“Il call center di Alitalia è un pollaio”: la denuncia dei lavoratori spaventati

Questa mattina, mentre il commissario straordinario di Alitalia, Giuseppe Leogrande, e i sindacati terranno una videoconferenza con il ministero del Lavoro per tentare di raggiungere un nuovo accordo sulla cassa integrazione (c’è la volontà di estenderla al 31 ottobre per quasi 4mila dipendenti), 50 lavoratori del call center inhouse di via Ezio Bevilacqua a Fiumicino si ritroveranno a lavorare in due stanzoni senza adeguate misure di sicurezza. “Siamo in un pollaio”.

A denunciarlo al Fatto è uno dei dipendenti a tempo indeterminato della compagnia che presto potrebbe tornare a trazione statale con una flotta di 25-30 aerei.

“La scorsa settimana – spiega il lavoratore – abbiamo chiesto al nostro responsabile di valutare lo smart working. Non una rivendicazione, ma una richiesta dettata dall’emergenza sanitaria, visto che domenica 22 è finita la cassa integrazione a rotazione e questo avrebbe aumentato il numero di colleghi nello stesso spazio di lavoro, composto da decine di isole con 4 postazioni. Non siamo stati ascoltati: hanno solo attivato la sanificazione. Così ieri ci siamo ritrovati a lavorare in 40, senza che nessuno ci abbia garantito le dovute distanze di sicurezza”, denuncia il dipendente che per il contact center interno di Alitalia gestisce le telefonate per emettere e spostare le prenotazioni e si occupa dei buoni che vengono dati ai clienti cui vengono cancellati i voli. “Quando sono venuti a misurare la distanza tra le postazioni – prosegue – c’è stato detto che c’è oltre un metro. Ma non è vero: quella è la lunghezza della scrivania. Non indica la distanza tra le sedie girevoli. Siamo terrorizzati, soprattutto dopo la morte del collega del call center Tim. Nessuno vuole capire che siamo ammassati in questi stanzoni senza protezioni. Abbiamo anche chiesto di essere trasferiti negli altri uffici della palazzina rimasta quasi vuota. Non ci è stato acconsentito. Così come – spiega ancora – non hanno ascoltato l’altra nostra richiesta: evitare gli assembramenti diversificando gli orari. Venerdì scorso abbiamo ricevuto una mail in cui l’azienda ha chiesto una mappatura per capire quanti di noi abbiano il pc e la connessione da casa. Spero che questo sia il preludio allo smart working”. Un caso che tiene accesi i riflettori sui call center che per decreto restano un servizio essenziale. Intanto 420 dei 600 colleghi di cuffia del dipendente Alitalia che per Almaviva operano sul call center della compagnia aerea dalla scorsa settimana sono in smart working.

I cassieri, i camionisti e i rider: gli obbligati in trincea per decreto

Se per medici, infermieri e forze dell’ordine era scontato rimanere in servizio in giorni come questi, per altri non lo era affatto. Eppure la fetta di lavoratori costretti in trincea è ancora cospicua: un esercito formato da tutti quelli impegnati in attività che nessun decreto potrà o vorrà fermare. E che fornisce un inedito concetto di “pubblica utilità”. Cassieri e commessi, per esempio, ma anche il pianeta della logistica, con i rider del cibo a domicilio in sella, corrieri e camionisti al volante e facchini nei magazzini. Gli addetti alle pulizie chiamati al fondamentale compito di rendere sani gli ambienti. I braccianti nei campi, dove la distanza di sicurezza è un sogno. I professionisti della cura di anziani e disabili, i bancari, gli impiegati delle poste, i tecnici delle manutenzioni, i vigilanti: quali che siano i numeri del contagio, resteranno sempre lì, attivi. Si sentono figli di un dio minore e non ci stanno a vivere con il rischio di essere contagiati.

Alla cassa. Le file ai supermercati testimoniano le tante interazioni quotidiane dei cassieri. Quattro giorni fa, a Brescia, è morta una di loro a causa del virus. “La gente vive di fretta, non osserva la distanza di sicurezza – ha raccontato un dipendente lombardo dell’Esselunga –. Da noi i clienti si mostrano scocciati, non capiscono che si devono osservare queste direttive per il bene di tutti”. “Le mascherine che ci arrivano sono di stoffa – ha aggiunto – non sono protezioni sufficienti”. I turni, dicono i sindacati, portano allo stremo. “Riduciamo gli orari di apertura”, aveva chiesto il segretario Cgil Maurizio Landini anche se c’è chi sostiene che così l’affluenza si concentrerebbe e aumenterebbero gli assembramenti. Alcune Regioni sono intervenute autonomamente sugli orari, in altri casi le catene hanno stretto accordi con i sindacati. Quasi tutti stanno chiudendo la domenica pomeriggio.

In strada. Se le merci viaggiano, qualcuno deve pur guidare. I trasporti sono rimasti e rimarranno in funzione. In testa i conducenti di camion. Il boom della spesa online, poi, sta chiedendo lo sforzo dei fattorini, molti di loro inquadrati come lavoratori “autonomi”, tipo quelli di Supermercato 24. La piattaforma ha chiesto ai suoi shopper di dotarsi autonomamente di mascherina e gel (e chiedere poi il rimborso), e ha aumentato di un euro la paga a consegna. Amazon ha deciso di dare priorità ai beni di prima necessità, altri siti di e-commerce (come Zalando, che vende abbigliamento) stanno offrendo sconti per chi ordina in questi giorni. Anche nel food delivery, app come Deliveroo e UberEats promuovono offerte promettendo ai clienti la consegna senza contatto. Sindacati e collettivi sono in protesta: “Abbiamo chiesto il blocco del servizio – dicono da Deliverance Milano – ma né il sindaco né il governatore hanno preso provvedimenti. Così si prestano al gioco di Assodelivery (l’associazione delle piattaforme, ndr) che scarica la responsabilità sociale e d’impresa, sui suoi corrieri”.

I servizi. Gli addetti alle pulizie degli ospedali sono a volte impegnati in turni senza riposi per 7 euro all’ora, ha detto la Filcams Cgil. E nemmeno loro riescono a ottenere sempre le mascherine dai datori, in genere imprese in appalto. Inoltre, tutto il mondo degli operatori socio-sanitari non può far venir meno l’assistenza a chi è in difficoltà nelle residenze e anche a domicilio. Per loro è quasi sempre impossibile evitare il contatto: a maggior ragione, i sindacati e le associazioni hanno chiesto con urgenza dispositivi soprattutto per loro. “Non vogliamo e non possiamo mandare al lavoro operatori che non siano messi in sicurezza – ha detto Alberto Alberani, presidente delle cooperative sociali in Emilia-Romagna – Si mette a rischio la loro salute, ma soprattutto quella degli utenti che sono spesso anziani e affetti già da patologie croniche”.

Nei campi. Il primo anello della catena è l’agricoltura. In un settore ancora vittima del caporalato è difficile imporre regole sanitarie più severe. E infatti, la Flai Cgil denuncia da giorni le condizioni nei ghetti: “Braccianti africani ammassati ogni mattina all’alba nei pullman verso i terreni – avvertono – ospitati in tendopoli o strutture occupate a volte senza acqua corrente”. Un’emergenza nell’emergenza che, per sindacati e associazioni, richiederebbe un piano straordinario per l’accoglienza per evitare che le zone della raccolta diventino focolai e una sanatoria così da rendere meno ricattabili gli irregolari.

Al lavoro in oltre 8 milioni. Il sindacato: “Sono troppi”

Il primo effetto del Decreto della Presidenza del Consiglio (Dpcm) del 23 marzo, con cui si sono definite le attività essenziali, è che sappiamo cosa si intende per attività fondamentale in una economia integrata. Il secondo effetto è che ai fini del controllo da Coronavirus quella lista è troppo ampia, secondo i sindacati, comprendendo circa 7,5 milioni di lavoratori del privato (2,1 milioni in Lombardia, fonte Ires Emilia-Romagna e OpenCorporation). Secondo i calcoli del Fatto (scorrendo uno a uno i codici Ateco e gli addetti corrispondenti relativi al 2017), il totale complessivo ammonta a 8,13 milioni di lavoratori, circa il 50% dei dipendenti complessivi e il 60% di quelli privati. Per Confindustria, invece, sarebbe stato meglio far lavorare più persone perché in questo modo “il 70% delle imprese rimane chiuso” e, avverte il presidente degli industriali, Vincenzo Boccia, “rischiamo di perdere 100 miliardi al mese” (ma non si considera il peso del pubblico sul Pil e il fatto che al 70% delle imprese non corrisponde analogo numero di addetti). Il terzo effetto è che su un tema come la salute, e la vita, si riformano contrapposizioni che sembravano scomparse, il lavoro contro l’impresa, accomunate da una narrazione imperante in un destino comune.

Nei giorni più duri della crisi sanitaria, invece, gli imprenditori vorrebbero continuare a mantenere aperte le aziende, i lavoratori hanno paura e vorrebbero stare a casa. Anche perché è tutto da verificare che le misure previste dal Protocollo sulla sicurezza firmato due settimane fa da governo, imprese e sindacati, funzionino davvero.

La vicenda dovrebbe essere dipanata oggi al ministero dello Sviluppo economico dopo che Cgil, Cisl e Uil hanno chiesto l’incontro al ministro Stefano Patuanelli per rivedere la lista dei lavori essenziali allegata al Dpcm. Oltre all’elenco, però, ci sono anche alcuni punti dello stesso decreto che non piacciono, perlomeno ad alcuni sindacati. La Fiom, infatti, punta l’indice contro la continuazione delle attività nei settori della Difesa e dell’Aerospazio e in quelle “a ciclo continuo”. Non si tratta di attività elencate nell’allegato (e quindi non rientrano nei calcoli fatti sopra), ma se ne chiede la restrizione. Va detto però che tali lavori interessano alcune decine di migliaia di lavoratori e quindi non intaccano il cuore del decreto.

Secondo i calcoli del Fatto – né i ministeri interessati né i sindacati hanno saputo fornire cifre dettagliate – il comparto metalmeccanico sembra interessato per circa 600 mila addetti, 300 mila vengono gomma, chimica e plastica, ma pesa molto il comparto alimentare con oltre 400 mila lavoratori dell’industria alimentare mentre 450 mila sono gli addetti del commercio all’ingrosso. Più di 550 mila addetti cumula il settore del trasporto terrestre e 367 mila quello del magazzinaggio. Importantissima, ovviamente, la sezione dell’assistenza sanitaria quantificata in oltre 550 mila addetti.

Molto rilevanti in termini di numeri il settore delle attività di informazione e comunicazione (570 mila), quello delle Attività finanziarie e assicurative (567 mila) e le attività legali e contabili (500 mila). Importantissime, ancora, le attività di pulizia e disinfestazione che organizzano 436 mila addetti mentre i call center sono 56 mila. Troppi, quindi, per i sindacati che sicuramente in questi giorni risentono delle richieste e delle proteste dei lavoratori. E così in Lombardia è stato già proclamato il primo sciopero unitario dei metalmeccanici con otto ore di fermata per mercoledì 25. “Le aziende che svolgono attività non essenziali devono chiudere e i loro dipendenti devono poter stare a casa”, insistono i sindacati. E gli stop potrebbero proseguire fino al 29 marzo, come fanno sapere in una nota congiunta Fim, Fiom e Uilm.

Ieri c’è stato il primo assaggio con lo sciopero nel settore dell’Aerospazio e della Difesa tra cui Leonardo, GeAvio, Fata logistic System, Lgs, Vitrociset, Mbda, Dema, Cam e Dar. E oggi potrebbe toccare alle banche. I sindacati di categoria Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin preparano la mobilitazione.

La Confindustria ha fatto notare che con il 70% delle imprese chiuse si perde circa il 70% del Pil, cioè circa 100 miliardi al mese. Il calcolo appare generoso perché nel Pil è compreso il settore pubblico e poi perché al 70% delle imprese, come abbiamo visto, non corrisponde la stessa percentuale degli addetti. Ma al di là dei dettagli, Confindustria sembra comunque attestarsi sulle indicazioni del governo a cui ha contribuito con un lavoro di interlocuzione diretto con il ministero dello Sviluppo economico il quale ha cercato di far quadrare le varie esigenze con i problemi che però sono emersi in queste ore.

La Cgil si siederà al tavolo per cercare di rivedere il più possibile l’elenco dei lavori, la Cisl sta lavorando per costruire una sua lista dettagliata e oltre al settore dell’Aerospazio e Difesa segnala anche che alcune lavorazioni indicate dal governo hanno definizioni generiche. Ad esempio i “prodotti chimici” o “l’ingegneria civile” oppure “le consulenze gestionali”.

Nessuno però, al momento, ha indicato una serie di settori che andrebbero esclusi perché non essenziali. In una economia molto integrata e soprattutto dopo decenni in cui lo Stato ha perso la stessa capacità di supervisionare la produzione, questa lista esatta sembra non avercela nessuno.

Ecco gli ostacoli giuridici più grossi di Conte&C. se vogliono rivolgersi davvero al super fondo

La posizione del governo italiano sul coinvolgimento del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) nella crisi del coronavirus presenta alcuni problemi difficilmente aggirabili. La proposta è nota: l’emissione di bond del Mes destinata a tutti i Paesi dell’Eurozona “senza alcuna condizionalità” (una lista di impegni modello Grecia) “né presente, né futura”. Quali sono gli scogli maggiori per l’esecutivo? Ne indichiamo tre.

1) Conte & C. hanno bisogno di un mandato parlamentare. La legge 324/2012 prescrive all’articolo 5 che il governo informi “tempestivamente le Camere” di ogni iniziativa che preveda “l’introduzione o il rafforzamento di regole in materia finanziaria o monetaria” o che “produca conseguenze rilevanti sulla finanza pubblica”. La tempestività è importante perché nelle trattative in sede Ue l’esecutivo deve tener “conto degli atti di indirizzo adottati dalle Camere”. Al momento, però, in Parlamento non c’è una maggioranza favorevole a rivolgersi al Mes, almeno finché i 5 Stelle (o almeno molti tra loro) restano contrari.

2) Il Mes è pensato per essere un creditore e – come tutti i creditori – ha l’obbligo di rientrare dei propri soldi con gli interessi: le condizionalità, cioè l’obbligo a firmare un Memorandum che prevede impegni inderogabili (tipo Grecia), è presente nel Trattato che istituisce il Mes. Non solo: nel Regolamento Ue che disciplina i suoi interventi si spiega che ogni debitore si impegna a un programma di “aggiustamento strutturale” e, se il ritmo non è quello stabilito, quel programma è modificabile dai governi, in sede Ecofin, in modo unilaterale. E ancora: una sentenza della Corte di giustizia dell’Ue ha chiarito nel 2012 che il Mes è compatibile col diritto comunitario, ma solo se dà prestiti “condizionati”. Peraltro, per modificare le regole non ci sono i numeri.

3) Ammesso che esista un Mes che dia prestiti senza condizionalità, resta un grosso problema. Il Fondo è un creditore privilegiato, come il Fmi per chi ne chiede i prestiti: il debito verso il Mes sarebbe senior trasformando il resto dei nostri titoli in junior con annesso crollo del valore (bella grana per le banche) e difficoltà nel rinnovo alla scadenza.

Salva-Stati, il fronte nordico vuole l’Italia sotto tutela

La decisione finale arriverà al Consiglio europeo di Giovedì. Ma già oggi si capirà che strada prenderà la richiesta di alcuni Paesi, Italia in testa, di usare i soldi dell’ex fondo salva-Stati, noto come Mes (Meccanismo europeo di stabilità) per fronteggiare la crisi economica innescata dall’emergenza sanitaria del Covid-19. E le avvisaglie non sono buone. I Paesi del blocco nordico non sembrano aver cambiato idea rispetto alla crisi dell’euro del 2011: niente aiuti senza precisi vincoli, cioè mettere sotto tutela le politiche fiscali dei prossimi anni.

La riunione dell’Eurogruppo, i ministri delle Finanze dell’eurozona, è fissata per le 18.30. Giovedì scorso, Giuseppe Conte ha chiesto ufficialmente che tutti i Paesi dell’euro possano usare le risorse del Mes “senza alcuna condizionalità presente e futura”. Come ha confermato il commissario Ue agli Affari economici, Paolo Gentiloni le ipotesi in campo sono tre. La prima è che il Mes offra linee di credito a tutti i Paesi membri, in modo da evitare l’effetto “stigma”, cioè che a chiederle siano solo alcuni Paesi finendo sotto pressione sui mercati. La seconda opzione è che venga fornita solo una qualche forma di liquidità destinata alle spese sanitarie per fronteggiare l’emergenza. La terza opzione è la più ardita: emettere i cosiddetti “corona bond”, debito garantito da tutti i Paesi dell’eurozona, una forma primordiale di eurobond, affidata al Mes. L’attivazione del Fondo salva Stati permetterebbe alla Bce di intervenire, in emergenza, con le Omt, le operazioni di acquisto illimitato ti titoli di Stato di singoli Paesi.

La linea italiana, studiata dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (e caldeggiata dalla Banca d’Italia) è una sintesi della prima e della terza. Oggi per accedere alle linee di credito del Mes (note come “Eccl”) il Paese che ne fa richiesta deve siglare un Memorandum in cui si impegna a rientrare attraverso misure precise (tagli e tasse). È il meccanismo già visto in azione in Grecia, Paese che ha consegnato le sue politiche fiscali alla vigilanza dei suoi creditori. Conte e Gualtieri sperano di poter evitare le condizionalità, che però sono previste dal trattato istitutivo del Mes. Per farlo servono nuovi strumenti che aggirino l’ostacolo, e qui entrano in gioco i corona bond. Problema: i Paesi del Nord non li vogliono.

All’Eurogruppo del 16 marzo lo scontro si è già delineato. Da un lato, Italia, Francia e Spagna, dall’altro Germania e Austria contrarie a usare nuovi strumenti in capo al Mes perché – è emerso dai documenti tecnici preparatori – “dovrebbero essere approvati dai rispettivi parlamenti e si perderebbe tempo”. In realtà non c’è nessuna intenzione di fare grandi concessioni. L’Olanda è fortemente contraria. Ieri il ministero delle Finanze olandese ha fatto sapere che il Paese “è impegnato ad assicurare che una forma appropriata di condizionalità sia rispettata per ogni strumento utilizzato, come richiesto dall’attuale Trattato del Mes”. La posizione di Berlino è più sfumata. Merkel ufficialmente non ha chiuso all’idea italiana, ma sposarla frantumerebbe il suo fronte interno. Ieri, funzionari del governo tedesco hanno spiegato a Bloomberg che Berlino è disposta solo a concedere un prestito di emergenza all’Italia: “La Germania – è la linea – non è pronta a proseguire sugli eurobond. I tedeschi ritengono che l’Italia avesse problemi già prima che il virus colpisse la sua economia, e potrebbe essere necessario risolverli una volta superata l’emergenza”. Insomma, l’assenza di condizionalità può essere solo temporanea. Passata la fase critica, le politiche economiche dell’Italia saranno sottoposte al controllo del Mes, cioè di un organismo a trazione tedesca, considerato più efficace nel far rispettare le regole rispetto alla Commissione europea, ritenuta troppo politica.

Fin qui le fibrillazioni europee. Il problema è però anche la tenuta del governo giallorosa. Qualsiasi decisione (e per la verità anche la linea negoziale) deve passare dal Parlamento, dove non esiste al momento una maggioranza a favore del Mes. Oltre a Lega, Fratelli d’Italia e LeU, anche i 5Stelle sono assai contrari a qualsiasi coinvolgimento del fondo salva-Stati che preveda condizionalità. Linea recapitata ieri a Conte anche dal reggente Vito Crimi.

L’idea è che non serva uno strumento come il Mes, quando la Bce ha appena varato un maxi-piano di acquisto di debito pubblico dei Paesi dell’eurozona da oltre 750 miliardi e ha annunciato di essere pronta a fare anche di più. Ieri la Federal Reserve Usa ha preso la storica decisione di non mettere più limiti al suo piano di acquisto di debito federale, e potrà di fatto prestare soldi direttamente alle imprese americane. Al netto delle condizionalità, i prestiti del Mes diventerebbero debito “senior” cioè privilegiato rispetto a debito già emesso. Una mossa che per l’Italia si potrebbe rivelare disastrosa, innescando una fuga degli investitori dai suoi titoli di Stato.

“Emergenza mascherine risolta. Anche la diplomazia salva vite”

Nessun dubbio sulla linea, casomai il contrario: “Abbiamo degli alleati certi, come gli Stati Uniti. E poi abbiamo investito sull’amicizia con Cina e Russia e abbiamo fatto bene visto l’aiuto che ci stanno dando, la diplomazia salva delle vite”. Alle prese con mascherine e ventilatori polmonari da trovare ovunque (“i nostri ambasciatori in giro per il mondo riempiono i magazzini”), il ministro degli Esteri Luigi Di Maio difende il governo: “Nessuno è andato a scuola di lockdown, questa è una crisi senza precedenti. Si può sempre fare meglio, ma se si riguardano le recenti dichiarazioni di molti emerge che giorni fa in tanti si erano schierati contro le chiusure. Eviterei polemiche: pensiamo a fare squadra”.

Partiamo dalle mascherine: scarseggiano e sembra che l’Italia se le sia fatte spesso soffiare da altri Paesi.

L’Italia ha bisogno di 100 milioni di mascherine al mese e di 10mila ventilatori polmonari, stando alle proiezioni sull’evoluzione del coronavirus. Per sopperire abbiamo chiuso un contratto con la Cina per ottenere 20 milioni di mascherine a settimana, per un primo lotto da 100 milioni.

Bastano per un mese…

Il contratto è ampliabile, ci stiamo lavorando. Nell’attesa, dalla Cina ci verranno donati 3 milioni di mascherine e 200 ventilatori polmonari. E poi abbiamo sbloccato carichi fermi in vari Paesi, dalla Turchia alla Repubblica Ceca fino a Romania ed Egitto.

Perché erano stati fermati?

Sono intervenute le agenzie delle dogane, perché tanti Paesi stanno bloccando l’esportazione di materiale medico. Lo abbiamo fatto anche noi. Ma per rimediare ho chiamato i ministri degli Esteri: in diversi casi non sapevano neppure del fermo dei materiali.

Cosa hanno chiesto in cambio?

Di essere aiutati se dovessero ritrovarsi nelle nostre condizioni.

E cosa otterrà la Cina, la definitiva acquisizione dell’Italia nella sua sfera di influenza?

Non ci sono rischi geopolitici, ci sono solo rapporti di amicizia, come quello con la Russia, che ci ha mandato nove aerei con materiale e medici. Mi fanno sorridere quelli che ci contestavano di aver aperto la via della Seta. Avevamo ragione quando abbiamo inviato 40mila mascherine in Cina appena scoppiata l’epidemia a Wuhan. Ed è stato importante anche il concerto organizzato al Quirinale con il più importante artista cinese.

Cina e Russia buone, Europa cattiva? Molti Paesi hanno ignorato le vostre richieste.

Io non mi sento affatto abbandonato dall’Occidente. Molti Paesi europei ci stanno aiutando. Ricordo anche che ci è arrivato oltre un milione da una fondazione statunitense, ed è giunta una donazione dall’India.

Nell’Eurogruppo di domani (oggi, ndr) si parlerà del Mes, il fondo salva-Stati. Il M5S è contrarissimo a usarlo, come ripete il capo politico Vito Crimi. Lei?

Condivido quanto detto da Crimi. Certi strumenti sono stati già utilizzati dopo la crisi dei mutui subprime e hanno dimostrato di non funzionare, cioè di non garantire serenità ed eguaglianza ai cittadini. Serve un’altra soluzione.

Giuseppe Conte che posizione ha? I falchi del Nord Europa invocano già la clausola di condizionalità per chi farà ricorso al Mes.

Sono d’accordo anche con il premier: ha detto chiaramente che una cosa sono i soldi del Mes, soldi nostri, un’altra ciò che li contiene. La crisi economica che seguirà quella sanitaria non verrà superata con i memoranda.

Le “comunicazioni” di sabato sera di Conte hanno provocato una bufera. Ha parlato quando il decreto non era ancora chiuso.

Se non avesse parlato sarebbero uscite le prime bozze del decreto, e gli avrebbero contestato di essere rimasto zitto. Non esistono tempi contingentati, e preferisco un premier che aggiorna costantemente i cittadini.

L’impressione è che si vada a tentoni: ordinanze blande il venerdì e strette il sabato.

Ripeto, è una crisi senza precedenti. Il governo si sta muovendo con gradualità, in base all’evoluzione dello scenario. Siamo al secondo giorno di calo nei contagi. È un piccolo segnale, ma dobbiamo continuare in questa direzione.

I sindacati minacciano lo sciopero, la Regione Lombardia è sempre sul piede di guerra con voi.

Si incrociano interessi diversi. Abbiamo adottato il lockdown e ora dobbiamo puntare ai risultati. Quando si avranno, saranno stati merito di tutti.

Le opposizioni reclamano il coinvolgimento del Parlamento. Non è doveroso?

Il Parlamento va certamente coinvolto, e i partiti hanno gli strumenti per farlo. Ma nell’emergenza si prendono decisioni di emergenza. Per questo abbiamo adoperato i decreti legge e i decreti del presidente del Consiglio.

Arriveranno sanzioni più dure per chi vìola i divieti?

Sì, se una minoranza di irresponsabili non la smetterà di prendere in giro lo Stato. A queste persone non è bastato neppure vedere le file di bare a Bergamo, evidentemente.

La Asl accusa gli specializzandi: “Rifiutano il lavoro per viltà e per soldi”

Quattro medici specializzandi in Rianimazione e Anestesia delle Università Federico II e Vanvivelli di Napoli retribuiti con circa 1.700 euro al mese, tre uomini e una donna, hanno rifiutato un’assunzione con contratto di sei mesi per combattere l’emergenza coronavirus, con uno stipendio base di circa 2.200 euro netti, lievitabile a 2.500 e anche a 3.000 euro con le varie indennità, “evidenziando che il trattamento economico riconosciuto è inferiore alla loro aspettativa” e dicendosi sicuri che “tanto a noi ci assumono le altre regioni e ci pagano quanto vogliamo”. È la versione del manager dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva, che attribuisce loro queste parole in un documento dato ai vertici della Regione Campania con il quale Verdoliva esprime “commiserazione” per i quattro dottori accusati di aver avuto un comportamento “vile e vergognoso: invece di correre alle armi, hanno giocato al rialzo”.

Li difende il presidente dell’Ordine dei Medici di Napoli, Silvestro Scotti: “Non è corretto farli apparire come mercenari, non ci servono eroi morti, ci servono medici ben protetti che possano salvare la vita dei pazienti e la propria”. Secondo le informazioni raccolte da Scotti, alla base del rifiuto dei quattro specializzandi ci sarebbe la consapevolezza che sarebbero andati al lavoro “in totale insicurezza, senza adeguati dispositivi di protezione individuali (dpi), come si evince dalle note delle direzioni asl sulle carenze di dotazioni”.

Il Fatto è riuscito a mettersi in contatto con uno dei 4 specializzandi: “Sono sereno e a posto con la mia coscienza – afferma – di più non posso aggiungere perché coi tre colleghi stiamo preparando un’azione legale. Ma la versione offerta dall’Ordine dei medici rispecchia bene la nostra”.

Il Fatto ha sentito anche Verdoliva: “Spero di avere un chiarimento coi 4 medici – dice – e che si possa firmare il contratto. Altre regioni fanno offerte migliori? Non lo so”. Sul punto Scotti ha una sua spiegazione: “Probabilmente i 4 specializzandi si riferivano al bando della Protezione Civile, 200 euro al giorno più vitto e alloggio e dpi. Ma poi, mi scusi: lei si è chiesto perché l’Asl offre solo un’assunzione semestrale, mentre si potrebbero bandire assunzioni a tempo indeterminato?”.

“Altro che eroi, per noi infermieri co.co.co. a 13 euro”

Quasi 943 casi in più due soli giorni. Tanto che ora gli operatori sanitari infettati dal Covid-19 sono diventati 5.211, il 9% del totale dei contagiati. Mentre si allunga l’elenco dei medici stroncati dal virus, contratto mentre prestavano servizio: 24 (tre giorni fa erano 17). Il drammatico conteggio lo fa, quotidianamente, la Federazione degli ordini dei medici. Ogni giorno annota un nome e un cognome. Gli ultimi della lista sono Rosario Lupo, medico legale a Bergamo, e Giuseppe Fasoli, che faceva il medico di famiglia nel Bresciano: era già in pensione, ma era tornato al lavoro per aiutare i colleghi travolti dall’emergenza.

Ma adesso tra i camici bianchi, nelle corsie degli ospedali così come negli ambulatori, non c’è solo la paura di essere troppo esposti al contagio, privi come sono, spesso, dei dispositivi di protezione individuale – a partire dalle mascherine – e costretti a ingegnarsi con sacchi di plastica per le tute. Ci sono sconforto e indignazione. Perché, denunciano, se sono asintomatici, non viene eseguito loro il tampone che rileva il contagio. Così è previsto il decreto del 9 marzo scorso del premier Conte, stabilendo che non deve interrompere il servizio chi (in assenza di sintomi) ha avuto contatto con un soggetto a rischio o infettato, e che il test debba essere fatto solo a chi sta già manifestando i sintomi sospetti Coronavirus. “Sappiamo che i tamponi sono pochi. Peccato però che ogni tanto esca la notizia di un calciatore o di un politico che è stato sottoposto al test”, dice Giuseppina Onotri, segretaria generale dello Smi, sindacato medici italiani.

Così gli esposti alla magistratura continuano a fioccare. Oggi in Piemonte lo Smi ne depositerà due: uno alla Procura di Torino, uno a quella di Ivrea. In un caso, contro le direzioni generali delle Asl Torino 3 e Torino 5. Nell’altro, contro i vertici dell’azienda sanitaria di Ivrea. Entrambi perché i tamponi non vengono eseguiti e perché mancano mascherine filtranti, camici idrorepellenti, occhiali di protezione.

Ma è anche l’ira degli infermieri a montare. “Esaltati come eroi la mattina e trattati come merce di scarso valore la sera, nei provvedimenti delle istituzioni nazionali e regionali”, scrive Fnopi, federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche. Il decreto “Cura Italia” ha disposto, oltre all’assunzione di 5mila medici, anche quella di 20mila infermieri. Ma non tutte le Regioni, che si stanno muovendo in ordine sparso, hanno attinto alle graduatorie per le assunzioni a tempo indeterminato. Lombardia, Piemonte, Liguria, in parte l’Emilia Romagna, preferiscono contratti precari: incarichi libero professionali, collaborazioni coordinate e continuative. Contratti a tempo, usa e getta.

“Da un lato le Regioni non vogliono aumentare stabilmente la spesa sanitaria, dall’altro lato hanno dei limiti di contenimento”, dice Antonio De Palma, presidente di Nursing Up, sindacato di categoria. “Il governo ha detto di aver liberato risorse, ma non abbiamo visto nessun effetto. E prima del Coronavirus eravamo già in emergenza: mancavano all’appello 52mila infermieri”.

La Lombardia ha puntato sui contratti di collaborazione. Durata: sei mesi, al massimo fino alla fine del 2020. Retribuzione: 30 euro all’ora lordi, con i quali pagare anche tasse e contributi. Il Piemonte propone contratti temporanei, o attraverso agenzie interinali o tramite contratti libero-professionali, con la stessa remunerazione della Lombardia. Poi c’è la Liguria, dove ogni azienda sanitaria procede per conto proprio con incarichi di lavoro autonomo (Asl 3) pagati 19 euro lordi (ma si può scendere fino ai 13 euro). Ancora: ecco l’Emilia-Romagna, spaccata in due. A Piacenza, che è l’area più colpita della regione, arrivano gli incarichi libero-professionali che possono essere revocati in qualsiasi momento. In Romagna, l’Asl preferisce attingere alle graduatorie e puntare sul tempo indeterminato. “È ovvio, assumere significa caricare una spesa fissa sul bilancio”, osserva Francesco Coppolella, segretario piemontese dell’altro sindacato di categoria, Nursind. “Ma di fronte a una Europa che ha sospeso anche il patto di stabilità le Regioni potevano fare molto di più. Il Piemonte, per esempio, che ha rischiato il piano di rientro, ha peccato di sottovalutazione. Solo che adesso siamo di fronte a tanti morti”.

Il punto di Gallera&C: televendita in mascherina

Si sente un brusio che proviene da un punto non inquadrato. Qualcuno suggerisce, forse la regia, di rimandare il servizio. È partito fallato. Il leghista Davide Caparini, già deputato per più legislature, assessore regionale al Bilancio, acconsente con un gesto della mano, di quelli che fanno i presentatori in televisione. Mezz’ora prima della Protezione Civile, ogni giorno la Regione Lombardia apre la diretta su Internet ripresa dai telegiornali – pagine ufficiali, Facebook, YouTube – per lo straziante aggiornamento sul Covid-19, malati, deceduti, guariti. Siccome la politica non resiste all’espediente della comunicazione, abituata com’è a farne abuso, anche in un momento in cui c’è domanda civica di informazioni e spiegazioni, la Regione Lombardia ha messo su un format in mascherina. Caparini conduce, il governatore Attilio Fontana e l’assessore Giulio Gallera si avvicendano in postazione, raccomandano, aggiornano, miscelano ottimismo e pessimismo. I giornalisti non domandano. Perché non ci sono.

“Buon pomeriggio dalla frontiera, terra di trincea contro il coronavirus”, dice Caparini con una lepidezza ricercata e però sfuggita. Poi fa ascoltare la testimonianza di Mattia, il paziente 1 di Codogno che, dopo un mese di sofferenze, ha sconfitto il Covid-19 e spera soltanto di riprendersi la vita.

Fontana in studio, a un finestrone degli uffici regionali, annuncia che, grazie anche a Caparini, l’Agenzia italiana del farmaco ha avviato la sperimentazione del medicinale Avigan: “Vi voglio dare una buona notizia, Avigan, che è diventato virale (parola da bandire, ndr) in Rete, da subito sarà testato”.

Altro contributo esterno, un video, di Guido Bertolaso, il consulente di Fontana per l’emergenza, arrivato due settimane fa e già in azione con la sua produzione miracolista: “Quello che vedete alle mie spalle è il progetto dell’ospedale alla Fiera di Milano. Le maestranze sono all’opera, ventre a terra e le attrezzature sono reperite in giro per il mondo. Non sarà un lazzaretto”. Con tono marziale: “Combatteremo fino all’ultima goccia di sangue e fatica”. Quasi per un’ora Caparini va avanti con Gallera ostentando l’efficienza della struttura lombarda con i numeri da chiamare in sovrimpressione – questo di aiuto ai cittadini – e il motto social #fermiamoloassieme che definisce un bel ritorno dall’utopia milanese dopo #milanononsiferma. La Regione Lombardia racconta di una drammatica pandemia come se fosse autonoma o peggio ancora intangibile dalle politiche del governo di Roma e, in questa struggente funzione che espone ciò che nessuno vorrebbe più ascoltare, le istituzioni tornano propaganda (Gallera mostra la mascherina col simbolo regionale), l’informazione torna comunicazione. E il tempo, quello sì, si è fermato.

Fontana double face: mansueto ai tavoli, ma incendiario fuori

Alla faccia della leale collaborazione: da quando è iniziata la tragedia del Covid in Italia, il presidente della Regione Lombardia e quello del Consiglio vivono in conflitto permanente. Il merito è da attribuire specialmente al primo. L’ennesima battaglia di carta di Attilio Fontana contro Giuseppe Conte si sta consumando sull’ultimo decreto di Palazzo Chigi (dpcm). Sabato il governatore aveva anticipato il capo del governo di un paio d’ore, annunciando un’ordinanza regionale con restrizioni vagamente più severe di quelle che di lì a pochissimo avrebbe presentato il premier. I due, a quanto si apprende, quel pomeriggio avevano un appuntamento telefonico per confrontarsi sulle misure, ma all’ora stabilita Conte non era reperibile, impegnato nella concertazione con i sindacati. A quel punto Fontana ha fatto la sua mossa, presentando l’ordinanza con poche ore di anticipo sul messaggio del premier alla nazione. Come se nel rapporto tra Stato e Regione il criterio fosse chi taglia prima il traguardo.

Nei giorni successivi, il presidente della Lombardia non ha smesso le ostilità, anzi. La polemica è proseguita per via mediatica – per esempio l’intervista al Quotidiano Nazionale in cui Fontana definisce il dpcm “ancora troppo blando rispetto a quello che servirebbe” – e per via istituzionale: ieri il leghista ha di fatto sollevato un conflitto tra la sua ordinanza e il decreto governativo. “Secondo gli uffici legali – sostiene il governatore – deve prevalere l’ordinanza regionale”. Ha sollevato la questione al Viminale: “Ho inviato una nota formale al ministro dell’Interno Lamorgese, con la quale chiedo che il ministero esprima il suo parere se si debba applicare l’ordinanza della Regione o il Dpcm”.

Il “carteggio” con il ministero pare si sia interrotto in modo sospetto. Fontana, in sostanza, avrebbe chiesto a Lamorgese come si sarebbero comportate le forze dell’ordine nell’applicazione delle norme in Lombardia: seguendo le restrizioni stabilite dall’ordinanza regionale o quelle del decreto di Conte? Ma alla domanda su quali fossero, nello specifico, queste differenze da “interpretare”, il governatore non avrebbe risposto.

A confrontare i due testi in effetti non si ravvisa tutta questa urgenza di una battaglia tra Stato e Regione, specie in un momento così drammatico. Anche gli interventi più restrittivi dell’ordinanza di Fontana – sul blocco dei cantieri e la chiusura delle attività professionali – sono mitigati da eccezioni significative. Non si fermano, ad esempio, i professionisti impegnati in “servizi indifferibili e urgenti o sottoposti a termini di scadenza”. E persino le restrizioni dell’ordinanza lombarda alle attività produttive sono introdotte dalla preposizione “si raccomanda che”. Nessun obbligo e nessun pugno di ferro, ma un cortese invito. Su questo il decreto di Conte è persino più duro.

Fontana, forse consapevole di aver giocato d’azzardo, nel pomeriggio ha abbandonato i toni salviniani ed è tornato a una dialettica più istituzionale: “Non sono soddisfatto, ma voglio un rapporto positivo con il governo. Esistono dei dubbi, ma se prevale il Dpcm, lo applicheremo”. Al riguardo, nell’esecutivo di dubbi ce ne sono pochi: i pareri legali richiesti rassicurano il governo sul fatto che il decreto assorbe tutte le ordinanze precedenti (i presidenti di Regione hanno, volendo, la facoltà di integrare il Dpcm).

Il vero problema è politico. Fontana oscilla tremendamente. Sembra scisso tra la responsabilità immane di guidare una Regione piegata dal Coronavirus e la sensibilità tutta politica del dirigente di partito (leghista). Fontana è uomo di lotta nazionale e di governo regionale. Una fonte dell’esecutivo lo descrive così: molto docile quando si tratta di collaborare sull’emergenza e molto incendiario quando comunica all’esterno. Quasi come fosse ispirato da Salvini.

A Fontana, d’altra parte, non si può non riconoscere di governare la frontiera d’Italia, la regione travolta dall’epidemia. Dalla sua posizione è arrivato forse in anticipo a comprendere l’entità del disastro: anche per questo gli va dato atto di essere stato il primo a insistere per le misure più radicali e per il blocco totale delle attività produttive. Ma pure in questo contesto, le sue stoccate sopra le righe contro il governo sono state quotidiane quasi quanto il bollettino della Protezione Civile.

Il 25 febbraio, nel primo periodo del dramma Covid in Italia, forse per liberarsi dalla responsabilità di guidare la Regione focolaio, già attaccava Conte: “Purtroppo abbiamo seguito i protocolli del governo”. Due giorni dopo Fontana gira il famigerato video della mascherina, in cui annuncia col volto coperto l’ingresso in quarantena. Il 3 marzo smonta le prime misure di Conte: “Non posso non evidenziare che la bozza del decreto del presidente del Consiglio è a dir poco pasticciata”. Dopo il Dpcm dell’11 marzo insiste: “Si poteva fare di più”. Il 15 marzo: “Credo che a Roma ci sia una percezione sbagliatissima, la Lombardia è al limite”. Il 19 marzo, dopo il decreto “Cura Italia” è lapidario: “25 miliardi? Sono pannicelli caldi”. Poi l’ultima polemica: “Ho ancora una volta rappresentato al presidente del Consiglio la situazione sempre più grave che sta vivendo la Lombardia. Bisogna agire, chiudere cantieri e attività”. Quando Conte l’ha fatto, non andava più bene: conta solo l’ordinanza di Fontana.