Egitto: Zaky, slitta l’udienza. Altri sette giorni di calvario

Nonostante l’emergenza coronavirus in corso anche in Egitto da un mese, il regime presieduto da al-Sisi non ha allentato la morsa dell’oppressione contro quelli che definisce “terroristi” ed “eversori”, mentre si tratta, spesso, di cittadini che esercitano i diritti di espressione e critica ritenuti inalienabili dalle Convenzioni umanitarie internazionali. La magistratura anziché scarcerare coloro che sono detenuti in modo cautelare per contribuire al distanziamento sociale indicato dalle autorità, fa l’opposto e rinvia senza alcuna remora le udienze. Come è accaduto anche per quella a carico di Patrick George Zaky. Il ricercatore e attivista egiziano, studente del Master Gemma dell’Università di Bologna, detenuto nel Paese di origine ormai da un mese e mezzo, dovrà attendere almeno fino al 30 marzo – la data in cui ieri è stata rimandata l’udienza – per sapere se potrà tornare in libertà. Via Twitter, Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia, ha sottolineato che lo slittamento può peggiorare le condizioni di salute dello studente. “Altri sette giorni di attesa. Un altro pezzettino di calvario. La cosa grave è che Patrick, da innocente, rimarrà nel carcere di Tora. Un centro di detenzione, per lui che è asmatico, insalubre e sovraffollato”, ha scritto Riccardo Noury. “Nell’attesa, noi continueremo a farci sentire con un Twitter storm per chiedere la liberazione di Patrick. Troveremo anche il modo di consegnare alle istituzioni egiziane le 89 mila firme che abbiamo raccolto lanciando la petizione su Amnesty.it”. Zaky, arrestato al suo arrivo al Cairo dopo alcuni mesi trascorsi in Italia per partecipare alle lezioni universitarie, è stato – secondo i suoi difensori – sottoposto a torture fisiche e psicologiche, oltre ad aver subito interrogatori in cui pare gli si chiedesse conto della solidarietà da lui espressa via social alla famiglia Regeni. Che il giovane egiziano di religione copta sia vittima di accuse fabbricate dal regime per poterlo usare a scopo intimidatorio nei confronti dell’Italia o per punire ancora una volta un semplice post contenente anche la benché minima critica contro la ferocia di al-Sisi, poco importa a questo punto. Resta il fatto che ora la vita di Zaky è in pericolo come affermano anche i familiari che hanno lanciato un appello per il suo immediato rilascio, dopo 45 giorni di detenzione. Non sanno più nulla di lui da due settimane. I parenti hanno dichiarato dalla pagina Fb ‘Patrick libero’: “Esprimiamo la nostra ansia: da quando il dipartimento dei servizi penitenziari ha avviato le procedure preventive per arginare la diffusione di Covid-19 all’interno del carcere, non sappiamo più assolutamente nulla di lui”. Le visite ai detenuti sono state sospese lo scorso 10 marzo per dieci giorni, quindi è stata annunciata la proroga fino alla fine del mese. La famiglia di Zaky spera di riuscire a sentirlo almeno al telefono, ma non sono state diffuse informazioni in proposito.

Un Orbán (può essere) per sempre

Pieni poteri e all’infinito: un mandato da onnipotente senza data di scadenza. È quello che chiede Viktor Orbán. Con l’alibi del contenimento del contagio Covid-19 il premier vuole il permesso di dominare per sempre. Il disegno di legge ieri ha avuto uno stop: la maggioranza ha raccolto 137 voti, contro i 52 dell’opposizione. Per l’urgenza era necessaria una maggioranza di 165 voti. Ma i 137 voti basteranno la settimana prossima, con procedura normale; a quel punto a Orban sarà consentito di adottare misure straordinarie, sospendere e chiudere, se lo ritenesse necessario, Parlamento, organi legislativi e della magistratura, non contiene una data di fine mandato. Al Consiglio d’Europa allarmato, ai comitati per i diritti umani, la risposta di Orban è stata il solito ritornello: agirà solo per difendere dal virus il popolo ungherese. I suoi dieci milioni di cittadini, che hanno cominciato a svuotare gli scaffali dei supermercati da settimane, tacciono. I contagiati per ora sono 173.

Sfruttare le crisi a vantaggio della “democrazia illiberale”: Orbán, che si è assicurato la vittoria alle ultime elezioni diffondendo fake news su migranti, il tycoon Soros, l’Unione europea, ora, con il nuovo decreto, vuole una pena di 5 anni di galera per chi diffonde notizie false o allarmanti sul coronavirus. Per l’International Press Institute verranno in realtà perseguitati solo gli ultimi reporter indipendenti.

L’embargo che stritola. Senza cibo e benzina, vivere in fila è la regola

“Hay pollo”. C’è il pollo. La notizia si diffonde nel quartiere col passaparola. E bisogna fare in fretta perché di solito il rifornimento è limitato e la richiesta grande. Infatti di fronte al negozio di alimentari dove è arrivato il pollame surgelato si addensa una coda di varie decine di persone. Qualcuno ha una mascherina, la quasi totalità è senza. E tutti mantengono salda la loro posizione, altro che distanza di sicurezza di almeno un metro. La stessa situazione si ripete nei centri dove viene messo in vendita ipoclorito di sodio o cloro per disinfettare le superfici di casa. O alle pompe di benzina: specialmente per il diesel le code – di solito di mezzi pesanti – sono lunghissime.

Se non c’è coda significa che nel negozio o supermercato si trovano solo scaffali vuoti o riempiti con file di prodotti che nessuno cerca. Le stazioni di servizio vuote sono immancabilmente a secco di carburante. No hay, se acabó. Non c’è, è finito è il monotono commento dell’impiegato di turno. Está pelao, è vuoto è lo sconsolato commento di chi esce dal negozio.

Questa è la vita quotidiana all’Avana ai tempi del Covid-19. La crisi di rifornimenti alimentari e prodotti dell’igiene, come pure del carburante per il trasporto, è un’aggravante alla minaccia di diffusione del virus. Cuba importa metà del greggio che necessita – anche per la produzione di energia elettrica – e gran parte dei generi alimentari che consuma. Con la vera e propria guerra economico-commerciale e finanziaria che il presidente Donald Trump ha dichiarato a Cuba (per il suo appoggio al governo bolivariano del Venezuela) rifornirsi di prodotti igienici, alimentari e di greggio è diventato molto più difficile e costoso. Specie per il petrolio, visto che i falchi di Washington e Miami minacciano un blocco navale del Venezuela, il maggior fornitore di greggio dell’isola. Anche in tempo di pandemia, Trump è deciso a non mollare la presa alla gola economica di Cuba con lo scopo di abbatterne il governo socialista.

“Questa situazione di strangolamento è altrettanto pericolosa dell’aggressività del Covid-19 – afferma l’economista Douglas Tamayo –, il governo cubano è di fatto costretto a mantenere aperto il Paese al turismo internazionale, fonte essenziale del bilancio dell’isola la cui economia è in forte crisi. Dunque deve lanciare segnali di ‘normalità’ e di avere il controllo della situazione”.

Il presidente Miguel Díaz-Canel ripete con frequenza quasi quotidiana gli appelli e le consegne a sviluppare la produzione nazionale per la sostituzione delle importazioni, assieme alle direttive perché il sistema nazionale di salute sia pronto a contenere la diffusione del coronavirus, che ormai è entrato nell’isola con la “fase 1”. Quella cioè di persone che sono state contagiate in viaggi all’estero o da forestieri. L’impegno del massiccio e capillare sistema sanitario statale – e gratuito – è di cercare di contenere la “fase 2”, quella del contagio tra cubani. Anche perché – come l’Italia – Cuba è un Paese con un alta percentuale (più del 20%) di anziani, i soggetti più a rischio. E a proposito di Italia, ieri sono arrivati gli specialisti cubani. All’Avana, lo sforzo è grande anche per sostituire le merci importate: centri di produzione di medicinali – come l’Interferón 2 B impegnato anche in Cina per combattere il coronavirus – e di prodotti igienici funzionano al massimo. Lo stesso vale per la produzione agricola. Ed è in questo settore che la scarsezza di diesel si fa sentire. Molti agricoltori hanno dovuto ricorrere a buoi e cavalli sia per arare e raccogliere i loro prodotti, sia per trasportarli nei centri di raccolta statale (Acpio) o ai mercati all’ingrosso della Capitale. Nonostante gli appelli, la popolazione è tutt’altro che tranquilla. E molte sono le voci – anche di medici, specie impegnati all’estero – che chiedono al governo di sospendere l’ingresso dei turisti, e la chiusura delle scuole.

De Angelis spaccia futili pettegolezzi per notizie serie

Scoperta la soluzione per uscire dalla pandemia: far sì che quel frescone di Giuseppe Conte telefoni al politologo nonché virologo nonché sex symbol Alessandro De Angelis, affinché quest’ultimo – forte del suo carisma da battipanni vilipeso – detti chiaramente all’inetto presidente del Consiglio cosa fare.

L’Italia ha una trave piantata ben dentro l’occhio, ma in tivù e sui giornali è tutto un cicaleccio stitico di retroscenisti (sic) che vomitano articolesse sulla pagliuzza. Tipo il De Angelis, uno che ogni volta che parla suscita sulla vile plebe tre reazioni inesorabili:

1) Oddio che palle;

2) Questo qua sembra uno di quelli che, quando hanno voglia di emozioni forti, sniffano il Wcnet;

3) Oddio che palle.

Omino sbarazzino nonché assai rutilante, il De Angelis ama spacciare pettegolezzi irrilevanti per notizie irrinunciabili, attorno alle quali imbastisce interventi appassionanti come una cover dei Led Zeppelin eseguita da Sfera Ebbasta con la grattugia sulle gonadi. Il De Angelis non indovina un’analisi dall’età dei 6 anni, quando pare suonasse il banjo nella cover band aquilana dei Jackson 5, ma ciò non incrina minimamente la sua esilarante hybris. Lo scorso agosto andò avanti per giorni esigendo “elezioni subito”, idea che in effetti sarebbe risultata perfetta per Salvini e Meloni, ma che si sarebbe rivelata suicida per chi (come il De Angelis asserisce di se stesso) si definisce fiero avversario dei sovranisti. Il De Angelis è così: politicamente miope e inconsciamente salviniano. Se si fosse votato a fine 2019, Salvini (in netto calo rispetto ad agosto) sarebbe ora a Palazzo Chigi. E la pandemia la gestirebbe lui: roba da scappare su Marte. Eppure, invece di cospargersi il capino teneramente implume di cenere, il De Angelis continua a scudisciare a prescindere il governo e (ancor più a prescindere) Conte. Il De Angelis lo odia proprio, e anche questo è naturale: due anni fa lo trattava come un mezzo parvenu (mentre lui invece è Montanelli), e adesso che Conte è il politico più amato dagli italiani, non riesce proprio ad ammettere di avere sbagliato pure su di lui. Il De Angelis vede in Conte un trasformista alla Mastella e, nel suo agire, una continua quintessenza di inefficienza: me cojoni!

Così, anche dopo il comunicato di sabato sera, il De Angelis non si è soffermato sulla trave (il contenuto del decreto), bensì sulla pagliuzza. Ovvero l’avere usato Facebook (e sticazzi?). L’essere andato in onda dopo cena e in ritardo (e sticazzi?). E il non avere fatto una conferenza stampa canonica (e sticazzi?). L’Italia combatte una battaglia campale, ma lui – pur di mitragliare a prescindere il governo – si preoccupa delle pieghe ipotetiche sulla tovaglia. Genio vero.

Sull’Huffington Post, di cui pare sia vicedirettore, il De Angelis ha tuonato: “La più grande limitazione della libertà nella storia della Repubblica affidata a un videoannuncio notturno, senza provvedimento e senza passaggio parlamentare”. Va però detto che il titolo del pezzo, pensato forse dopo essersi ammirato allo specchio, era “Sconcertante”: un’autorecensione che gli fa onore. Altra perla del 19 marzo: “È ora di uscire dalla comunicazione da Grande Fratello”. Ovvero le stesse parole di Renzi, di cui del resto il De Angelis celebrò nel 2014 la smisurata grandezza in un libro clandestino e per nulla agiografico scritto con il noto antirenziano Mario Lavia. Più che un retroscenista, il De Angelis è una sorta di versione da discount di un mix giornalistico tra Fusani e Senaldi: il che, a ben pensarci, è francamente terribile. Resisti per noi, magico De Angelis!

Tra restrizioni e libertà vince la solidarietà

In attesa di ritrovarsi a Camogli dal 10 al 13 settembre, i protagonisti del Festival della Comunicazione riflettono sull’impatto socio-economico della pandemia (festivalcomunicazione.it). Pubblichiamo il pensiero di Gherardo Colombo.

In questo tempo di Coronavirus, in questo tempo di pandemia, c’è da riflettere molto e da approfondire molto il tema della democrazia, il tema dei diritti. Ma io direi soprattutto il tema del modo di comportarsi e quindi dei comportamenti, della cultura, del modo di intendere lo stare insieme agli altri. Perché qui da un lato ci sta l’individualismo inteso anche nel senso di egoismo e dall’altro ci sta la solidarietà.

In parole diverse si potrebbe dire da un lato la libertà intesa in un certo senso e dall’altro l’uguaglianza, la parità dei diritti di ciascuno. È nelle situazioni di maggior tensione, nelle situazioni limite, nelle esasperazioni che si misurano poi fino in fondo questi concetti. Il concetto di democrazia per esempio può essere inteso in senso formale – la maggioranza fa quel che vuole –, oppure può essere inteso in senso sostanziale – ciascuno fa quello che vuole purché tutti gli altri possano fare quello che vogliono –, ovvero sono rispettati i diritti fondamentali anche della minoranza. E la prospettiva è estremamente diversa nell’uno o nell’altro caso, perché nel primo caso la democrazia si trasforma sostanzialmente in una forma di prevaricazione – la prevaricazione della maggioranza –, mentre invece nel secondo caso, che è quello previsto dalla nostra Costituzione, succede esattamente il contrario: è garantito in ogni caso che ciascuno possa esprimere liberamente il proprio pensiero, ciascuno possa andare a scuola, ciascuno sia libero di muoversi, ciascuno si veda tutelata la sua salute. Ecco il problema diventa drammatico in questo momento proprio a proposito della tutela della salute perché sembra evidente che la tutela della salute di tutti possa confliggere con la – io lo metto tra virgolette – “libertà di ciascuno di muoversi senza limitazioni di tempo e di spazio”. Che cosa deve prevalere? Se lo spazio e il tempo del movimento vengono limitati, questa è una specie di attentato alla democrazia e alla libertà? Oppure si tratta di un contenimento necessario per cercare di salvare la salute di tutti?

Ecco io credo che qui entra in gioco molto evidentemente il concetto di solidarietà. La nostra Costituzione, dopo aver riconosciuto e garantito i diritti fondamentali dell’essere umano in qualsiasi campo della sua attività, richiede, nello stesso articolo – l’articolo 2 – l’adempimento dei doveri di solidarietà politica economica e sociale e io credo che sia un evidente caso di solidarietà sociale quello di evitare che le persone possano ammalarsi per un comportamento nostro.

Io credo che i dilemmi si possano risolvere nel senso che in una democrazia sostanziale le limitazioni della libertà sono giustificate tutte le volte in cui questa libertà, l’esercizio di questa libertà, metterebbe in serio pericolo, metterebbe a rischio un altro diritto fondamentale delle persone che ci stanno intorno. E, così come è giustificato anche secondo la Costituzione – purché non manchi mai la realizzazione del senso di umanità – ricorrere a una restrizione nel caso in cui una persona sia pericolosa per il suo comportamento voluto – come nella situazione in cui una persona commetta un reato –, così la libertà può essere limitata anche nei casi in cui questo comportamento sia sostanzialmente esente da una volontà di danneggiare ma nello stesso tempo sia idoneo a danneggiare altre persone.

D’altra parte, anche il codice penale prevede la possibilità che un reato sia commesso per dolo – volontariamente – o per colpa – e cioè per imperizia, imprudenza, negligenza o inosservanza degli ordini.

Ecco, vedete che alla fin fine sono ammesse entrambe le situazioni – così come quando si è commesso un reato ci si vede limitata la libertà perché e fin quando si è pericolosi, allo stesso modo la libertà può essere limitata quando il comportamento cagiona dei danni alle persone che ci stanno intorno.

Ai tempi del virus. La mafia fa affari

Parafrasando L’amore ai tempi del colera di García Márquez, riflettiamo su “La mafia ai tempi del Coronavirus”, confidando che la bestemmia dell’accostamento amore-mafia possa attenuarsi almeno un po’ se inserita in un incipit che riunisce mafia–colera-Coronavirus, quasi fossero sinonimi.

Partiamo da un primo dato: la vera e propria “economia parallela”, con guadagni giganteschi e andamento sempre in crescita, che le mafie hanno da tempo costruito. Una economia illegale che pian piano è riuscita a risucchiare nel suo gorgo commerci, imprese e forze economiche sane, frenate spesso dal fatto che osservare le regole non è come impiegare sistematicamente forme di persuasione, corruzione o minaccia, invisibili o violente a seconda dei casi. Così l’economia illegale inesorabilmente avanza e ha potuto espandersi come un’onda che si insinua dovunque. Nei fatti, libero mercato e concorrenza han cominciato a diventare scatole vuote che facilitano il massiccio inquinamento dell’economia pulita. I portafogli dei mafiosi e dei loro complici si gonfiano sempre più e gli effetti sullo sviluppo del Paese sono devastanti. Significativa l’equivalenza stabilita dal governatore Draghi: “Più legalità uguale meno mafie, e più legalità – meno mafie uguale più sviluppo”.

Su questo primo dato se ne è ora innestato un secondo: il Coronavirus, che – oltre ai danni alla qualità della vita e alla sicurezza delle persone – sta causando uno choc economico-finanziario di proporzioni preoccupanti. I fattori che vi concorrono sono molteplici: tempeste fuori controllo sui mercati; spread con massimi storici; turismo, spettacolo, cultura e sport bloccati; attività produttive industriali e commerciali sospese, sia pure con eccezioni legate principalmente alla erogazione di servizi essenziali o di pubblica utilità; fatturati al minimo; cassa integrazione e altre doverose indennità in crescita esponenziale; onerosi bonus sociali per poter tirare avanti; debito pubblico faraonico; Pil in caduta verticale, con la previsione che si arriverà a -8, se non peggio. I problemi sono poi aggravati dal fatto di essere non soltanto italiani, ma internazionali (con ripercussioni negative sull’export-import e sulla competitività del nostro Paese).

Per valutare congiuntamente i due dati (economia “parallela” e Coronavirus), va rimarcato che i mafiosi hanno nel loro Dna di sciacalli-avvoltoi una specialità, quella di ingrassare sulle sofferenze altrui. Un terreno fertile per le loro infiltrazioni è costituito quindi da tutto ciò che danneggia i cittadini e gli operatori onesti. Compreso ovviamente lo choc economico-finanziario del Coronavirus, a causa del quale tante attività ora in ginocchio dovranno poi chiudere o faranno una gran fatica a riprendersi. E quando l’emergenza sarà superata potranno risultare spolpate e senza denaro in cassa: facile preda, per pochi soldi, dei mafiosi. Forti di alcuni vantaggi “storici”: capitali a costo zero (il mafioso è straricco grazie al flusso inesauribile dei proventi delle sue attività criminali); e proprio per questo, quando rileva o intraprende un’attività economica può anche non avere come obiettivo di medio periodo il guadagno; può “accontentarsi” di controllare e/o conquistare pezzi di mercato, operando in condizioni che spiazzano la concorrenza, costretta invece per sopravvivere a guadagnare subito.

Il Coronavirus apre così nuove opportunità alle mafie e uno scenario già di per sé cupo potrebbe persino tracimare in catastrofe. Anche di qui nasce la necessità assoluta di pianificare sin d’ora e per quando la crisi sarà finita aiuti massicci (i cosiddetti bazooka economici) sul piano nazionale ed europeo; e nello stesso tempo di contrastare le mafie secondo strategie di cooperazione internazionale che muovano sempre più sulle vie del denaro sporco che si ricicla.

Guai se ci lasciassimo sorprendere! Sarebbe una iattura dare anche solo l’impressione di non combattere (o di non metterci sufficiente energia) una battaglia che per quanto difficile si può sostenere e vincere. Purché si giochi d’anticipo, organizzandosi fin da subito con un potenziamento della Dia e dei Corpi speciali delle varie forze di polizia, dotandoli dei mezzi occorrenti per attuare – insieme alla Procura nazionale antimafia – un piano articolato di individuazione e intervento sulle iniziative che i mafiosi stanno sicuramente già mettendo a punto. Con il probabile impiego di cervelli di prim’ordine “arruolati” sulle piazze finanziarie a suon di laute remunerazioni.

Dopo la caduta del Muro di Berlino, i mafiosi si scatenarono in ogni tipo di transazione economica, riuscendo ad ampliare i loro inquinanti insediamenti. Ricordiamolo, per non ritrovarci schiacciati – al tempo del coronavirus – da fenomeni che colpirebbero al cuore anche la democrazia.

Mail box

 

Mia moglie costretta a far la guardia al museo chiuso

Sono un pensionato di 64 anni, sono stato appena dimesso da un intervento chirurgico e sono attualmente convalescente in casa. Mia moglie è dipendente della P. A. con la qualifica di addetto all’accoglienza e vigilanza museale. In questi giorni, i musei di tutta Italia sono chiusi al pubblico. Qualcuno di questi è sorvegliato esternamente da personale di vigilanza privata (vedi Galleria Corsini a Roma) dove il personale interno svolge turni di sola reperibilità e da casa. Questa disposizione però non viene applicata nella sede dove mia moglie svolge il suo lavoro, mettendo ogni giorno a rischio di contagio da Covid-19 lei e tutti i colleghi, questo per cosa? Per fare vigilanza dall’interno. Qualcuno sa spiegarmi a cosa serve e quali sono le differenze tra questi musei. Mia moglie ha deciso di fare domanda di aspettativa non retribuita per un periodo di 30 giorni. La domanda è stata accolta solo per due settimane perché la struttura è “sotto organico”. Sotto organico? Forse per la eccezionale affluenza di visitatori?

Franco

 

L’analisi dei dati determinante per arginare la diffusione

La Germania, nazione dalla quale scrivo e dove lavoro da dieci anni, segue con attenzione la tragedia umanitaria che ha colpito l’Italia, per solidarietà e per cercare di interpretare, prevedere e reagire a ciò che ci si aspetta accada nelle prossime settimane. L’analisi dei dati sulla mortalità e il confronto tra le varie nazioni pongono l’Italia ai primi posti di una tragica classifica che nessuno avrebbe mai voluto stilare. Ma trovare una spiegazione dei dati forniti giornalmente è difficile.

L’età media della popolazione colpita, le abitudini sociali, la gravità del quadro clinico e la fase del contagio, spesso chiamati in causa in queste settimane, non possono essere sufficienti a giustificare l’attuale catastrofe sanitaria italiana. Se il numero dei decessi non si può mettere in discussione, e la distinzione tra decessi per o con Covid-19 difficilmente ottenibile, ci si chiede se davvero si è in grado di stabilire il numero reale di contagiati dal virus in Italia. Su tale numero, infatti, è stimata la mortalità. E su questi numeri si basa la paura che sta fermando l’intero sistema sociale ed economico mondiale.

Nessun numero potrà mai rendere conto dell’eroico sforzo personale e professionale dei colleghi, degli addetti ai lavori e degli italiani. Tuttavia, la valutazione e l’interpretazione delle statistiche rimane una vitale fonte d’informazione e d’ispirazione per chi questa battaglia la deve vincere.

 

Salvatore Cassese, cardiologo

Scrivo la presente in nome e per conto dell’Istituto Figlie di San Camillo, in persona del legale rappresentante pro tempore con riferimento alla serie di articoli pubblicati sul Fatto Quotidiano, e in particolare all’articolo apparso il 21 marzo 2020 dal titolo “Coronavirus, altre 20 suore positive. Timori per l’ospedale Vannini di Tor Pignattara di Roma” a firma di Vincenzo Bisiglia pubblicato sul quotidiano (anche online) per precisare quanto segue. Nell’articolo vengono riportate una serie di circostanze inveritiere, parziali, non verificate e gravemente lesive della reputazione e del buon nome dell’Istituto Figlie di San Camillo.

In particolare: non corrisponde al vero che ci siano suore individuate come positive che operano nell’Ospedale Vannini. È vero invece che sono stati prelevati i tamponi su tutte le suore in servizio come caposala, che hanno dato risultato negativo; non corrisponde al vero che alcune suore si sarebbero recate a Cremona e si lascia intendere che questo fatto avrebbe prodotto il contagio. Nessuna suora di Roma ha viaggiato a Cremona nel periodo rilevante ai fini del contagio. Volutamente viene ingenerata l’idea che l’ospedale si avvalga di personale notoriamente infetto, inducendo tra l’altro confusione tra le infezioni rilevate nella casa generalizia, dove risiedono suore che non prestano servizio presso l’Ospedale Vannini, e quest’ultimo.

La mia assistita si riserva il diritto di agire in via giudiziaria, se necessario anche in via d’urgenza, per la tutela delle proprie ragioni oltreché per il risarcimento del danno. La diffusione di notizie non veritiere, e foriere di allarme sia dentro che fuori dell’ospedale, è, ancor più in questo delicato periodo, fonte di danno particolarmente grave alla struttura ospedaliera, alla sua reputazione e alla serenità degli operatori che si trovano a gestire i servizi sanitari in questo periodo di emergenza.

avv. Pietro Cavasola per conto dell’Istituto Figlie di San Camillo

 

Gentile avvocato, nell’articolo da lei citato non si asserisce affatto che “ci siano suore individuate come positive che operano nell’Ospedale Vannini”. Il viaggio a Cremona è stato confermato dalla Regione Lazio. I contatti fra le suore che operano al Vannini e quelle della casa generalizia di Grottaferrata sono stati riportati da sindacati e lavoratori (come indicato nell’articolo) e suffragati dalla stessa necessità di eseguire tamponi alle suore caposala del Vannini, dato che dalle Asl viene continuamente ribadito il protocollo dell’Iss che non prevede test a persone asintomatiche o senza link epidemiologici. Alle continue richieste del Fatto di ottenere replica dall’istituto, è sempre seguito il “no comment”. La notizia dei tamponi negativi è arrivata solo la domenica mattina, oltre 12 ore dopo la pubblicazione dell’articolo.

Vin. Bis.

Tutti devono fare la loro parte. Anche Confindustria

Ho 46 anni e lavoro a Lodi, nella sede distaccata di un gruppo chimico-farmaceutico.

Leggo da giorni del penoso “scaricabarile” tra il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, in merito al “lockdown” di tutte (TUTTE) le attività produttive in Regione per bloccare l’ulteriore diffusione del contagio, e per dar respiro a un sistema sanitario che già da tempo ha gettato la spugna.

A persone conviventi con casi dichiarati di Covid-19, che voi mi crediate o meno, in Lombardia non viene più nemmeno fatto il tampone, pur venendo imposta la quarantena.

A questo proposito, posso dirvi che, con buona pace di tutti gli aiuti e i sussidi stanziati dal governo, le imprese del Lodigiano, nella prima zona rossa, hanno – quanto meno fino a ieri – continuato a produrre senza troppi problemi, pur nel formale rispetto del Protocollo che era stato firmato con le sigle sindacali.

L’obiettivo, ormai sempre più chiaramente, non sembra quindi essere la tutela della pubblica salute, ma il terrore di perdere mercato.

Le persone sono spaventate. Non occorrono solo i dispositivi di protezione individuale, ma una politica nazionale: o devo credere che la base del nostro ordinamento italiano sia il Pil, lo spread e non la persona?

Se è vero che occorre combattere una guerra, è altrettanto giusto, a mio parere, che tutti (tutti) debbano sacrificare qualcosa. Anche Confindustria. Stupisce che persino Trump, che di certo non è un modello di umanesimo né di sensibilità, abbia blindato New York.

Aggiungo che alcune realtà, per prima quella in cui lavoro, non prevede alcuna agevolazione per il personale particolarmente fragile, per patologie proprie o perché convive con anziani, invalidi e simili. Il protocollo, infatti, si guarda bene dall’istituire permessi retribuiti straordinari, extra-contratto nazionale di categoria.

Sì, è in corso una guerra. Ma non solo, e non tanto, contro il coronavirus. Ma contro la persona umana e la sua dignità inalienabile.

Non credo che la Costituzione ammetta che il diritto alla salute venga gestito da privati. Invece finora tutto si è impostato sulla “base volontaria”: si leggono espressioni come “è possibile per l’azienda”, “l’azienda può” e simili.

L’azienda “può”. Il dipendente, invece, “deve”.

Con buona pace dell’hashtag #iorestoacasa.

Lucia Bosè, l’ultima diva da Picasso ad Antonioni

Era ancora bellissima con quei capelli blu che la rendevano diversa dalle altre, quel tanto di pop desunto dal colore primario amato da Pablo Picasso, di cui era stata amica. A dare la notizia della scomparsa di Lucia Bosè è stato il figlio Miguel, adorato dalle teenager italiane e spagnole negli ’80, attraverso un tweet dal tono affettuoso. E anche lei, splendida milanese di 89 anni, al pari di troppi suoi coetanei, è stata strappata alla vita dalla polmonite interstiziale per Covid-19. Se n’è andata nell’ospedale di Segovia, in quella Spagna che l’aveva adottata nel 1955 a seguito del matrimonio glamour con il torero Luis Miguel Dominguìn, da cui ha poi avuto tre figli.

Scoperta da Luchino Visconti dietro al bancone della Pasticceria Galli che è ancora una ragazzina, a 16 anni Lucia Bosè viene incoronata Miss Italia e a 19 debutta davanti alla macchina da presa per Giuseppe De Santis in Non c’è pace tra gli ulivi. Ad attenderla è una carriera straordinaria, almeno fino al 1956: Michelangelo Antonioni la trasforma nell’alto-borghese Paola in Cronaca di un amore, Luciano Emmer in una de Le ragazze di Piazza di Spagna, De Santis le offre il bis nel drammatico Roma ore 11 “restituendola” poi ad Antonioni che la pretende come La signora senza camelie, mentre Citto Maselli la scrittura ne Gli sbandati. Allontanata dai set dalla gelosia del torero-divo, torna al cinema dopo il divorzio nel 1968, recitando fra gli altri per i fratelli Taviani (Sotto il segno dello scorpione), per Fellini in Fellini Satyricon, per Bolognini (Metello, Per le antiche scale, La certosa di Parma), Francesco Rosi (Cronaca di una morte annunciata). I suoi ultimi anni li ha trascorsi presso un mulino a Segovia che aveva trasformato nel “Museo degli Angeli” dedicato all’arte contemporanea.

Un disastro annunciato (dalle stelle)

Si fa presto a dire che gli astrologi falliscono. A guardare le previsioni fatte nel 2019, infatti, si scopre che, mentre noi stappavamo lo spumante, i nostri esperti di futuro profetizzavano rivoluzioni astrali e stravolgimenti globali. La palma della chiaroveggenza? Senz’altro va al portale astrologico Nel magico mondo di Isolo dove si predicevano, per il 2020, “grazie” alla congiunzione di Saturno e Plutone, “cambiamenti epocali e duraturi nella storia dell’umanità”, proprio come nell’agosto nel 1914 o nel settembre del 1939.

Ma c’è di più: il transito di Saturno in Acquario, si leggeva sul sito, annunciava l’arrivo di “scelte drastiche” che porteranno gli umani a “cambiare rotta”, passando per un guado oscuro, come la fenice che risorse dalle ceneri.

“Eventi eccezionali per la Scena Mondiale in ordine alla Triplice ed Irripetibile congiunzione di Giove, Saturno e Plutone nel segno del Capricorno” erano stati intravisti anche dagli astrologi di Astropoli.it, che indicavano – nel libro Previsioni Astrologiche 2020. O ti superi o ti limiti, “fasi di crisi tra poteri diversi, rimodulazione del settore alimentare ed economico, scoperte rivoluzionarie” e un ruolo di “Primissimo Piano” di Marte, il Pianeta dell’Azione, della Volontà e della Guerra sulla Dinamiche degli Eventi”.

Ma se gli indovini di medio calibro hanno, per quest’anno, sfoderato tutta la loro capacità visionaria, anche le grandi astro-star non sono state da meno. “Per la metà del tempo Marte sarà in assetto di guerra in Ariete”, aveva scritto il notissimo Branko, per poi presagire che l’uomo avrebbe dato prova del suo immenso ingegno “nel campo della matematica, delle scienze, della ricerca medica e astrofisica”. Dal canto suo, Rob Brezsny avvertiva che “il 2020 sarà un anno in cui prevarranno domande, il 2021 offrirà risposte importanti” e Paolo Fox lanciava per il 2020 il motto “ripartiamo da zero”.

E che dire di Simon & The Stars, che nel nuovo libro L’oroscopo 2020, il giro dell’anno in 12 segni, scriveva, forse prevedendo la quarantena, che a fare da padrone sarebbe stato il Capricorno, “il genitore severo che ti dà lo sculaccione, che ti spinge a raddrizzare le cose, con le buone o con le cattive”? Di più: secondo l’astro blogger, le sequenze astrali segnalavano “uno step successivo nel nostro percorso sulla Terra come esseri umani”. Insomma, il 2020 è l’anno “di o la va o la spacca”.

Ancor più dettagliate le intuizioni di Astra che prevedeva “una prova da superare per la Cina”, anche lo sviluppo di “nuovi e più veloci e più sofisticati sistemi di comunicazione” (smart working?). Una profezia c’era stata anche per Nicola Zingaretti – “mesi complicati a causa dell’opposizione di Nettuno” – e per il premier Conte, per cui si immaginava un aumento di consenso ma anche il rischio di “avere la sensazione di essere politicamente invulnerabile”. Insomma, che dire? Visto che gli italiani sono allergici agli esperti veri, che almeno ascoltino i visionari delle stelle. A noi non resta che sperare, con Branko, che questa “nuova e mai provata agitazione sarà un blitz di qualche mese, poi il pianeta rientrerà in Capricorno fino a Natale”. Quando, se non avremo il vaccino, potremo almeno contare su un altro vaticinio.