Ventilatori, un mese di ritardi. “E se ne parlava da febbraio”

Sapevano dall’inizio di dover rafforzare le terapie intensive, fin “dai primi di febbraio” come dice il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità. Ma è passato un mese prima che il ministero della Salute avviasse l’acquisto di apparecchi ventilatori. Solo il 5 marzo la Protezione civile ha ricevuto l’indicazione di comprarne 2.325; solo il giorno dopo è partito il bando Consip per altri 5.000 macchine per la terapia intensiva e subintensiva (gli ormai noti caschi Cpap) ma le consegne non potevano essere immediate e infatti sono ancora in corso.

Il 5 marzo si contavano 148 morti e 3.858 contagiati, già 244 erano i ricoverati nelle terapie intensive lombarde che avevano allora circa 600 letti (ma ovviamente non solo per i malati Covid e comunque il 30 per cento dovrebbe rimanere libero). Il 3 marzo il Fatto titolava: “Lombardia: in 72 ore terapie intensive al collasso”. E i contagi aumentavano tra il 20 e il 28 per cento al giorno. L’Italia aveva in tutto 5.300 posti, la Germania ne ha 28 mila. Centinaia di persone, secondo testimonianze che sarà difficile smentire, sono morte in Lombardia e altrove per carenza di posti, perché si è costretti a intubare chi ha più chance di farcela. Era fin troppo nota, dagli studi sulla Cina, la gravità delle polmoniti interstiziali provocate dal virus Sars-Cov 2 – , evidenziata fin dal 12 gennaio dal ministero nelle linee guida per gli operatori sanitari – e di conseguenza il probabile sovraccarico delle rianimazioni. Infatti il professor Locatelli, presidente del Css, ieri l’ha spiegato ai colleghi dell’Ansa: dei ventilatori da comprare si era parlato subito nel Comitato scientifico che affianca il governo. “Dai primi di febbraio”, ha detto. “Da quando si è avuto dai modelli previsionali contezza di quello che avrebbe potuto essere, in funzione dell’indice di contagiosità, quello che si chiama ‘R con 0’”, ha sottolineato, “un secondo dopo si è cominciato a ragionare di acquisti di ventilatori, di dispositivi per la ventilazione non invasiva e di mascherine, non c’è stato un minimo di esitazione.” Hanno ragionato molto a lungo, dovranno spiegarlo il governo, i suoi consulenti e i dirigenti del ministero della Salute. Anche il bando per assumere medici e infermieri è arrivato solo il 6 marzo, quando tutti sapevano che mancava personale negli ospedali. Le mascherine, come sappiamo, erano state ordinate ma non sono arrivate dall’estero, con i risultati che abbiamo visto e il prezzo intollerabile pagato da medici e infermieri.

L’epidemia, intanto, prosegue il suo corso. Un alto numero di decessi, 743 in un giorno di cui 420 nella sola Lombardia, porta il bilancio a 6.820 morti in poco più di un mese e attenua l’ottimismo di lunedì, secondo giorno di minore incremento. Però, secondo gli esperti, i morti di ieri sono i contagiati di circa due settimane fa, quando il divieto di uscire di casa era appena entrato in vigore in Lombardia (9 marzo) e non ancora tutta Italia (è dell’11 marzo).

I contagi rilevati in Italia – che come ormai sappiamo sono solo una parte del totale, da metà a un decimo a seconda delle stime e tenendo conto degli asintomatici e di migliaia di tamponi non fatti per i ritardi delle Asl – sono 69.176 , cioè 5.249 in più rispetto a lunedì per un incremento dell’8,21 per cento contro l’8,1 per cento di lunedì. Non ci sono brutte notizie dal Centro Sud. Diminuisce ancora il numero degli attualmente positivi, cioè al netto di morti e guariti: sono 54.030, con un incremento di 3.612 che è inferiore a lunedì e a domenica. Gli analisti dicono che l’atteso picco potrebbe essere vicino. Fabrizio Nicastri, fisico dell’Istituto di astrofisica (Inaf) che si concentra sui decessi perché ritiene inaffidabili i dati sui contagi, lo vede attorno al 29 marzo. Giovanni Sebastiani, matematico del Cnr e analizza anche i dati locali, vede una sessantina di province (su 107) oltre il picco. È chiaro che si continuerà a contare morti e contagi anche dopo il picco. Ci vorrà tempo prima di riavvicinarci alla normalità.

Termoscan, mascherine e QRCode: si torna alla vita

Da mezzanotte di ieri sera nella provincia dell’Hubei, in Cina, è tornata la libertà di movimento. Sono stati rimossi i blocchi agli spostamenti imposti due mesi fa dal Comitato locale di prevenzione e controllo: il “via libera” varrà per tutti i residenti possessori del “codice verde”, quindi senza rischi di contagio. La Cina sta vedendo risalire i nuovi casi di coronavirus: siamo a quota 78 (74 sono quelli “di ritorno”, importati dall’estero), di cui uno proprio a Wuhan, dopo 5 giorni di fila a quota zero. Un lento ritorno alla normalità è anche quanto racconta Stefano Cardinale, cittadino italiano di 34 anni, residente da qualche anno a Shanghai. Lavora per una azienda di Cesena che importa calandre (macchine utensili) e si occupa di risorse umane. “Qui a Shanghai c’è un controllo estremo e distopico, ma la città è sicura, si è azzerato tutto. Da questa settimana si riprende a lavorare e andare a mangiare fuori, correre, passeggiare. Restano chiuse solo palestre, sale da ballo e piscine. C’è ancora tanta, tantissima prevenzione. Un esempio: alla gelateria Grom si entra solo mostrando il codice QRcode dal cellulare (nella foto, ndr): registra spostamenti ed eventuali casi pericolosi. All’ingresso ti misurano la temperatura, ti chiedono il numero di telefono e di lavarti le mani con il gel ed infine non ci si può sedere. Senza mostrare il codice QR non entri da nessuna parte”.

Anche a Shanghai c’è stata la chiusura forzata di ogni attività: “Ho fatto un mese in smart working, ora sono tornato in ufficio. Siamo stati a casa per un mese: nelle due settimane di quarantena ogni condominio dava un tesserino ai residenti per entrare e uscire da casa, le uniche due volte che sono uscito c’era gente che faceva jogging e portava fuori il cane. Si usciva solo per buttare la spazzatura e prendere il cibo arrivato dal delivery: ogni condominio aveva creato una zona per ritirare la merce senza avere contatto con altri. I mezzi di prima necessità – trasporti, alimentari – non sono mai stati interrotti, ma qui le autorità hanno spinto per potenziare il delivery. A Shanghai senza mascherina non si va da nessuna parte: non entri nei negozi, in metro, in taxi o in un ufficio. Non capisco perché chi lavora in Italia non venga messo al sicuro almeno indossando la mascherina, e pretendendo che all’ingresso dei supermercati venga presa la temperatura corporea. Le mascherine anche qui sono state un problema: le prime settimane sui social si trovavano quelle arrivate dall’estero e rivendute a prezzi dopati. Poi, nelle comunità di quartiere, ne abbiamo avuto cinque per nucleo familiare”.

I giornali locali hanno evidenziato quali sono stati i principali cambiamenti dall’inizio della reclusione forzata: “Una delle conseguenze della quarantena è stata l’aumento esponenziale del numero dei divorzi. Inoltre gli stranieri e specialmente gli italiani sono visti come zombie, vai a spiegare che vivo qui da anni… Ora hanno riaperto pub, ristoranti, bar e si sta tornando alla normalità: la gente esce, va a correre, passeggia, la sera beve un drink in compagnia. Nei ristoranti hanno distanziato i tavoli, e reso obbligatorio gel disinfettanti e prova della temperatura. Ma le mascherine restano e anche tutta la prevenzione: da questo punto di vista ci si sente molto più sicuri qui”.

Modello Codogno: ora tracciare malati “strada per strada”

“Servono responsabilità condivise, ricette magiche non ce ne sono”. Il sindaco di Codogno, Francesco Passerini, per primo ha vissuto la devastazione di SarsCov2. A 33 giorni da quel 21 febbraio, la sua città ieri è arrivata al traguardo di zero nuovi contagi in 24 ore. Dopo Wuhan, ecco il modello Codogno per dare sostanza alle politiche di contenimento del virus. Perché oggi la vera e unica terapia possibile è il contenimento. Altro non c’è, né farmaci né vaccino. La ricerca prosegue, ma i morti aumentano. E in certe zone della Lombardia come Brescia si pensa a un controllo strada per strada, per tentare di scovare più infetti possibili e metterli in quarantena. Stile Wuhan insomma. Il governo italiano prevede distanze siderali per uscire dall’emergenza. Addirittura il 31 luglio come termine ultimo per poter ribadire le misure. “Sono date poco affidabili – spiega il professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano –, quello che è certo è che il tempo minimo è da qui alle prossime tre settimane”. Fissato il periodo la scommessa per ridurre i contagi è “il distanziamento sociale”. Questa, spiega Galli, “è la madre di tutte le battaglie”. In Lombardia, ma soprattutto nelle aree italiane dove il virus ha colpito meno.

Il sud, dunque. “Se qui i cittadini rispetteranno le distanze, il virus potrà essere sconfitto prima”. Ecco allora le “responsabilità condivise” evocate dal sindaco di Codogno. Con lui andiamo alla mattina del 21 febbraio, quando i Covid positivi in poche ore salgono a quasi 20. In mano il sindaco non aveva linee guida né indicazioni a livello nazionale. “Abbiamo subito chiuso tutto – dice –, per 14 giorni sono rimaste aperte solo le farmacie e i supermercati. Niente trasporti pubblici, 3.400 industrie del Basso lodigiano chiuse e alle 18 del 21 febbraio avevamo già tracciato oltre 400 contatti di persone che potevano aver contratto il virus”. Eccola la ricetta costruita sul campo e che ha dato al “focolaio zero” di Codogno solo 248 contagi in un mese. I contatti restano un punto decisivo anche per il professor Galli. “Prima di tutto – spiega – dobbiamo essere più veloci a riconoscere l’infetto”. L’obiettivo è scendere sotto i cinque giorni, soglia che secondo uno studio cinese è in grado di ridurre di oltre due volte la diffusione del contagio. Rapidità diagnostica che permette anche una velocità nel tracciamento dei contatti, così come successo a Codogno. Un particolare fondamentale per evitare nuovi contagi. “Bisogna – aggiunge Galli – seguirli per evitare che chi è stato in contatto con un infetto prosegua il contagio”. In questo modo si abbassa l’R0 dall’attuale 4 all’1%, ovvero un infetto può contagiare solo un’altra persona come avviene con l’influenza. E se al sud il distanziamento sociale è la soluzione, in Lombardia, dove ieri i positivi hanno superato quota 30mila, c’è il rischio di adottare misure più drastiche. “Qui – spiega il professor Galli – in certe zone molto colpite dovremmo utilizzare il metodo del porta a porta”.

Pratica utile per monitorare i malati domiciliari. Sappiamo che l’80% della diffusione avviene in famiglia. “Dobbiamo trovare il modo di quarantenare queste persone che vivono in case di due locali e non da sole”. Un’altra ricetta del contenimento è quella del controllo sanitario territoriale che, spiega Galli, “si è dimostrato in ritardo e poco efficiente” anche perché la prima risposta è stata quella ospedaliera. Ora la Regione Lombardia ha aperto un portale digitale per i medici di base imponendo un rapporto più forte con i malati che stanno a casa. Questo, come spiegato dall’assessore Regionale Gallera, ha prodotto l’emersione di 2.000 nuovi infetti sull’area di Milano. Un numero che non sorprende visto che gli esperti sono concordi nel dire che le cifre ufficiali dei sintomatici vanno quintuplicate per avere un quadro reale della situazione. Un recente studio dell’Imperial College di Londra prevede l’uscita dal contagio in diversi mesi utilizzando i contenimenti evocati dal professor Galli e ipotizzando un andamento con maglie sempre più larghe ma pronte a essere ristrette se il sistema sanitario tornasse in sofferenza. Questa la prospettiva che ancora non riguarda l’Italia. Ecco che ricette magiche non ce ne sono, ma ci sono le “responsabilità condivise” del sindaco di Codogno a capo di una comunità che oggi, dopo il primo giorno di contagi zero, continua a vivere quasi reclusa come anche Wuhan quattro mesi dopo l’inizio dell’epidemia, perché sconfitto il virus non è escluso il ritorno di una seconda terribile ondata.

Quarantena, fino a 5 anni di carcere per chi sgarra

La crisi più difficile del dopoguerra finirà “ben prima del 31 luglio”, promette il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Prima della scadenza dello stato di emergenza proclamato lo scorso gennaio dal Consiglio dei ministri, una data citata nelle bozze del nuovo decreto varato ieri dal governo, che per qualche ora impressiona l’Italia. “Ma l’emergenza non è stata affatto prorogata fino a luglio, spero di allentare le misure restrittive prestissimo”, spiega Conte nella conferenza stampa di ieri, in cui si rammarica per l’ennesima fuga di notizie tramite bozze. Niente comunicazioni unilaterali stavolta, a differenza di sabato notte, ma una conferenza vera con domande, anche se dalla forma inedita e dallo svolgimento faticoso, con i giornalisti appesi alle bizze della linea Internet per poter porre quesiti in conference call al presidente del Consiglio. Però Conte risponde e spiega il suo decreto, che raggruppa i precedenti dpcm con le misure da crisi, integrandoli con nuove norme. Così il testo punisce con multe più salate chiunque esca di casa senza un valido motivo e pone limiti ai governatori regionali, per frenare la corsa alle ordinanze. “Ogni 15 giorni io o un ministro riferiremo in Parlamento sulle iniziative del governo” annuncia il premier, innanzitutto per rassicurare il Quirinale che auspica un clima e metodi da unità nazionale. Perché la strada per rivedere la luce sarà ancora lunga.

Salgono le multe: da 400 a 3.000 euro

Nel Consiglio dei ministri ieri se ne è parlato a lungo, perché nelle prime bozze le sanzioni arrivavano fino a 4mila euro. Ma alla fine si è scesi a 3mila euro come multa massima per chi violi le restrizioni agli spostamenti, una scelta nel nome della “gradualità” anche ieri citata più volte da Conte come principio cardine. Ma gli esercizi commerciali o le attività produttive che non rispettino le misure rischiano la chiusura da 5 a 30 giorni, sanzione che viene raddoppiata in caso di “reiterata violazione”. Soprattutto, rischia grosso chi vìoli il divieto di abbandonare la propria abitazione perché positivo al virus: la sanzione va da un anno fino a 5 anni di carcere.

Stato-Regioni, “freno” ai presidenti

“Abbiamo regolamentato in modo lineare gli interventi del governo e delle Regioni”, spiega Conte. Tradotto, bisognava mettere ordine nelle reciproche competenze sulla gestione dell’emergenza dopo la fuga in avanti di alcune Regioni con ordinanze a tutto campo, talvolta molto diverse da quelle del governo (vedi la Lombardia). E allora, ecco un punto di caduta. “La competenza sulle misure restrittive deve restare dello Stato – spiega Conte – altrimenti si genera molto disorientamento e confusione tra i cittadini. La cornice la riserviamo per noi”. Però “lasciamo alle Regioni la possibilità di adottare provvedimenti più restrittivi in caso la situazione in talune zone si aggravasse”. Ergo, le giunte locali potranno varare solo ordinanze più severe dell’esecutivo, e solo “sulle materie di loro competenza” tra cui la sanità. In una prima versione era previsto che le ordinanze regionali dovessero obbligatoriamente avere il via libera del governo, pena la loro decadenza entro sette giorni. Ma alla fine la maggioranza ha preferito schivare un possibile “frontale” con i governatori. “Non possiamo permetterci una guerra a colpi di ricorsi amministrativi ora” spiega una fonte di governo. E al microfono il premier aggiunge: “Avocare da un momento all’altro in piena emergenza le competenze delle Regioni allo Stato sarebbe poco funzionale, perché loro conoscono meglio i territori”.

Ordine pubblico,“niente militarizzazione”

Dall’inizio della crisi, Conte ha cercato di non dare l’immagine di un Paese sull’orlo dell’abisso, per non alimentare tensioni sociali. Per questo, ieri ha frenato sull’utilizzo dei militari: “Ben venga l’uso dell’esercito, ma l’ordine pubblico non si mantiene dando l’immagine di una militarizzazione del Paese. Stiamo già utilizzando l’esercito per integrare il lavoro delle forze dell’ordine, che è già efficace”

La nobile arte

La Lombardia era perfettamente in grado di tirar su un ospedalino da 300 posti alla Fiera di Milano senza scomodare Bertolaso dal Sudafrica. Ma ora che Mister Wolf, più che creare posti letto, ne ha occupato uno, gli auguro sinceramente di guarire presto: sulla salute non si scherza. Siccome sono in vena di buonismo, ringrazio pure Vittorio Feltri per l’editoriale di ieri su Libero che pare scritto da Crozza. Feltri assolve, nella destra italiana, alla funzione che svolgono – senza offesa – gli immigrati in Occidente: fa quei mestieri che gli altri non vogliono più fare. Cioè dice spudoratamente le verità che gli altri preferiscono tacere, nella destra come nella salvinistra, il cui problema principale non è il virus: è Conte. Feltri scrive al “grande leader”, “sempre apprezzato per l’attività di politico instancabile”, perché lo trova preoccupantemente “depresso” e “non ravviso in te segni di risveglio”, “hai perso verve, affermi cose di cui non sei convinto”, “ammosciato” come tutti “tranne Giuseppi” Conte, che invece appare “pimpante” e “ringalluzzito” dal Covid-19. Ohibò. E il nostro eroe che fa per mettere al tappeto il fellone intruso? Niente. Non reagisce, non spara o spara a salve. Affranto dalla popolarità bulgaro-cubana del premier e dal parallelo rammollimento del Cazzaro, Feltri si piazza a bordo ring e incita il suo pugile prediletto a menare come ai bei tempi: “Tu non puoi lasciargli delle praterie di consenso, devi frenarlo, almeno zittirlo”, possibilmente “abbatterlo”. E come? Un missile terra-aria? Un colpo di ruspa? Un’ascella di felpa usata? Un rutto al mojito? No, meglio: “Cavalca la paura della gente come sai fare tu”, “reagisci come al cospetto di una nave piena di africani clandestini” e “riconquisterai la tua posizione apicale”. Il fatto che, oltreché dal virus, la gente sia terrorizzata dal rischio che abbiamo corso di farlo gestire a Salvini non sfiora proprio Vittorione.

La scena ricorda l’episodio La nobile arte ne I mostri di Dino Risi: quello dei pugili suonati Enea Guarnacci (Tognazzi) e Artemio Antinori (Gassman) sulla spiaggia di Ladispoli. Artemio, il più rintronato, riconosce a stento Enea e ripete macchinalmente, lo sguardo perso nel vuoto: “E so’ contento”, “me fa piacere”, “vuoi magna’?”. E l’altro: “Ma lo sai che ti trovo proprio in forma? Guardi ancora le donne eh? Io non so come fai, non ti alleni e sei sempre il numero uno. Col fisico che c’hai, metti al tappeto chiunque quando vuoi!”. Alla fine Enea Feltri affida ad Artemio Salvini l’arma segreta per cavalcare meglio la paura della gente e tornare più bello e superbo che pria: “Sfoltire le galere” e sposare “l’amnistia”. Comunque vada, sarà un trionfo.

Viscerali o intime: le due anime dei Pearl Jam

Tra i grandi sopravvissuti dell’epopea grunge, i Pearl Jam sono la band di maggiore successo. Milioni di copie vendute con lo splendido esordio Ten e il successore Vs. e una posizione di assoluta centralità nella storia del rock anni 90. Questo ha determinato due tipi di approccio opposti rispetto alla band: i puristi del grunge li hanno tacciati di essere una band mainstream, gli estimatori hanno visto in loro l’ultimo dei grandi gruppi rock, la perfetta incarnazione della classicità rock. Col senno di poi possiamo dire che la verità sta nel mezzo. Da un lato, qualche smemorato ha forse dimenticato che la musica del quintetto di Seattle affonda le sue radici nel rock crudo e spigoloso dei Green River, oscura formazione hard/punk, precorritrice della nascente scena grunge, che annoverava tra le sue fila metà dei futuri Pearl Jam e Mudhoney. Dall’altro lato, non si può negare che gli ultimi lavori della band di Eddie Vedder, nonostante qualche sporadico guizzo, abbiano smarrito il furore e la calda passionalità degli esordi, con una scrittura di mestiere e una produzione sempre più ammiccante al grande pubblico.

Il nuovo disco, Gigaton, arriva dopo sette anni dal precedente Lightning Bolt (2013) e vanta una scrittura che non è solo mestiere e stanca ripetizione di strade già battute, ma è il tentativo di sperimentare nuove sonorità all’interno di un canovaccio già consolidato. Lo dimostrano il primo singolo, Dance Of The Clairvoyants, con le sue incursioni funky e new wave e la sorprendente Quick Escape, che sfoggia un sound robusto tra Who e Led Zeppelin. Nel nuovo lavoro convivono due anime: una rabbiosa e viscerale, affidata alle impennate di chitarra e batteria, l’altra più distesa e rilassata, con ballate rarefatte e intimiste, che evocano l’epicità rock degli U2 e di Springsteen. In tutti i brani svetta, come sempre, la voce magnetica e avvolgente di Eddie Vedder. Non sarà il migliore album, ma è il più che gradito ritorno di cinque splendidi cinquantenni.

Mia, le accuse e il pubblico: crimini e misfatti di Woody

Woody contro tutti. Nell’autobiografia A proposito di niente, Allen spara nel mucchio: da Mia a Ronan Farrow, da Roman Polanski al #MeToo, fino agli attori che l’hanno rinnegato. Strano ma vero, salva Harvey Weinstein, non spettatori e lettori: “Di vivere nel cuore e nella mente del pubblico non mi importa niente, preferisco vivere a casa mia”. Che per siglare un memoir, già disponibile in eBook e dal 9 aprile in libreria con La nave di Teseo, non è male. L’ottantaquattrenne regista non si limita a levare i proverbiali sassolini dalla scarpa, dalle quattrocento pagine piovono pietre.

Mia Farrow. L’ex compagna e musa poi acerrima nemica e grande accusatrice è il bersaglio principe dell’avvelenata. Prima usa l’ironia e la battezza “anagraficamente corretta” quale partner, poi fa il signore: “Su Mia circolavano voci cui mi rifiutavo di dare credito”, quindi inizia a farla a pezzi. Sistematicamente. Il tramite sono i figli, biologici e adottivi, tra cui la futura moglie Soon-Yi: “Mia era convinta che Soon-Yi fosse un’idiota. (…) In seguito avrei capito che Soon-Yi era un diamante allo stato grezzo e che Mia non era una supermamma”. Rispetto agli annosi addebiti di violenze sulla figlia Dylan, rende pan per focaccia: “Soon-Yi fu l’unica figlia adottiva che osò opporsi a Mia e incorse nella sua ira. Per questo venne picchiata – una volta con una spazzola, un’altra con un telefono; una volta Mia le lanciò contro un coniglio di porcellana, mancandola di poco”. La mira l’aggiusta lui: “Appena Mia scoprì la nostra relazione, adunò tutti i suoi figli e non risparmiò loro nulla. Dopo aver detto loro che avevo violentato Soon-Yi – per cui Satchel, a quattro anni, diceva alla gente: ‘Mio padre scopa mia sorella’ – cominciò a fare telefonate per dire che avevo stuprato sua figlia minorenne. Dopodiché la chiuse in camera da letto, la prese a botte e a calci…”.

Dylan Farrow. 4 agosto 1992, il giorno in cui a detta della figlia Dylan, che all’epoca aveva sette anni, Woody l’avrebbe molestata. Allen ha un’altra versione: “Siccome non c’era posto per sedermi, mi piazzai sul pavimento e per un attimo posso avere appoggiato la testa in grembo a Dylan, che era sul divano. Di certo non feci nulla di inopportuno”.

Ronan Farrow. Sostenitore della sorella Dylan nelle accuse al padre, Ronan Farrow è stato con le sue inchieste giornalistiche tra i fautori del #MeToo, ed è proprio lì che Woody lo bastona: “Volevano (il New York Magazine, ndr) dedicare a Soon-Yi la copertina ma dovettero desistere dopo che Ronan fece un’altra telefonata. Ora, non è la quintessenza dell’ipocrisia il fatto che Ronan abbia scritto un libro dove racconta dei tentativi della Nbc di sabotare la sua indagine su Harvey Weinstein? Sarei tentato di dire: basta che funzioni”.

Harvey Weinstein. Premesso che “non avrei mai lasciato che producesse o finanziasse un mio film, perché (…) si impicciava e cambiava e rimontava”, per il produttore condannato a ventitré anni di reclusione per abuso sessuale e stupro ha invero parole di encomio: “Oltre a essere un abile distributore, Harvey aveva un occhio per i film eccentrici e originali, ad alcuni dei quali aveva associato il proprio nome”.

Roman Polanski. “Come regista mi sento naturalmente inferiore a Roman”, confessa Allen, che convinto di andarci a cena si ritrovò invece nella villa di Roman Abramovich a Cap d’Antibes, ma nello scontro con la Farrow, Polanski non viene risparmiato: “Malgrado la finta indignazione per il presunto stupro di una minorenne, Mia prese un aereo per andare a Londra e testimoniare a favore di Roman Polanski, che aveva ammesso di avere avuto un rapporto sessuale con una minorenne e per questo era andato in galera”. All’uopo, ricorda la replica di Samantha Geimer, la vittima di Polanski, alla Farrow: “Non ho bisogno delle sue scuse e non le voglio. Mi sono sentita usata da una persona che voleva vendicarsi contro Woody Allen”.

#MeToo. Woody non ci sta a passare per nemico delle donne: “A dire il vero, per uno che ha subìto la sua dose di attacchi da parte dei talebani del #MeToo, non mi sembra certo di avere sminuito l’altro sesso”.

Gli attori (e il New York Times). Gli attori che l’hanno boicottato e rinnegato, prima li infilza: “C’è chi ha dato il suo compenso in beneficenza piuttosto che accettare soldi ‘sporchi’. È un gesto meno eroico di quello che sembra, dato che noi possiamo permetterci di pagare solo il minimo sindacale”. Poi li deride, con un rammarico per il “suo” giornale: “Un conto è se attori e attrici senza sale in zucca saltano su a dichiararsi pentiti di avere lavorato con me; ma il New York Times, fatto di uomini e donne seri che la pensano come me sulle cose importanti, mi ha proprio sorpreso”.

Berlusconi. “Cresciuto con De Sica, Fellini e Antonioni”, Allen ha avuto “l’onore di dirigere il grande Roberto Benigni” in To Rome with Love, che “è un brutto titolo. Nelle mie intenzioni doveva essere Nero Fiddled (“‘Nerone suonava la lira’, più o meno” nella traduzione offerta a piè di pagina…), ma ai miei finanziatori venne un colpo. Mi pregarono di cambiarlo almeno per il mercato italiano. Dopo tutto, era meglio che Berlusconi non si facesse un’idea sbagliata”.

@fpontiggia1

“Un Paese senza”: l’Italia perde il venerato maestro

Approfittando dell’esodo di massa verso l’aldilà nella speranza di passare inosservato evitando funerali e commemorazioni varie, se ne è andato Alberto Arbasino. Il Coronavirus con il divieto di assembramenti gli ha pure risparmiato i festeggiamenti vogheresi per i novanta anni che si dovevano tenere in questo periodo. Sembra incredibile che fosse ancora vivo un autore così sofisticato e snob in un mondo dove difficilmente un libro che non appartenga alla categoria del poliziesco può entrare in classifica e dove il titolo del suo più celebre romanzo, Fratelli d’Italia, si associa a Giorgia Meloni. In realtà Arbasino ha avuto un invecchiamento da grande vino con titoli bellissimi scritti a 80 anni e dintorni come L’ingegnere in blu (2008) e Ritratti italiani (2014).

Bastava che battesse un tasto della macchina da scrivere elettrica per essere invitato da Fazio e non si può dire che non fosse giustamente celebrato come l’ultimo mostro sacro del 900. Conosceva le insidie del percorso intellettuale, il passaggio da brillante promessa a solito stronzo a venerato maestro e non potendo per motivi anagrafici restare nella prima categoria, la migliore delle tre, è riuscito a evitare l’ultima, mantenendo la sprezzatura da solito stronzo che tanto ammirava nell’amico Gianni Agnelli.

Se c’è una lezione che ci ha lasciato, è stata quella di un’ironia lucida e dissacrante. Da Un Paese senza: “Se nel mondo del rock bisogna farsi tanto e prendere tanta roba per arrivare a canzoni come quelle di Jimi Hendrix e di Janis Joplin, allora Wagner e Brahms che cosa avrebbero dovuto fare? Mettersi un Dc10 nel didietro?”. Non meno impietoso con il mito del Giappone. Da Trans-Pacific Express: “La deprimente cerimonia del tè, che in quanto tè non è meglio di una vecchia bustina, e come cerimonia fa venir voglia di passar per sempre a quella della cioccolata, o dello champagne”. Non solo per avere scritto un articolo intitolato “La gita a Chiasso” è stato lo scrittore meno provinciale che abbiamo avuto. Del resto uno che nasce in via Mazzini a Voghera parte con molte cose da farsi perdonare e molto prima che si diffondesse la figura della casalinga, quando il capoluogo dell’Oltrepò pavese era solo la città delle tre p: “Puttane, pazzi e peperoni”.

È stato Beniamino Placido a creare l’archetipo della mediocrità italica, ma anche del buon senso popolare, inventandosi una lettera di protesta contro il linguaggio dei giornalisti politici Rai, Vespa in testa, firmata da una casalinga di Voghera. Poi Arbasino ci ha marciato molto e ha contribuito alla fama e all’infamia della poveretta.

Per non scadere nella retorica non si è mai atteggiato a genio incompreso. Anche perché è sempre stato un genio compreso. Tutt’al più ha sperimentato qualche dissapore quando era alle prime armi. Primogenito di una famiglia della ricca borghesia, enfant prodige al liceo Grattoni, inizia a scrivere e si becca una querela per avere vergato un perfido ritratto di un interno vogherese da parvenu, quello della casa di una amica, per un periodico universitario, Coprifuoco. Viene difeso dallo zio avvocato e assolto. In fondo è rimasto per tutta la vita un goliarda di grandissimo talento ed erudizione. Uno che ha “letto tutto”. Si è ritrovato un vicino di casa e amico di famiglia come Italo Pietra, direttore del Giorno, ma a un certo punto lo ha scaricato per il Corriere: “Mi sento come Fitzgerald a Hollywood” gli avrebbe detto per lamentarsi.

Dopo avere esordito con Le piccole vacanze a 27 anni (editor Calvino) ha smesso molto presto di scrivere romanzi, capendo in anticipo che era più interessante il terreno vago e libero della commistione tra generi. A parte una fase tormentata della giovinezza in cui studiava senza convinzione Medicina nella tetra Pavia e faceva i primi difficili conti con l’omosessualità, è stato lo scrittore italiano meno lamentoso e vittimista che ci sia stato. Ha scritto con successo opere legate al boom economico non lontano dalla Vigevano della disperata trilogia di Mastronardi contro il cosiddetto “miracolo italiano”, conterraneo morto suicida.

Era un uomo timido, snob, perfezionista, il flâneur più sgobbone che esistesse, non incline alla generosità con se stesso né con gli altri, ma privo di meschinerie, triste per la perdita dei compagni di merende (“I miei amici sono diventati tutti delle fondazioni”), ma sempre battitore libero. Parlamentare con il Pri negli anni 80 ha goduto del vitalizio, la legge Bacchelli di chi è nato con il culo nel burro. Mai soldi pubblici furono spesi meglio. Di tutte le volte che l’ho intervistato solo in una si è lasciato andare. Quando ho citato alcune delle sue pagine più riuscite. Il manifesto di uno scrittore che non hai mai firmato manifesti. I meravigliosi consigli sul vestire de L’Anonimo lombardo: “Abbi calzetti scozzesi, ma bellissimi e pochissimi; il doppiopetto va bene per chi ha lo stomaco dilatato; ma le scarpe bianche ricordati che semplicemente non esistono”. La divinità dei libri si vede nei dettagli.

Ciao Alberto, il vagabondo che arrivava prima di noi

C’è un periodo della vita italiana che è stato e resterà “il periodo Arbasino”. Segni caratteristici: una visione come quella di certi fotografi che riescono a ritrarre uno spazio molto largo, con una immensa quantità di dettagli, tutti nitidi; uno spirito vagabondo, totalmente libero, saldamente agganciato allo scrupolo dei fatti, al profondo della cultura, al vento fortissimo, estroso, scapigliato, indomabile della corsa in avanti. In ogni situazione che riguardasse la vita della cultura e il guizzo dell’invenzione, lui era già arrivato e ti aspettava come un bambino geniale e dispettoso che non ti dà tregua. Ma con una sorta di affetto, e ti aspettava sempre – tu, amico, o tu, lettore – alla fermata dove avremmo trovato, tutti insieme, la casalinga di Voghera. Era pronto per la “gita a Chiasso”, che ha cambiato la vita culturale e la vita pubblica italiana, fin da quando era assistente di diritto internazionale, fin da quando era stato il più improbabile allievo di Henry Kissinger (insieme con Raffaele La Capria) in un corso estivo all’Università di Harvard.

Nel Gruppo 63 era arrivato prima e dopo, con quella sua dote di natura di essere già sul posto (tutto era avanguardia, nel senso di quel suo continuo spostare i mobili in ogni stanza), così che con lui ti trovavi subito altrove. E quel misto di scherzo e classicismo di un autore che, scrivendo, sapeva di anticipare e di durare, ma non ne faceva una gran questione: stava nel gruppo e correva avanti. Apparteneva come Eco alla pattuglia allegra del gruppo e, come Eco, aveva intolleranza e severità grandissime per l’approssimazione, ma insieme improvvisavano fulminanti gimkane di frasi, significati, parole.

Farei una distinzione fra la “casalinga di Voghera” e “la gita a Chiasso”. Con la prima la freccia leggera e acuminata di Arbasino ha preso al volo e abbattuto per sempre il culto dell’ovvio, ha interrotto il volo trionfante, nella parlata italiana, del luogo comune. Con la seconda ha aperto il grande dibattito che, a quel tempo, divideva in modo sbagliato l’immensa e fitta conversazione di questo Paese, dove la parola “italiano” si prendeva come appiglio e mancorrente per non perdere l’equilibrio. Il giovane Arbasino ha capito prima. Nelle redazioni (Il Mondo, Repubblica), nelle case editrici (Feltrinelli, Einaudi, Adelphi), nel Gruppo 63 e nel giornale del Gruppo, Quindici (inventato da Balestrini), Arbasino era una zona illuminata dove si andavano a raccogliere i frammenti di discussione, di incontro e di scontro, che avrebbero segnato, da quel momento in avanti, la conversazione italiana, mentre intanto scorreva quella sua produzione di nuovi libri, tanto copiosa quanto radicalmente nuova e diversa. Il Mondo è stato, per tutti gli anni della esistenza di quel grande giornale di Mario Panunzio, la nostra casa comune e anche, per entrambi, il vero debutto.

Arbasino (che è sempre stato generoso nell’amicizia, a differenza di quasi ogni grande: nella sua vita giovane lo ricordo sempre di buon umore) mi scriveva in America per commentare o farmi sapere qualcosa che anche lui sapeva o aveva visto: ogni volta mi svelava un’Italia che avevo lasciato senza conoscere. È stata grande la mia meraviglia quando il ragazzo Arbasino ha fatto, sul Mondo, osservazioni impertinenti su personaggi come Visconti. Arbasino, che non era persona da lunghe telefonate, ha continuato a scrivermi anche dopo il mio ritorno in Italia, e anche dopo l’abitudine di incontrarci la sera, a Roma, una o due volte alla settimana al solito Rosati di piazza del Popolo, dove tutto il resto della cultura italiana parlava di Arbasino con Arbasino, per fingere di riderci su o per agganciare la sua conversazione di fredde, spiritose e veloci battute, in cui si concentravano recensioni istantanee e giudizi capitali. Una delle qualità inaspettate di Arbasino era la sua capacità di attenzione al lavoro degli altri e quella di condividere. Tu sapevi, ovviamente, anche a causa delle allegre e furiose polemiche che lo seguivano, quello che lui stava facendo. Ma lui sapeva del tuo lavoro, di ciò che avevi appena scritto e di quel che stavi preparando. E la sua chiacchierata era sempre una casa con la porta aperta. Le sue recensioni-lampo le stavi aspettando.

Una volta sono tornato a New York subito dopo la pubblicazione di un mio libro (una raccolta di racconti che a lui piaceva) e sono stato raggiunto da una sua lettera di rimprovero. “Non si abbandona un libro”: era la sua sgridata e mi proponeva l’idea di fare una presentazione anche senza l’autore presente. Ma il vortice del suo sperimentare, inventare, scoprire, creare, era molto più vasto dei racconti postumi di lui. C’entra il teatro, c’entra la musica, un territorio vasto della creatività arbasiniana assolutamente unico nella cultura italiana. C’entrano la lirica e la regia, c’entrano i grandi personaggi femminili di un teatro di prosa che per Arbasino era un incontro-scontro continuo senza colpi proibiti, un modo di celebrazione dell’evento in cui anche le cattiverie del critico implacabile erano ritratti unici e indimenticabili, che “le vittime” avrebbero conservato. C’è di bello che Arbasino non finisce. Basta continuare a leggerlo.

1963, il pentito Valachi in America: “La mafia si chiama Cosa Nostra”

Innanzitutto voglio chiederle se lei fa parte di un’organizzazione segreta, che si dedica o ha come principale attività il perseguimento di un disegno criminale e la protezione dei membri che perpetrano reati. Lei appartiene a un’organizzazione del genere?

Sì. O meglio, ne ho fatto parte.

Non è più accettato e tenuto in considerazione dai vertici di quel sistema. Ma c’è stato un periodo in cui è stato a pieno titolo uno di loro?

Sì, esatto.

Quando è entrato nell’organizzazione?

Nel 1930.

Che nome ha?

Cosa nostra.

Si chiama così in italiano?

In inglese significa Our thing o Our family.

Posso chiederle quali sono i diversi livelli di comando all’interno dell’organizzazione, a partire dal vertice?

Al vertice c’è quella che chiamiamo griemeson, che sarebbe una commissione.

Oggi al vertice c’è una commissione. Invece, quando è entrato lei che cosa c’era?

C’era un capo dei capi. (…) Poi ci sono i capi delle diverse famiglie, i sottocapi e i luogotenenti, infine alla base della scala ci sono i soldati.

Secondo quanto dice esiste una commissione. È guidata da un capo dei capi?

Non più, hanno un consiglio. L’ha istituito Lucky Luciano.

Il 27 settembre 1963, durante la prima deposizione dinanzi alla commissione d’inchiesta del Senato americano sulla criminalità organizzata presieduta dal senatore dell’Arkansas John McClellan, e a una nazione ancora poco consapevole malgrado l’apporto della precedente commissione Kefauver, Joe Valachi (classe 1903, figlio di poverisimi immigrati italiani a New York, membro di Cosa nostra fin dagli anni Trenta e incriminato per traffico internazionale di droga) parlò e fece per la prima volta il nome dell’organizzazione che il procuratore generale Robert Francis Kennedy aveva definito “il maggior pericolo interno degli Stati Uniti”.

Il dipartimento di giustizia considerò Valachi una straordinaria scoperta dell’intelligence. Questo detenuto delle prigioni federali, personaggio non di primissimo piano nella gerarchia mafiosa, dopo aver testimoniato e fornito una ricostruzione articolata della struttura interna di Cosa nostra divenne una vera e propria celebrità internazionale. Il quadro che delineò era esaustivo soprattutto della città di New York, snodo centrale del business delle famiglie mafiose più influenti. “L’esistenza di un’organizzazione criminale come Cosa nostra è spaventosa” commentò McClellan. “È una forma di governo al di fuori della legge”.

Nel 1962 Valachi era un uomo che aveva perso il desiderio di essere parte di un gruppo, aveva smarrito il senso dell’ostentazione della propria alterità in quanto membro di una potente famiglia di mafia. Per trent’anni aveva obbedito, non si era posto domande scomode, e ora non riusciva ad accettare il rinnegamento con l’accusa di essere un collaboratore di giustizia, quale poi divenne. (…) Vent’anni più tardi, il “boss dei due mondi” Tommaso Buscetta convenne con Valachi, spiegando che la parola mafia era una creazione letteraria, i veri mafiosi si chiamavano “uomini d’onore” e, come negli Stati Uniti, il nome dell’organizzazione era Cosa nostra. (….) Kennedy utilizzò in modo strategico le rivelazioni di Valachi, rendendole uno strumento di efficace pressione per l’avanzamento della lotta alla mafia.

Estratto da “La scoperta di Cosa nostra” (Chiarelettere)