L’ultima ipotesi: trasferire Camera e Senato all’Eur

L’Eur non è Versailles. Ma il Parlamento per riprendere i suoi lavori a pieno regime potrebbe pure traslocare in una sala della Pallacorda del Terzo millennio. Ora in questo caso non c’è nessun re di Francia ad aver sbarrato le porte al Terzo Stato desideroso invece di riunirsi, ma è il Coronavirus a dettare l’agenda e pure la logistica agli inquilini di Palazzo. Specie ora che si è capito che l’emergenza durerà a lungo, che i decreti da convertire saranno tanti e che lo stato d’eccezione gestito dal governo con le due Camere semichiuse rischia di produrre un vulnus istituzionale. Ieri il premier Giuseppe Conte si è impegnato a riferire del suo operato ogni 15 giorni a partire da oggi alla ripresa dei lavori della Camera e domani sarà un’altra volta in Parlamento. E mentre la paura con buona pace delle mascherine, dei gel disinfettanti, i tamponi e i termoscanner tiene a casa i più, si fronteggiano due fazioni trasversali: nella prima si iscrive chi pensa che si possa scavallare l’emergenza anche con un Parlamento ridotto all’osso, nell’altra chi ritiene che per contenere il rischio ci voglia solo un’altra sede più spaziosa.

“Il Parlamento non può fermarsi mai perché è in gioco la sua funzione. E se questo richiede avere a disposizione spazi più ampi ben venga riunirsi altrove” spiega il senatore e tesoriere del Pd, Luigi Zanda che sul trasferimento degli inquilini da Montecitorio e Palazzo Madama non avrebbe alcun pregiudizio. Mentre ne ha, eccome, sull’ipotesi del voto a distanza oltre che “di un Parlamento che lavora poco”.

L’idea però non piace affatto ai suoi. “Anche perché – suggerisce una parlamentare dem assai autorevole – con la scusa di riunirsi in un’altra sede a qualcuno potrebbe balenare l’idea di mettere in discussione i costi di Camera e Senato e chiuderli per sempre”.

Insomma trasferirsi sarebbe “un rotolamento verso soluzioni bizzarre: in questo momento l’unica cosa da verificare è se c’è la possibilità di gestire ordinatamente i lavori”. Tradotto: senza la collaborazione dell’opposizione sarà ben difficile arrivare a un accordo, che consenta di varare il decreto sul Covid-19 limitando al minimo le presenze degli eletti, molti dei quali provenienti dalle zone più interessate dal contagio, come è successo per il voto sullo scostamento di bilancio. Proprio per questo sono al lavoro gli sherpa della maggioranza intenzionati a capire il gioco di Salvini&C. e vedere se vogliono davvero solo ottenere un miglioramento del testo oppure chiedono che il Parlamento torni a lavorare a pieni ranghi solo per creare un inciampo, facendo la leva sulla paura del contagio che c’è nei Palazzi.

Per questo la questione logistica diventa centrale, anche se il trasloco del Parlamento non è uno scherzo. Lo conferma il questore anziano della Camera, il forzista Gregorio Fontana reduce dalla quarantena imposta dopo che il suo collega di FdI Edmondo Cirielli era risultato positivo: “Si tratterebbe di allestire una sede mobilitando tante persone in questa operazione di trasloco di parlamentari e dipendenti in un momento in cui si cerca di contenere al minimo gli spostamenti”.

Eppure l’ipotesi circola con insistenza: a sdoganare l’idea anche l’ex presidente della Camera Laura Boldrini che ha proposto il Palazzo dei Congressi, ma c’è pure che parla della Nuova Fiera di Roma, come l’azzurro Andrea Cangini. In molti ora ci credono, anche se il primo a lanciare l’idea del trasloco è stato Gaetano Quagliariello. “All’inizio sembrava una stravaganza, ma poi è stato compreso il senso della mia proposta: ho avuto moltissimi messaggi e telefonate di miei colleghi. Perché o ci si rassegna a un Parlamento ridotto essenzialmente al ruolo di passacarte oppure bisogna trovare un posto per riunirci solennemente, fattivamente e a ranghi completi”. Nel frattempo si va avanti come si può: ieri alla Camera si è deciso che per votare il decreto sul cuneo fiscale, il 31 marzo, non ci sarà voto elettronico, ma ogni deputato sfilerà davanti alla presidenza evitando contatti con i colleghi.

L’Italia finora ha stanziato pochi soldi: i numeri nell’Ue

Il Pil è “in forte contrazione” a marzo e così sarà pure il mese prossimo. Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, parlando in Parlamento a proposito del decreto che stanzia i primi fondi anti-crisi, l’ha messa così: il primo semestre del 2020 vedrà una “elevata contrazione del Pil”, il che porterebbe “nel 2020 a un calo di qualche punto percentuale, grave ma gestibile e recuperabile”, anche considerando l’arrivo ad aprile di un secondo decreto anti-crisi. Forse il ministro pecca di ottimismo, se si guardano le previsioni che già circolano. A mero titolo di esempio, Goldman Sachs ieri ha stimato in -11,6% il calo del Pil in Italia nel 2020, il dato peggiore dell’Eurozona (-9% in totale) e un tracollo visto raramente in tempo di pace. La risposta degli Stati, anche stavolta, sarà il fattore decisivo di risposta alla crisi, per questo abbiamo fatto un piccolo riassunto di quanto deciso finora da alcuni Paesi europei.

Italia. Ha varato misure pari al 2,3% del Pil: 25 miliardi di maggiore indebitamento e altri 17 attraverso Cassa depositi e prestiti (Cdp). Il sostegno al credito e alla liquidità di aziende ed enti locali nel decreto “Cura Italia” è pari a circa 5,8 miliardi. Il resto è dedicato al supporto diretto di imprese e lavoratori. Inoltre, Cdp ha approvato un plafond da 7 miliardi per facilitare l’accesso al credito e garanzie di nuovi finanziamenti per 10 miliardi. Ad aprile sarà promulgato un nuovo decreto per dare linfa all’economia: la dimensione di quell’intervento non è nota, ma le cifre italiane ad oggi impallidiscono se confrontate con quelle degli altri Paesi.

Germania. L’intervento ammonta al 22% del Pil. Il governo ha annunciato un indebitamento aggiuntivo da 156 miliardi di euro per finanziare un piano di spesa pubblica, abbondando così il dogma de pareggio di bilancio. Il sistema ospedaliero riceverà 3 miliardi, mentre piccole imprese e liberi professionisti otterranno sovvenzioni da 9mila a 15mila euro in tre mesi. Sarà più facile accedere ai sussidi del programma Hartz IV. Sarà poi costituito un fondo di stabilizzazione economica (WSF) da 100 miliardi, che potrà acquisire partecipazioni dirette nelle imprese ed estendere fino a 400 miliardi le garanzie statali con cui sottoscrivere debito delle società colpite dalla crisi. È previsto anche un prestito fino a 100 miliardi alla banca statale KfW, che ha la possibilità di estendere liquidità illimitata alle imprese. Una potenza di fuoco totale da oltre 750 miliardi.

Regno Unito. Le misure di cui a oggi si conoscono le cifre sono pari a circa il 16% del Pil. Il governo di Boris Johnson ha annunciato 330 miliardi di sterline in garanzie statali e prestiti governativi e 20 miliardi di ulteriore sostegno diretto. Ma la mossa più radicale è la decisione di pagare fino all’80% dello stipendio dei lavoratori dipendenti licenziati: una scelta letteralmente senza precedenti, di cui il Tesoro britannico si è finora rifiutato di quantificare il costo.

Francia. Il pacchetto di emergenza elaborato dal governo porterà, secondo il ministro del Bilancio Darmanin, il deficit al 3,9% da un programmato 2,2%. Il governo offrirà 45 miliardi di euro in misure di sostegno diretto, fra cui 32 miliardi per sgravi fiscali e 8,5 per pagamenti ai lavoratori licenziati. Saranno poi estesi prestiti governativi per 300 miliardi. E il ministro delle Finanze Bruno Le Maire non ha escluso la possibilità di nazionalizzare grandi imprese.

Spagna. Madrid ha attivato un piano statale pari al 9,4% del Pil, che include 100 miliardi di prestiti e garanzie statali (soprattutto per le piccole e medie imprese) e 17 miliardi di altre misure: la mobilitazione di risorse più grande nella storia democratica del Paese.

Mes, solo “carità” condizionata

Lo scenario era previsto e d’altronde le avvisaglie c’erano state già alla vigilia. Dopo due ore di discussione l’Eurogruppo, la riunione dei ministri delle Finanze dell’Eurozona, si chiude senza un accordo sull’utilizzo del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità (l’ex Fondo salva-Stati). La palla passa Consiglio europeo di domani. E non è una buona notizia per l’Italia.

Il vertice si chiude senza neanche una dichiarazione congiunta. La linea del governo giallorosa non passa. Il mandato molto informale affidato a Roberto Gualtieri, seppure neanche mai in Parlamento, era quello già esplicitato dal premier Giuseppe Conte: usare i fondi del Mes, che ha una capienza residua (molto teorica) di 410 miliardi, senza “condizionalità presente e futura”, permettendo a tutti i Paesi di accedervi. L’attuale statuto del Mes vincola l’uso delle linee di credito a precise “condizionalità”, cioè l’obbligo a firmare un Memorandum che prevede impegni inderogabili a eseguire un programma di “aggiustamento strutturale” (sul modello già visto in Grecia). Lo strumento a cui tutti possono accedere sono le Eccl, Enhanced credit lines, “linee di credito a condizioni rafforzate”.

Per evitare le condizionalità servirebbe uno strumento nuovo. Per questo l’Italia, sostenuta dalla Spagna e, seppure con qualche ambiguità dalla Francia, ha proposto che il Mes emetta i “corona bond” per finanziare le spese necessarie a fronteggiare la crisi economica. I Paesi del blocco nordico sono contrari. Merkel è riluttante, l’asse di quelli inflessibili riuniti intorno all’Olanda chiede che ci siano precise condizionalità. “C’è un ampio sostegno all’Eurogruppo per gli strumenti esistenti del Mes, ad esempio le Enhanced credit lines, con condizionalità vincolate all’emergenza Coronavirus nel breve termine, e nel lungo termine di tornare alla stabilità”, ha detto al termine del vertice il presidente dell’Eurogruppo, Mario Centeno. Tradotto: niente paletti finché c’è l’emergenza, ma dopo i Paesi che fanno richiesta di aiuto devono mettersi sotto la tutela del Mes e rispettare un piano di rientro. Il gran capo del fondo salva-Stati, Klaus Regling, è stato ancora più esplicito: “Le Eccl sono lo strumento adatto. Tramite queste ogni Paese potrà avere un aiuto pari al 2% del suo Pil”, che per l’Italia equivale a un massimo di 36 miliardi, a fronte di una crisi che secondo Gualtieri causerà “un’elevata contrazione del Prodotto interno lordo”, un calo a doppia cifra che equivale a centinaia di miliardi persi. Anche il ministro francese Bruno Le Maire ha confermato che “c’è una convergenza di vedute sul ricorso al Mes”. Il ricorso ai coronabond “potrebbe essere utile per il lungo periodo”. Per ora, ai Paesi con alto debito resta solo il Mes.

Questa linea, ca va sans dire, non è quella italiana e non ha una maggioranza in Parlamento. M5S, Lega, LeU e Fdi sono contrari, e perfino Pd e Forza Italia avrebbero difficoltà a sostenerla. “Il Mes non è lo strumento adatto, serve un intervento forte della Bce”, ha ribadito ieri Luigi Di Maio.

Provenzano: “Aiutiamo i lavoratori in nero”. Dal centrodestra giù botte

Ci sono verità la cui evidenza acceca gli stolti. Il ministro del Sud, Giuseppe Provenzano, in un’intervista al Corriere della Sera, ha detto una verità elementare: “Se la crisi si prolunga dobbiamo prendere misure universalistiche per raggiungere anche le fasce sociali più vulnerabili: le famiglie numerose, oltre a chi lavorava in nero”. Già nel tempo imperfetto, “lavorava”, c’è una presa di distanza che comunque non oscura il senso della preoccupazione. La crisi che si annuncia sarà devastante e quella varia umanità che ancora è costretta al lavoro nero si troverà probabilmente travolta. A Matteo Salvini sono “cadute” le braccia. Proprio lui che si è messo alla testa di tutti i condoni possibili, colpi di spugna il cui costo si traduce in letti di ospedali al macero. Scandalo anche da Forza Italia e da tutto il variegato mondo liberal-liberista.

Provenzano non ha potuto che ricordare l’ovvio: “Spesso ci sono quote di lavoro irregolare anche nelle imprese regolari, penso alla filiera del turismo”. E poi invitando a non “mettere la testa sotto la sabbia”. “Se si prolunga la crisi – ha aggiunto – l’impatto economico e occupazionale potrebbe essere persino peggiore di quello della Grande recessione” e allora “avremo la necessità di rafforzare misure più universalistiche”. Una è l’estensione del Reddito di cittadinanza oltre a misure di sostegno alla produzione e al rilancio della domanda. Ne sta discutendo tutto il mondo, lavoro nero o meno.

Benzinai e industrie: il governo prova a evitare gli scioperi

Incontro lungo, chiuso a tarda sera, quello tra i sindacati e il governo, rappresentato dal ministero per lo Sviluppo economico, Stefano Patuanelli. Collegati in videoconferenza Cgil, Cisl e Uil hanno cercato per tutta la giornata di rivedere la lista dei lavori essenziali allegata al Dpcm varato dal governo il 23 marzo e che, secondo i sindacati, lascia al lavoro un numero eccessivo di persone. “Qualche aggiustamento si può fare” ha risposto Giuseppe Conte con un approccio di mediazione, ma non di modifica sostanziale. Anzi, da una parte i sindacati a tagliare la lista e dall’altra il governo ad allungarla, con nelle orecchie le preoccupazioni di Confindustria che non vuole che troppe imprese chiudano.

Ieri si è aggiunta anche la protesta dei distributori di benzina che accusano orari troppo lunghi e nessuna tutela da parte del governo, e che hanno annunciato uno sciopero a partire da oggi mercoledì 25, che la ministra ai Trasporti, Paola De Micheli, ha detto di poter scongiurare. “Noi, da soli, non siamo più nelle condizioni di assicurare né il necessario livello di sicurezza sanitaria né la sostenibilità economica del servizio”, hanno protestato i sindacati Faib Confesercenti, Fegica Cisl e Figisc/Anisa Confcommerci.

Tra gli accusati anche le concessionarie autostradali e compagnie petrolifere. I primi su richiesta del ministero, si dicono disponibili ad applicare misure provvisorie di sostegno come la sospensione del corrispettivo contrattuale da parte dei gestori di carburante e la gestione della pulizia dei piazzali.

Il Garante della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ha invitato le organizzazioni sindacali a revocare immediatamente l’astensione, ribadendo l’invito fino al 30 marzo, per tutte le organizzazioni sindacali, a non effettuare scioperi che coinvolgano i servizi pubblici essenziali.

Tornando a Cgil, Cisl e Uil, la loro richiesta al ministro Patuanelli è stata quella di ridurre ai livelli essenziali le attività, soprattutto intervenendo sulle varie derivazioni delle filiere produttive. Tra le produzioni oggetto delle richieste sindacali il settore industriale, quello meccanico, tessile, chimico, del settore della gomma plastica, degli accessori degli autoveicoli, del commercio all’ingrosso, dei cantieri edili. Ci si è chiesti anche se tutti i call center siano necessari così come se non occorra regolamentare alcuni servizi pubblici come poste, banche e le attività finanziarie. Un intervento dettagliato è stato quello del segretario Cgil, Maurizio Landini, che ha indicato nella genericità dei codici Ateco presi dal governo come riferimento dei settori di attività, un generatore di confusione: “Un messaggio che dobbiamo dare tutti assieme è che si sta discutendo di cosa tenere aperto fino al 3 aprile. Non di cosa chiudere da qui all’eternità”. La proposta, quindi, è stata quella di rivedere i codici, di “andare nel dettaglio rimodulando la tabella” e di fare attenzione ai particolari. “Alcune imprese – ha detto Landini a Patuanelli – stanno cambiando il loro codice Ateco per poter continuare a produrre. Non è possibile giustificarle”.

Altro problema è invece “aver introdotto nel decreto la deroga a livello territoriale per le aziende la cui attività è agganciata a quelle consentite, previa informazione e decisione prefettizia”. Sembra che solo a Brescia, nella giornata di lunedì, siano arrivate 600 richieste e a Milano più di mille. Quindi alla lista ufficiale si devono aggiungere migliaia di altre aziende pronte a tenere aperti i cancelli. Altra richiesta, fatta propria anche dalla Cisl, la limitazione delle attività aerospaziali e militari, in larga parte pubbliche. Si può sospendere per qualche giorno la produzione di armi o quella di nuovi sistemi, è stata l’obiezione sindacale.

Una questione sollevata dai metalmeccanici è quella dei cicli continui distinguendo tra la necessità di tenere aperte le attività di mantenimento e la produzione stessa. “Ad esempio – ha spiegato Landini – noi pretendiamo che a Bergamo la produzione di bombole di ossigeno continui e anzi si rafforzi, ma non la produzione di tubi”.

Durante la conferenza stampa del pomeriggio, Giuseppe Conte ha assicurato di voler ascoltare la voce dei sindacati augurandosi che nessuno voglia scioperare. Ma la proposta, appunto, è stata quella di “aggiustamenti”.

Dallo Zar al Sultano, gara di solidarietà per l’Italia. Manca solo l’amico Trump

Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, al Fatto Quotidiano conferma di aver scritto al Segretario della Difesa Usa Mark Esper, chiedendogli aiuti militari nella lotta contro il Covid-19. A renderlo noto era stata la Cnn. L’Italia ha chiesto attrezzature mediche come mascherine e ventilatori e che il contingente militare Usa in Italia fornisca personale medico e ospedali da campo. In quale misura, però, il Pentagono sia disponibile è tutto da vedere. Lunedì sera Mike Pompeo, in un tweet, ha detto quanto il Dipartimento di stato sia orgoglioso di lavorare con gli amici italiani. Rilanciando la notizia di qualche giorno fa di un ospedale da campo con otto posti per terapia intensiva a Cremona e il sostegno alle iniziative del Gemelli di Roma. Sono in allestimento anche presidi sanitari nelle basi militari, ma sull’arrivo degli arrivi richiesti, però, nulla si sa.

Questo mentre i più noti regimi del mondo (allo stato meno colpiti dalla pandemia) hanno fatto a gara a soccorrere il nostro Paese, che ha chiesto aiuto a tutti, con un’operazione congiunta tra Palazzo Chigi, Farnesina e Difesa. Dalla Cina ogni giorno arrivano vari tipi di aiuti, sabato sono arrivate dall’Egitto di Al Sisi 1,5 milioni di mascherine. E soprattutto Vladimir Putin, in una lunga telefonata con Giuseppe Conte, ci ha tenuto a mettersi in prima fila. Domenica sono atterrati nove aerei militari russi con ventilatori, mascherine e medici destinati alla Lombardia. Così il Cremlino dava notizia della telefonata con Conte: “Il presidente russo ha confermato la disponibilità a fornire il rapido aiuto necessario. In particolare strumenti di protezione personale, sistemi mobili Kamaz per la disinfezione dei veicoli e delle aree, strumenti medici e di altro tipo e l’invio di squadre di specialisti”.

Ieri un contingente di medici russi è arrivato a Bergamo, uno è atteso a Brescia. Una settimana fa anche il “Sultano” Erdogan aveva parlato con Conte, garantendo l’arrivo di 200 mila mascherine ferme ad Ankara (che però solo in parte sono state sbloccate). Ma ieri sera è arrivata a Bari la prima donazione della Croce Rossa turca a quella italiana con alcuni dispositivi di protezione medica.

Tutto questo attivismo di alcuni tra i regimi meno democratici del mondo, qualche conseguenza geopolitica potrebbe portarla. Potrebbe trasformarsi in un conto da presentare. E non è un caso se il governo ha sollecitato gli alleati Usa a fare la loro parte.

Alcuni aiuti da Germania e Francia sono arrivati nei giorni scorsi, ma non troppo pubblicizzati, visto che Macron e Merkel devono prima pensare ai loro di malati.

Ma dopo la mobilitazione di Putin&c., lunedì la Cancelliera ha mandato 3 milioni e mezzo di mascherine e 350 ventilatori lunedì. E la Germania ha iniziato ad accogliere malati italiani. Ancora. Ieri la Ue ha annunciato un bando per un appalto congiunto grazie al quale potrebbero arrivare tra due settimane le maschere facciali e chirurgiche, i guanti, gli occhiali e le tute protettive per i 25 Paesi Ue che hanno partecipato all’acquisto congiunto.

Contagi alle stelle e 25 morti. I medici: “Scudo penale, oppure non operiamo più”

Un altro picco. Medici e infermieri contagiati continuano ad aumentare. Ieri sono saliti a 5.760, più 549 rispetto al giorno precedente. Un balzo del 10,5% in ventiquattr’ore. Nel solo Lazio si contavano ieri altri 51 camici bianchi infettati, tra ospedalieri, medici di famiglia e del 118. Di questi circa otto del reparto di oculistica dell’ospedale Sant’Eugenio di Roma: tutti positivi insieme a una decina di infermieri, il reparto è stato chiuso. Ora alcuni sono ricoverati allo Spallanzani, altri in isolamento a casa. E si allunga l’elenco dei morti, aggiornato quotidianamente dalla Federazione degli Ordini dei medici: 25 vittime. L’ultima di questo drammatico bollettino di guerra si chiamava Domenico De Gilio, aveva 66 anni ed era medico di medicina generale a Lecco.

Il fatto è che la percentuale di operatori sanitari infettati, sul totale dei contagiati, è più del doppio di quella del resto del mondo: 8,9% (contro un 4% circa), con punte del 13% a Roma e del 12% in Lombardia. Numeri impressionanti che, a fronte della carenza degli adeguati dispositivi di protezione individuale, potrebbero indurre molti medici a rifiutarsi di andare al lavoro. La minaccia è già arrivata in Piemonte dagli operatori del 118. Hanno scritto a Chiara Rivetti, segreteria regionale dell’Anaoo (il sindacato dei medici dirigenti); hanno spiegato che se continueranno a mancare le mascherine filtranti non assicureranno tutte le prestazioni d’urgenza. “Anche se adesso, dopo le diffide e gli esposti che abbiamo fatto, una prima scorta è arrivata – dice Rivetti –. Ma basterà per due o tre giorni e non di più”. Un problema che si aggiunge alla contestata disposizione che impone ai medici e agli infermieri venuti in contatto con un paziente a rischio o infettato di tornare in corsia se asintomatici.

Ieri la Regione Emilia-Romagna ha alzato il tiro con una direttiva che dà il via libera al rientro in ospedale del personale sanitario asintomatico anche se positivo, provocando una levata di scudi. Solo il rapido dietrofront del commissario ad acta Sergio Venturi, ex assessore regionale alla Salute (“Sicurezza prima di tutto, faremo chiarezza”, ha detto), ha evitato in extremis una sollevazione. Intanto emergono altre falle nei decreti sull’emergenza sanitaria approvati fino ad ora. Come quella che, secondo il personale medico, è stata aperta dall’articolo 34 del decreto del 2 marzo scorso, che consente di “fare ricorso alle mascherine chirurgiche quale dispositivo idoneo a proteggere” gli operatori sanitari. “Norma ambigua – osserva ora il segretario nazionale dell’Anaao Carlo Palermo –, con la quale il governo ha cambiato direzione.

La situazione non è più sostenibile, c’è il rischio, in queste condizioni, che qualcuno possa anche rifiutarsi di operare. C’è stata fin da subito una sottovalutazione dell’epidemia, nessuno era preparato ad affrontare un problema di questa portata. Bisogna intervenire subito”.

Ma c’è un’altra questione che sta venendo a galla. Molti medici impegnati in reparti non Covid in questi giorni vengono precettati per aiutare i colleghi in prima linea, perché manca personale. Ortopedici, chirurghi, pediatri. Si ritrovano a trattare pazienti che richiedono invece infettivologi, pneumologi, anestesisti. Nessuno può rifiutarsi: è stabilito dalla legge e dallo stesso codice deontologico dei medici. Ma che succede se qualcuno commette un errore mentre sta prestando cure a un paziente? Certo, i medici sono assicurati. Ma non è detto che in ambito civilistico possano vedersi riconosciuta la copertura. “Così – dice Palermo –, prima vengono mandati allo sbaraglio, poi rischiano di pagare di tasca propria il risarcimento dei danni”.

Mascherine, l’Italia fa da sé ma autosufficienza lontana

La conferenza stampa del commissario straordinario per l’emergenza, Domenico Arcuri, viene indetta di mattina. Niente streaming, dieci giornalisti in sala. Chi si aspettava che il presidente di Invitalia, incaricato di gestire la partita degli approvvigionamenti – dalle mascherine ai ventilatori – intervenisse in diretta alle 18 col capo dipartimento della Protezione Civile, Angelo Borrelli, resta deluso. La sensazione è che quel concertamento auspicato dal maxi-decreto del premier Conte tra le due figure cardine di questo momento storico non ci sia.

Arcuri interviene da solo, annuncia che tra due giorni sarà avviato il lavoro di un consorzio di aziende del settore tessile incaricato di produrre 50 milioni di mascherine “in poco tempo”. L’annuncio c’è, ma le indicazioni sono per forza di cose vaghe anche quando i giornalisti chiedono più volte di definite meglio le tempistiche. Il fabbisogno mensile di mascherine, in Italia, resta di 90 milioni di pezzi. “Dobbiamo garantire la maggior dotazione possibile di dispositivi di protezione al personale sanitario – spiega Arcuri – e su questo devo essere molto chiaro: abbiamo avuto momenti molto difficili, l’Italia non produce mascherine e ventilatori in quantità congrua, solo una parte piccolissima rispetto al fabbisogno”. Gli altri Paesi si preparano ad affrontare i loro picchi “e dove hanno possibilità di produrre internamente, legittimamente se lo tengono per sé – continua Arcuri -. Le mascherine non sono come la pasta, non si vendono nei negozi e non si acquistano in Rete. Siamo dentro una guerra commerciale dura e complicata”. Secondo i numeri del commissario, nei giorni scorsi sono state distribuite 4,9 milioni di mascherine, di cui 1,5 milioni Ffp2 e Ffp3. La media è di 1,8 milioni al giorno. Bastano due conti rapidi per capire che non sono abbastanza. La strategia, in pratica è questa: il consorzio di imprese, a regime, potrebbe produrne 50 milioni al mese e, mentre si inizia, si spera che altre aziende convertano la propria linea di produzione originaria in mascherine (ma anche ventilatori e tutto ciò che serve) utilizzando il fondo da 50 milioni per gli incentivi stanziato dal governo e gestito da Invitalia. Parallelamente, si dovrebbe riuscire ad assicurarsi le forniture dall’estero. Dal 29 marzo dalla Cina dovrebbero essere importate 8 milioni di mascherine Ffp2 ed Ffp3 a settimana (per 8 settimane) e 6 milioni di chirurgiche. Altre saranno recuperate con aerei italiani da chiunque possa metterle a disposizione.

Intanto, da ogni parte d’Italia, arrivano segnalazioni di personale ospedaliero preoccupato per la non adeguatezza e l’insufficienza dei dispositivi di protezione. La situazione va avanti da tempo. Le gare Consip delle scorse settimane non sono riuscite a raccogliere le mascherine necessarie, tanto che sia per il lotto Ffp2 che per quello Ffp3 sono state riaperte. Dopo qualche giorno, è stata riaperta anche quella delle mascherine chirurgiche: la centrale di acquisti della Pa ne cerca 16 milioni (parallelamente sia la Protezione Civile che il commissario che le Regioni possono rifornirsi autonomamente) perché la gara precedente, che era stata considerata chiusa con 24 milioni di pezzi, è risultata invece non conclusa. Una delle aziende aggiudicatarie è stata depennata senza motivi apparenti ed era stato un articolo di Open a raccontare le stranezze dell’impresa, specializzata in prodotti agricoli e con un background non proprio pulito (l’ex proprietario sotto inchiesta per traffico di influenze e noto alle cronache per essere stato taglieggiato dalla ex moglie di un giocatore, nonché il passaggio di proprietà a ridosso dell’assegnazione dell’appalto) mentre il sito Insanitas aveva ipotizzato che le mascherine utilizzate in conferenza stampa dal ministro Boccia e di cui si era lamentato il governatore siciliano Musumeci, origine di molte polemiche, in realtà fossero arrivate proprio dall’accettazione di un ordine sbagliato di Consip che, contattata, ha smentito non fornendo però ulteriori dettagli sulla dinamica della gara. Nell’emergenza, infatti, il rischio è che le aziende – soprattutto di fronte alla prospettiva di incentivi a fondo perduto – dichiarino capacità di produzione e disponibilità che non hanno.

L’ultimo decreto prevede che Iss e Inail verifichino la conformità alle norme. Inoltre, dovrebbe essere applicato il meccanismo di valutazione di Invitalia che prevede sia il soddisfacimento del requisito soggettivo di chi presenta domanda di accesso al fondo (quindi l’identità dell’impresa) sia si quello oggettivo, ovvero la serietà del business plan. Bisogna sperare basti.

Bertolaso positivo, Ceriscioli & C.: isolamento

Ieri Guido Bertolaso è tornato a casa dopo un viaggio in elicottero ad Ancona per assumere l’incarico di consulente, a due settimane dal sodalizio col lombardo Attilio Fontana, anche del governatore marchigiano Luca Ceriscioli con il compito di allestire un reparto da 100 posti di terapia intensiva.

Al ritorno, però, l’ex capo della Protezione Civile nonché sottosegretario nell’ultimo esecutivo di Berlusconi, ha scoperto la positività al Covid-19: “Quando ho accettato questo incarico sapevo quali fossero i rischi a cui andavo incontro, ma non potevo non rispondere alla chiamata per il mio Paese. Ho qualche linea di febbre, nessun altro sintomo al momento. Sia io che i miei collaboratori più stretti siamo in isolamento e rispetteremo il periodo di quarantena. Continuerò a seguire i lavori dell’ospedale Fiera e coordinerò i lavori nelle Marche. Vincerò anche questa battaglia”, ha scritto su Facebook. Il governatore Ceriscioli, il presidente del consiglio regionale, i vertici dell’autorità portuale e pure il direttore generale degli ospedali riuniti di Ancona sono finiti in quarantena e saranno sottoposti al tampone nel momento in cui il sistema sanitario regionale è più che stressato con 2.736 contagiati accertati, vale a dire uno ogni 500 abitanti circa, e 231 deceduti. Ceriscioli è in scadenza di mandato, le elezioni sono slittate, il Pd non ha intenzione di sostenere la sua candidatura e perciò potrebbe terminare la sua esperienza nel pieno del ciclone e lo fa con scelte in netto contrasto col governo e in ultimo arruolando (a titolo gratuito) Bertolaso. Ancora ieri, nonostante gli oggettivi impedimenti di Bertolaso, Ceriscioli ha confermato il progetto da completare in meno di un mese con il contribuito di 12 milioni perlopiù donazioni private da cercare: “Ho sentito Bertolaso, andiamo avanti”.

Attilio Fontana, dopo la quarantena per i contatti con una segretaria col coronavirus, ha detto che non vuole sparire per altre due settimane né ha necessità di farlo perché domenica scorsa, munito di mascherina, si è intrattenuto pochi minuti con l’ex capo della Protezione Civile. Il governatore lombardo, invece, si pone un problema pratico, se proseguire “da remoto” con Bertolaso o trovare un sostituito per non rallentare il piano per il nuovo centro di cura alla Fiera di Milano: “Ha espresso la sua volontà di mollare, ma bisogna capire se ciò è possibile”, ha dichiarato con estrema onestà il leghista Fontana.

Giulio Gallera, invece, l’assessore alla Sanità di Forza Italia, partito fautore del ritorno di San Guido, ha escluso di fatto che la Lombardia possa privarsi di Bertolaso: “Oltre qualche linea di febbre, sta bene. È uno stimolo a lavorare di più, lui lo fa in maniera incessante e sente il dovere morale di portare a termine questo lavoro. Gli siamo vicini, ma non ne ha bisogno visto che ci chiama in continuazione: lavoriamo tutti insieme per uscire da questo momento difficile”.

Il dramma Brescia, la fila delle bare e 75 morti in 24 ore

Una decina di bare in fila, portate dagli obitori degli ospedali al cimitero monumentale Vantiniano di Brescia, e il vescovo Pierantonio Tremolada impegnato nella benedizione dei feretri. Con quest’immagine comincia la giornata-calvario nella provincia lombarda che ieri subisce un’altra terribile ondata della pandemia: i casi accertati salgono a 6.298, l’ultimo bollettino registra una crescita di 393 contagiati; in provincia di Bergamo 257 (6.728 totali). Se per i cristiani c’è il prete con l’acqua-santa tra le bare al cimitero, il dramma bresciano è anche la famiglia musulmana di Pisogne, otto mila anime nell’Alto Sebino, costretta a tenere da una settimana una donna morta in casa, perché nel capoluogo non sono più possibili sepolture. Settantacinque sono stati i morti nelle ultime ventiquattr’ore, 887 dall’arrivo qui di questo dramma planetario.

Si muore nei nosocomi e in casa come la donna di Pisogne. “Noi siamo molto concentrati sulla sanità ospedaliera ma tante persone devono capire come sopravvivere tra le mure della propria abitazione. I bresciani ci chiedono: perché non ci fanno il tampone? Hanno paura di crepare in casa – si sfoga così la vicesindaca Laura Castelletti – E molti rimangono in casa perché hanno capito che bisogna andare negli ospedali solo quando è necessario, però tanti sono ammalati” e muoiono. “Anche i medici di base sono esposti, molti curano da casa perché sono a loro volta ammalati”, la Regione Lombardia “deve parlare al territorio: dobbiamo spiegare alle persone come si devono comportare, dargli risposte”.

Molte domande dalla politica che, in pieno cortocircuito, risposte non ne trova. “Perché il Veneto non prende i pazienti della Lombardia, nonostante l’enorme differenza di numeri?”. A sollevare la questione è il deputato del Pd, Alfredo Bazoli, bresciano, in genere tutt’altro che barricadero: “Leggo che alcuni pazienti di Covid sono in partenza dalla Lombardia per Lipsia. Così come leggo di ong americane che installano ospedali da campo a Cremona, di medici provenienti da Cuba, di aiuti dalla Russia. Ma non sono ancora riuscito a farmi spiegare da nessuno, nonostante chieda da giorni, come sia possibile che mentre riceviamo aiuti da mezzo mondo non siamo in grado di sfruttare i letti di terapia intensiva di ospedali a mezz’ora di macchina da Brescia, come a Verona, dove per fortuna l’epidemia non è esplosa come da noi, e i posti sono ancora per una parte rilevante non utilizzati”. Il punto, denuncia Bazoli, è che “a Brescia e Bergamo si muore per la saturazione dei posti, e in Veneto sono ancora liberi due terzi dei letti di terapia intensiva”. E in effetti se in Lombardia i ricoverati in terapia intensiva sono 1.194, in Veneto sono 304. Per un totale di 825 posti (tra pubblici e privati) disponibili in terapia intensiva, tra quelli esistenti (494) e quelli aggiuntivi che stanno facendo (331), predisposti nel piano di emergenza del governatore, Luca Zaia. E non è un caso che proprio Zaia ieri sia intervenuto così: “In generale in Veneto non siamo in sofferenza sulle terapie intensive. Siamo molto preoccupati rispetto al focolaio veronese”.

Ma una risposta indiretta all’onorevole Bazoli la fornisce, in realtà, proprio da Brescia il direttore generale degli Spedali Civili Gianmarco Trivelli: “Sì, siamo ancora in sofferenza come posti letto in terapia intensiva, ma non sarebbe così semplice spostare pazienti di quel reparto in altri luoghi, per la tutela del paziente stesso e perché stiamo parlando di una malattia, il Covid-19, altamente infettiva. Spostare un paziente di Covid-19 è spostare un portatore di contagio. Senza contare che a Verona adesso sono loro a temere l’arrivo di una ondata che potrebbe essere drammatica. Devono prepararsi al peggio, a quello che abbiamo vissuto noi. Qui siamo riusciti, con un grande sforzo a portare i posti letto in intensiva da 36 a 76, ne abbiamo ricavati 40 allargando spazi in tre aree prima destinate ad altro. Siamo arrivati a una punta di venti decessi giornalieri. Quello che ci manca ora sono i respiratori nei reparti. Domani dovrebbero arrivare medici cinesi a darci supporto, abbiamo convertito 4.000 operatori sanitari su Covid in tre settimane. Spero davvero che a Verona non arrivi l’ondata”.