Beirut, l’Amerika salva il boia

Il mistero affonda le sue radici nella città delle mille luci e dei mille intrighi. Beirut, capitale di traffici e trafficanti, milizie politiche e personali, soldi facili, odi atavici e legami ancestrali, dove il passato non è mai davvero passato. Il caso di Amer Fakhoury, libanese naturalizzato americano, che giovedì scorso è stato prelevato dalla ambasciata americana della capitale libanese; un Osprey V-22 prima lo ha portato a bordo della USS “Bataan” – una nave d’assalto Usa che incrocia nel Mar Rosso – per essere poi trasferito nella base nella baia di Souda, nell’isola greca di Creta, e da qui con un volo militare nella sua casa di Dover, nel New Hampshire. Un trattamento che certo non è applicabile a tutti i cittadini americani in giro per il mondo; del resto Amer Fakhoury non è un cittadino come un altro. La sua storia sembra uscire da un romanzo di John Le Carrè. L’uomo che ha aperto un ristorante di successo negli Usa, che è un convinto sostenitore (anche finanziario) del Partito repubblicano, di Donald Trump, che è in grado di muovere senatori e il dipartimento di Stato per aiutarlo, ha un passato da brividi.

Il suo soprannome era il “macellaio di Khiam” – la famigerata prigione nel sud del Libano – dove per 18 anni l’Els, l’esercito di liberazione del Sud Libano, milizia filo-cristiana armata e pagata da Israele che nel caos libanese di quegli anni aveva il compito di tenere lontano gli Hezbollah dai confini dello Stato ebraico, interrogava e torturava i miliziani islamici libanesi. La formazione guidata dall’ex generale dell’esercito libanese Antoine Lahad venne poi sciolta nel 2000, dopo il ritiro dell’esercito israeliano dal Libano che stava diventando per l’Idf un “piccolo Vietnam”.

I miliziani che restarono nel Paese dei Cedri vennero arrestati e scomparvero misteriosamente, altri – soprattutto gli ufficiali – ripararono in Israele, per poi essere accolti negli Stati Uniti. Amer Fakhoury fuggì nel 2000 e nel 2001 divenne con una rapidità prodigiosa cittadino americano. Aprì un ristorante di successo il “Little Lebanon To Go”, con le figlie nelle migliori università Usa, amici importanti del Partito Repubblicano e le foto con Donald Trump appese nello studio nella sua bella casa di Dover. Ma il passato non è mai passato in Libano. Fakhoury, forte della promessa del presidente Michel Aoun (cristiano) che tutte le accuse contro di lui erano cadute, lo scorso settembre era tornato in Libano per una visita al resto della sua famiglia rimasta nel Paese di Cedri. La sua presenza nella capitale libanese non era sfuggita a un quotidiano vicino agli Hezbollah che ha riportato a galla le accuse di torture e abusi negli anni Novanta contro miliziani palestinesi e combattenti sciiti caduti nelle mani dell’Els imprigionati a Khiam. Fakhoury venne arrestato e imprigionato a Beirut in attesa di processo.

Da allora le pressioni americane per la sua liberazione sono diventate sempre più forti, la senatrice del New Hampshire – la democratica il Jeanner Shaheen – e il senatore repubblicano del Texas Ted Cruz hanno rapidamente presentato un progetto di legge bipartisan per tagliare ogni sostegno economico al Libano, la cui sopravvivenza è legata solo agli aiuti internazionali dopo il default delle banche, mentre Cia e Dipartimento dei Stato si sono messi al lavoro per tessere le trame della sua liberazione. Un lavoro sommerso e paziente ma che nelle divisioni laceranti del governo e della presidenza libanese ha trovato una sua, tortuosa, strada.

Alla fine il tribunale speciale guidato dal generale di brigata Hussein Abdallah, giovedì scorso, ha stabilito che Amer Fakhoury non poteva essere processato per la scadenza dei termini di legge, venti anni dopo i fatti di cui era accusato. Prelevato rapidamente da due Suburban neri con targa diplomatica Usa, Fakhoury è stato trasferito nell’ambasciata americana che si trova a nord di Beirut e da qui poi in elicottero è iniziato il suo “ritorno” negli Stati Uniti, lasciando dietro di sé una scia di domande senza risposta. Chi ha dato a un elicottero americano il permesso di atterrare a Beirut? Perché il governo guidato dal sunnita Hassan Diab tace alla luce di una palese violazione della sovranità libanese?

Domande difficili a cui nessuno per ora è in grado di dare una risposta convincente. Tutti i partiti presenti nel governo hanno negato ogni responsabilità, dal movimento Amal al Free Patriotic Movement. Persino gli Hezbollah, i nemici giurati del “grande satana americano” che sono i padroni del Libano e azionisti di maggioranza dell’attuale governo, sembrano caduti dalle nuvole. Il leader degli Hezbollah Hassan Nasrallah, capo della milizia più potente del Libano, ha addirittura dichiarato di aver appreso la notizia dalla tv.

Non è più “italietta”, Londra e Parigi copiano

 

Stati Uniti Trump: “Riapro tutto, recessione è pericolosa”

Donald Trump ha fretta di riaprire gli Stati Uniti ‘for business’: vuole i motori dell’economia accesi “per Pasqua”, perché la recessione “può fare più vittime” della pandemia e perché il coronavirus fa meno morti “di un’influenza stagionale”. Il magnate presidente lo dice mentre i casi negli Stati Uniti sfiorano i 50 mila e i decessi superano quota 600. A New York, i numeri sono “astronomici”, afferma il governatore Andrew M. Cuomo: il contagio investe oltre 25 mila persone, raddoppia ogni tre giorni. L’atteggiamento di Trump sulla pandemia oscilla. Ieri, era il giorno dell’ottimismo a oltranza: bisogna riaprire e fare ripartire l’economia, altrimenti – questo il presidente lo sa – la rielezione a novembre diventa una chimera. Trump minimizza anche i contrasti con Anthony Fauci, massima autorità sulle malattie infettive negli Usa, sempre pronto a correggerlo, quando non a smentirlo. Il presidente sarebbe insofferente del ‘virologo in capo’, ma ieri era tutto latte e miele: “ Una persona straordinaria”. Il buon umore di Trump è forse anche legato al fatto che il Senato sta per varare un piano da 1.800 miliardi di dollari per contrastare gli effetti della pandemia sull’economia: i democratici lo hanno bloccato perché volevano aumentare le tutele per i lavoratori ed evitare speculazioni, finendo per essere percepiti come quelli che impedivano l’avvio del più grosso pacchetto di stimolo economico nella storia degli Usa. Ormai, ci si chiede se la pandemia non faccia bene a Trump. Il coronavirus pareva giocargli contro, ora gli sta dando visibilità. Invece, Joe Biden è sparito: #WhereIsJoe è un hashtag virale sui social in questi giorni.

 

Regno Unito Verso chiusura totale BoJo ora annaspa

Per settimane, per Boris Johnson e i suoi consiglieri, il Regno Unito era invincibile: niente controlli agli arrivi dalle zone rosse, pochi test. Il 3 marzo: “Ieri notte ero in un ospedale con casi di covid e ho stretto le mani a tutti. E continuo a farlo”. Il 5, dopo la prima vittima: “Lavatevi le mani, è tutto come prima”. Poi la strategia: immunità di gregge per almeno il 60% della popolazione, e pazienza per le vittime collaterali. Fino al 16 mattina, l’Italia è italietta: “Ci facciamo guidare completamente dalla scienza, non come altri paesi che adottano misure populiste” commenta il segretario dei Trasporti. Nel pomeriggio la rivelazione: l’approccio scientifico non ha fatto i conti con i letti di terapia intensiva disponibili, circa 5.000 per 200 mila possibili emergenze. Cambiano le indicazioni ufficiali: lavorare da casa e mettersi in auto-isolamento in caso di sintomi. Il 19 il governo impone la chiusura delle scuole. Il 22 a 1.5 milioni di anziani e vulnerabili viene chiesto di auto-isolarsi per 12 settimane. Lunedì il parziale lockdown: a quando quello completo?

 

Francia Gli esperti: altre cinque settimane a casa

Macron ha scelto una donna premio Nobel per guidare il nuovo Comitato di analisi e ricerca (detto CARE) che affianca il governo sull’emergenza: Françoise-Barré Sinoussi, virologa dell’Institut Pasteur, premiata nel 2008 per la scoperta del virus dell’HIV. Dirigerà un team di 12 membri che saranno consultati sulla strategia di test e l’eventuale ricorso a tecniche di backtracking. Il lockdown è scattato in Francia una settimana fa, ma ieri gli esperti consigliavano di prolungarlo almeno di altre 5 settimane, fino al 28 aprile. Ieri è scattato anche, e per due mesi, lo “stato d’emergenza sanitaria”, adottato con legge ad hoc, su modello di quello instaurato dopo gli attentati del 2015. Il che vuol dire più poteri al governo e misure più strette: mercati vietati, passeggiate limitate a un’ora e a un raggio di un chilometro da casa, sanzioni fino a 3.700 euro e sei mesi di prigione per chi viola le regole quattro volte in trenta giorni. La Francia contava ieri 22.300 casi accertati di covid-19 e 1.100 morti.

Olimpiadi rinviate al 2021. Come se si fosse in guerra

“Questa è probabilmente la più grande decisione che lo sport abbia preso in tempo di pace”, scrive il caporedattore sportivo della Bbc, Dan Roan. Le Olimpiadi Tokyo 2020 sono rinviate al 2021, “non oltre l’estate”. Non era mai accaduto negli ultimi 124 anni, sebbene i Giochi siano stati cancellati nel 1916, nel 1940 e nel 1944, durante la prima e la seconda guerra mondiale. Il rinvio – nell’aria da settimane – è stato deciso ufficialmente ieri dal premier giapponese, Shinzo Abe e il presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Thomas Bach. “Fuori discussione era l’annullamento”, ha fatto sapere Abe, che con Bach aveva già concordato al 100% che la risposta più appropriata fosse rimandare all’anno prossimo i Giochi vista la pandemia del Coronavirus. “Il modo migliore per garantire condizioni ottimali per gli atleti e sicurezza degli spettatori”, è stata la spiegazione del premier giapponese in teleconferenza in una dichiarazione congiunta con il Cio e il Comitato organizzatore di Tokyo 2020, che, per inciso, porterà lo stesso nome. Il destino dei Giochi era già segnato dal 22 gennaio, quando furono rinviate le gare di qualificazione di pugilato e di calcio femminile che si sarebbero dovute svolgere a Wuhan, in Cina, centro dell’epidemia di Coronavirus. Da lì Giappone e il Cio hanno provato a prendere tempo, sperando che entro il 24 luglio l’epidemia frenasse, speranza che lunedì l’annuncio dell’Oms sul dilagare velocissimo del Coronavirus ha cancellato: nel mondo ci sono quasi 400mila contagiati registrati e 17 mila morti. A fare pressioni per il rinvio erano stati il Canada e l’Australia, annunciando di non mandare i loro atleti a Tokyo, mentre i governi britannico e francese avevano invitato il Cio a prendere una decisione al più presto. Per il Giappone è un duro colpo: ha speso più di 12 miliardi di dollari solo per l’evento, per non parlare delle ingenti somme di denaro investite da sponsor e emittenti. Goldman Sachs ha stimato che potrebbe perdere 4,5 miliardi di dollari. Nel mondo sportivo una delusione così non si viveva dai boicottaggi della Guerra Fredda che interruppero i Giochi estivi di Mosca e Los Angeles nel 1980 e nel 1984.

Rabbia e proteste nei centri Amazon. “Niente sicurezza, non lavoriamo”

Altra giornata di rabbia e frustrazione tra i lavoratori Amazon. Ancora una volta a Torrazza (Torino), dove ieri mattina buona parte dei dipendenti si è proprio rifiutata di entrare: “La multinazionale costringe a operare su lavorazioni non indispensabili e in condizioni inaccettabili”, denunciano Filt e Nidil, sigle della logistica e dei precari Cgil.

Poco dopo, nel centro di distribuzione – dove si sono già verificati casi di contagio da Covid-19 – è scattata un’ispezione dei carabinieri del Nas. Il colosso dell’e-commerce non sta riducendo le attività ai soli beni essenziali, questo il principale appunto dei sindacati. L’azienda di Jeff Bezos ha detto di aver “smesso temporaneamente, a partire da sabato, di accettare ordini su alcuni prodotti non di prima necessità”. Ieri pomeriggio, però, era possibile acquistare articoli non proprio imprescindibili e riceverli in 48 ore. Mettendo nel carrello un paio di auricolari blue-tooth Amazon Basics, la consegna era prevista per il 26 marzo. Stessa tempistica di una piastra per capelli; qualche giorno in più per Fifa 2020 versione PlayStation 4.

I poli logistici Amazon, insomma, funzionano a pieno regime, ogni giorno ci lavorano centinaia di persone contemporaneamente. Quello di ieri non era uno sciopero, ma un abbandono del posto di lavoro motivato “dall’emergenza e dal pericolo grave”. Così hanno scritto i sindacati in una lettera all’azienda, alla Prefettura, alla Asl e alla Regione Piemonte. “Qualora il datore dovesse violare il rispetto degli obblighi di sicurezza – affermano citando una sentenza del 2015 – i lavoratori sono legittimati a non eseguire la prestazione”. Secondo la Filt di Torino, bisogna limitare al minimo i pacchi da mobilitare, quindi far diminuire l’organico necessario usando la cassa integrazione. “Purtroppo – ha detto la segretaria Teresa Bovino – le direttive concordate con Amazon si sono scontrate con la realtà. Non solo non hanno fermato le attività superflue, hanno anche assunto nuovi interinali. Nostri iscritti ci dicono che ancora oggi smistano scatole di scarpe. Gli assembramenti continuano al cambio turno, non si rispetta il metro di distanza e mancano le mascherine”.

L’azienda ha spiegato di aver adottato diverse attenzioni, come la sanificazione frequente delle sedi. Sta tenendo a casa “chiunque non si sente bene o viva insieme a persone che hanno avuto la febbre nelle ultime 24 ore” e per questo ha “aumentato la disponibilità in termini di permessi retribuiti e stiamo permettendo alle persone di usufruire delle ferie”. Niente ammortizzatori sociali per diradare le presenze, dunque, solo precauzioni sui casi sospetti. Domani si riunirà di nuovo il comitato per la sicurezza.

Addio tabù: le Banche centrali “pagano” i deficit

È una crisi che non si è mai vista in tempi recenti. Non è come quella del 2007. Non è come quella successiva all’11 settembre. Non è nemmeno una crisi “di guerra”, perché in questa particolare guerra le dotazioni di capitale, le imprese, gli immobili, i macchinari non vengono distrutti. Ma i numeri della crisi saranno di una dimensione molto simile a quelli di una guerra. In un recente report di J.P. Morgan si stima che il Pil dell’Eurozona calerà del 15% nel primo trimestre di quest’anno e del 22 nel secondo. Stando a queste proiezioni l’Eurozona perderà nei primi due trimestri circa il 40% del suo Prodotto interno lordo.

Dinanzi a questi numeri anche la risposta delle principali Banche centrali sta assumendo una dimensione che non si era mai vista prima. I tassi d’interesse sono ormai praticamente a zero o negativi in tutto il mondo e i bilanci delle Banche centrali sono destinati a crescere in modo enorme. I programmi di acquisto e rifinanziamento del settore bancario stanno assumendo giorno dopo giorno un carattere di eccezionalità proporzionato al momento attuale.

In Inghilterra la Banca centrale ha praticamente azzerato i tassi, lanciato un nuovo programma di Quantitative easing da 200 miliardi di sterline e avviato uno schema di rifinanziamento dei crediti commerciali delle aziende, nel quale il Tesoro si fa garante per qualsiasi perdita la Banca centrale dovesse registrare. Nell’Eurozona si è avviato un nuovo programma di operazioni mirate a lungo termine che, se utilizzato in pieno, supererà abbondantemente i 2.000 miliardi di euro. Con questo tipo di operazioni, nel rispetto di determinati parametri di volume di prestiti alla clientela, per la prima volta le banche pagheranno un tasso d’interesse (-0,75%) inferiore rispetto a quello stabilito per i depositi (-0,5%): in pratica saranno pagate dalla Bce per prestare ai clienti. È stato inoltre aumentato il programma di acquisto di titoli pubblici e privati che, ad oggi, aggiungerà al sistema altri 1.100 miliardi di euro entro la fine dell’anno.

Negli Stati Uniti, con l’ultima decisione di ieri, la Federal Reserve è arrivata a un Qe illimitato. Oltre ad aver azzerato i tassi, adesso potrà acquistare senza limiti una serie molto ampia di titoli finanziari, dai titoli di Stato ai titoli strutturati garantiti, dalle obbligazione delle aziende ai loro crediti commerciali, dai bond municipali agli ETF. Ha inoltre ampliato le operazioni di rifinanziamento delle operazioni repo, aperto finestre di sconto dedicate anche agli specialisti non bancari dei titoli di stato e esteso le operazioni di swap valutario con le principali Banche centrali del mondo. Proprio quest’ultimo tipo di operazioni sta assumendo un’importanza decisiva per tenere in piedi il mercato dell’euro-dollaro, un mercato da migliaia di miliardi nel quale si chiudono transazioni in dollari fuori dagli Usa. Le banche americane, nel quadro di incertezza, hanno ritirato buona parte della loro operatività sul mercato e lasciato così a secco di dollari quasi tutto il mondo. L’intervento della Fed si inserisce in questo contesto per fare in modo che siano le banche centrali con cui ha accordi a fornire alle istituzioni finanziarie straniere i dollari che necessitano. La Federal Reserve si troverà così ad assorbire non solo le esigenze di liquidità del proprio sistema finanziario, ma anche, attraverso queste linee swap con le altre Banche centrali, le esigenze di liquidità in dollari del mondo sviluppato.

Da questo breve riepilogo sulle misure prese solo nelle ultime due settimane si può comprendere la portata del fenomeno. Numerosi tabù riguardo a quello che una Banca centrale può fare o meno sono già caduti con la crisi del 2007 e altri stanno cadendo.

La Bce inizierà a pagare le banche perché queste utilizzino i suoi prestiti. La Fed sta rinunciando al famoso approccio “è la nostra moneta, ma un vostro problema”, tenendo conto non solo delle tensioni di liquidità anche sul mercato internazionale. È assai probabile che, se la crisi dovesse prolungarsi ancora, si arrivi a forme surrettizie di finanziamento monetario dei debiti pubblici, attraverso un meccanismo simile a quello che la Banca centrale giapponese ha già in piedi da alcuni anni. Una volta che sarà reso esplicito un obiettivo di tasso d’interesse lungo le varie scadenze del debito, le Banche centrali si troveranno nella situazione di dover rifinanziare qualsiasi ammontare gli specialisti in titoli di Stato, obbligati a partecipare a tutte le aste, non riescano a ricollocare sul mercato secondario: i governi potranno emettere tutto il debito pubblico di cui necessitano.

È singolare che in questo contesto il governo italiano spinga per vedersi riconosciuta una linea di credito dal Mes (Meccanismo europeo di stabilità), quasi a voler certificare in anticipo una incapacità di collocare sul mercato il proprio debito oppure la volontà di legarsi le mani per il futuro. Ma se lasciamo da parte le beghe politiche interne alla zona euro, non c’è dubbio che il ruolo che la Banca centrale ha assunto nei moderni sistemi finanziari non è più, o non è solo, quello di lender of last resort, di prestatore di ultima istanza per il sistema bancario o gli Stati. Seguendo la definizione del professor Perry Mehrling della Columbia (2012), tutte le Banche centrali dei Paesi sviluppati stanno sempre più trasformandosi in dealer of last resort: Banche centrali che attraverso i propri bilanci assorbono posizioni in un numero sempre maggiore di attività finanziarie che il mercato non è più in grado di scambiarsi in modo fluido. Un ruolo che seppellisce definitivamente l’aspetto quantitativo della politica monetaria, il fatto cioè che vi debba essere un limite alla quantità di moneta da emettere, ma si focalizza sul tasso d’interesse che si vuol raggiungere in una serie di mercati finanziari.

Il tracollo del Ssn: meno ospedali, posti letto dimezzati in trent’anni

L’emergenza sanitaria innescata dal coronavirus si è tradotta in una corsa disperata ad aumentare i posti letto negli ospedali. Da quattro settimane è partito il piano per aumentare la capacità delle terapie intensive che oggi sono arrivate a 8.370 posti, il 64% in più rispetto all’inizio dell’emergenza. Per dare l’idea della pressione sul sistema sanitario, negli ultimi giorni 59 pazienti sono stati trasferiti dalla Lombardia in altre Regioni del Centro-Sud per evitare il collasso. E questo grazie alla riconversione lampo di 71 ospedali in strutture dedicate solo ad affrontare i malati di Covid-19. Questa corsa mostra i limiti del sistema sanitario nazionale dopo anni di definanziamento (minori risorse rispetto agli stanziamenti assicurati e all’aumento dei prezzi sanitari, che di fatto si traducono in tagli reali). Nell’ultimo decennio, secondo le stime della Fondazione Gimbe, al Ssn sono stati sottratti 37 miliardi (25 solo nel 2010-2015), mentre è aumentata la spesa verso la sanità privata, che però si rivolge a prestazioni più remunerative e mostra tutti i suoi limiti in caso di emergenza sanitaria.

A rimetterci di più sono stati i posti letto ospedalieri. Secondo il “Rapporto Sanità 2018 – 40 anni del Servizio Sanitario Nazionale” del Centro Studi Nebo, si è passati dai 530.000 posti letto del 1981 (di cui 68 mila dedicati all’area psichiatrica e manicomiale) ai 365.000 del 1992, dai 245.000 del 2010 fino ai 191mila del 2017, ultimo dato disponibile. In rapporto al numero di abitanti, siamo passati da 5,8 posti letto ogni mille abitanti del 1998, ai 4,3 nel 2007 ai 3,6 nel 2017.

Stando ai dati del ministero della Salute, rielaborati da Anaao Giovani (il sindacato dei medici), nel 2010 l’assistenza ospedaliera si è avvalsa di 1.165 istituti di cura, di cui il 54% pubblici e il 46% privati, oggi il numero è sceso a mille unità, ma a diminuire sono state di più le strutture pubbliche (che ora sono il 51,8% del totale) rispetto alle delle cliniche private accreditate (48,2%). Queste ultime dislocate soprattutto in Lazio (124), Lombardia (72) e Sicilia e Campania (58). Sono state le grandi riforme di contenimento della spesa sanitaria del 2012 (governo Monti) e del 2015 (governo Renzi) a portare alla chiusura dei presidi ospedalieri più piccoli, spesso riconvertendoli in strutture alternative: negli ultimi 10 anni si sono creati 2.000 presidi in più per l’assistenza territoriale residenziale e 700 per l’assistenza semiresidenziale, mentre i posti letto diminuivano. Un tentativo malriuscito di efficientare il sistema e consentire assistenza fuori dagli ospedali, anche a causa del gigantesco definanziamento (la spesa sanitaria è inferiore a tutti i grandi Paesi Ue).

Nel 2010 il Servizio sanitario nazionale (Ssn) disponeva di 244.310 posti letto per degenza ordinaria (acuti e post-acuti), di cui il 71,8% (175.417 posti letto) erano in carico al pubblico e il 28,2% (68.893) al privato, 21.761 posti per day hospital (quasi totalmente pubblici) e 8.230 posti per day surgery (l’80% pubblici). Nel 2017, invece, i posti letto sono scesi a 3,6 ogni mille abitanti. In tutto erano 211.593 per degenza ordinaria di cui il 69,5% (147.035) in carico al Ssn, mentre il 30,5% (64.558) al privato (di questi, il 23,3% nelle strutture accreditate), 13.050 posti per day hospital, quasi tutti pubblici (89,4%) e di 8.515 posti per day surgery in grande prevalenza pubblici (78,2%). La Regione con il maggior numero di posti letto era la Lombardia con 8.384, seguita da Lazio (7.168) e Campania con 5.347.

È in un momento di emergenza che vale la pena ricordare cosa è stato sottratto al servizio sanitario, considerato tra i migliori a livello mondiale. In queste pagine leggete una (incompleta) rassegna di un decennio di tagli.

 

Lombardia
A incassare i soldi pubblici sono gli imprenditori privati

Qui, nella Regione di Roberto Formigoni e poi dei presidenti leghisti, è avvenuta la forma più completa di passaggio dalla sanità pubblica al sistema misto in cui pubblico e privato sono equiparati. Il budget annuo per la sanità è di 19,5 miliardi di euro. A pagare è sempre la Regione, con soldi pubblici, ma a incassare sono sempre di più, di anno in anno, gli imprenditori privati della sanità, tra cui due colossi: il San Raffaele (gruppo San Donato della famiglia Rotelli) e Humanitas (gruppo Rocca). Sono via via diminuite le risorse per gli ospedali pubblici, sono stati chiusi o “riconvertiti” tanti piccoli ospedali, sono più che dimezzati i posti letto. In Lombardia il sorpasso è già avvenuto: la sanità privata incassa più di quella pubblica. Gli ultimi dati del 2017, ancora non lo rilevano, ma già dicono che il privato incamera in proporzione più risorse del pubblico. Su 1,441 milioni di ricoveri, 947 mila (il 65%) sono negli ospedali pubblici, 495 (il 35%) nelle strutture private. Ma il privato incassa 2,153 miliardi di euro sui 5,4 totali (il 40%), contro i 3,271 del pubblico. Dunque il 35% dei ricoveri incassa il 40% delle risorse impegnate dalla Regione.
Gianni Barbacetto

 

Veneto
Nel Veronese quasi tutte le strutture dismesse o ridotte

Nel 2013 i posti letto negli ospedali pubblici erano 14.576, di cui 767 di settori altamente specializzati e 240 extra Veneto (per pazienti provenienti da altre Regioni). Nel 2019 sono calati a 14.065 unità, di cui 754 nell’alta apicalità e 85 extra-Veneto. Nelle strutture private sono passati dai 2.942 del 2013 (di cui 487 destinati all’extra-Veneto) a 3.115 (163 in più in totale, di cui 100 posti extra-Veneto). Ma i posti pubblici tagliati negli ultimi 15 anni sono di più. Lo dimostra il fatto che la riapertura da parte della Regione per l’emergenza Coronavirus di 5 ospedali chiusi (e in parte riconvertiti) consentirà di ricavare 740 nuovi posti letto per malati ordinari, tutti in provincia di Verona. Nell’elenco degli ospedali dismessi, ridotti o riconvertiti in passato ci sono anche Malo (Vi), Noventa Vicentina, Asolo (Tv), Dolo (Ve), Piove di Sacco (Pd), Adria (Ro), Bovolone, Nogara e Malcesine nel Veronese. L’ospedale di Santorso, nell’Alto Vicentino, inaugurato nel 2013 con un oneroso project financing (realizzato anche da imprese coinvolte nello scandalo Mose) ha portato alla chiusura (e parziale riconversione) di due ospedali a Schio e Thiene.
Giuseppe Pietrobelli

 

Lazio e Umbria
I nosocomi svuotati fanno gola ai palazzinari e manca personale

Sedici ospedali chiusi, 3.600 posti letto perduti e il 14% del personale uscito senza turnover. Sono le macerie della sanità del Lazio dopo 10 anni di commissariamento: Zingaretti ne ha già annunciato l’uscita, ma si attende il decreto del governo. Il piano di rientro si deve agli oltre 10 miliardi di debito registrati alla fine del 2009. A chiudere ospedali storici come il Forlanini – destinato alla Fao – o il San Giacomo, su cui hanno messo gli occhi i grandi gruppi immobiliari, ma anche nosocomi di provincia come Frascati, Marino, Guidonia e Monterotondo. Altri, come il San Camillo, San Filippo Neri e Sant’Eugenio hanno subito ridimensionamenti. In totale, ci sono oggi ci sono 56 strutture aperte contro le 72 del 2011. Oggi il 40% della sanità è composta dai privati convenzionati, mentre oltre 20.000 infermieri arrivano da società interinali e cooperative. In Umbria i conti non tornano da anni, non tanto per il numero degli ospedali quanto per la carenza di personale. Con una popolazione inferiore al milione ci sono due reparti di cardiochirurgia e di neurochirurgia uno a Perugia e uno a Terni in cui lavorano sempre meno persone.
Vincenzo Bisbiglia

 

Sicilia e Sardegna
Tanti piccoli presidi, zero servizi Così godono i grandi poli privati

La politica siciliana non vuole chiudere e continua a ripetere che l’obiettivo è razionalizzare. È così almeno dal 2006, anno in cui venne accertato un disequilibrio nei conti della sanità da 800 milioni di euro. Da allora ogni governo ha varato il suo piano di riordino sforbiciando posti letto e servizi. Tanti presidi negli angoli più sperduti dell’Isola rimangono aperti, garantendo voti, ma con servizi ai minimi termini. Alcuni ospedali vengono pure aperti. A Catania il San Marco ha preso il posto di tre nosocomi cittadini. Ideato per 1.229 pazienti, e con costi lievitati da 94 a 250 milioni di euro, è stato ridimensionato prima del taglio del nastro a 458 posti. Il quadro regionale ha il segno meno anche per i posti letto. Quelli riservati ai pazienti acuti nel 2009 erano 15.410 adesso sono poco meno di diecimila. Entro il 2020 dovrebbero chiudere 24 presidi territoriali di emergenza. In Sardegna, invece, la riorganizzazione della rete ospedaliera continua a creare disagi e malcontento nella popolazione: si aprono grandi ospedali privati con finanziamenti pubblici. È il caso del Mater Olbia.
Dario De Luca

 

Puglia e Basilicata
Meno presenza sul territorio, abbandonate le zone montuose

Il riordino ospedaliero ha riconvertito numerosi ospedali del territorio. E se formalmente non è una chiusura, nei fatti è certamente una drastica riduzione dei servizi. I tagli alla sanità pugliese sono cominciati quasi 20 anni fa con Raffaele Fitto e sono proseguiti con Nichi Vendola. La Giunta Emiliano nel luglio scorso ha chiuso la procedura di riordino con la trasformazione in cosiddetti “Presidi territoriali assistenziali” delle strutture ospedaliere ancora in funzione. Un esempio emblematico è l’ex ospedale di Alberobello nel quale ora è attivo però solo un presidio di primo intervento e nei mesi scorsi, dopo una petizione dei cittadini, è stato ampliato il servizio di guardia medica. Un’ala della struttura, invece, è ora una struttura privata. Le strutture declassate sono circa una ventina. Il piano prevede invece 5 ospedali “Hub” di eccellenza e 13 strutture di “I livello”, dove sono previsti esclusivamente il pronto soccorso e alcuni reparti. In Basilicata, che ha subito nel corso degli anni la chiusura dei micro-centri che servivano le zone montuose, oggi a gran voce si richiede la riapertura degli ospedali di Tinchi, Stigliano e Tricarico.
Francesco Casula

 

Toscana e Marche
Prima la mannaia, adesso la “corsa” a riaprire per il virus

In Toscana, negli ultimi dieci anni sono stati chiusi 5 ospedali, pur aprendone altri 4 più piccoli con un saldo negativo di posti letto pari a circa 450: tra il 2013 e il 2014 sono stati chiusi i nosocomi di Lucca di Campo di Marte, il vecchio ospedale di Prato e l’ospedale del Ceppo a Pistoia, mentre nel 2016 quelli di Massa e Carrara che poi si sono uniti nel Noa di Massa. Ovvero, circa 2mila posti letto per quattro province che contano circa 1,1 milioni di abitanti. In questi giorni il governatore Enrico Rossi ha riaperto le porte dei vecchi ospedali dismessi per recuperare 280 posti di terapia intensiva. “Ne stiamo cercando altri” dice al Fatto l’assessore alla sanità toscana, Stefania Saccardi. “Nessuno si aspettava che arrivasse il coronavirus – spiega il sindaco di Prato, Matteo Biffoni – per questo riapriamo i vecchi ospedali chiusi”. Le Marche, invece, sono tra le Regioni che ha pagato lo scotto più alto dal taglio imposto ai mini-ospedali nel corso degli ultimi 10 anni: ne sono stati chiusi 13 ospedali e gli altri ogni anno perdono medici, infermieri, macchinari, unità operative complesse.
Giacomo Salvini

 

Emilia-Romagna e piemonte
Due Regioni in prima linea, devastate da anni di austerità

Dal 2000 al 2016 negli ospedali dell’Emilia-Romagna i posti letto sono diminuiti di oltre 5 mila unità. Nel 2000 i letti ospedalieri erano 22.515, di cui 2.352 di day hospital. Dal 2000 al 2018 i posti letto dei nosocomi bolognesi Sant’Orsola, Maggiore e Rizzoli sono diminuiti progressivamente di quasi 600 unità. Nelle strutture modenesi nel 2016 sono stati tagliati 110 posti letto day-hospital: 53 negli ospedali Ausl, 47 al Policlinico di Modena e 10 dell’ospedale di Sassuolo. A Piacenza, considerando anche le strutture private convenzionate, la rete ospedaliera contava 1.146 posti letto totali poi ridotti a 1.100 per rispettare lo standard nazionale. In Romagna c’è stata una riduzione di 100 posti letto. La cura dimagrante imposta al Piemonte, uscito dal piano di rientro nel 2017 (ci era entrato nel 2010), si è fatto sentire: dal 2012 al 2018 sono stati chiusi 12 ospedali. Ne restano aperti 49. Un taglio drastico che si associa a quello del personale: dal 2009 al 2017 si sono persi 4mila dipendenti che porta a un taglio del 7% totale degli addetti nelle strutture ospedaliere.
Sarah Buono

 

Abruzzo e Molise
Lacrime e sangue per il Ssn, ma i convenzionati prosperano

Per nove anni, fino al 2016, la sanità abruzzese è stata commissariata. Gli interventi di razionalizzazione dell’ultimo decennio hanno ridimensionato il numero degli ospedali, soprattutto per quel che riguarda quelli pubblici. La dotazione complessiva, conteggiando anche quelli delle cliniche private accreditate, è intorno ai 4500 posti letto: la stragrande maggioranza per i pazienti acuti. La riabilitazione resta ad appannaggio di tre strutture private: Villa Serena con 367 posti letto, Pierangeli che ne vanta 161 e Spatocco a quota 111. I nosocomi pubblici più importanti sono invece il San Salvatore dell’Aquila (400 posti letto), il SS. Annunziata di Chieti (circa 500), lo Spirito Santo di Pescara (quasi 700) e il Mazzini di Teramo (478 posti). Diverse le piccole strutture ospedaliere demansionate, riclassificate e chiuse per interi reparti: da Penne a Popoli, da Atri a Giulianova, passando per Sulmona. Il Molise, 300mila abitanti, ha 7 strutture ospedaliere pubbliche. A 12 anni dall’avvio del Piano di rientro, i report mostrano ancora debiti milionari, mentre i costi sono saliti per supportare la sanità privata: il Neuromed e il Gemelli.
Maurizio Di Fazio

 

Liguria
Tagli i posti statali? Ci pensa il mercato (record a La Spezia)

Più privato e meno pubblico. Il trend nella sanità ligure è chiaro: dal 2014 al 2018 i posti letto nelle strutture pubbliche sono scesi a 5.252 con la perdita di 299 unità. Nel frattempo il privato è passato a 444 unità con una crescita di 164. Nella Asl di La Spezia i posti letto privati sono aumentati del 420 per cento. Dal 2014 intanto è calato di 988 unità anche il numero dei dipendenti ospedalieri: -72 medici, -384 infermieri e -532 dipendenti di altre categorie. Come ricorda un approfondito dossier sui “Mali della Sanità in Liguria” realizzato da Linea Condivisa, le provincie di Imperia e La Spezia hanno soltanto 2,6 e 2,8 posti letto in ospedale per ogni mille abitanti (a Bolzano, per dire, sono 3,98). Soltanto nella provincia di Genova dopo il 2000 hanno chiuso gli ospedali Cogoleto, Pegli, Rivarolo, Busalla, Bolzaneto, Recco, Camogli. Altre strutture, classificate come ospedali, erogano prestazioni ambulatoriali: Pontedecimo, Sestri Ponente e Arenzano. E c’è la contestatissima operazione di ricostruzione dell’ospedale Galliera che fa capo alla Curia: la Regione dovrebbe finanziare con circa 50 milioni la realizzazione dei nuovi padiglioni.
Marco Franchi

 

Campania e Calabria
La follia degli impianti “abusivi” e le chiusure nel tacco d’Italia

In Campania c’è una discrasia enorme tra i posti letto che risultano sulle carte e quelli effettivamente in funzione. “Per l’ospedale di Piedimonte si ragionava di 150 posti letto in generale. Per poi scoprire che ce n’erano attivi solo 30”, afferma la capogruppo M5S, Valeria Ciarambino. La maggior parte degli ospedali è priva dell’autorizzazione sindacale all’esercizio. In pratica abusivi. Chiusi a Napoli gli ospedali Ascalesi, Annunziata, San Gennaro e Incurabili, semisvuotati gli ospedali Loreto Mare e San Paolo, chiusi o fortemente depotenziati gli ospedali di Pollena Trocchia, Scafati, Agropoli e Roccadaspide. Nel 2018 esistevano 18.204 posti letto per la rete d’emergenza, da far salire a 19.841. In Calabria, tra riordini e piani di rientro, sono scomparsi e declassati decine di ospedali. È successo in provincia di Reggio con gli ospedali di Siderno, Scilla, Palmi, Oppido Mamertina e Taurianova. Ma anche nelle province di Catanzaro (ospedale di Chiaravalle), Vibo Valentia (ospedale di Soriano), Crotone (ospedale Mesoraca) e Cosenza (ospedali di Cariati, Lungro, Mormanno, Praia a Mare, San Marco Argentano e Trebisacce).
Vincenzo Iurillo e Lucio Musolino

Le previsioni impossibili sul post-Covid

Nel mondo normale – quello di prima – la politica economica e anche quella monetaria si basavano su previsioni del futuro, sempre imperfette e spesso sbagliate, ma comunque utili come bussola. Almeno per capire quali erano le attese degli altri operatori e regolarsi di conseguenza.

Per la prima volta nella storia, oggi non siamo in grado di fare alcuna previsione accettabile e non c’è alcun consenso su cosa ci aspetti. Sappiamo per esempio che l’indice mensile che misura l’attività manifatturiera nell’Eurozona è crollato a marzo da 51,6 punti a 31,4. Il tonfo peggiore da quando viene calcolato. Poiché non sappiamo quanto durerà il blocco dell’economia per ridurre i contagi, è impossibile stabilire se si tratta di un tracollo momentaneo o strutturale e quale sarà l’impatto finale sul Pil dell’anno (e sulla disoccupazione). Molti ristoranti o piccoli imprenditori possono sopravvivere a un mese senza fatturato, senza due mesi di ricavi falliscono. Nels Gormesen e Ralph Koijen dell’Università di Chicago hanno studiato l’andamento dei contratti future sui dividendi per cercare di tradurre il crollo dei mercati finanziari in previsioni sul Pil: la riduzione dei prezzi di Borsa registrata finora, nell’ordine del 30 per cento, è coerente con un calo del Pil 2020 del 2,6 per cento sia negli Usa che nell’Ue. I mercati sembrano ancora scommettere su un ritorno imminente alla normalità, che il presidente Usa Donald Trump continua a promettere. Ma la verità è che il futuro è imprevedibile e dipende, più che dal virus, soltanto dalle nostre scelte come individui e come comunità: dalle decisioni in materia sanitaria, ma anche sul tipo di intervento economico di sostegno che ogni governo sceglierà. È la prima volta, non c’era mai stato uno choc e un aumento di incertezza simile in tutti i Paesi del mondo allo stesso momento. Il virus ci ha tolto quasi ogni libertà, ma non quella di provare a costruire il nostro futuro.

Dopovirus: non sarà il Partito del Cemento a salvare l’economia

Si profila una crisi talmente profonda da lasciare senza parole anche gli economisti più fantasiosi nel trovare le prove che anche stavolta il Dio mercato ci salverà. Per questo colpisce l’imperterrito partito del cemento con il suo mantra: sbloccare i cantieri. Una strategia inefficace per l’economia, sicuramente irrealizzabile. Per due ragioni pratiche: non ci sono i soldi e non ci sono le imprese. E una teorica: si tratterà di salvare aziende e posti di lavoro che ci sono piuttosto che crearne di nuovi.

La ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli vuole sbloccare 25 opere per un valore di 6 miliardi nominando dei commissari secondo il “modello Genova”. Lo strumento è già previsto dal decreto sblocca-cantieri del suo predecessore Danilo Toninelli: “I commissari straordinari possono essere abilitati ad assumere direttamente le funzioni di stazione appaltante e operano in deroga alle disposizioni di legge in materia di contratti pubblici”. Un potere discrezionale grazie al quale il commissario può affidare gli appalti senza gara, come si è fatto per il ponte Morandi. Che però ha specificità uniche: l’urgenza, l’importo (solo 200 milioni), la spesa a carico di Autostrade per l’Italia per i noti motivi. Il viceministro delle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri vola più alto e con il modello Genova sogna di sbloccare opere per 109 miliardi contenute nei piani di Anas e Fs: “Sono già finanziate, e allora perché sono ferme? Per la troppa burocrazia, che impedisce di spendere soldi già stanziati”.

Antiche leggende. Uno legge e pensa che Fs e Anas abbiano nel cassetto 109 miliardi. Figuriamoci. Per restare in questo secolo, il primo a raccontare la favola fu Silvio Berlusconi che nel 2002 confezionò la legge Obiettivo, detta da Raffaele Cantone “criminogena”, grazie alla quale si sarebbe rifatta l’Italia aprendo cantieri come chioschi di bibite (ricordate la lavagna di Bruno Vespa?). Tipico risultato della legge Obiettivo è la Metro C di Roma, affidata nel 2006 e ancora alle fasi iniziali.

Berlusconi ha fatto scuola. Nel 2012 il ministro delle Infrastrutture Corrado Passera annunciò lo sblocco di lavori per 40-50 miliardi. Nel 2014 il premier Matteo Renzi giurò che il suo decreto Sblocca-Italia avrebbe sbloccato in pochi mesi cantieri per 43 miliardi. E che la nomina dell’ad di Rete Ferroviaria Italiana, Maurizio Gentile, a commissario per la nuova linea ad alta velocità Napoli-Bari avrebbe consentito di aprire i cantieri entro il 2015. Invece i primi lotti della Napoli-Bari sono partiti a fine 2018: grazie al commissario sono serviti tre anni e mezzo anziché i 6-7 anni soliti. Nel 2015 il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio ridimensionò i sogni del capo allo sblocco di 15-16 miliardi in 20 mesi. Il suo successore Danilo Toninelli, con il suo Sblocca-Cantieri del 2019 di cui sopra, si disse anche lui certo dello sblocco di oltre 15 miliardi.

Se passiamo dalla sfera onirica alla realtà scopriamo che non ci sono i soldi. Nel 2018, ultimo bilancio pubblicato, Rfi ha investito in “grandi progetti infrastrutturali” un miliardo di euro, mentre 3,5 miliardi sono andati “alle attività di mantenimento in efficienza dell’infrastruttura e per interventi diffusi sul territorio”. È intuitivo, dopo gli incidenti mortali di Pioltello e di Lodi, che se c’è da mettere qualche soldo in più sulle ferrovie sarà il caso di destinarlo alla manutenzione della rete piuttosto che, solo per citare un esempio dal libro dei sogni di De Micheli, alla ferrovia Ferrandina-Matera. Se ne parla da almeno 30 anni ed è tornata di attualità ai tempi del governo Renzi quando si ritenne doveroso dotare di collegamento ferroviario la capitale della cultura 2019 (anno che, duole constatarlo, si è concluso lo scorso 31 dicembre). Quanto all’Anas, a fronte delle decine di miliardi di opere stradali sognate, si scopre che nel 2019 ne ha fatte per 265 milioni, preventivandone per il 2020 altri 600 milioni. Quindi Rfi e Anas sommate danno lavoro ai costruttori per non più di uno o due miliardi all’anno.

Supponendo che con ettolitri di Svitol il governo riesca a sbloccare la qualunque, magari a triplicare o quadruplicare la spesa, resta il secondo problema: chi li apre questi cantieri? La Salini Impregilo, campione nazionale delle costruzioni che, con il supporto finanziario di Cassa Depositi e Prestiti punta a federare altri big come Astaldi, Pizzarotti e Rizzani de Eccher – oltre a pezzi della defunta Condotte – nel 2019 ha fatto lavori in Italia per un miliardo, fatturando in altri Paesi il resto dei suoi 5,4 miliardi. Infatti dichiara di voler crescere in Nord America, Australia e Medio Oriente, non in Italia.

Il fatto è che da sempre i costruttori italiani sono riusciti, con l’aiuto di politici e burocrati ben lubrificati, a non far entrare in Italia nessuna impresa straniera, tenendosi strette le sempre più striminzite occasioni di lavoro. Basti pensare che negli ultimi dieci anni il mercato delle opere pubbliche, statali e locali, si è sostanzialmente dimezzato. Le aziende maggiori stanno quindi messe male. Le prime cento società di costruzioni fatturano in Italia 10 miliardi di euro. Alla fine il mercato vero è quello delle micro imprese che ristrutturano le case con l’agevolazione fiscale: vale da solo quasi 50 miliardi all’anno. Ecco, se proprio credono che l’edilizia debba concorrere alla ripresa dell’economia dopo il Coronavirus, forse è meglio che diano soldi ai Comuni per asfaltare le strade. Si fa prima (fattore decisivo) e meglio.

 

Debito, austerità, eccetera? Tutte “vaccate”, parola del CorSera

La clausura ha i suoi pregi: a noi ha fatto scoprire le newsletter del Corriere e, in particolare, quella serale, assai ben fatta, dedicata alla stampa estera. Lunedì, ad esempio, sulla scorta di The Atlantic vi si elogiava la lungimiranza della Danimarca, che ha stanziato il 13% del Pil per evitarsi una crisi di domanda (paesello che, essendosi tenuto la sua monetina, fa quest’operazione con la copertura della sua banchetta centrale): “Come fanno a essere così lucidi? Hanno imparato la lezione del 2008: anche loro allora si facevano problemi col controllo del debito, l’austerity e queste vaccate che hanno rovinato una generazione di europei”. Frase che ci sentiamo di condividere anche nella sua apoditticità e che però rischia di sorprendere i lettori del CorSera, ammaestrati sulle virtù delle predette “vaccate” da editorialisti, direttori, vicedirettori e macchiaioli sparsi. Sempre lunedì, ad esempio, sul Corriere c’era infatti un’articolessa degli economisti dei due mondi, Alesina&Giavazzi: “Oggi il Mes è lo strumento giusto per affrontare gli effetti dello choc sanitario”, ma il suo intervento “dovrebbe essere soggetto a condizioni minime” (cioè?), assicurando che “le sue risorse non vengano usate per finanziare spesa pubblica improduttiva” (cioè?). Testo, absit iniuria verbis, che sembra parente delle “vaccate” di cui sopra e ci spinge a una modesta proposta: facciamo che comanda la newsletter, così tra dieci anni evitiamo che qualcuno ci spieghi cos’ha imparato dagli errori del 2020 proponendoci altre vaccate di cui s’accorgerà solo nel 2040.

Medici, meglio proteggerli che chiamarli eroi

Adesso pare che la preoccupazione maggiore sia il rinvio delle Olimpiadi. Due settimane fa la tragedia era il campionato di calcio. Sembra di sognare. L’economia mondiale è sull’orlo di un precipizio e siamo preoccupati del pallone. Non si accampi il pretesto dell’indotto economico dello sport. Tutte le categorie sono a rischio. Anzi no: c’è chi è molto più a rischio. Si tratta di medici e infermieri, inservienti che lavorano negli ospedali. Il 9% dei casi positivi al Coronavirus è rappresentato dal personale ospedaliero. Il numero è enorme: sono più di cinquemila gli operatori sanitari contagiati (i dati sono aggiornati al pomeriggio di ieri e sono purtroppo destinati ad aumentare). È una percentuale assurda perché è così che gli ospedali sono diventati centri di contagio. Sono 24 i medici morti dall’inizio della pandemia, il 50% erano medici di famiglia.

Volete saperne una? Ansa delle 11.22 di ieri: “In Emilia-Romagna i medici positivi al coronavirus ma asintomatici possono tornate al lavoro su base volontaria. Lo indica una direttiva della Regione alle aziende ospedaliere. Si prevede infatti il tampone per screening periodici ‘con cadenza quindicinale a tutti gli operatori sanitari operanti in aree Covid-19 a massima diffusione al fine – si legge – di definire le dimensioni delle forze lavoro in campo, nell’ottica di proporre, su base volontaristica, la ripresa del lavoro ai soggetti positivi ma asintomatici”. Nel pomeriggio la cosa è rientrata e si è stabilito che gli “operatori sanitari positivi al coronavirus possono rientrare al lavoro quando sono risultati due volte negativi al test”. Il commissario per l’emergenza in Emilia-Romagna Sergio Venturi è intervenuto, spiegando che “la direttiva indirizzata alle aziende sanitarie rappresenta un documento di strategia generale che, effettivamente, può aver generato confusione lì dove si parla di volontarietà”. Voi direte: ma come gli è venuto in mente anche solo per strategia generale? Risposta: ci sono pochi medici e siamo in emergenza. Ma l’emergenza non dovrebbe impedire alle persone di ragionare: ovvio che chi è vettore del virus, anche se per fortuna sua sta bene, può trasmetterlo. Quindi i medici dovrebbero essere sottoposti a tampone per primi, e in continuazione (non restano a casa, loro). Prima di puntare il dito su chi va a correre da solo, sarebbe bene collegare il cervello alle circolari. Anche perché, come abbiamo scritto domenica raccogliendo l’esperienza dei medici di Bergamo, si può restare positivi al test anche dopo la guarigione. La questione è a monte. Il 31 gennaio (data della delibera del Consiglio dei ministri pubblicata sulla Gazzetta ufficiale) sapevamo che c’era il rischio di dover fronteggiare un’epidemia. Avevamo i protocolli: dopo l’emergenza aviaria, nel 2003, governo e Regioni si sono dati di piani straordinari per casi come questo. Linee guida da seguire, tipo avere a disposizione una scorta di materiale sanitario come mascherine e ventilatori. Come censire i contagiati. Disposizioni ignorate. Sono comprensibili molti errori in questa emergenza. Quando parliamo male del nostro Paese, ricordiamoci le parole sull’immunità di gregge del premier britannico Boris Johnson, che ieri però ha chiuso tutti gli inglesi in casa. Qui però il punto non è la caccia all’errore: alcuni sono comprensibili. Non per nulla la pandemia ha colto il mondo impreparato. Ci sono alcuni errori che però sono ingiustificabili, come quello di obbligare gli operatori sanitari a scegliere tra proteggersi e aiutare gli altri. Da settimane sentiamo ringraziamenti retorici in lode dei medici eroi. Ne avrebbero fatto volentieri a meno, loro che rischiano di diventare martiri.