“L’Italia è pronta”, ma nessuno parlò degli ospedali

Quando tutto ebbe inizio non c’era paura. Forse non abbastanza. Era il 31 gennaio, un venerdì pomeriggio, era già buio quando il corteo di auto, in ritardo, si fermò in forma circolare davanti al palazzone squadrato e vetrato della Protezione civile di via Vitorchiano, periferia di Roma, per una riunione plenaria del comitato operativo contro il Covid-19 presieduto da Giuseppe Conte. “Noi siamo pronti ad affrontare qualsiasi situazione”, disse Roberto Speranza, il ministro della Salute, confortato dal ritmato annuire col capo di decine di funzionari, dirigenti, esperti e scienziati del dicastero ricevuto in dote nella distribuzione di agosto.

Il malefico coronavirus che provoca polmoniti bilaterali era apparso in Italia con la coppia di turisti cinesi, ricoverata allo Spallanzani, e almeno da un paio di settimane circolava dai vicini tedeschi e francesi. Con un’ordinanza Speranza impose il blocco dei voli da e per la Cina, la misura fu offerta ai media così: “Le nostre precauzioni sono le più rigide d’Europa”.

In via Vitorchiano c’era l’intero ministero per la Salute assiepato tra due file di poltrone nell’immenso bancone rettangolare di legno chiaro, strutture amministrative e politiche assieme, in maniera indistinta, con la vigile presenza dell’Istituto superiore di sanità. Nessuno parlò di capacità ricettiva degli ospedali, di posti in terapia intensiva e neppure di cercare sul mercato internazionale mascherine, respiratori e tamponi, di preparare barellieri, infermieri e medici, di prevedere un aumento dell’organico, di emanare protocolli per i soccorsi urgenti. Nessuno.

La mattina s’era tenuto il Consiglio dei ministri per proclamare lo stato d’emergenza per il coronavirus, rispondere alle “raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (in sigla Oms)”, nominare il dottor Angelo Borrelli, capo del dipartimento di Protezione civile, coordinatore (non commissario) dell’azione di prevenzione, stanziare 5 milioni di euro.

Il 28 gennaio l’Oms sentenziò: “Il rischio globale di epidemia è alto. Nel mondo vanno adottate misure adeguate”. Al comando di via Vitorchiano per il varo delle norme, dunque, c’erano Conte, Speranza e Borrelli, dinanzi a loro una spianata di burocrati e tecnici ministeriali: Interni, Esteri, Difesa, Istruzione e Trasporti. Più rappresentanti delle regioni italiane, l’associazione dei comuni italiani, responsabili della Croce rossa, militari in divisa con vistosi nastrini. Il tema più delicato, affrontato per gran parte del tempo dalle 17:00 alle 19:30 e foriero di accorati interventi, fu il rapporto con la Cina, compromesso per gli Esteri, perché il mancato preavviso non aveva fertilizzato il territorio diplomatico; dannoso per i Trasporti, perché i cinesi potevano entrare in altri modi e senza controllo.

Alla platea fu rammentato che il fondo di cinque milioni serviva a ispezionare gli arrivi in aeroporto con i termometri digitali e poi a pianificare voli di Stato per recuperare gli italiani in Cina. Insomma, non scarseggiava il carburante per ripetuti Roma-Pechino. E fu suggerito, per l’appunto, di censire ricercatori e studenti reclusi nella provincia dello Hubei, il focolaio. Il messaggio fu chiaro e fin troppo replicato in quel periodo da sembrare pleonastico: non creare allarme sociale e panico, il sistema italiano reggerà, siamo preparati. Il comitato operativo, insediato per il rodaggio, fu sciolto con ottimismo. All’uscita aspettavano le telecamere, contornate da fari molto forti, per alcune dichiarazioni da recapitare subito ai telegiornali della sera. Quelle che rassicurano gli italiani.

La strage sta rallentando. “Picco dei morti a breve”

La strage continua. Altri 683 morti in un giorno: 298 in Lombardia, 92 in Emilia-Romagna, 46 in Piemonte. Erano stati 743 martedì. La curva dei decessi, la fredda rappresentazione della strage del nuovo Coronavirus, piega un po’ verso il basso. Gli epidemiologi non si sbilanciano nelle previsioni. Secondo diversi analisti, però, il picco dei decessi potrebbe essere vicino. Lo vede attorno al 30 marzo il fisico Fabrizio Nicastro dell’Inaf (Istituto nazionale di astrofisica) che dall’inizio (e anche ieri) ha fatto quasi sempre previsioni corrette e si concentra soprattutto sul dato dei morti visti i margini di incertezza degli altri: c’è poco da stare allegri, se va come dice lui – e può andare anche peggio – alla fine conteremo tra 13 e 15 mila decessi. Per ora siamo a 7.503, da giorni la sola Lombardia (4.474) ha più vittime dell’immensa Cina.

I morti, abbiamo imparato, sono stati contagiati in media due settimane fa. E anche i nuovi contagi, sempre che si possa credere ai numeri che vengono dal ministero della Salute, diminuiscono ancora un po’, per il quarto giorno consecutivo: il totale dei positivi rilevati sale infatti a 74.386, cioè 5.210 in più pari a un incremento del 7,53 per cento, più basso degli ultimi giorni e il secondo più basso in assoluto dall’inizio di quest’incubo. Non sono numeri da prendere come certezze scientifiche. Non solo perché ci sono gli asintomatici (contagiosi) e i tamponi che non vengono fatti nemmeno a migliaia di sintomatici (ancora più contagiosi) per gli intollerabili ritardi del servizio sanitario: il professor Andrea Crisanti di Padova, il padre della strategia veneta, sulla base degli studi condotti stimava fino a qualche giorno fa un 60 per cento di soli asintomatici, che porterebbero il totale a 450 mila. Ci sono poi vere e proprie falle nella registrazione dei dati che il ministero della Salute fa diffondere alla Protezione civile, ieri priva del suo capo Angelo Borrelli perché ha la febbre e attende il tampone. Incredibile quella scoperta da youtrend.it: alcune Regioni registrano più volte i tamponi fatti alla stessa persona, per cui i soggetti controllati non si sa davvero quanti siano.

Sono 57.521 le persone attualmente positive, al netto cioè dei morti e dei guariti, che pure aumentano: 894 martedì e ieri 1.036, per un totale di 9.362. Calano un po’ i numeri della Lombardia – dove la situaizone negli ospedali resta drammatica a Bergamo e a NBrescia ma non solo – e delle regioni più colpite. L’aumento giornaliero registrato ieri non ha quasi mai superato il 10 per cento, c’è attenzione all’aumento in Abruzzo. “Viviamo una fase di apparente stabilizzazione – ha detto il vice di Borrelli, Agostino Miozzo –. È indispensabile, se vogliamo vedere la curva stabilizzarsi e poi decrescere, mantenere le rigorose misure di contenimento e di distanziamento sociale”.

Per diversi analisti fra cui Nicastro il picco dei contagi potrebbe essere stato superato tra il 20 e il 21 marzo. Giovanni Sebastiani, matematico dei Consiglio nazionale delle ricerche che studia i dati sui contagi, indicava ieri sera in 69 le province che l’hanno raggiunto nel senso che da tre giorni diminuiscono i contagi giornalieri. Nell’elenco c’è tutta la Lombardia tranne Como. Erano una cinquantina lunedì. Ma questi picchi non sono certo definiti una volta per tutte, alcune province sono già tornate indietro.

Dai leghisti al premier: la recita dell’unità nazionale che nessuno vuole (Colle a parte)

Al netto di scenari futuribili e ipotetici, al momento non esiste un altro governo, se non quello di Giuseppe Conte. Vale per il Quirinale, vale per la maggioranza. Non è che manchino nel Pd le critiche alla gestione del premier o le tentazioni di dar vita ad altre operazioni. Ma non è questo il momento di farlo. L’idea di Mario Draghi a capo di un governo di unità nazionale circola dall’inizio dell’emergenza Coronavirus. Ma casomai se ne parlerà dopo, nella fase della ricostruzione. Se è per i Cinque Stelle, che sembrano in questa fase più marginali rispetto all’azione di governo, Conte, almeno per ora, non si tocca. Un po’ di polemica c’è stata sul Mes. Ma Di Maio, nell’intervista al Fatto, si è allineato alla posizione del capo del governo: “Sono d’accordo con il premier: ha detto chiaramente che una cosa sono i soldi del Mes, soldi nostri, un’altra ciò che li contiene”.

Dunque si va avanti. Altra cosa è l’unità nazionale tra maggioranza e opposizione che Sergio Mattarella sta chiedendo insistentemente da giorni, assumendo lui stesso il ruolo di mediatore tra Conte e Matteo Salvini. Il premier ieri si è presentato in Parlamento, come richiesto dalle opposizioni, e ha detto che lo farà ogni 15 giorni. Nel lungo incontro di lunedì da loro gli è stato rimproverato di aver fatto tutto senza coinvolgerli. Per adesso, non si intravede un’inversione nella sostanza.

Anzi, a giudicare dal livello di tensione che si registra con le Regioni, il conflitto potrebbe aumentare. Di certo, il primo atto è andato male. Ieri il capogruppo del Pd in Senato, Andrea Marcucci ha convocato una riunione con gli altri capigruppo. Risultato deludente. La Lega si è rifiutata di rivedere la sua posizione sul calendario: nell’ultima capigruppo aveva votato contro il calendario perché voleva Conte in Aula. Lui in Senato arriva stamattina. Ma è solo un’informativa: quindi, come chiesto dal Carroccio, si voterà il calendario. E la Lega non accetta di ritirare gli emendamenti. “Noi responsabilmente li abbiamo ridotti a 200, tutti utili agli italiani. Se il Pd li considera tempo perso e vuol fare da solo, ci spiace per il Paese”, dice il capogruppo, Romeo. Esplicito Marcucci: “Sono preoccupato per l’atteggiamento parlamentare annunciato dalla Legai”.

Nel frattempo, alla Camera, Maria Elena Boschi lancia addirittura una commissione d’inchiesta che “dovrà verificare cosa è accaduto”. Insomma, controllare l’operato della sua stessa maggioranza. Prove della cabina di regia che Salvini chiede insistemente, mentre ribadisce che la collaborazione passa per maggior coinvolgimento?

Maggiore disponibilità rispetto alla Lega si registra in Forza Italia, dove però si escludono ipotesi di governissimo, anche se magari qualche berlusconiano ci pensa. Ma in FI ieri ci si aspettava un segnale in più da Conte. Un’apertura all’opposizione durante il suo discorso alla Camera, che non c’è stata. “Avevamo chiesto che il decreto di aprile avesse un relatore di maggioranza e uno di opposizione, così da poter discutere nel merito e incidere sul provvedimento. Bastava una parola di Conte in Aula, che non si è sentita”, fa sapere Giorgio Mulè. Di cabina di regia ha parlato a Montecitorio, per i forzisti, Roberto Occhiuto. Formata dai leader dei partiti e dei capigruppo, più tecnici dell’ISS e della Protezione civile. Il problema, però, per i berluscones non è tanto questo, perché “una formula si trova”, ma è la possibilità di incidere sulle misure. A parlare di cabina di regia è stata anche Giorgia Meloni. Secondo FdI, potrebbe coniugarsi in due modi. O una capigruppo di Camera e Senato allargata ai leader di partito e presidenti delle commissioni coinvolte. O una commissione bicamerale di 60 membri.

L’asse Conte-Macron sui Coronabond: no di Olanda&Germania

Dieci anni dopo sembra di assistere allo stesso balletto recitato ai tempi della crisi dell’euro del 2010-2011. Oggi i capi di Stato e di governo si riuniranno al Consiglio europeo. Devono elaborare una risposta comune all’emergenza Covid-19 che porterà alla più grave crisi economica dal dopoguerra. Le premesse non sono delle migliori.

Tutti i Paesi spenderanno centinaia di miliardi. Negli Usa Donald Trump ha varato un piano da 2.000 miliardi di dollari. I debiti pubblici cresceranno ovunque. Sul come arrivarci e sul come gestire il dopo-emergenza si scontrano due visioni contrapposte. Ieri Giuseppe Conte, insieme ad altri otto leader Ue, a partire da Emmanuel Macron e lo spagnolo Pedro Sanchez (gli altri sono Belgio, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo e Slovenia) ha diffuso una lettera al presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, in cui viene auspicata la creazione di uno “strumento di debito comune emesso da un’istituzione dell’Ue”. “Vi sono valide ragioni per sostenerlo – si legge – poiché stiamo tutti affrontando uno choc simmetrico esogeno, di cui non è responsabile alcun Paese, ma le cui conseguenze negative gravano su tutti (…). Dovrà essere di dimensioni sufficienti e a lunga scadenza, per essere efficace e per evitare rischi di rifinanziamento”.

L’iniziativa è italiana, e d’altronde Conte ha fatto la prima mossa già la scorsa settimana chiedendo il coinvolgimento del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), l’ex “fondo salva-Stati” creato nel 2011 per prestare soldi ai Paesi che non riescono più a finanziarsi sul mercato. Chi ne fa richiesta deve sottoscrivere un Memorandum e impegnarsi a varare misure di austerità (modello Grecia) per restare su un sentiero di “sostenibilità” del debito. Sono paletti fissati dal suo trattato istitutivo. Chi ricorre al Mes può accedere alle operazioni di acquisti illimitati di titoli di Stato della Bce. L’Italia ha proposto che tutti i Paesi chiedano accesso alle risorse del Mes, ma da usare “senza condizionalità presente e futura”. Per aggirare lo statuto, l’idea è che il fondo, che si finanzia sul mercato, vari una maxi emissione di debito da 1.000 miliardi e presti i soldi ai singoli Paesi senza condizioni, a tassi bassissimi e a lunghissima scadenza. Sono i “coronabond” evocati dai 9 leader Ue nella lettera. Impropriamente vengono accostati agli “eurobond”, debito comune europeo di cui si discute da decenni senza successo perché non esiste un’istituzione fiscale comune che li deve spendere, e Berlino e compagnia non li vogliono. “Di fronte a circostanze impreviste serve un cambiamento di mentalità, come fossimo in tempi di guerra”, ha scritto ieri sul Financial Times Mario Draghi.

Martedì la riunione dei ministri delle Finanze dell’eurozona si è conclusa con un nulla di fatto. I Paesi del Nord rigoristi, guidati dall’Olanda, si oppongono a nuovi strumenti e chiedono di mantenere le condizionalità nell’uso delle risorse. Anche la Germania, ma prova a ritagliarsi un ruolo da mediatore. L’offerta è che i Paesi che ne abbiano bisogno potranno rivolgersi alle linee di credito precauzionale del Mes firmando il memorandum. Secondo il presidente dell’eurogruppo Centeno le condizionalità potrebbero essere “minime” all’inizio, limitandosi a vincolare le risorse all’emergenza Covid-19, ma poi ogni Paese dovrà “rimettersi su un sentiero di sostenibilità”. A ogni modo non si potranno ricevere aiuti oltre il 2% del Pil (36 miliardi per l’Italia).

Insomma, i coronabond non sembrano un’ipotesi percorribile, nonostante all’eurogruppo li avesse chiesti anche la presidente della Bce, Christine Lagarde. Berlino ieri ha detto che va bene il Mes “con le regole in vigore”. Stando alle bozze della dichiarazione finale, il Consiglio Ue si dovrebbe concludere con un mandato all’eurogruppo ad andare avanti su questa strada. Un’ipotesi pericolosa per l’Italia e non solo. Lo ha spiegato ieri l’economista Paul De Grauwe: “Senza solidarietà all’Italia dal nord Europa e una risposta economica comune, l’intero progetto europeo scomparirà”.

Accuse, promesse e “cestini”. Montecitorio si veste a lutto

Sembra tutto irreale, tranne quella voce che trema all’inizio. La voce del capo del governo che per qualche attimo è solo un uomo che avverte tutto il peso della responsabilità, della morte che non si ferma. “Sono giorni terribili, non avremmo mai pensato di vedere sfilare autocarri dell’esercito carichi di bare dei nostri concittadini” quasi si sfoga Giuseppe Conte aprendo la sua informativa alla Camera, alle sei e qualcosa di un’altra sera di guerra. Si sforza di non cedere alla tensione, il tempo che tutta l’aula di Montecitorio si alzi in piedi per applaudire le vittime, deputati e ministri. Il tributo di un emiciclo che pare un catino di sopravvissuti, con un numero contingentato di deputati per ovvi motivi di sicurezza.

Il resto della Camera è sbarrato, mensa e buvette comprese. Ma per i deputati che ne hanno fatto richiesta c’è un cestino da asporto “da consumare presso il proprio domicilio” come recita il messaggio agli eletti, viveri preparati soprattutto per i deputati rientrati da fuori Roma. E sono cestini frugali: due panini, un frutto e una bottiglia d’acqua minerale. All’ingresso invece ci sono amuchina, mascherine e guanti per tutti, e molti li indossano anche in Aula. Una mascherina protegge anche il commesso accanto al presidente della Camera Roberto Fico. Sotto di lui i ministri, anche loro disposti a scacchiera, hanno facce come cenci. Il presidente del Consiglio Conte però deve parlare ugualmente, dire che “sono giorni terribili” e che questa “è una crisi senza precedenti per l’Italia e l’Unione europea”.

E a guerreggiare con il virus, “questo nemico che divide le nostre famiglie e che ci fa sospettare anche di mani amiche” c’è innanzitutto il suo governo, c’è innanzitutto lui, che va subito al cuore della questione: “Siamo all’altezza del compito che il destino ci ha riservato? La storia, domani, ci giudicherà”. Nell’attesa, Conte cita il romanzo che è una biografia assurdamente attuale della nazione, i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: “Del senno del poi son piene le fosse”. Ed è un passaggio che suona stridulo. Di certo il premier rivendica l’impegno, elenca date e provvedimenti per sostenere che no, il governo non si è mosso con ritardo o incertezze. “L’esecutivo ha agito con la massima determinazione e con prontezza, all’indomani del primo episodio verificatosi a Roma il 31 gennaio abbiamo proclamato lo stato di emergenza”.

Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini si sparge il gel igienizzante sulle mani, mentre il premier ricorda che dopo il primo caso di italiano positivo a Codogno, il 21 febbraio, ha convocato un Consiglio dei ministri d’emergenza per varare un decreto. “Non esiste un’esplicita disciplina dello stato di emergenza, abbiamo costruito un metodo mai sperimentato prima” ricorda il premier che è avvocato. Rivendica il “percorso normativo per cercare un bilanciamento tra tutela della salute e la necessità di presidi democratici”. È tutto trincea, e per uscirne il presidente del Consiglio promette il massimo, e soprattutto risorse, denaro: “Il prossimo decreto non sarà di importo inferiore del precedente”. Cioè il dl di aprile stanzierà almeno 25 miliardi, come il primo decreto “cura Italia”. Intanto, “manderemo altri medici e 500 infermieri nelle zone più colpite”. Proprio da Codogno, uno degli epicentri della sciagure, proviene il leghista Guido Guidesi, che nel suo Paese ha passato la quarantena. Parla a tono basso, “non voglio fare polemiche”, eppure le parole sono sassi: “Noi delle zone rosse siamo stati i primi a essere abbandonati”.

Conte lo guarda con occhi allarmati, si stringe le mani, ha il busto che pare una corda. Prende appunti mentre Guidesi recita un rosario di mancanze del governo, e il capogruppo dem Graziano Delrio lo ascolta quasi riverso su stesso, la barba che pare più bianca del solito. Poco dopo, il dem chiede “un tavolo permanente con le opposizioni” e difende l’Europa, “che ha messo in campo la Bce”. Giorgia Meloni, in rosso, apre e picchia con la stessa mano: “Se questa è una guerra noi non vogliamo disertare, aiutateci a collaborare”. E snocciola i provvedimenti “che Fratelli d’Italia vi aveva proposto e solo poi avete adottato”. La guardano dritto anche diversi ministri a 5Stelle, anche Luigi Di Maio, mentre punge: “I decreti prima si fanno e poi si annunciano”.

Bordate e frecciate alla comunicazione di Palazzo Chigi piovono da più fronti. Ma Conte ha altri problemi. Conte è il primo in fila davanti all’emergenza: la padrona della Camera e di un Paese, in una primavera che non si vede.

L’Armata Rossa ci invade e non so cosa mettermi

Prima o poi doveva capitare, ed è capitato: i cosacchi dell’Armata rossa che abbeverano i cavalli alle fontane di San Pietro. Ora non sono più soltanto Nostradamus e la propaganda anticomunista degli anni 50 a dirlo. Lo dice anche La Stampa con uno scoop mondiale che, va detto, avrebbe meritato spazi un po’ meno esigui di un pezzulletto in basso a pagina 6. Ma, si sa, l’occhiuta censura filorussa arriva dappertutto, anche alla corte degli Elkann. Dunque è successo questo: “Sabato scorso è avvenuta una lunga telefonata tra Conte e Putin”, cosa già di per sé grave. “Putin si è impegnato ad aiutare l’Italia nella battaglia al Coronavirus”, fatto quantomai inquietante. “E domenica sera, all’aeroporto militare di Pratica di Mare, sono arrivati 9 aerei Ilyushin con forniture russe e 100 specialisti nella guerra batteriologica”, il che aggiunge orrore all’orrore. Ma non è finita: “Gli esperti mandati da Mosca sono medici militari”, quindi – per quanto la cosa possa sorprendere – fanno “capo al ministero della Difesa russo, non a quello della Sanità”. Non solo: hanno – lo direste mai? – “i gradi di generali, colonnelli, maggiori, tenenti colonnelli” e non si esclude la presenza di qualche maresciallo.

Ora tenetevi forte, perché arriva la botta finale: essi non restano fermi lì a Pratica di Mare, che so, per visitare l’aeroporto o a fare una gita nella vicina ridente Pomezia. No, essi “si muovevano”. E, quel che è peggio, trattandosi di militari, “con mezzi militari”. Non so se mi spiego: “Da Roma in direzione Bergamo, per 600 km, in territorio italiano” (si era anche pensato di imbarcarli nel mar Tirreno verso la Francia su un cargo battente bandiera liberiana e andarli a prendere a Marsiglia, ma poi si è soprasseduto). Il tutto “con la benedizione di Palazzo Chigi”, e ho detto tutto. A questo punto diventa retorico il terrificante interrogativo “chi ha dato indicazione di aprire l’aeroporto di Pratica di Mare?”, perché ci pare di conoscerne vagamente la risposta: Conte, l’uomo che solo tre mesi fa i giornaloni accusavano di averci venduto a Trump in cambio del tweet pro Giuseppi (come presto si sarebbe incaricato di dimostrare per tabulas il famoso “rapporto Barr”, poi purtroppo andato perduto) e che ora, con quella telefonata a Putin, ci ha venduti alla Russia. Il segugio de La Stampa, pur confinato a pag. 6 in basso a sinistra, non ha dubbi: “Tra quelle forniture russe l’80% è totalmente inutile, o poco utile all’Italia. Insomma poco più di un pretesto”. Per fare che? Mettetevi comodi, perché certe notizie è meglio riceverle da seduti.

“Putin ha visto nel Coronavirus un’opportunità per incunearsi anche fisicamente nel teatro italiano e al premier italiano non è dispiaciuto puntellarsi, in questa difficile crisi, accettando tutto ciò pur di consolidare un’ottima relazione personale con la sponda politica di Mosca”. I due s’illudevano di passare inosservati, ma all’astuto ghostbuster stampista non la si fa, infatti li ha subito sgamati nell’atto di “incunearsi anche fisicamente nel teatro italiano” (probabilmente l’Ambra Jovinelli) l’uno e di “puntellarsi con la sponda di Mosca” l’altro (che, godendo solo dell’84% dei consensi, si sente deboluccio). Il piccolo Le Carré de noantri, del resto, non è nuovo agli scoop spionistici. Era già suo quello su una famigerata Mata Hari grillina al soldo di Casaleggio e Putin camuffata dietro l’insospettabile nickname “Beatrice Di Maio”, che poi altri scoprirono essere la moglie di Brunetta. E anche quello che smascherò uno dei più insidiosi fabbricanti di fake news al servizio dei gialloverdi, Marco Mignogna da Afragola, di cui ebbe a scrivere: “L’abbiamo contattato e non ci ha risposto. Dice di lavorare in modo non ufficiale” (in pratica non rispondeva, ma diceva). Qui però, se possibile, la spy story è ancor più scottante, come dimostrano gli interrogativi che il nostro volpone butta lì un po’ a casaccio, come la punteggiatura: “quali forniture esattamente ci hanno spedito i russi, e a che prezzo?”, “quanto sono state pagate?”.
Arcuri fa sapere che è tutto gratis, “regalo di generosità di Putin all’Italia”. Ma non la racconta giusta: “La generosità porta con sé un prezzo alto: uomini della Difesa russa in giro liberamente sul territorio italiano, a pochi passi dalle basi Nato”. E Conte che fa? Invece di farli arrestare e fucilare, non solo ne accetta gli aiuti, ma manda i putribondi figuri addirittura a Bergamo, dove rischiano di fare comunella con altri emissari travestiti da medici di altre due dittature comuniste: Cina e Cuba. Il tutto non certo perché l’Italia abbia bisogno di medici e materiali sanitari, ma perché questo si puntella e quell’altro si incunea. Infatti La Stampa titola: “La telefonata Conte-Putin agita il governo: ‘Altro che aiuti, arrivano militari russi’”. Ora nei palazzi che contano a Roma non si parlava d’altro e stanotte i ministri hanno dormito fuori casa, per precauzione. Tutti a domandarsi chi abbia imbeccato il segugio, alzando il velo sulla colonna di tank dell’Armata Rossa che scorrazza per l’Italia insidiando le basi Nato col “pretesto” di portare medici e aiuti e approfittando della quarantena che tiene lontani gli sguardi indiscreti e rende spedito il traffico sul Grande raccordo anulare. Insomma, chi abbia svelato che l’invasione russa, vagheggiata invano per decenni da Stalin, Kruscev e Breznev, è in pieno corso ora, tra il lusco e il brusco, a opera di Putin e della sua quinta colonna a Palazzo Chigi. Il ghostbuster cita “fonti politiche di alto livello” e, visti i precedenti, c’è da credergli. Resta da capire se si tratti della moglie di Brunetta travestita da cugina di Di Maio o di Marco Mignogna, l’afono parlante. Ma soprattutto se sia poi vero che il coronavirus non attacca le funzioni mentali.

Totò, Rita Hayworth e il Carosello: Nicola Arigliano, una vita da film

“Posso cambiarmi un attimo?”. Prego. E Larry Franco si cambiò: camicia a fiori, scarpe di vernice bicolori (bianche e nere stile rockabilly), pantaloni neri, un singolare copricapo. E le mani che tremano perché stanno per toccare i tasti di un pianoforte rarissimo (“al mondo ci saranno sei esemplari”) uno Stenway costruito solo ed esclusivamente per il jazz. Siamo a Squinzano, Salento, a casa di Franco Arigliano, musicista e insegnante di conservatorio, a parlare di suo zio Nicola. Nicola Arigliano, artista del grande jazz italiano e swinger di successo dagli anni Cinquanta del secolo passato fino a pochi mesi dalla morte, nel 2010. Siamo con la troupe di Loft per girare un documentario sulla Puglia, la clip dedicata al grande cantante si chiama Go man. “Così Nicola – dice Larry Franco, che negli ultimi anni suonò con lui – ci incitava quando dovevamo attaccare un pezzo dei suoi”. E Larry suona, I sing ammore. Il “marchio di fabbrica” di Arigliano. Una canzone straordinaria, come straordinaria è la vita di questo artista.

Una avventura umana, un pezzo della storia d’Italia, utile per affrontare anche il nostro triste oggi. “Zio Nicola – racconta Franco, il nipote – partì quasi bambino da Squinzano. Il paese gli stava stretto, la balbuzie di cui soffriva aumentava la sua timidezza. Andò a Merano che più Nord non si può, voleva fare il sarto”. Ma il taglia e cuci lasciò presto lo spazio alla passione vera di Nicola, la musica. “Una sera – continua il nipote – zio Nicola vide in un locale una orchestra che suonava, chiese di cantare e fu un successo. Da allora non si fermò più”. La guerra era finita da poco, gli italiani cominciavano ad assaporare il gusto della musica portata dagli americani. Il jazz e lo swing. Al giovane Nicola quelle note piacevano. Sognava l’America, lontana e costosa da raggiungere per un aspirante cantante di jazz italiano, meridionale e squattrinato.

“Una sera col suo gruppo andò a cantare in un locale a Capri – ricorda Franco Arigliano –, tra il pubblico c’era il grande Totò, appassionato di jazz. Il principe fu colpito da zio Nicola, lo chiamò e gli disse: voi dovete andare in America, qua non vi capiscono. Nicola fu lusingato assai, ma rispose che non aveva i soldi per il viaggio e che negli States non conosceva nessuno. Totò ascoltò e poco dopo donò a mio zio 200mila lire dell’epoca, una cifra molto importante, in più gli segnò l’indirizzo di una sua amica che viveva a New York…”.

L’amica di Totò, nobile nel profondo dell’anima, era Rita Hayworth.

Per Nicola si spalancarono porte importanti, Frank Sinatra (“ma io che c’azzecco con Frank, io faccio il jazz”, amava dire), e soprattutto Nat King Cole, che volle fare una cover tutta sua di Permettete signorina, uno dei primi successi di Arigliano, col titolo di Cappuccina, recentemente incisa anche da Renzo Arbore. Storie di una vita piena e avventurosa. Dall’America all’incisione di centinaia di successi, alla tv con Canzonissima, Sentimentalmente insieme a Mina, Il Cantatutto. Al cinema, tra gli altri, La grande guerra di Monicelli, e Ultimo tango a Zagarolo, di Nando Cicero, oggi un “cult”.

Fino alla pubblicità, con il leggendario “carosello” del digestivo Antonetto, “è tanto comodo che lo potete prendere anche in tram”. “Sì, la vita di Nicola è davvero un film – ci dice il dottor Alfonso Renna, medico con la passione della musica e presidente del Jazz club di Squinzano – a settembre celebreremo lui e la sua musica con una grande iniziativa nel suo paese”. La clip integrale e il doc Puglia sarà presto visibile sulla piattaforma Loft.

La quarantena è un “Carcere”: rifugiamoci nella “Montagna”

Consigli di letture per la quarantena? Che scelta inelegante! Un brivido di ribrezzo attraversa i social. Anche noi avevamo delle riserve, prima: ciascuno legge quel che vuole, e poi è come consigliare i libri per le vacanze, col sottinteso che il resto dell’anno si può non leggere. Poi il cinismo di chi la sa lunga ce l’ha fatta apparire come un’ottima idea, e ci siamo messi di buzzo a buono a pensare libri e autori amici che ci accompagnino in questi tempi bui. Eccoli.

“La montagna incantata”, Thomas Mann. Hans Castorp, un giovanotto di buona salute, va a trovare il cugino malato di tubercolosi in un sanatorio, il Berghof, e non ne uscirà se non dopo 7 anni per arruolarsi nella Prima guerra mondiale. In questo micidiale congegno di 1000 pagine consiste l’incanto del titolo (ma per alcuni è più corretto Montagna magica, titolo poi adottato da Mondadori nell’edizione dei Meridiani 2010): una malia, una coazione a ripetersi, come un disco inceppato e voluttuosamente abbandonato alla sospensione dalla vita. Hans vive una vera spaventosa vacanza, nel senso etimologico del termine: un risucchio verso il vuoto e il silenzio. Nel Berghof – una casa di cura realmente esistente vicino a Davos, dove Thomas Mann aveva accompagnato sua moglie – Hans semplicemente attende, come Giovanni Drogo nella Fortezza Bastiani del Deserto dei tartari. Si innamora di una russa che sbatte la porta della sala colazione, alla quale dice la frase d’amore più bella della letteratura del Novecento: “Lasciami toccare devotamente con la bocca la tua arteria femorale”. Ma lei parte, torna dal marito, fuori dal Berghof, lasciandogli come ricordo una matitina “d’argento, sottile, fragile, un oggettino di minuteria”. La neve scricchiola, dentro di lui avviene “un grande crollo”. Continuerà per mesi a premere la matita sulle labbra e a pensarla che “sbatte le porte altrove, a un’enorme distanza”. Inchiodato dall’incantesimo nella ripetizione sempre uguale delle giornate, in una quarantena fisica che gli potenzia la psiche, Hans si contorce, spasimando, nell’intercapedine dell’assenza, allegoria della fine di un’epoca. In alternativa: Il respiro, Thomas Bernhard.

“Roma senza Papa”, Guido Morselli. Don Walter, sacerdote emigrato in Svizzera, torna in una Roma del futuro per un pellegrinaggio-aggiornamento teologico. La città in cui arriva in quella fine di Secolo ventesimo è una Roma-location, tristemente turistica, “un panorama di tetti fatiscenti, lontani capitelli di vecchie colonne”. La Chiesa romana, raccolta attorno all’università dei gesuiti, è avanzatissima: i sacerdoti, alcuni dei quali gay, espongono le loro bizzarre idee teologiche in una specie di slang romanesco-americano e pasteggiano a latte e a succo d’ananas. Soprattutto, la città è una Roma senza Papa. Giovanni XXIV – un irlandese di mezza età che non fa discorsi e non viaggia – ha abbandonato il Vaticano e ha trasferito la Sede Apostolica in una inappariscente residenza-motel a Zagarolo. Don Walter va a trovarlo e scopre un individuo dolce e sereno, che “vive nell’adesso”, alleva serpenti, ama il silenzio e il ronzio delle api nella sua ombrosa, elusiva solitudine; un personaggio in cui Morselli ha messo tutta la sua disperazione e la sua ironia. Suggestivo che Papa Francesco, l’altro giorno in pellegrinaggio per via del Corso vuota, sembrasse l’esatto reciproco letterario di don Walter: un Papa senza Roma.

“Il carcere”, Cesare Pavese. Nell’agosto del 1935 il povero Cesare venne mandato al confino in Calabria, dove restò 7 mesi. Questo è il diario, attribuito a un ingegnere di nome Stefano, di quei giorni passati in una casupola di pietra davanti alla ferrovia e al mare. È un romanzo per una lettura lenta, rarefatta, adatta alle ore di quiete, ancorché forzata; le frasi diluite e il linguaggio ridotto all’osso riecheggiano il silenzio visivo del Sud abbacinato dal sole meridiano, nelle strade riarse dove una donna selvatica e desiderata e cammina scalza. L’Italia sotto il fascismo, ancora piena di vestigia greche offese dalla violenza e dalla volgarità del regime, appare a Stefano come dietro un vetro. La clausura è angosciosa, “la lucida desolazione della canicola” lo intorpidisce; ma in lui sopravvive il germe della resistenza: “La solitudine sarcastica cedeva. E se cedeva in quella sera piena di tanti fatti nuovi e improvvisi ricordi, come avrebbe potuto resistere l’indomani? Senza lotta, s’accorse Stefano, non si può stare soli”. È un romanzo sulla nostra libertà, che abbiamo conquistato lottando a sangue contro il nemico.

Addio Gallico: “Salutace” i tuoi Asterix e Obelix

“Quanno voi stavate ancora a beve l’acqua de le pozzanghere, noi già eravamo froci”. Con questa scorrettissima battuta, un comico romano in un colpo solo fece sobbalzare sulle poltrone il pubblico celtico (o tale autodefinitosi in tempi di leghismo rampante) e gli omosessuali presenti in sala, almeno quelli che non avevano capito che erano stati citati a modello di civiltà. I detrattori della saga di Asterix, opera trionfale del duo Goscinny-Uderzo sostengono che dietro l’incredibile successo in patria di Asterix e Obelix (lodati pubblicamente perfino da De Gaulle) vi sia proprio il complesso mai rimosso “dei bevitori di acqua di pozzanghere” arrivati in imbarazzante ritardo rispetto a una civiltà già secolare che ci mise poco a sottometterli e a mostrargli come si costruivano gli acquedotti.

Inutile girarci intorno per evitare incidenti diplomatici: i Romani coglionazzi che Obelix frantuma a ritmi industriali, anzi a legioni intere, mentre il suo astuto amico Asterix (diciamocelo, antipatico come Topolino) escogita mille efficaci sistemi per ridicolizzare regolarmente un Cesare vanesio, imbellettato e puzzalnaso, sono stati la rivalsa collettiva e planetaria (350.000.000 di copie vendute) dei cugini d’Oltralpe nei confronti della Storia, che all’epoca fu molto poco benigna nei loro confronti. Asterix e Obelix come vendicatori molto postumi di Vercingetorige, che Cesare quello vero, poco imbellettato e molto carogna, non trattò benissimo (anche se in un caso la popolarità della saga degli abitanti dell’Armorica gli si ritorse contro, agli eredi dei gloriosi Galli, che a ben vedere il culo ai Romani glielo avevano fatto eccome, arrivando, in altri secoli, a scalare il Campidoglio, senza prevedere però la presenza di oche patriottiche starnazzanti: fu dopo la finale mondiale Italia-Francia del 2006, “Salutatece Asterix” infestava i post dei social, e non erano tutti post romani). Eppure. Eppure in quelle pagine colorate fitte c’era davvero qualcosa di magico, di irresistibile, che ti catturava e ti costringeva a leggerle tutte d’un fiato, scrutando quel disegno denso fino all’ultimo, sorprendente particolare. Sì, le storie erano un po’ old-fashioned (in fondo erano sceneggiature scritte da qualcuno nato nel 1927) e facevano furbamente uso e abuso di vecchi stereotipi comprensibili alle masse (gli Elvezi con le clessidre che non sgarravano un secondo, gli Iberici che ballavano sempre e dicevano Olé, i Romani, manco a dirlo, pigri e scansafatiche, i Germani che pensavano solo alla guerra). Ma i disegni erano spettacolari, ci si fermava a guardarli, riguardarli, tornare indietro e riguardarli ancora e chi se ne frega delle rivalse psicanalitiche nazionaliste o di qualche déjà vu letterario di troppo. C’era l’Arte con la A maiuscola, in quei libri, quella che ti incanta, che ti rende felice di essere nato nel tempo giusto per goderne. Non sto esagerando, a me il Bello Assoluto fa quest’effetto. Quell’Arte superba si chiamava Uderzo, con l’accento sulla “o”. La sua ripartizione degli spazi era meravigliosa, come esatti al millimetro erano proporzioni e studi dei personaggi e della paesaggistica. Magistrale l’uso del colore e lettering perfettamente armonizzato col mood ambientale della pagina. Stupefacente per il me di allora, quando, liceale, mi abbeveravo alle storie di Asterix, con piacere schizofrenico (Romani ridicolizzati, orgoglio ferito; vendetta sul De Bello Gallico, tortura scolastica quotidiana, soddisfazione massima!). Stupefacente per il me di adesso, che col mestiere che faccio da un po’ ho imparato ad apprezzare dal “reparto sartoria” certe spettacolarità, certe invenzioni grafiche impossibili se non sei un Maestro di quelli che passano alla Storia, come anche Benito Jacovitti, come Andrea Pazienza. Un vero, grande Maestro, Albert Uderzo. Se n’è andato, può succedere, a 92 anni. Ci lascia con un po’ di tristezza inevitabile di fronte all’indifferenza di Madre Natura nei confronti della Grande Arte, ma anche con due soddisfazioni: non ce l’ha portato via il coronavirus, cui va il nostro più sentito vaffanculo e, be’… che i francesi non si incazzino, e le balle non gli girino… ma Uderzo era italiano, figlio di italiani, senza accento sulla “o”.

Kabul non fa pace con i talebani, Zio Sam s’arrabbia

La versione moderna dell’indurre a miti pretese un alleato riottoso è tagliargli i finanziamenti. Ora gli Stati Uniti hanno deciso di fare così con l’Afghanistan. Kabul non dà seguito all’intesa con i talebani firmata dall’Amministrazione Trump e non forma un governo d’unità nazionale. Peggio, raddoppia i presidenti: oltre ad Ashraf Ghani, proclamato vincitore delle contestate elezioni dopo sei mesi di conteggi e magheggi, c’è Abdullah Abdullah, insediatosi ‘sponte sua’. La situazione è imbarazzante per Trump, costretto a venire a patti con i talebani senza mai averli battuti e incapace di convincere gli ‘amici’. Il Segretario di Stato Mike Pompeo è stato a Kabul, dove ha incontrato Ghani e Abdullah – un tentativo di concertazione fallito – e poi in Qatar, dove ha visto emissari talebani. Un viaggio che testimonia – scrivono gli inviati dei media Usa al seguito di Pompeo – l’importanza attribuita dagli Stati Uniti al caos afghano.

Alla fine, la minaccia: Washington ridurrà d’un miliardo di dollari gli aiuti all’Afghanistan nel 2020 per il perdurare dell’impasse politica e la mancata formazione d’un governo di unità nazionale; e farà lo stesso nel 2021. Sono bruscolini, rispetto agli oltre mille miliardi spesi dagli Usa nella guerra più lunga da loro mai combattuta; ma sui conti dell’Afghanistan pesano parecchio. L’accordo tra Trump e i talebani, concluso il 29 febbraio, è stato nel frattempo avallato dalla Nato e dall’Onu. Washington ha già avviato il ritiro di truppe come previsto dall’intesa: le prime partenze sono avvenute il 10 marzo, data in cui dovevano avviarsi le trattative governo – talebani, dalla base di Lashkar Gah, capoluogo della provincia di Helmand, nel Sud, e dalla provincia di Herat, nell’Est. Le cronache dall’Afghanistan restano, però, intrise di violazioni della tregua e ammazzamenti. L’episodio più grave recente il 20 marzo, quando almeno 24 uomini delle forze di sicurezza afghane – 14 soldati e 10 poliziotti – sono stati uccisi la notte nella loro base nella provincia di Zabul, a Sud, attaccata da un gruppo di ‘infiltrati’ fintisi loro commilitoni. Secondo le autorità locali, l’azione sarebbe stata opera dei talebani, che non l’hanno però vendicata.

Il pomo della discordia attuale è la liberazione di prigionieri talebani dalle carceri afghane, di fatto uno scambio con militari e poliziotti prigionieri – 5.000 contro mille – previsto dagli accordi definiti tra americani e talebani, ai cui negoziati il governo di Kabul non aveva però partecipato, e preliminare all’apertura di trattative tra Kabul e i talebani.

Appena insediatosi, il presidente Ghani aveva emesso un decreto di rilascio di 1.500 prigionieri, sulla base di un elenco di nomi fornito dai talebani. Il rilascio era “un gesto di buona volontà”, propiziatorio dell’inizio dei negoziati tra il governo e i talebani, ed era subordinato all’accettazione, da parte dei prigionieri, di un impegno a non riprendere le armi. Pochi giorni dopo, però, Kabul rinviava la liberazione, adducendo la necessità di tempo per verificarne l’identità. Gli afghani più influenti sono divisi: alcuni vedono con favore la fine del conflitto, altri vorrebbero perpetuarlo. La Commissione indipendente per i diritti umani in Afghanistan critica la concessione della libertà a persone accusate di crimini di guerra o contro l’umanità. Una via d’uscita potrebbe offrirla l’emergenza coronavirus, che è relativa (ma i dati non sono affidabili: 300 test effettuati in un Paese di 35 milioni di abitanti, le cui capacità sanitarie sono estremamente ridotte): Kabul offre ai talebani un cessate-il-fuoco per lottare contro il contagio. Non ci perde la faccia nessuno e, magari, i negoziati possono cominciare.