantena forzata. Con tanto di eco.

Per esempio: “Occorre un governo di Unità nazionale”. Nazionale! Nazionale! Oppure: “Creare un Gabinetto di guerra”. Di guerra! Di guerra! Ma anche: “Si proceda al coprifuoco affidato all’Esercito”. All’Esercito! All’Esercito! Fino al gettonatissimo: “I giapponesi si curano con l’Avigan”. Avigan! Avigan! Nel salotto delle congetture incrociate non poteva certo mancare l’eterno ritorno dell’identico: il “Qui ci vuole Draghi”. Ed ecco che all’unisono sono tante le Fulvie che invocano rapite dai loro sofà, con le braccia al cielo: “Ci vuole Draghi! Ci vuole Draghi!”. C’è da giurarci, sul Salvatore della Patria, sull’Uomo della Provvidenza (suo malgrado) si disegneranno arabeschi e strategie. Tanto, chiusi in casa qualcosa bisogna pur fare. Sulla Fulvia originale scrisse Oreste del Buono che ai leggiadri raduni partecipavano: “Tutti quelli che contano qualcosa e credono di contare di più, quelli che non contano nulla, ma si comportano come se contassero, quelli che forse hanno contato ma non contano da un pezzo e cominciano addirittura a sospettare di non aver contato mai”. Ecco.

Youtility scrive al “Fatto”. “Rispettati i protocolli”

Caro Direttore, siamo in un momento drammatico. Chi ha delle responsabilità deve moltiplicare l’attenzione verso coloro che direttamente o indirettamente sono coinvolti nello svolgimento della propria attività. Youtility lo sta facendo dal primo momento del dramma Covid-19 verso i nostri dipendenti con il massimo dell’impegno e della responsabilità, rispettosa di tutti i provvedimenti ed i protocolli emanati, delle previsioni contrattuali e normative in materia di rapporto lavorativo e sicurezza nei luoghi di lavoro, per tutte le principali committenti nazionali.

In relazione all’articolo apparso il 23 marzo sul Fatto Quotidiano a firma di Daniela Ranieri, come legale rappresentante della Youtility Center, mi corre l’obbligo di richiedere una rettifica, stante il tenore dell’articolo che lede certamente l’immagine aziendale e soprattutto rappresenta una realtà artata dei fatti e non veritiera, lesiva finanche del rapporto datoriale con i lavoratori che per la società sono riferimento qualificante e per i quali abbiamo la massima attenzione, tutela e rispetto.

Precisiamo che alcune della Autorità preposte hanno già compiuto verifiche ed accertamenti risultati coerenti con i provvedimenti ed i protocolli. Si segnala che Emanuele Renzi, all’interno dell’organizzazione aziendale, svolgeva il ruolo di pianificazione e controllo delle attività inbound.

Alla luce di quanto sopra ribadiamo la necessità, nel rispetto del diritto di cronaca che però deve poter tener conto della realtà dei fatti e della veridicità delle notizie, di rappresentare correttamente la posizione aziendale posto che si reputa quanto meno artato ritenere i ns. uffici “pollai”.

Fernando Giustini, legale rappresentante Youtility Center 

 

Ringraziamo il legale di Youtility per questa lettera di smentita che non smentisce niente di quanto scritto. Potremmo ricordare all’Azienda che il 10 marzo alcuni suoi lavoratori hanno chiamato le forze dell’ordine per il mancato rispetto delle disposizioni del DPCM dell’8 marzo 2020, a partire dalla distanza di sicurezza interpersonale; e che in seguito alla morte di Emanuele Renzi i Cobas hanno presentato una denuncia alla Prefettura di Roma, al Comune, alla Asl, a Tim, a Poste Italiane, ecc., dove si rimarca “l’enorme ritardo circa l’adozione dei protocolli di sicurezza” e un comunicato con cui denunciano “l’omessa informazione del personale” e “le bugie dette ai sindacati confederali e alla stampa” in merito all’evento verificatosi, in particolare circa la presenza del lavoratore in azienda dopo la comparsa dei sintomi. E che in ogni caso la responsabilità datoriale in Italia è dettata dall’art. 2087 c.c. che dispone che “l’imprenditore è tenuto ad adottare… le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, unitamente alla disciplina prevista dal D.Lgs. n.81/08, indipendentemente dalle iniziative che il Legislatore ha assunto al mese corrente. Con riferimento all’emergenza Coronavirus, la Circolare del Ministero della Salute 3 febbraio 2020 n. 3190 ha perimetrato le responsabilità del Datore di Lavoro rammentando che per i lavoratori degli esercizi/servizi a contatto con il pubblico “la responsabilità di tutelarli dal rischio biologico è in capo al datore di lavoro, con la collaborazione del medico competente”.

Ma visto che il tenore della lettera è semantico, specifichiamo che il termine “pollaio” identifica un ambiente “cintato e coperto” utilizzato per radunare animali da allevamento e che per traslato tale etimo può essere esteso ad ambienti di lavoro chiusi, non necessariamente anti-igienici. Tutt’altro: un pollaio deve rispettare norme igieniche stringenti a tutela della salute degli ospiti destinati a diventare alimenti. Tra queste, la capacità del pollaio suole essere ragguagliata a una superficie basale di un metro quadrato per tre polli; mentre questa proporzione è suscettibile di una riduzione per pollai ampî, non può essere ridotta oltre un minimo legale. Come l’Azienda sa bene, i suoi lavoratori operano di regola all’interno di postazioni in proporzione molto più piccole e ravvicinate, circostanza di cui possediamo documentazione testimoniale e fotografica, fino a quando non sono intervenute le forze dell’ordine. Il richiamo al pollaio non va dunque letto come motivo di dispregio, ma come monito in via analogica per tenere bene a mente che le norme sull’igiene devono essere assai rigorose negli ambienti di lavoro dove il numero di contatti interpersonali è particolarmente elevato, tanto più in un momento così drammatico.

Daniela Ranieri

3,7 milioni costretti al nero. E non si fanno più i controlli

È soprattutto per il volere delle imprese se i lavoratori in nero in Italia superano di molto i tre milioni e mezzo. Non tutte, ma le più disoneste che traggono vantaggio dal sommerso perché “possono” così sottopagare i dipendenti e non versare contributi. Chi accetta l’impiego irregolare, invece, di solito non è un furbo ma una vittima che non denuncia per paura di ritorsioni. Evidentemente il ministro per il Sud Peppe Provenzano si riferiva a questo quando, martedì, ha detto che nell’emergenza sanitaria ed economica bisogna aiutare “anche chi lavorava in nero”. Specie a destra, è parsa una difesa del sommerso. Almeno tre quarti dei nostri addetti irregolari, però, sono in questo status non per scelta propria ma dell’azienda. I dati Istat aiutano nella lettura: nel 2017 – ultima rilevazione – avevamo “3,7 milioni di unità di lavoro a tempo pieno in condizioni di non regolarità”: il 15,5% del totale dei posti è in pratica sfuggito alla legge. Di questi, due milioni e 696 mila sono dipendenti, l’altro milione è formato da indipendenti. Nel 75%, quindi, è un’impresa (o un privato) a decidere di assumere senza contratto una persona costretta a dire di sì pur di lavorare. Al massimo – casi residuali – potrebbero esserci disoccupati complici che accettano per non perdere i sussidi. Al restante 25% appartengono gli autonomi e qui, in effetti, possono più facilmente nascondersi comportamenti opportunistici di chi lavora.

Il tasso di irregolarità più alto è nei servizi alla persona, con il 47,7%. Se il datore è una famiglia, è facile trovarsi senza inquadramento né contributi. Va male pure all’agricoltura, colpita per il 18,4%. Poi l’edilizia con il 17% e, con il 15,8%, il commercio all’ingrosso che comprende trasporti, magazzinaggio, alloggio e ristorazione. Testimonianze di lavoro nero in bar e pizzerie si sprecano. Ai tempi dei voucher, c’era chi chiedeva ai camerieri di tenerli in tasca ed esibirli in caso di controllo. Altra pratica è il “fuori busta”: contratto part time, ma impiego a tempo pieno. Metà stipendio regolare, metà in nero. Colpevolizzare colf, badanti, braccianti e facchini del loro impiego in nero è curioso. La cosa conviene solo ai datori; gli addetti sono penalizzati perché, tra l’altro, la pensione se la sogneranno. Con il coronavirus, il danno oltre la beffa: tanti agiscono in comparti ancora operativi, ma devono fermarsi perché, senza contratto, non possono certificare il motivo per uscire da casa. Perdono soldi e non possono beneficiare di ammortizzatori sociali. La sindaca di Roma Virginia Raggi prima e Peppe Provenzano poi, ponendo il problema di come aiutarli, hanno centrato una questione delicata. Tra i possibili rimedi, il ministro per il Sud ha parlato di “misure universalistiche per raggiungere le fasce più vulnerabili”. Si potrebbe allargare la platea del reddito di cittadinanza.

Serve però anche la repressione, e in questo le armi dello Stato sono carenti. L’Ispettorato del Lavoro è sotto organico e nel 2018 i lavoratori irregolari beccati sono stati 163 mila. In questi giorni, ha ridotto di molto i controlli perché, spiegano, “le limitazioni della mobilità e del distanziamento sociale mal si conciliano con le modalità esecutive degli accessi, la cui effettuazione potrebbe essere in questa fase percepita come una non proprio opportuna interferenza con un tessuto produttivo già alquanto sofferente”. Se le imprese riuscissero – malgrado il lockdown – a impiegare dipendenti non a norma, avrebbero meno possibilità di essere stanate. Peggio andrà quando tutto finirà e l’economia ripartirà: il virus ha costretto l’ente e posticipare il concorso per l’assunzione di nuovi ispettori. “Il che aggraverà la già penalizzante carenza di risorse”.

Lavori “fondamentali”, solo 200 mila in meno

Dopo una trattativa durata un giorno e mezzo, con pausa notturna, Cgil, Cisl e Uil hanno ottenuto che l’elenco delle attività produttive considerate essenziali e indispensabili fosse rivisto. L’intesa è stata raggiunta ieri nel corso del confronto tra i ministri dell’Economia, Roberto Gualtieri, e dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, e i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. L’intesa non ha fatto in tempo a bloccare gli scioperi proclamati in Lombardia nel settore metalmeccanico e chimico che hanno avuto, secondo i sindacati, una discreta partecipazione.

“È stato fatto un grande lavoro comune – dicono in una nota comune Cgil, Cisl e Uil –, abbiamo rivisitato l’elenco delle attività produttive indispensabili, in modo da garantire la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici. È stato tolto dall’elenco tutto ciò che non era essenziale, visto il momento difficile che stiamo vivendo”. Al di là della lista dei lavori, che vedremo più avanti, i sindacati insistono sull’importanza dei dispositivi di protezione individuali e sull’adozione rigorosa del “Protocollo sulla sicurezza”.

Cgil, Cisl e Uil hanno insistito soprattutto sul loro coinvolgimento nell’autorizzare le possibile deroghe a livello locale per aziende che dichiarino di essere essenziali alle filiere autorizzate. Un punto importante perché costituiva una maglia troppo larga del decreto. E così “i prefetti dovranno coinvolgere le organizzazioni territoriali per la autocertificazione delle attività delle imprese che svolgono attività funzionali ad assicurare la continuità delle filiere essenziali”. Inoltre, il ministro delle Difesa si è impegnato a diminuire la produzione nel settore militare, “salvaguardando solo le attività indispensabili”.

Scorrendo però l’elenco delle attività consentite, suddivise secondo i codici Ateco, diffuso al termine del confronto, non sembra che ci siano modifiche sostanziali. Non esistono cifre ufficiali e quindi ancora una volta abbiamo dovuto ricorrere ai nostri mezzi. Alla fine si tratta di circa 200 mila unità lavorative in meno. Dal sindacato si fa ufficiosamente la cifra di 250 mila, ma oltre al taglio di alcuni settori si è ritenuto indispensabile aggiungere attività che invece erano rimaste fuori. Come gli imballaggi o la costruzione di batterie o, ancora, la produzione di vetro cavo. Queste categorie hanno determinato un aumento di circa 51 mila unità al lavoro.

Sono stati invece eliminati diversi codici Ateco che cumulano complessivamente 228 mila unità. Tra queste i cartotecnici, i produttori di esplosivi, alcune tipologie di prodotti per ufficio e materie plastiche, il settore aerospaziale, alcune tipologie di ingegneri civili. A questi vanno aggiunti una parte degli oltre 50 mila addetti ai call center operanti in attività in uscita (outbound) o per servizi telefonici a carattere ricreativo. I call center in entrata (inbound) possono operare se collegati alle attività del Dpcm 11 marzo che ha bloccato le attività.

Si arriva così ai 250 mila ammessi anche dal sindacato su un totale, prendendo a riferimento i codici Ateco approvati, che passa da 9 milioni a 8,8 milioni (ma alcune stime sindacali parlano di 11-12 milioni di lavoratori in attività).

Secondo i calcoli di Matteo Gaddi e Nadia Garbellini della Fondazione Claudio Sabattini, le ore lavorate necessarie a mandare avanti le attività fondamentali in Italia oggi corrispondono al 31,8% del totale, mentre quelle attivate dal governo sono il 46,5%. Ci sarebbero quindi almeno 4,5 milioni di lavoratori in più di quelli necessari.

Le modifiche non trovano ostilità da parte di Confindustria, che in una nota afferma che “pur non condividendo gli interventi che oggi (ieri, ndr) hanno rimesso in discussione provvedimenti già molto restrittivi” si dice disposta a “mettere da parte polemiche, strumentalizzazioni ed eccessi nel linguaggio” (soprattutto quelli contro la stessa associazione confindustriale). Quello che interessa agli industriali è che “bisogna fare in modo che dopo la chiusura temporanea e il rallentamento della produzione non ci sia una chiusura definitiva”.

Obiettivi: assicurare alle imprese un rapido e semplice accesso alla cassa integrazione, sostenerne la liquidità prevedendo la dilazione delle scadenze fiscali e contributive e agire inoltre sulle linee di credito a breve e lunga scadenza.

Intesa tra Rai e ministero. “La scuola sarà anche in tv”

Una carta d’intenti firmata da Rai e ministero dell’Istruzione che, anche se non ancora a pieno ritmo nella programmazione dei canali, porta un po’ di scuola nelle case attraverso la televisione pubblica (come auspicato ieri sul Fatto da Anonio Padellaro) e permette di ricorrere al nutrito e straordinario archivio storico Rai per sostenerla. La collaborazione correrà su due binari: il primo riguarda i canali Rai Cultura e Rai Scuola che stanno un po’ alla volta adattando la programmazione, potenziandola con speciali, approfondimenti e vere e proprie lezioni. Il secondo riguarda invece il materiale e le iniziative previste in rete, sia attraverso i siti di Rai Cultura e Rai Scuola (con materiale raggruppato per discipline), sia soprattutto tramite Raiplay. Previsto, ad esempio, il tutorial Scuol@Casa, in dieci puntate, trasmesso ogni mattina sul sito e i social di Rai Cultura così come “Scuola@Casa News” che fornisce invece informazioni, consigli, segnalazioni di appuntamenti, risorse e contenuti per le scuole, gli insegnanti, gli studenti e le famiglie per la didattica a distanza. Partirà anche una campagna social (“La cultura a casa tua”) con la quale vengono messi a disposizione link ad articoli, approfondimenti e programmi culturali sempre della Rai.

Su RaiPlay, invece, i contenuti per insegnanti e studenti saranno raggruppati in playlist tematiche e accessibili nella sezione Learning con l’hashtag #LaScuolaNonSiFerma, lo stesso utilizzato della campagna del ministero per la didattica a distanza. Anche in questo caso è prevista la suddivisione per temi e discipline che copriranno tutte le fasce d’età, dalla selezione “Gioca e Crea” per i più piccoli al “Facciamo Coding!” per la primaria. Per le secondarie di primo grado si parte con la playlist ‘In Orbita’ sul tema dello Spazio con video tratti dai programmi scientifici Rai (la terra raccontata dall’astronauta Luca Parmitano e le colonie lunari e i laghi di Marte raccontati da Superquark) mentre per le secondarie ci saranno gli scrittori contemporanei da Gianni Rodari ad Alda Merini, da Luis Sepùlveda a Umberto Eco, Primo Levi e Camilleri. Sono in programmazione anche cinque eventi dal titolo “RaiPlayIncontra” con intellettuali, storici, artisti, scrittori che terranno sui social alcune lezioni inedite. “Un grande tema – si legge in una nota – verrà sviluppato e raccontato, i ragazzi potranno inviare domande, alcune delle quali, saranno oggetto di una pillola video di riposta da parte del ‘maestro’ di turno”. E questo, assicurano, è solo l’inizio nell’ottica non tanto di sostituire la scuola quanto di tenere unità la comunità e sintonizzati gli studenti. “La Rai ha dimostrato piena disponibilità – spiega la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina –, molti contenuti sono già a disposizione e sono fiduciosa che se ne aggiungeranno tanti altri. È importante poter raggiungere col mezzo televisivo famiglie e studenti che hanno meno accesso al digitale. L’obiettivo non è solo offrire elementi di didattica, ma anche prodotti di qualità per aiutare le famiglie a superare i disagi quotidiani che stanno affrontando”.