La spesa in ordine alfabetico del “capofamiglia”

Spesa in ordine alfabetico in un solo giorno a settimana, e ripristino del ‘capofamiglia’, una figura del diritto familiare abrogata nel 1975 dal codice civile. Cancellato dall’articolo 144 del codice quando le tv trasmettevano in bianco e nero il Carosello, il ‘capofamiglia’ è rinato nelle ordinanze di alcuni sindaci campani che così hanno inteso dare un ulteriore giro di vite ai divieti governativi e regionali, per ridurre le uscite da casa, per combattere il coronavirus. Come? Limitando il diritto di fare la spesa al solo ‘capofamiglia’ o all’intestatario della scheda dello stato di famiglia. E solo un giorno a settimana, a seconda del suo cognome.

Succede a Ercolano (Napoli) e ad Angri (Salerno), con due provvedimenti dei rispettivi sindaci Ciro Buonajuto e Cosimo Ferraioli. Praticamente identici nello spirito e nel contenuto, salvo qualche piccola difformità sul numero di lettere autorizzate a far compere giorno per giorno, dal lunedì al sabato. Domenica negozi chiusi a Angri ed aperti per tutti a Ercolano, ma c’è chi chiude per sanificare. Forse le ordinanze più severe d’Italia, almeno per le città di medie dimensioni.

Il ‘capofamiglia’, dicevamo. Si affida all’iniziale del suo cognome l’attribuzione del giorno in cui si è autorizzati ad approvvigionarsi di generi di prima necessità. Ad Angri la spesa in ordine alfabetico è iniziata il 23 marzo, a Ercolano l’altro ieri. Qui potevano scendere i ‘capofamiglia’ con la lettera C. Ieri toccava a quelli con le lettere comprese dalla D alla F. E così via. Chi ha un cognome che inizia per A e B deve pazientare fino a lunedì prossimo. Buonajuto si è quindi messo per ultimo.

Il primo cittadino di Ercolano ha precisato che “qualora il capofamiglia sia impossibilitato, può essere sostituito da un altro componente del nucleo familiare, ma comunque non è consentito utilizzare più di una lettera per nucleo” e che “i controlli non spettano ai negozianti, ma alle forze dell’ordine”.

Il capofamiglia non esiste più, ma in ogni caso è chiaro il significato delle ordinanze di Ercolano e Angri: basta con il marito che va al supermercato mentre la moglie si reca in farmacia. A Caggiano (Salerno) invece non è possibile ne andare a comprare alimentari ne farmaci. Il sindaco Modesto Lamattina ha ordinato la chiusura di tutti i negozi. Cibo e medicinali possono essere acquistati e ritirati soltanto previo appuntamento telefonico con l’esercente, e consegnati all’esterno degli esercizi o a casa dai volontari della Protezione Civile. Il piccolo comune di 2700 abitanti è tra i quattro comuni del Vallo di Diano (poi saliti a cinque) messi in quarantena dal governatore Vincenzo De Luca dopo l’esplosione di un focolaio di contagiati. Quasi tutti provenienti da un gruppo di preghiera di neocatecumenali, tra i quali il parroco del paese, don Alessandro Brignone, morto nei giorni scorsi a 46 anni.

Da Sala a Trump a Ramazzotti: quando prima è meglio pensare

A Nando Mericoni, alias Alberto Sordi, l’aveva “fregato la malattia”; ai politici, vip, pseudo vip, influencer li sta “fregando” il tempo. Il vociare, il sentenziare, il giudicare, il trovare soluzioni in teoria semplici, lo spargere fiele contro l’avversario, il puntare il dito verso gli altri, perché è sempre colpa degli altri o di quello precedente, funzionava prima del coronavirus. Oggi no. Perché il Covid-19 è più veloce anche della nostra memoria corta, e ha denudato pensatori nazionali e internazionali; l’ultimo è il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che in un’intervista a Repubblica, alla domanda se è pentito del suo “Milano non si ferma” quando l’epidemia era già in corso, ha risposto “che lo spirito sembrava quello”. E ha aggiunto: “Se ho sbagliato, allora, oggi sono qua”. E dove sennò? Però il primo cittadino meneghino non è solo, è in ottima compagnia, ed ecco una carrellata, divisa in due puntate, delle dichiarazioni dell’ultimo mese.

21 febbraio Attilio Fontana, governatore della Lombardia: “Non chiuderemo le città”.

22 febbraio Matteo Salvini, segretario della Lega: “Ho il diritto di sapere chi entra e chi esce dal nostro Paese. Ascoltiamo la comunità scientifica: blindiamo, sigilliamo i nostri confini. Dio non voglia che nell’800% in più di sbarchi ci sia un solo caso di virus”.

22 febbraio Massimo Pulcinelli, patron dell’Ascoli calcio: “Paese assurdo. Ridicolo! Gestito da irresponsabili. Lo stadio? Il luogo meno pericoloso al mondo. Ora chiudiamo tutti gli esercizi pubblici per la paura!”.

22 febbraio Michelle Hunziker pubblica una sua foto i bikini dalle Maldive. Scrive: “Relax”.

23 febbraio a Prato appaiono grandi manifesti promossi anche dalla comunità cinese: “Il coronavirus è solo un brutto raffreddore”, o “l’epidemia è solo temporanea”.

26 febbraio Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, al ristorante con la moglie, Cristina Parodi: “Bergamo non ti fermare! Questi giorni ci hanno messo a dura prova. Le notizie sulla diffusione del virus e le prescrizioni che a partire da domenica hanno limitato tanti aspetti della nostra vita hanno generato un clima di preoccupazione che è andato molto al di là del necessario”.

27 febbraio Donald Trump, presidente Stati Uniti: “I rischi per gli americani sono molto bassi, abbiamo registrato solo 15 casi e tutti i pazienti sono quasi tutti guariti”.

27 febbraio Olivier Véran, ministro della Sanità francese: “Lo ripeto anche stasera, non c’è un’epidemia di coronavirus in Francia”.

28 febbraio Giuseppe Sala: “Milano deve andare avanti”. Nicola Zingaretti va nel capoluogo lombardo a prendere un bell’aperitivo elettorale con i giovani Pd.

28 febbraio Nicola Zingaretti: “Dobbiamo essere tutti uniti. Bisogna sconfiggere il virus e seguire le indicazioni della scienza – commenta durante l’aperitivo sui Navigli – ma ora serve dare un segnale e approvare in fretta provvedimenti per riaccendere l’economia”.

28 febbraio Matteo Salvini: “Riapriamo tutto quello c’è da riaprire: l’Italia è un Paese che soffre ma che vuole ripartire, adesso”. E si fa portavoce di “imprese, artigiani e commercianti”.

28 febbraio l’agenzia di marketing Brainpull realizza un video per l’Unione dei brand della ristorazione italiana: “Abbiamo deciso di fare rete per rispondere al clima di paura. Milano è una città con molto coraggio. Ecco allora la scelta di non parlare del virus, ma di ricordare chi siamo e cosa facciamo”.

28 febbraio Eros Ramazzotti, cantante: “Mi trovo in America da un mese e da qui l’impressione è di un Paese (l’Italia) allo sbando, di gente che si evita come se ci fosse la peste, di ignoranza totale, di cattiveria”.

1 – continua

Pivetti: “Compro mascherine, gli Usa mi hanno tolto un carico”

Irene Pivetti, ex presidente della Camera e oggi alla guida dell’associazione Italia-Cina, ha una società, la Only Italia Logistics, che importa Dpi. “Lo sa che questi Paesi amici che ora ci mandano aiuti per via aerea, prima si sono fregati le nostre mascherine?”.

La Russia, dice?

Lì avevamo comprato un carico Ffp2. Alla fabbrica è stato impedito di caricarlo sui nostri camion.

Dove è accaduto?

A Rostov. Quindi abbiamo acquistato altri 5 milioni di mascherine chirurgiche in Ungheria. Quando siamo andati a ritirare, la ditta ci ha detto che la merce era stata venduta a una grossa società americana.

Motivo?

Ci hanno detto che pagavano di più. Ma noi avevamo già pagato il carico. Ci hanno risposto “potete prendere la prossima partita”. Ma in Italia c’è gente che muore adesso. E guardi che, data la situazione, teniamo i prezzi molto bassi.

Quanto?

Alla P.a. e agli ospedali una Ffp2 la mettiamo tra i 2,95 e i 3,60 euro. (Un acquirente privato ha riferito al Fatto che il costo delle chirurgiche è “molto buono”, ndr

Perché tutte queste difficoltà?

L’Italia non ha potere contrattuale. Il nostro ambasciatore a Mosca si è dato molto da fare. Ma all’estero non contiamo nulla. Non ci temono.

Siete rimasti senza mascherine, quindi.

Ci siamo rivolti alla Cina, che ha riaperto le forniture. I rapporti con Pechino sono meno aggressivi che con molti partner Ue.

Nonostante il blocco dei voli diretti che li ha fatti infuriare?

Per far arrivare la merce ho affittato dei charter, con una spesa enorme, perché se prendi voli con lo scalo rischi che ti sequestrino tutto.

Tutto risolto, quindi.

No. L’agenzia si sente libera di spostarmi i tempi di consegna e farmi fare due scali. Con la Merkel al governo in Italia non avrebbero fatto lo stesso.

Non è il Sars-Cov2, ma Salvini ci casca

E adesso chi li tiene a bada i complottisti? Non basterà certo una smentita dell’ufficio stampa Rai o del solito virologo per disinnescare la pistola fumante: un servizio di Leonardo della Tgr – la bella rubrica scientifica su Rai3 realizzata a Torino – in cui si parla di Cina, topi, pipistrelli polmonite e… coronavirus. Ed è il 16 novembre 2015.

In effetti le suggestioni non mancano. Il servizio del giornalista Maurizio Menicucci descrive un esperimento in corso nei laboratori cinesi: “Un gruppo di studio è riuscito a realizzare una chimera, un organismo modificato innestando una proteina superficiale di un coronavirus trovato nei pipistrelli di una specie piuttosto comune detta naso a ferro di cavallo, su un virus che provoca la Sars, la polmonite acuta, anche se in forma non mortale, nei topi”. E poi, ecco il carico da mille: “Si sospettava – prosegue Menicucci – che la proteina potesse rendere l’ibrido adatto a colpire l’uomo e l’esperimento lo ha confermato. Ed è proprio questa molecola detta Shco14 che permette al coronavirus di attaccarsi alle nostre cellule respiratorie scatenando la sindrome. Secondo i ricercatori l’organismo, quello originale e a maggior ragione quello ingegnerizzato, può contagiare l’uomo direttamente dai pipistrelli senza passare da una specie intermedia come il topo. Ed è appunto questa eventualità a sollevare molte polemiche”.

Il servizio, come detto, è del 2015, che quella di manipolare i virus sia una pratica diffusa certamente non solo in Cina è cosa nota, ma le suggestioni non mancano e di certo il complottismo (sono stati i cinesi, se lo sono perso o lo hanno fatto apposta) si abbevererà a lungo di questo video tornato ieri a circolare.

L’eco social è stato tale che in serata il direttore della Tgr Rai Alessandro Casarin ha dovuto specificare che “il servizio del 16 novembre 2015 andato in onda nella rubrica Leonardo è tratto da una pubblicazione della rivista Nature. E proprio tre giorni fa la stessa rivista ha chiarito che il virus di cui parla il servizio, creato in laboratorio, non ha alcuna relazione con il virus naturale Covid-19”. Parole ribadite ai microfoni di Rainews24 dal professor Enrico Bucci, epidemiologo e docente alla Templey University (Usa): “Il Covid-19 non è lo stesso virus creato in laboratorio dai cinesi nel 2015. Il virus creato nel 2015 – sostiene il professor Bucci – non aveva capacità epidemica. Inoltre è indubbio che il Covid-19 non è stato creato in laboratorio ma è frutto di una selezione naturale”.

Basterà a convincere i complottisti? Chissà.

Ieri Matteo Salvini, subito dopo aver visto il video, ha twittato: “Da Tgr Leonardo (Rai3) del 16.11.2015 servizio su un supervirus polmonare Coronavirus creato dai cinesi con pipistrelli e topi, pericolosissimo per l’uomo (con annesse preoccupazioni). Dalla Lega interrogazione urgente al presidente del Consiglio e al ministro degli Esteri”. E non poteva mancare Giorgia Meloni: “La Cina ci ha mentito? – scrive sui social la leader di Fratelli d’Italia –. Vogliamo la verità!”.

Convincere questi due sarà sicuramente molto difficile.

De Luca il taglia-sanità: “Qui siamo senza difese”

Lotta al coronavirus in Campania, grande è la confusione sotto il cielo. Il governatore Vincenzo De Luca, passata la sbornia delle “sceriffate” col “lanciafiamme”, e del fai da te, ieri ha scritto una drammatica lettera al governo. Da Napoli a Caserta, passando per Salerno, Avellino e Benevento, manca tutto. “Zero ventilatori polmonari; zero mascherine P3; zero dispositivi medici di protezione. A fronte di un impegno ad inviare in una prima fase 225 ventilatori sui 400 richiesti, e 621 caschi C-Pap, non è arrivato nulla”.

In queste condizioni, continua la lettera, “ci avviamo verso una tragedia doppia. Dopo aver creato decine di posti letto nuovi per la terapia intensiva, rischiamo di non poterli utilizzare per mancanza di forniture essenziali. Abbiamo fatto con migliaia di operatori, sforzi giganteschi per poter reggere. Ma non si può scavare nella roccia con le mani nude. Dobbiamo registrare il fatto che dal punto di vista delle forniture essenziali per il funzionamento dei nostri ospedali, in queste settimane da Roma non è arrivato quasi nulla. Il livello di sottovalutazione è gravissimo. Non si è compreso che gli obiettivi strategici sono due: contenere il contagio al Nord; impedire la sua esplosione al Sud. I prossimi dieci giorni saranno da noi un inferno. Siamo alla vigilia di una espansione gravissima del contagio, al limite della sostenibilità. Per noi è questione di ore, non di giorni”. Risponde il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri: “Sono sicuro che nessuno lascerà i campani indietro: il materiale necessario arriverà in Campania così come nelle altre regioni”. Ma a rendere più drammatico il quadro sono le testimonianze di medici e personale sanitario in prima linea. La Campania (ultimi dati) fa registrare 1.199 casi di contagio da Corona virus, 74 morti e 53 guariti, ma sui nuovi presidi dedicati alla lotta alla pandemia le cose non vanno bene.

In una lettera firmata, ventisei medici e operatori sanitari del “Covid Hospital” di Boscotrecase (Napoli) denunciano una serie di gravi criticità e la mancanza di personale sanitario specializzato. Nel piccolo presidio manca tutto, “strumentazione” in modo particolare, scarseggiano “i farmaci”, è insufficiente finanche il “materiale per l’igiene del personale”, in tali condizioni il rischio contagio è elevato, sia per i pazienti che per il personale sanitario. “La verità – ha detto ai giornali napoletani in forma anonima un medico – è che hanno preso un piccolo ospedale di provincia dove non c’era una Rianimazione e gli hanno cambiato il nome”.

Criticità anche a Salerno, dove la Cisl-medici denuncia i “deficit strutturali di alcuni presidi e le gravi carenze di organico”. Ieri il premier Giuseppe Conte si è limitato a parlare della ricostruzione della “filiera per la produzione di mascherine e ventilatori”, intanto la Campania paga il prezzo di politiche sanitarie scellerate. Dal luglio 2017 De Luca è stato anche commissario straordinario, il commissariamento è finito nel 2019, e i suoi sono stati piani di risanamento lacrime e sangue. Ospedali chiusi, spesa sanitaria cresciuta solo dell’uno per cento, quella per il personale è calata del 19,7 per cento. Ma ad aggravare ancora di più la situazione è la conflittualità tra le istituzioni territoriali, la mancanza di coordinamento e la gara a fare da soli di alcuni sindaci.

Ad Avellino il primo cittadino Gianluca Festa, vicino al Pd, annuncia piani “coreani”, l’acquisto di cinquemila tamponi e uno screening di massa. La presidente del Consiglio Regionale, Rosetta D’Amelio (Pd) minaccia di denunciarlo per “procurato allarme”. Intanto l’ospedale della città da due giorni ha detto stop ai ricoveri: non ci sono più posti. Anche Michele Emiliano, governatore della Puglia, scrive sui social di “aver chiesto al governo la fornitura di dispositivi di protezione e di reagenti per i tamponi. Anche in Puglia abbiamo bisogno della nostra parte e ho dovuto dirglielo con fermezza”.

Ecco i test del sangue: più economici e rapidi dei tamponi

Campania, Liguria, Toscana, Marche, Lazio, Puglia. Sono sempre più le Regioni che puntano su un’arma finora guardata con diffidenza nella lotta al coronavirus: i test sul sangue per verificare gli anticorpi, un esame che non ha nulla a che vedere con l’unico test validato per rilevare direttamente l’infezione, il tampone rino-faringeo. Il test del sangue, invece, dice se e quanti anticorpi di tipo IgM e IgG sono stati prodotti dall’organismo. Gli anticorpi Igm rilevano una reazione al virus agli inizi, mentre gli anticorpi Igg sono quelli stabili che dimostrano la reazione immunitaria del corpo. Il test del sangue, pur non essendo riconosciuto per i suoi margini di incertezza, è più veloce del tampone ed è disponibile sul mercato a prezzi bassi: 7 euro l’uno all’ingrosso. Al dettaglio, la società pugliese Alha Pharma di Bitonto ha proposto un kit alle farmacie italiane con prezzo al pubblico di 25 euro. Però Federfarma, l’associazione di categoria, ha invitato le farmacie ad “astenersi dall’acquisto” perché per il Comitato tecnico-scientifico del ministero della Salute, “a oggi, i test basati sull’identificazione di anticorpi (sia di tipo IgM che di tipo IgG) diretti verso il virus Sars-CoV-2 non sono in grado di fornire risultati sufficientemente attendibili”. Alcuni laboratori privati offrono i test, in una forma più elaborata dei kit, a un prezzo molto più alto. In Campania, il Nas dei carabinieri è intervenuto per diffidare un centro dal proseguire la raccolta dei campioni nello studio per 120 euro l’uno. A Genova il laboratorio Albaro offre l’analisi del sangue con modalità più complesse dei kit e con le dovute informazioni ai pazienti, previa richiesta del medico, a 100 euro. Il prelievo è a domicilio e il campione elaborato con un macchinario. Il risultato poi arriva via web in poche ore.

Qualcuno non condivide questa liberalizzazione selvaggia dei test. “Il test del sangue – spiega un esperto del settore, Adriano Mari, amministratore del gruppo Caam (Centri associati di allergologia molecolare di Latina) dovrebbe essere usato soprattutto per eseguire studi epidemiologici ed è uno strumento troppo delicato per lasciarlo ai laboratori o addirittura al dettaglio”. Mari ha già testato un kit supportato da documentazione scientifica “per finalità di ricerca e messa a punto”. E spiega: “Il risultato del test non è espresso in valori numerici e dipende troppo dall’esperienza dell’esecutore e del valutatore. Permette però di acquisire informazioni importati sulla risposta immunitaria della popolazione”. Spiega Mari: “I risultati del test possono essere 4. Se il test risulta negativo per IgM e IgG, il soggetto asintomatico non ha ancora incontrato il virus e non ha maturato alcuna risposta di difesa; con IgM positive e IgG negative potrebbe avere l’infezione in corso da pochi giorni e qui si può fare il tampone per essere certi e procedere all’isolamento; con IgM positive e IgG positive: il soggetto è ancora in una fase iniziale di infezione, ma sta maturando una risposta di difesa protettiva; con IgM negative e IgG positive: il soggetto ha raggiunto uno stato di protezione e ha superato l’infezione indenne. Questa condizione potrebbe liberare molte persone dall’incubo del contagio”. Per Mari “è però necessaria una validazione clinica ed epidemiologica di questo test e i suoi risultati dovrebbero sottostare, come i tamponi, alla centralizzazione, dopo opportuna trasformazione in valori semi-quantitativi. Noi abbiamo sviluppato un software per questo. Il basso costo e la più ampia diffusione permetterebbero la mappatura dell’epidemia in breve tempo”.

Proprio per questa ragione il kit è stato acquistato o interessa a molte Regioni. La Campania ha comprato un milione di kit che arriveranno a brevissimo. Saranno usati per il pre-triage dei pazienti sintomatici che poi faranno anche i tamponi. Prima sugli operatori sanitari, poi su farmacisti, operatori dei supermarket e pazienti deboli con sintomi Covid-19. In Toscana ne sono arrivati già 25 mila all’ospedale di Careggi e sono stati testati anche qui sui sanitari. Ora ne saranno prodotti altri 500mila dalla Diesse diagnostica, per la Regione. Il test sarà destinato inizialmente agli operatori sanitari. In Liguria l’Alisa, agenzia sanitaria regionale, ha fatto una gara che scadeva ieri per sollecitare offerte dei laboratori per i test sierologici. Spiega il governatore Giovanni Toti: “Non abbiamo idea di quanto sia davvero diffuso il contagio. A questo fine possono essere utili i test sierologici. Però serve una regolamentazione nazionale da parte dell’Istituto Superiore di Sanità. Ci vuole un protocollo nazionale oppure rischiamo di far fatica a gestire i risultati. Per ora li stiamo usando su un campione limitato di poche decine di migliaia su cluster ben precisi come il personale sanitario per vedere quanto il virus sia entrato nei nostri ospedali. Può servire anche a rassicurare il personale sanitario che, quando si rileva la presenza degli anticorpi stabili, può tornare a lavorare in situazione di tranquillità. Va ricordato che il test sierologico non ha un valore legale, non basta a mettere in malattia un dipendente”.

Il problema è l’affidabilità dei test. La prima fase di verifica in Regione Liguria è stata affidata all’equipe del professore Giancarlo Icardi del Policlinico San Martino di Genova. “Su soggetti positivi ai tamponi abbiamo avuto oltre il 98% di positività con il test sierologico tra i 4 e i 10 giorni dalla comparsa dei sintomi mentre sui campioni di soggetti asintomatici e con storia clinica negativa per sindrome influenzale nei due mesi precedenti (300 campioni circa), abbiamo riscontrato risultato negativo al test nel 99,5%. Ora passiamo a fare i test su 500 operatori sanitari. Ci servirà a capire quanti di loro sono stati contagiati”. Gli operatori sanitari che hanno maturato l’anticorpo Igg possono essere sicuri di non contrarre più il virus? Icardi è cauto: “Conosciamo da troppo poco il virus per parlare in questi termini del ruolo di protezione degli anticorpi”.

Muore la dottoressa di Bergamo vicina alla pensione: già 33 vittime fra i medici

Era al suo ultimo anno di lavoro, poi sarebbe andata in pensione. Vincenza Amato, infettivologa, era medico dirigente dell’Ats di Bergamo, dipartimento di igiene e prevenzione sanitaria. Il coronavirus l’ha stroncata all’ospedale di Romano di Lombardia, dove era ricoverata. È una delle ultime vittime tra i camici bianchi: salite a 33, da quando è esplosa l’epidemia. Un elenco che si allunga di giorno in giorno. Così come sale, con una crescita esponenziale che non accenna a diminuire, il numero dei medici e degli infermieri infettati: 6.205 a ieri, 445 in più in un solo giorno. E, di questi, oltre la metà – ben 3.957 (dati aggiornati, in questo caso, al 23 marzo) – sono concentrati in Lombardia. Il che significa che oltre il 13% dei contagiati in questa regione è costituito da operatori sanitari.

Dati così drammatici spiegano anche l’asprezza di quello che è ormai uno scontro aperto: da un lato, ci sono i sindacati dei medici, dall’altro le aziende sanitarie, le Regioni, il governo. Ora nel mirino dei primi c’è anche il presidente dell’Istituto superiore della Sanità, Silvio Brusaferro. “L’istituto da lei diretto non ci aiuta a difendere i sanitari”, gli hanno scritto nero su bianco Carlo Palermo, segretario nazionale dell’Anaao (sindacato dei medici dirigenti) e Chiara Rivetti, sua omologa in Piemonte. Lettera che ruota intorno all’annoso problema delle mascherine indispensabili per proteggere dal contagio, e soprattutto alle indicazioni che l’Istituto dà al ministero della Salute che emana poi le circolari.

Se fino a non molto tempo fa infatti le disposizioni ministeriali prescrivevano come dispositivi adeguati le mascherine filtranti, dai primi di marzo è cambiato tutto. Di mezzo c’è l’articolo 34 del decreto del 2 marzo, che consente di “fare ricorso alle mascherine chirurgiche quale dispositivo idoneo a proteggere” gli operatori sanitari. Tutto nel rispetto delle linee guida dell’Oms, che però prevedono standard minimi di sicurezza, regole valide per tutto il mondo, compresi i Paesi con sistemi sanitari poco avanzati. “Ma l’Iss – protestano Rivetti e Palermo – non può applicare in Italia ciò che è stato pensato per aree flagellate da guerre o carestie. Non può prescrivere che un medico entri in un reparto Covid, per visitare pazienti trattati con ossigeno ad alti flussi, protetto solo da una maschera chirurgica”. Perché poi, denunciano i medici, tutti si adeguano: dal ministero alle aziende sanitarie.

Succede infatti che le aziende sanitarie, in questo contesto, si trincerino dietro la legge, con direttive che “condannano al contagio”, come spiega l’Anaao del Veneto: “Qui le aziende danno indicazione di usare mascherine chirurgiche come requisito minimo di tutela e sicurezza con pazienti sospetti o confermati Covid-19”. Ma la rabbia e l’indignazione montano anche per altro. In Lombardia alcune Ats prescrivono ai medici che presentano sintomi –come la febbre – di mettersi in malattia. Senza che – paradosso – venga eseguito il tampone. “Mentre un caso come questo è un infortunio sul lavoro che deve essere trattato come tale dall’Inail”, dice l’Anaao Lombardia. Un dettaglio? Non proprio. Perché con la denuncia all’Inail si aprono anche le porte alle azioni legali.

C’è chi, a Torino, un risarcimento lo ha già chiesto: è la famiglia di un operatore sanitario ucciso dal virus. “Lo Stato dia un segnale forte e chiaro”, dice ora il suo legale, Gino Arnone. “Indennizzi i familiari di medici e infermieri deceduti”. Una lista che, ogni giorno, si allunga terribilmente.

Gallera, il Signor Andrà-Tutto-Bene (almeno per lui)

“Non è il tempo delle polemiche” usano dire quelli a cui le polemiche fanno paura perché con le polemiche arrivano le domande. Lo dicono perché vogliono dare l’impressione di essere quelli sul pezzo, quelli che rischiano in trincea, quelli che si sporcano la mani, mentre gli altri son lì a disinfettarsele con l’Amuchina. Ed è proprio con la frase “Venite qui in trincea” che replica spesso l’assessore al welfare Giulio Gallera a chi gli fa notare che la gestione della crisi è lievemente fuori controllo. Del resto, lui traeva già le conclusioni sull’efficienza della Regione di fronte all’emergenza Coronavirus il 25 febbraio, quando proclamava: “Se questo fosse successo in un’altra regione saremmo in una situazione disperata. È successo in Lombardia e lo stiamo gestendo al meglio!”. Per la cronaca, in Lombardia il 25 febbraio c’erano 212 contagiati. Un numero che, evidentemente, a Gallera pareva già ingestibile per Bari, ma acqua fresca per l’ineguagliabile sanità lombarda. Oggi che i contagiati in Lombardia sono quasi 20.000, diciamo che l’ineguagliabile sanità lombarda continua a non avere eguali, e per fortuna.

Basta assistere al bollettino Coronavirus di Gallera per capire tutto. Ogni volta c’è “un piccolo segnale incoraggiante”, “uno spiraglio”, “una lieve flessione”, un qualcosa con cui Gallera ci vuole far credere che dopodomani andremo a metterci in fila per un cono al pistacchio da Grom. In questi ultimi giorni, per esempio, ci ha comunicato che per quel che riguarda il numero dei contagiati in Lombardia il trend è in calo. E guai a fargli notare che forse il numero dei contagiati è in calo perché non ti fanno il tampone neppure se per respirare devi infilarti la maschera dello snorkeling a Punta Secca. Neppure se sei a casa con figli piccoli e madri ottuagenarie in un lazzaretto che neanche Parigi durante la peste nera. Perché ormai ti fanno il tampone, se te lo fanno, solo se: arriva un’ambulanza, se funziona il numero dell’emergenza, se sei valutato un caso sufficientemente grave, se convinci l’operatore al telefono dicendo che a ogni respiro esali uranio impoverito, se dici che il prete ti sta dando l’estrema unzione su Facetime. Facile, così, raccontare che i positivi stanno calando.

E infatti, non a caso, il numero dei morti l’altroieri non è calato manco per niente. Perché se i positivi con la febbre li puoi lasciare a casa, ai morti pare brutto dire di chiamare solo se sono casi di morte molto grave. Quelli li devi contare per forza. Che poi, nel conteggio finale, pure di morti ne restano fuori un bel po’: quelli che muoiono in casa, quelli che muoiono negli ospizi, nei centri di riabilitazione, nelle cliniche private e così via. Quelli a cui spesso nessuno fa neppure il tampone perché cosa ti metti a fare il tampone a un novantenne che soffriva di demenza senile che nell’ultima settimana respirava un po’ male? Nella casa di riposo di Mediglia ci sono voluti 50 morti e la ribellione dei familiari per far fare il tampone ai defunti. Guai a dirlo a Gallera. Si incazza così tanto che finisce pure per accusarti di manipolare quello che dice lui stesso.

Eppure, giuro sulla mascherina di Fontana che Gallera, due giorni fa ha detto in tv: “Se le vostre condizioni diventano non dico preoccupanti, ma un po’ alterate, il medico di medicina generale vi manda a fare il tampone”. L’ha detto. E siccome su Facebook ho fatto notare che questa è una palla grossa almeno quanto quella che in Giappone stanno tutti bene e gli abitanti fanno tutti la ruota davanti alle fontane, mi ha risposto su fb con un’impressionante potenza di fuoco di maiuscole e punti esclamativi: “Non ho il piacere di conoscerla ma le chiarisco subito che NON È MIA ABITUDINE MENTIRE e trovo VERGOGNOSO che in questo momento qualcuno crei polemiche su affermazioni che IO NON HO MAI DETTO, quindi SI INVENTI UNA FAKE NEWS!”. In effetti, invitandomi a inventare una fake news, riconosce che quello che ho dichiarato è vero. E poi: “Quello è il contenuto della delibera che da oggi perfeziona l’attività di monitoraggio dei cittadini fragili. Abbiamo previsto che i medici di medicina generale debbano, con il contatto telefonico e la telemedicina, monitorare i pazienti!”. Accidenti. Altro che isolamento dei positivi, monitoraggio attraverso centrali operative, droni, app e mappature. La telemedicina! Voi non vi sentite già in Corea del Sud, a Shanghai, a Wuhan, a Hong Kong udendo già solo il suono della parola “telemedicina”? Ci manca solo che annunci che il personale sanitario consegnerà a casa dei sintomatici delle piccole vasche di sanguisughe per le prime cure domestiche e poi, nel caso si stia molto male, passerà il monatto col carretto di legno a portarci in ospedale. Nel frattempo Borrelli ha dichiarato a Repubblica che potrebbero essere 600.000 i contagiati, ammettendo dunque che i numeri del bollettino quotidiano sono forse buoni per il Bingo online. Ma andrà tutto bene. In Veneto, forse.

Lombardia contro Covid-19: i dieci errori della Regione

Se ci fosse un titolo, sarebbe “sottovalutazioni del rischio e incapacità organizzativa”. Il film del contagio in Lombardia mostra molti errori e responsabilità precise. Cominciamo.

1. Gli incontri a Roma.È inizio febbraio. Il virus, arrivato dalla Germania, gira nella zona di Codogno da almeno dieci giorni. A Roma, nella sede dell’Istituto superiore di sanità, il presidente Silvio Brusaferro illustra ai vari esperti regionali i rischi del nuovo Covid-19, già da settimane in Cina. A questi vertici partecipa anche il professor Antonio Pesenti, direttore del Dipartimento di anestesia-rianimazione del Policlinico di Milano, oggi a capo dell’Unità di crisi in Regione. “Prima dell’inizio dell’emergenza – spiega – abbiamo avuto tre incontri. Ogni mercoledì a Roma ci venivano illustrate le previsioni di sviluppo del virus e, fin da subito, è stato posto il problema delle terapie intensive. Era evidente che in una condizione di R con 0 superiore a 1,5 la rianimazione sarebbe andata sotto stress”. Tra il 16 e il 17 febbraio c’è un altro incontro per capire quale strumentazione acquistare. Tre giorni dopo arriva la piena. Sembra cogliere tutti impreparati, ma le evidenze erano già sotto gli occhi da giorni. L’Unità di crisi di Regione Lombardia si è addirittura riunita il 9 gennaio per la prima volta. Cosa si decide? Fino al 20 febbraio ben poco.

2. Prevenzione inesistente. Manca un piano pandemico regionale: sul sito, l’ultimo disponibile è quello contro il virus N1H1. Data: 2009.

3. Ospedalizzazione di massa. Quando scoppia il “caso Mattia”, la battaglia è già impari. Il virus è ovunque in Lombardia. Le terapie intensive vengono invase e, nonostante se ne fosse parlato a livello centrale già tre settimane prima, la Regione punta sugli ospedali. “È stato un disperato inseguimento all’ospedalizzazione, ma le epidemie non si vincono negli ospedali: quando arrivano lì sono già perse”, spiega una fonte molto qualificata. Con la logica dei più ricoveri possibili, dimenticando la medicina sul territorio, gli ospedali sono andati in collasso.

4. Ospedali veicoli di contagio “accidentale”. La scelta della Regione ha trasformato i presidi sanitari in vettori per la diffusione del virus anche tra gli operatori. Tanto che la percentuale degli infetti tra i medici in Lombardia è la più alta (13%, a livello nazionale è il 9%). I casi degli ospedali di Codogno e di Alzano Lombardo (Bergamo) – chiuso dopo i primi casi e poi inspiegabilmente riaperto – hanno dimostrato che, nonostante le buone prassi di medici e infermieri, il virus ha viaggiato dal pronto soccorso ai reparti. E rischia di farlo ancora oggi, con il ricovero dei convalescenti nelle Rsa. “Poichè negli ospedali bisogna liberare posti letto, i pazienti Covid convalescenti – spiega Marco Agazzi, presidente Snami-medici di famiglia di Bergamo – vengono mandati in queste strutture col rischio che diventino dei focolai. Ma non sappiamo se questi pazienti abbiano ancora una carica virale. Ora siamo in guerra e combattiamo, ma quando sarà finita ci sarà la resa dei conti. E porteremo i nostri amministratori in tribunale”.

5. Mancate zone rosse. Nei primi giorni di crisi il Basso Lodigiano diventa zona rossa. Il “modello Codogno” funziona. La Regione però tergiversa sul focolaio della bassa Valseriana, dove i casi sono ormai esplosi. “È evidente – spiega il professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco – che la chiusura di Nembro e Alzano avrebbe ridotto la diffusione”. Qui non nascerà mai una zona rossa, così come nel Bresciano. Risultato: le due province contano oggi il record dei positivi (quasi 14mila su 32.346). “Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia anche di fronte alla morte”, ha detto il prof. Andrea Crisanti, virologo del “modello Vo’”.

6. I medici inascoltati. Un medico di Bergamo – lo ha raccontato il Wall Street Journal – il 22 febbraio ha provato a farsi ascoltare, mandando una lettera in Regione per consigliare la costituzione di strutture Covid dedicate. La Regione rispedirà al mittente la proposta, salvo ripensarci giorni dopo. Un gruppo di medici sempre di Bergamo scrive al New England Journal of Medicine: “Questo disastro poteva essere evitato con un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio”. Cosa che non è stata fatta. Non si è investito sull’organizzazione degli interventi del territorio, esponendo i medici di base al contagio e puntando solo sull’ospedalizzazione. Solo oggi, la Regione inverte la marcia, incrementando i presidi sul territorio per tracciare gli asintomatici e tenere sotto controllo i malati domiciliari. Ma cos’hanno fatto le Aziende territoriali sanitarie finora?

7. Nessuna sorveglianza epidemiologica. Non c’è stata, fino a ora, nessuna mappatura epidemiologica, attraverso la ricostruzione dei contatti dei positivi. Anche per colpa dell’Iss, che non è stato in grado di dare indicazioni precise su questo come sui target dei tamponi. Si è scelto di guardare solo ai sintomatici, perdendo almeno altre 30mila persone contagiate sommerse.

8. Tamponi ai sanitari. Tra i target sfuggiti c’è la categoria più esposta: il personale sanitario. Spiega Stefano Magnone, medico a Bergamo e segretario regionale dell’Anaao: “All’inizio i tamponi venivano fatti anche al personale asintomatico. Molti erano negativi e il problema è stato sottovalutato. Adesso si mandano al lavoro medici con febbre non superiore a 37,5 e senza nemmeno fare loro il tampone. Forse perché si teme che i positivi siano così tanti, da sguarnire ulteriormente di personale i presidi ospedalieri”.

9. Personale non sufficiente. Dicono i medici in trincea: se tu Regione mi fai aumentare i posti letti in terapia intensiva, ma il personale resta sempre lo stesso, allora mi uccidi. Se non di virus, di fatica.

10. La vocazione al privato. Il “peccato originale” del modello Lombardia. Una galassia, quella del privato accreditato che, tranne alcune eccezioni, non sembra aver risposto a questa emergenza.

Borrelli ha la febbre: si aspetta il test. Bertolaso ricoverato al San Raffaele

E ora si balla davvero. Perché dopo che il capo della Protezione civile Angelo Borrelli ha accusato nella tarda mattinata di ieri i sintomi influenzali che fanno temere un contagio da Covid-19, è davvero scattato l’allarme rosso. E non solo nella sede del Dipartimento, la macchina statale dell’emergenza: a metà pomeriggio è intervenuto Palazzo Chigi per sollecitare la conferma della conferenza stampa delle 18 che era stata in un primo momento cancellata. Questo per dare il segnale che la struttura operativa che fa capo al governo continuerà a funzionare, nel caso che l’indisposizione e la leggera afonia di Borrelli sia solo il frutto di un affaticamento da superlavoro, o anche se risulti positivo al tampone, come è accaduto già nei giorni scorsi a dodici persone del Dipartimento dove le precauzioni sono massime, ma possibili fino a un certo punto dal momento che si lavora gomito a gomito 24 ore al giorno. Per ora comunque prevale l’ottimismo: Borrelli lavorerà da casa come hanno fatto altri, tra tutti il viceministro alla Salute, Pierpaolo Sileri per cui l’incubo è finito in queste ore.

Se non dovesse trattarsi di coronavirus Borrelli potrebbe già tornare in sella in un paio di giorni o tre, mentre nessuno vuole immaginare lo scenario più drammatico: che le sue condizioni rendano a un certo punto necessario sostituirlo nella sua funzione di coordinatore del comitato operativo (nel caso l’incombenza toccherebbe al capo dipartimento dei vigili del fuoco, Salvatore Mulas). Ma si tratta solo di un’ipotesi estrema.

A ogni modo, nel frattempo, i più stretti collaboratori di Borrelli sono già stati sottoposti a tampone, a partire da Luigi D’Angelo, direttore operativo dell’ufficio emergenze che ieri lo ha sostituito in conferenza stampa. Affiancato da Agostino Miozzo, coordinatore del comitato scientifico sull’emergenza Covid-19, che ha cercato anche di fare le veci dei rappresentanti dell’Istituto superiore di sanità. Una sorta di diarchia che si è resa necessaria anche dalla circostanza che il Dipartimento non ha un vice capo dall’epoca in cui quel ruolo spettava allo stesso Borrelli mentre al comando c’era Guido Bertolaso. I destini dei due continuano a intrecciarsi: perché come noto Bertolaso, oggi consulente del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana che lo ha messo al lavoro per la realizzazione di un nuovo ospedale alla Fiera di Milano, è risultato positivo al coronavirus e ora è ricoverato al San Raffaele di Milano per precauzione.