Il “dopo” non potrà più essere come il “prima”, così ingiusto e diseguale

Le retoriche del “dopo” fanno bene al cuore. “Dopo” torneremo ad abbracciarci, a tornare là fuori, “dopo” riavremo le nostre vite sequestrate, “dopo” torneremo al gusto del caffè del bar, delle chiacchiere a distanza ravvicinata, del contatto fisico, delle strade piene. È giusto che sia così, giusto che ci sia un orizzonte, un tendere al futuro, un desiderio forte di passare la nottata, domani è un altro giorno. Dai, coraggio, avanti. Dopo, dopo, dopo.

Ma siamo sicuri che il “dopo” – quando arriverà – debba essere uguale al “prima”? Che questa piaga biblica non ci stia disegnando, con precisione quasi millimetrica, storture, furbizie, ingiustizie strutturali, diseguaglianze sociali accettate come naturali e immutabili? La catastrofe amplifica, precisa i contorni, rende tutto più visibile, cristallino. A metterle in fila, le inadeguatezze, le furbizie, i calcoli cinici, c’è da riempirci un volume, si oscilla tra un senso di comunità in pericolo (ora che la comunità è chiusa in casa) e la voglia di ghigliottina, di segnarsi i nomi, i comportamenti, le dichiarazioni, a futura memoria. Per “dopo”.

Così, con lo stesso inquieto pendolarismo che ci fa fare migliaia di volte il tragitto camera-cucina, presi dall’horror vacui della giornata che ci si apre davanti, mettiamo confusamente in fila la lista delle ingiustizie. Il tampone agli asintomatici che è ormai uno status symbol come la Porsche in garage (sì ai calciatori, sì ai vip, no ai medici in trincea, possibile?). Le speculazioni politiche di bassa lega (Lega), come il vergognoso Salvini travestito da sanitario, gli industriali che resistono alle chiusure ma in fabbrica non ci vanno, le miserabili riflessioni ultraliberiste (memorabile un articolo su Il Foglio) che ci spiegavano perché è giusto che le mascherine seguano la “naturale” dinamica dei prezzi, perché il mercato sistema tutto, che vergogna. E anche i conti finalmente chiariti su chi, come, quando, in che misura ha martoriato la Sanità pubblica in questi anni, nomi e cognomi. Chi lo diceva prima, al momento dei tagli, era dipinto come un nemico, un sovversivo (le mille varianti mettetele voi, comunista, gufo, disfattista, costruttore di debito pubblico…), ora troviamo quelle cifre – i tagli di Silvio, di Monti, di Renzi – messe in fila con dovizia di dettagli. Scappati i buoi si guarda con desolazione alle porte della stalla, e lo fanno anche giornali, e media, e forze politiche che prima non facevano un fiato, che a ogni sforbiciata esultavano per la coerenza di bilancio: ce lo chiede l’Europa, ce lo chiedono i mercati, e giù ticket, e riduzioni di prestazioni, e limiti agli esami, e meno posti letto, e meno terapie intensive, e meno ospedali locali, e numeri chiusi a medicina, che qui vogliono fare tutti il dottore, signora mia.

Saranno anche categorie antiche, novecentesche, ma siccome ci scopriamo disarmati a non averne di migliori, ecco che tocca constatare: anche il virus è di classe, e lo si vede ogni giorno nei piccoli dettagli dell’infamia corrente, quasi un campionario. Le case piccole in cui convivere, i soldi che mancano perché arrivano dal cottimo, il poderoso esercito dei lavoratori in nero (moltitudine) che non avranno ammortizzatori, i lavoratori spaventati sia dalla costrizione a lavorare sia dal fermarsi.

“Dopo”, nell’ubriacatura dell’essere di nuovo vivi, dovremo ricordarci che quel “prima” che oggi ci manca non andava bene, era fragile e ingiusto, era troppo diseguale, schiacciava i deboli e premiava i forti. Nel “dopo” ci dovremo mettere anche tutto questo, un ridisegnare complessivo del sistema, delle protezioni sociali, e sarà importante quanto lo è la voglia di tornare là fuori, di riabbracciarci, di bere il caffè al bar. Il “dopo” non arriverà soltanto, lo si dovrà costruire con le nostre mani finalmente senza guanti, dopo.

Il Covid-19 è peggio della guerra

Le Autorità ci dicono: “Pazientate, è come essere in guerra”. No: è molto peggio. A Milano, pur martellata dalle “fortezze volanti” americane e dai bombardieri inglesi, si poteva uscire di casa non solo, prendendo il tram, per lavoro, ma per incontrare un conoscente, recarsi al cinema, riunirsi con gli amici o andare semplicemente a spasso. A fare jogging, termine che allora neppure conoscevamo, non ci pensavamo nemmeno, eravamo già sufficientemente asciutti, i più svantaggiati erano quelli che stavano in città che dovevano servirsi della “tessera annonaria”, in campagna per il cibo non c’erano problemi.

Ovviamente quando suonava l’allarme e si cominciavano a sentire i primi colpi della contraerea si scappava nei rifugi, pochi, o nelle cantine. Certo con gli americani che bombardavano come sempre “a chi cojo cojo” se una bomba centrava la tua casa eri spacciato. Gli inglesi erano più professionali, mandavano, a bassa quota per sfuggire ai radar, un piccolo aereo da ricognizione per individuare nel modo più preciso possibile i bersagli da colpire. E a volte avevano gesti di un inusitato fair play.

Non dimenticherò mai quel che accadde in un piccolo paese dove c’era una caserma. Passò l’aereo da ricognizione e lasciò cadere dei volantini che dicevano più o meno: fra poco bombardiamo. Tutti gli abitanti fuggirono nei boschi tranne le sentinelle della caserma, due giovani di vent’anni. Erano o non erano le sentinelle? Il loro compito era rimanere lì. Passò il bombardiere, centrò la caserma e i ragazzi morirono.

La gente che noi chiamiamo “comune” sa bene, al momento del dunque, quali sono i suoi doveri mentre la classe dirigente si squaglia e se la squaglia.

Poi si poteva “sfollare”. I mariti restavano in città a lavorare, le famiglie, donne e bambini, si rifugiavano in zone meno esposte, in genere le Prealpi. Chi poteva, cioè i meglio ammanicati e i ricchi, due categorie che in genere si sovrappongono, si rifugiava in Svizzera.

C’erano poi delle circostanze inaspettatamente favorevoli. Una sera di molti anni fa portavo Guglielmo Zucconi, mio direttore al Giorno, a Modena, sua città natale dove doveva ricevere un Premio. Sull’autostrada c’era una nebbia fittissima e io sacramentavo. “Vedi – mi disse il vecchio Zuc – quando noi eravamo ragazzini la nebbia era la felicità”. “Perché?” chiesi. “Perché con la nebbia non bombardavano e noi potevamo uscire a giocare sicuri di non beccarci una bomba”. Insomma si sapeva da dove veniva il pericolo e come cercare di schivarlo.

Il Coronavirus è un nemico invisibile. È ovunque. Può stare nell’aria o nel fiato del vicino o su una banana che compri al supermercato. Non conosce confini e frontiere ed è inutile rifugiarsi in Svizzera o a Montecarlo (e per una volta, come in ’A livella di Totò, ricchi e poveri sono sullo stesso piano).

Le Autorità prendono di continuo nuove misure, probabilmente giuste. Ma per il cittadino è come avere una corda al collo che si stringe progressivamente. L’acquisto e il consumo di ansiolitici è verticale. Qui va a finire che moriremo più per lo stress che per il Coronavirus.

Mail box

 

Galleria Corsini, prese tutte le misure necessarie

In riferimento alla lettera pubblicata ieri dal vostro giornale, a firma Franco, si ricorda che i musei sono chiusi al pubblico in virtù del decreto dell’8 marzo 2020, ma che è necessario garantirne il presidio di sicurezza al loro interno. L’attuale situazione di emergenza ci costringe, purtroppo, a chiedere al nostro personale uno sforzo per assicurare questo presidio. Ciò nonostante tutte le misure necessarie sono state prese per tutelare il nostro personale e la sicurezza del nostro patrimonio. Riguardo la Galleria Corsini si sottolinea che non è – come indicato dal vostro lettore – sorvegliata esternamente da vigilanza privata, bensì da dipendenti del museo che stanno svolgendo le loro funzioni nel rispetto della legge.

Gallerie Nazionali di Arte Antica

 

Hanno lucrato su tutto, ora non possiamo piangere i morti

È morta la zia di mia moglie a Treviglio. Era molto anziana, e purtroppo la famiglia numerosissima non potrà né vederla né salutarla, perché non ci sarà nessun funerale. Spero che l’epidemia non porti via più nessun’altra parente. Ora è il momento del lutto, ma posso confessarvi che non riesco a perdonare, pur essendo credente, chi ha sperperato decine di miliardi di euro nella corruzione degli ultimi anni e nello stesso tempo ha tagliato la sanità. La famiglia della zia è formata da lavoratori che hanno sempre pagato le tasse. Non meritano questo trattamento dallo Stato.

Vincenzo Magi

 

Cerchiamo la cura per il virus, non ne vediamo le cause

La pandemia di coronavirus ha già provocato un trauma senza precedenti sul pianeta. Eppure colpisce l’assenza di una valida riflessione sulle sue cause e sulla ripetibilità di rischi di questo genere, come pure l’assenza di una discussione riguardante l’influenza del nostro modello economico e sociale su quanto sta accadendo. Eppure gli eccessi del consumismo capitalistico hanno già dato prova della sua potenza distruttrice. Sembra proprio che l’idolo della crescita continua sia la cura e non la causa dello sconvolgimento che viviamo: come uscire da questo incubo? Facendo come prima.

Ambrogio Lualdi

 

Grazie ai giornalisti per il bel ricordo di Mura

Grazie a Coen e Scanzi per il bel ritratto di Gianni Mura, un grande giornalista che avrebbe meritato di… scrivere anche sul Fatto. Grazie anche a Ziliani, che, pur scrivendo (sempre) male della Juve, è grande pure lui.

Mario Sergo

 

Biden vuole candidare una donna, speriamo Michelle

All’indomani delle ultime primarie che lo hanno visto vincere sullo sfidante Bernie Sanders, Joe Biden ha affermato di aver concordato con Obama di presentare la candidatura di una donna alla prossima convention democratica per la carica di vicepresidente. Speriamo che che possa essere proprio Michelle la prima donna a ricoprire questa carica!

Vincenzo Covelli

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo dal titolo “Gli infermieri in tv: mancano i letti per salvare tutti” pubblicato sul Fatto del 23 marzo, precisiamo quanto segue: l’Ospedale Niguarda di Milano sta lavorando incessantemente dal 21 febbraio per riorganizzare i flussi interni e aumentare le unità di Terapia Intensiva al fine di continuare ad accogliere tutti i pazienti che giungono qui con necessità di ricovero. Attualmente presso l’Ospedale Niguarda di Milano non si riscontra la saturazione del reparto di Terapia Intensiva, e c’è ancora disponibilità di posti letto. Le valutazioni cliniche dei pazientii vengono effettuate esclusivamente da medici delle Unità di Terapia Intensiva, Subintensiva, Pronto Soccorso e Degenze mediche dedicate, che stanno lavorando giorno e notte dall’inizio dell’emergenza. Si precisa che ad ogni paziente viene sempre garantita la corretta assistenza e che i criteri di valutazione di valutazione dei pazienti si basano esclusivamente sulle condizioni cliniche e non legate all’età degli stessi.

Alla luce dell’emergenza in corso il ministero della Difesa ha messo a disposizione il proprio personale sanitario, in supporto alle esigenze medico-infermieristiche delle strutture ospedaliere, tra cui l’Ospedale Niguarda. Nel bacino del personale interessato fanno parte anche i due infermieri militari intervistati che, essendo arrivati da soli due giorni a Milano, non dispongono del quadro completo sanitario dell’Ospedale. Si ricorda che la collaborazione tra sanità civile e militare – in atto con il massimo sforzo – intende proprio supportare le strutture ospedaliere affinché continuino ad accogliere e curare in maniera adeguata tutti i pazienti.

Marco Bosio, Dg Ospedale Niguarda

 

Siamo certi che l’ospedale Niguarda stia facendo tutto il possibile e anche di più, secondo le regole e i protocolli clinici, per curare tutti i pazienti in questa terribile emergenza. Siamo altrettanto certi che i due sottufficiali infermieri non abbiano mentito su quanto vissuto nei giorni scorsi.

A. Man.

Sanità privata “Aiuta il pubblico”. “No, toglie soldi e cerca il profitto”

Sono da anni abbonato al Fatto Quotidiano, che apprezzo proprio per le sue molte voci fuori dal coro, pur non condividendo alcune posizioni espresse. È il caso del fuoco ad alzo zero che state utilizzando contro la sanità privata in generale, e il cosiddetto modello lombardo in particolare. Chi le scrive ha passato 37 anni nella sanità pubblica, lombarda e veneta, ricoprendo posizioni direttive apicali per 23 anni, e con docenze a contratto universitarie: ho lasciato la sanità pubblica da circa 5 anni, e ricopro attualmente il ruolo di direttore scientifico del dipartimento di Ortopedia e traumatologia del Gruppo Policlinico di Monza. Mi preme puntualizzare due aspetti del vasto mondo sanità: la cosiddetta sanità privata è, per la gran parte, accreditata dal Servizio sanitario nazionale: riceve, per le prestazioni, la stessa remunerazione (Drg) del pubblico, ma offre servizi quasi sempre di qualità superiore riuscendo anche a produrre utili (pressoché costantemente reinvestiti), non deficit che lo Stato annualmente ripiana. In occasione dell’emergenza che stiamo vivendo, il Gruppo Policlinico di Monza ha messo a disposizione la sua struttura principale (Policlinico di Monza), e due altre cliniche (Pinna Pintor di Torino, Città di Alessandria ad Alessandria) per il trattamento di pazienti Covid-19, continuando a garantire l’emergenza /urgenza nelle diverse sedi. La sanità italiana rappresenta, nel suo complesso, un’eccellenza a livello mondiale, non facciamone un facile bersaglio per preconcetto ideologico.

Prof. Dr. Francesco Biggi

 

Nessun preconcetto, caro professore. Semplicemente l’analisi dei fatti. Negli ultimi due decenni, la sanità pubblica, anche in Lombardia, ha perso risorse, chiuso ospedali e dimezzato i posti letto. Intanto sempre più soldi (pubblici) sono affluiti alla sanità privata, messa sullo stesso piano di quella pubblica, ma con una sua autonomia: sceglie le prestazioni più remunerative e lascia al pubblico le più onerose, perché il suo fine – legittimo – è il profitto; non mette in comune agende e prenotazioni, così i tempi d’attesa del pubblico diventano lunghissimi. Nelle fasi d’emergenza, poi, il sistema rischia di saltare. Le risorse tolte negli anni al sistema pubblico e i posti letto persi pesano, in momenti di crisi come quello che stiamo vivendo. Nella prima settimana d’emergenza Covid-19, i privati erano assenti e sono stati coinvolti con la delibera del 4 marzo del presidente Attilio Fontana, che li ha poi “ringraziati” per essere “entrati” nel “nostro sistema”. Ma non dovrebbero già essere parte integrante del Sistema sanitario nazionale?

Gianni Barbacetto

La miglior cura di oggi: essere pronti in futuro

Il caso Italia fa scuola nel mondo. Il New England Journal of Medicine ha riconosciuto l’opportunità delle misure di contenimento del contagio, ma ne ha anche indicato i limiti: “Il sistema sanitario italiano è degno del massimo rispetto, e ha 3,2 letti per 1.000 abitanti (negli Usa solo 2,8), eppure è impossibile rispondere simultaneamente ai bisogni di tanti malati”. Mentre il contagio avanza in Europa e nelle Americhe, si fanno sempre più frequenti nel mondo i commenti sulla situazione italiana. Forse per condivisione di cultura e tenore di vita analoghi (e in Europa certo per prossimità geografica), l’Italia appare in genere, rispetto a Cina o Corea, un ‘caso’ da guardare con particolare attenzione.

Il che accresce enormemente la nostra responsabilità: quel che sapremo fare potrà essere per gli altri un modello da seguire o da evitare? Cresce, anche, la simpatia per un’Italia che prova a resistere anche cantando dai balconi (“guardando queste scene, diventiamo tutti quasi italiani”, ha scritto un giornale francese), e certo l’apparente tenuta sociale (finora) è un buon segno. Ma non basta.

Se vogliamo servire di modello (positivo) per l’esperienza dei Paesi dove la diffusione del contagio è “indietro” rispetto a noi, o almeno alla Lombardia, le cose da fare con massima urgenza sono di tre tipi: le misure di contenimento del contagio, la diagnosi e cura dei malati, l’analisi delle cause e dei dati. Sul primo punto si sta facendo molto (troppo per alcuni, troppo poco per altri), ed è su questo che si concentra quasi tutta la discussione pubblica, fra governo e Regioni ma anche nei media. Ma gli altri due punti non sono meno importanti.

Che sia difficile se non impossibile curare tutti i malati mentre il loro numero cresce si sa, tanto è vero che si è anche proposto di porre un limite di età, rifiutando le cure ai più anziani. Senza tornare sui problemi etici e legali che ne conseguono (come ho scritto in queste pagine l’11 marzo), è ovvio che alla mancanza di letti e strumentazione medica si sopperisce creando con massima urgenza strutture temporanee, e infatti lo si sta facendo in molte città o regioni. Ma con quali criteri, con quale rapidità ed efficienza, con quali risultati? La segmentazione della sanità pubblica per regioni rende difficile mettere a punto e rendere pubblico uno sguardo d’insieme, che però è in questo momento più che mai necessario. Tanto più che il potenziamento delle strutture richiede anche l’assunzione di personale medico e sanitario, giacché negli ultimi 5 anni siamo stati così intelligenti da sopprimere 758 reparti in tutta Italia (inclusi quelli di Terapia intensiva). Mancano almeno 56.000 medici e quasi altrettanti infermieri (5,6 ogni 1000 abitanti rispetto a 12,6 in Germania), e per essere alla pari con la media europea mancano all’appello 10 miliardi l’anno: frutto dei tagli operati senza molto cervello da governi d’ogni colore e d’ogni fatta. Se questa è la situazione, non sarebbe il caso di creare a Palazzo Chigi un’apposita task force che, con la cooperazione di tutte le Regioni, consenta un rapido censimento della situazione, dei bisogni, dei provvedimenti in corso e di quelli che sarebbero necessari? Senza una mappa come questa, a che cosa ci serve la flessibilità di bilancio ormai consentita anche dalle istituzioni europee?

Siamo così già entrati nel cuore del terzo punto: l’analisi delle cause e dei dati. Le cifre che ho dato sopra (prendendole dall’Espresso) sono quelle giuste o no? Potremmo avere, di grazia, un’informazione ufficiale, garantita a livello nazionale, su quali e quanti e dove e quando sono stati i tagli di bilancio, e con quali conseguenze in un’emergenza come questa? E siccome nulla ci dice che non debba ripetersi qualcosa di simile nei prossimi anni, potremmo venire a sapere in che misura strutture temporanee organizzate oggi in fretta e furia dovrebbero invece essere permanenti? Decisioni come queste verranno prese sulla base del piccolo cabotaggio di micro-negoziati fra Stato e Regioni, o si vorrà costruire un grande piano nazionale? Rendendo pubbliche analisi come queste il governo darebbe una prova di trasparenza e di coraggio, buona anche a bilanciare la limitazione delle libertà personali che l’emergenza rende necessaria.

Non mancano altri dati che sarebbero da analizzare: per esempio, il confronto fra le metodologie di diagnosi e le loro conseguenze statistiche. È ovvio che da prassi diverse vengon fuori risultati diversi, e dunque misure diverse per il contenimento e la cura. Non saremmo noi in Italia nella posizione ideale per mettere a rigoroso confronto i criteri usati nei diversi Paesi, in Europa e non solo? Non dovremmo, con analisi statistiche e matematiche sofisticate ma non impossibili, smontare le tattiche di contenimento (non del virus, dei dati), tentate da Johnson con la sua stolta “immunità di gregge” o da Trump con la sua delirante xenofobia? Per citare un ultimo ambito: quanta confusione si sta facendo sulla convergenza del Covid-19 con l’inquinamento atmosferico e con il cambiamento climatico! Non sarebbe possibile analizzare con rigore scientifico il nesso (se uno ce n’è) fra produzione del cibo, estesa deforestazione, allevamenti intensivi di animali e diffusione di questa e altre epidemie? Lo ha suggerito uno scienziato italiano di prima forza che insegna all’Imperial College di Londra, Paolo Vineis: “Le emergenze, a cominciare da quelle sul clima, vanno previste e prevenute con molto anticipo. La cultura del rischio dovrebbe essere inclusa nella progettazione tecnologica anche per le pratiche agricole e urbanistiche”.

Contenere il contagio limitando la libertà di movimento non basta. Occorre curare al meglio il più gran numero possibile di malati (anzi tutti), e cominciare da subito un’ampia riflessione sugli errori del passato e su qualche prospettiva per il futuro. Un futuro che avremmo dovuto prevedere già ieri, e dunque è già tardi se comincia oggi stesso. Per condurre analisi come queste ci sono in Italia e fuori ottimi ricercatori, anche se la nostra spesa in ricerca è scandalosamente bassa: non sarebbe questa, per esempio per il Cnr o per le Università, una straordinaria occasione per costruire, auspicabilmente in sintonia con chi ci governa, un vero, esemplare laboratorio di pensiero? È difficile non condividere la conclusione dell’articolo di Lisa Rosenbaum nel New England Journal of Medicine citato all’inizio: “La tragedia vissuta dall’Italia rafforza la saggezza di molti esperti della sanità pubblica: il miglior esito di questa pandemia sarebbe se nel futuro fossimo accusati di aver esagerato nell’esser preparati”.

Proposta: un canale Rai per tutti gli studenti

Gentile ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina, domenica scorsa nella rubrica Media e dintorni di Radio Radicale, Edoardo Fleischner nel consueto colloquio con Emilio Targia ha detto che France Télévisions, il servizio pubblico radiotelevisivo francese, dal 12 marzo, manda in onda dal lunedì al venerdì la scuola in diretta a uso degli studenti costretti a casa causa Coronavirus.

Il calendario delle lezioni dal vivo prevede alle 9, la prima elementare; alle 11, la materna; dalle 13 e 30 alle 14, una sintesi divulgativa di scienze naturali; alle 14 tocca agli universitari; alle 15 agli studenti che si preparano alla Maturità; alle 16 agli scolari dagli 8 ai 12 anni. Il tutto accompagnato da una fitta programmazione di apprendimento, intrattenimento, orientamento attraverso la messa in onda di documentari, film, opere teatrali, su argomenti funzionali ai temi scolastici.

Domanda: come mai la Rai, a cui paghiamo il canone come servizio pubblico, sull’esempio francese, non dedica uno dei suoi numerosi canali del digitale terrestre (ne abbiamo contati 14, ma forse ce ne sfugge qualcuno) al sostegno didattico dei milioni di studenti di ogni ordine e grado che non sanno se e quando potranno riprendere le lezioni? E se a Viale Mazzini e dintorni si fossero distratti potrebbe il ministro dell’Istruzione intervenire (sempre che lo ritenga opportuno) sul servizio pubblico per studiare un ciclo di lezioni dal vivo? Che, non è difficile immaginare, riscuoterebbero l’apprezzamento di famiglie e studenti, ma forse anche degli insegnanti in parte sgravati dal peso di un ritardo didattico che con il passare dei giorni può diventare incolmabile? Sinceramente Ministro, le sembra una proposta stravagante? Grazie.

Sala, la toppa è peggio del buco

Infine Beppe Sala si è scusato. Il sindaco di Milano, a 26 giorni di distanza, si è reso conto che i suoi primi messaggi sull’emergenza Coronavirus erano stati leggermente fuorvianti. Il problema è che le scuse di Sala sembrano vagamente autoassolutorie: “Il 27 febbraio – scrive il sindaco – in Rete circolava il video #milanononsiferma: forse ho sbagliato a rilanciarlo, ma in quel momento nessuno aveva compreso la veemenza del virus”. Sala anzi contrattacca: “Accetto le critiche, ma non tollero che qualcuno possa ancora marciarci su per scopi politici”. Oggi che siamo a fine marzo, sembra passata almeno un’era geologica da quando Sala – sguardo piacione e vestito elegante – si faceva fotografare mentre prendeva l’aperitivo con Alessandro Cattelan. Quella foto è invecchiata male e le scuse del sindaco sembrano scarsette, macchiate pure da una contraddizione palese. Com’è possibile che il 27 febbraio Sala non avesse capito quanto fosse grave la situazione, se lui stesso aveva chiesto la chiusura di tutte le scuole e le università di Milano appena quattro giorni prima, il 23 fabbraio? E visto che pure lo storico Salone del Mobile milanese aveva annunciato il rinvio due giorni prima, il 23 febbraio? Mistero.

“Piango sempre e non vedo neanche un film”

Film, libri, musica, inutile domandarlo ad Alessandro Haber: “Non ho la testa, penso solo al coronavirus. Magari ci provo, ma dopo pochi minuti mi arrendo, voglio accendere la tv e sapere”.

Tutto il giorno.

Non sono preoccupato per me, la mia vita l’ho fatta, sono del 1947; penso alle generazioni successive, a mia figlia (resta zitto).

Sta bene?

È impensabile: uno poteva prevedere una guerra, una bomba, un’alluvione, non l’azzeramento per colpa di un virus.

Quindi…

Noi artisti viviamo sospesi, navighiamo su un’altra realtà, siamo parte di un circo, dove basta indossare una maschera per mutare prospettiva e fuggire.

Adesso, no.

E non sto pensando al lavoro e per me era un’ossessione: sto in casa oppresso da questa clausura.

E…

Sto ripercorrendo la mia vita, la mia storia, penso a mia madre, a Israele, l’infanzia; mi sono tornate in mente persone che non mettevo più a fuoco, situazioni in teoria secondarie, ma che evidentemente dentro di me hanno scavato.

Si commuove?

Molto, e piango quando in tv sento storie come quella del prete che si è lasciato morire per i fedeli, e mi domando se anche io sarei in grado.

Risposta?

Per mia figlia.

È solo in casa?

Sì, sono separato, e la piccola sta con la madre, e la stessa madre oramai la considero la mia seconda figlia.

Si cucina?

Io? Non sono capace, sopravvivo con scatolette, sughi già pronti, tonno, mozzarella; l’altro giorno mi hanno portato una lasagna, ci sono andato avanti tre giorni.

La sua ex, Giuliana De Sio, ha avuto il coronavirus…

L’ho sentita, è molto provata, per lei è stato un incubo feroce; se mi intubano non sono in grado di sopportarlo, e poi mi escono le lacrime per queste persone che se ne vanno senza un addio, nessun contatto, un gesto d’amore. Niente. Ma com’è possibile?

Li sente gli amici?

Sempre, in particolare Giovanni Veronesi e Nicola Guaglianone (cambia discorso) Sono disarmato: se uno affoga ti butti e lo salvi, qui se ti butti muori.

Insomma, nessun film.

La mia è una forma masochistica, mentre Giovanni (Veronesi) rifiuta tutto. E poi mi tocco di continuo la fronte, controllo se la tosse è secca o umida…

Ha sintomi?

No, ma il nemico è alle porte e il centrodestra dovrebbe stare zitto e buono, pensare alla vita e non cercare l’applauso.

Sesso?

La fantasia corre, ma come dicevo l’altro giorno a Stefano Bonaga, è un optional; (qui sorride) comunque è peggio per le coppie che stanno in casa: la ripetitività è mortale per l’eros.

In questo caso…

Meglio stare da soli.

Leggere con il gatto e resistere nel “confino” delle mura di casa

 

Che bello il giornale ad alta voce

Al mattino mio marito va in edicola a comperare il Fatto (io amo spudoratamente il cartaceo), facciamo colazione e poi, col gatto in grembo e spaparanzati in poltrona, leggo ad alta voce il giornale mentre loro ascoltano le ultime notizie in religioso silenzio. In questa quarantena abbiamo finalmente il tempo per leggere tutto ciò che pubblicate. Grazie al Fatto Quotidiano e a chi gli dà vita.

Anna Giulia Belletti

 

Lettera a mio nipote appena venuto al mondo

Caro mio nipotino, amore mio! Sei venuto al mondo da soli otto mesi e il mondo oggi sei costretto a guardarlo da dietro un vetro per colpa di qualcosa più grande di noi che ha messo a nudo la nostra fragilità. Tutti noi oggi, come te, siamo “prigionieri” nelle nostre case. Tutti noi oggi, come te, siamo privati della nostra libertà e dei nostri affetti costretti a viverli a distanza. Tutti noi oggi, come te, guardiamo il mondo da dietro un vetro. Ma sappi, amore mio, che il mondo non è così. Il mondo fuori è bellissimo e ti aspetta per darti quello che oggi ti viene negato: è un tuo diritto che hai acquisito dalla nascita. Tranquillo, mamma e papà sono lì con te. Cercano in tutti i modi, ritornando bambini, di non farti avvertire il brutto momento. I nonni ti aspettano per darti il loro amore. Da grande ti parleranno di oggi, ti parleranno delle paure , ma ti parleranno anche della grande speranza: la vita! Io nel mio piccolo farò di tutto per assicurarti un mondo migliore. Oggi col cuore spezzato e qualche lacrima lo faccio stando a casa per farti uscire domani. Sì, amore mio, domani è e deve essere vicino! Io, gli altri nonni, la tua cuginetta che ti adora, la tua zia ti daremo tutto l’amore di questo mondo. Correremo ad aprire quella finestra oggi chiusa. Impazziremo e piangeremo di gioia tutti insieme: è quello che ci spetta! In quell’abbraccio idealmente abbracceremo tutti i bambini del mondo: siete il nostro futuro e la nostra speranza! Ti voglio un mondo di bene.

Tuo nonno Mariano

 

Una poesia per il tempo sospeso

Tempo sospeso

a cercare di sé.

Dentro abissi di vuoto

ovattato di nebbia,

come in questo mattino.

E rincorro domande

così sterili e strane.

E reinvento la vita.

A partire, io credo

da preziosi, trascurabili

imprescindibili e chiari

minutissimi dettagli.

Ornella Franzosi

 

Una sfida tremenda per tornare migliori

Piena emergenza è vero, ma ce la faremo! In questo mondo surreale, dove nessuno pensava di ritrovarsi, i risvolti positivi sono diversi, e vanno ricercati soprattutto nelle quattro mura di casa, dove siamo confinati non per scelta, ma per necessità. Ebbene, non tutti i mali vengono per nuocere, dice un vecchio proverbio, e non possiamo che prenderne atto, visto che il momento quasi ce lo impone. Il ritrovarsi sui balconi, cantando inni che conosciamo, andando a cercare con lo sguardo le facce, i sorrisi nascosti fino a ieri, mostrando bandiere, pur di apparire, per quella voglia di abbracciarci veramente, e non solo in modo metaforico. Mettere una pietra sopra, per qualche diverbio innocente, diventa quasi scontato. Persone, che in tempi non sospetti avremmo evitato, e ora con un cuore grande, andiamo a cercare per chiedere scusa, sì perché anche le scuse fanno parte del nostro essere, del nostro vivere. Sì, perché è nella paura che si va a cercare l’altro, quello che prima era invisibile, e ora una cosa preziosa, da conservare. Chissà se tutto questo ci servirà per avere più rispetto del prossimo, ed essere più tolleranti… pensiamo proprio di sì. Il momento ce lo suggerisce, quasi ce lo impone. Coraggio, ce la faremo, tutti insieme, e la nuova vita più bella ci aspetta là fuori.

Claudio Orlandi

Nella tragedia la tv dà il meglio di sé

Cambierà la politica (forse), magari cambieranno le nostre abitudini, ma cambierà l’informazione dopo la catastrofe? Chissà. Però gli effetti del Coronavirus sulla nostra tv finora sono stati terapeutici. Da un mese è cambiato tutto: scomparsi gli stucchevoli (Rai3 in primis) pastoni politici, scomparsi i leader e i loro supporter, ministri col contagocce e giusto quelli della materia, azzerate le giornaliere dichiarazioni fotocopia ai microfoni. La parola è andata a chi aveva davvero qualcosa da dire. Insomma siamo ai reportage di guerra, al racconto drammatico dal fronte, delle vittime e dei superstiti, delle preoccupazioni e delle speranze. Soprattutto delle persone.

Che la politica nei notiziari del Paese abbia da sempre avuto un peso ipertrofico ce lo dicono le statistiche (e il confronto con gli altri Paesi). A gennaio (secondo Agcom) il dato è spaventoso: quasi il 95% del tempo di notizia dei telegiornali è stato dedicato a soggetti politici o istituzionali. Ciò sia in Rai, sia a Mediaset, a La7 e a Sky! A dicembre, con le feste di Natale in mezzo, idem.

Andando a ritroso ancora, il quadro non cambia: forse solo qualche (qualche) punto in meno. Se non c’è un errore allora bisogna chiedersi come sia accaduto che la realtà, tutta la realtà del Paese, sia stata ridotta dall’informazione pubblica e privata alle notizie sui partiti, sui loro esponenti e leader, sul governo, i capi di stato, le amministrazioni locali, mentre tutto il resto è stato come non esistesse. Cronaca, economia, sindacati, informazione, professioni, scienza, cultura, spettacolo, giustizia, religione valgono nei tg meno di niente. In Rai a gennaio fanno tutti insieme poco più del 5% della notizia, il 4,90 a Mediaset, il 5,4% a La7, il 4,90 a Sky. Sergio Saviane nei giorni terribili del Vajont scriveva che finalmente i ministri avevano “ceduto il passo alle notizie” . Placido che la tv dà il meglio di sé nelle catastrofi.

C’è voluta una tragedia come quella che stiamo vivendo per sconvolgere il teatrino nauseante dei nostri notiziari, per disintossicarli dalla politica politicienne. Che però resta lì, in agguato, pronta a riprendersi, appena potrà, quanto il virus le ha tolto. A meno che il giornalismo, come la politica, non esca trasformato, e in meglio, da questi terribili giorni.