Il Colle placa le opposizioni. Oggi in Cdm nuove sanzioni

L’assicurazione che oggi saranno distribuiti 3,5 milioni di mascherine, la notizia che la Merkel ha donato 300 ventilatori all’Italia, la condivisione del fatto che è in arrivo ad aprile un altro provvedimento per fronteggiare il coronavirus da 25 miliardi. Sono alcune delle cose dette da Giuseppe Conte ai leader del centrodestra a Palazzo Chigi, ieri sera. Con l’accento su un dato determinante: le strategie europee devono essere condivise e le misure rigorose, per evitare che l’Italia si trovi esposta a un contagio di ritorno. E una lunga discussione sul possibile uso dei soldi dell’ex Fondo salva-Stati (il Mes) nell’emergenza coronavirus. Oltre alla spiegazione delle decisioni sulle chiusure. L’incontro di ieri dura quasi quattro ore. Segno che almeno un dialogo è stato aperto.

Alle 19 arrivano Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Antonio Tajani e Maurizio Lupi. Dopo giorni di tensione, vogliono portare al presidente del Consiglio le loro richieste. Che – al netto dei contenuti specifici – partono da un presupposto: lamentano scarso coinvolgimento nelle decisioni, vogliono essere “protagonisti, non comparse”. Anche ieri a mediare è Sergio Mattarella. Salvini lo chiama, poi riferisce di una “telefonata cordiale”. A metà giornata arriva al leader leghista la chiamata di Conte. Il Colle nega di aver sollecitato l’incontro, afferma di essere semplicemente stato informato delle intenzioni del premier. Pare evidente che il leader della Lega abbia scelto il capo dello Stato come interlocutore privilegiato.

Mentre i quattro sono dentro con Conte e con il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, tutti rigorosamente con le mascherine, il ministro della Salute, Roberto Speranza, e quello dell’Economia, Roberto Gualtieri, sono collegati in videoconferenza e arriva la comunicazione che il premier giovedì sarà prima alla Camera poi al Senato per un’informativa sull’emergenza Coronavirus. Proprio l’apertura del Parlamento a tutti gli effetti è reclamata con forza dall’opposizione. Che avrebbero rimproverato Conte per aver annunciato sabato le nuove chiusure solo all’ultimo momento.

Nel frattempo, il governo pensa ad una stretta delle sanzioni (fino a duemila euro di multa e la confisca del mezzo di trasporto) per chi non rispetta il divieto di spostarsi. Un testo potrebbe essere valutato già nel Consiglio dei ministri di oggi. E per monitorare gli spostamenti dei cittadini molti Comuni pensano all’impiego di droni, che ha avuto il via libera dall’Enac, l’Ente dell’aviazione civile. Intanto, dopo l’entrata in vigore della nuova stretta anti-uscite, cambia nuovamente il modulo per l’autocertificazione da esibire ai controlli di polizia: indica ora anche il domicilio del dichiarante, oltre alla residenza, e recepisce gli ultimi divieti di movimento.

Il centrodestra parla non solo di questioni sanitarie, ma chiede anche tutela per le partite Iva, stop alle tasse per le imprese, soldi ai Comuni.

Ma la discussione si prolunga proprio sull’uso del Mes. Salvini e Meloni si oppongono all’uso dei soldi dell’ex fondo Salva Stati, in qualsiasi forma. Forza Italia è favorevole al suo uso “senza condizionalità”. Punto di non poca importanza visto che l’Italia dovrà affrontare la questione all’Eurogruppo con i Cinque Stelle ancora quantomeno perplessi. E i paesi del Nord pronti a far valere le clausole.

Il Sacco a caccia di anticorpi. L’Aifa: ok all’Avigan

SarsCov2 dopo oltre 30 giorni dall’emergenza, rallenta ma non si ferma. La ricerca di soluzioni terapeutiche che blocchino l’infezione da Covid-19 resta una priorità. Dagli anticorpi alle proteine in grado di intervenire sul virus, fino ai vaccini.

Si lavora a tutto campo. L’Agenzia italiano del farmaco ieri ha dato l’ok alla sperimentazione dell’antinfluenzale Avigan già usato in Giappone. All’ospedale Sacco di Milano, intanto, il laboratorio di microbiologia della professoressa Maria Rita Gismondo è in prima linea. Da giorni è partita la raccolta di campioni di sangue su pazienti Covid e su pazienti non Covid, che tra dicembre e gennaio hanno avuto la polmonite. Sono centinaia i campioni a disposizione. L’obiettivo è dare la caccia agli anticorpi che possono resistere all’onda d’urto del virus. Se ne cercano di due tipi: gli IgM la cui presenza mostra un’infezione ancora in corso e gli IgG che invece rappresentano la memoria della malattia. L’identificazione di entrambi e la loro analisi per capire in che modo hanno reagito al virus potrebbe permettere la cosiddetta “immunizzazione passiva”, ovvero l’inserimento dell’anticorpo nel sangue del malato. Pratica già sperimentata con successo in Cina.

A livello internazionale, poi, sono tanti i piani di ricerca. In uno di questi si punta alla creazione di un “virus chimera” frutto di un doppio innesto. Si tratta di uno studio vaccinale che sta conducendo una ditta cinese già produttrice del vaccino per l’Ebola. L’obiettivo è quello di mettere insieme “un frammento del codice genetico” di SarsCov2 e un altro di un virus innocuo. Da qui la sperimentazione di questo “virus chimera” su pazienti volontari per capire che tipo di risposta immunitaria ne deriva. La società americana di biotecnologie Gilead lavora invece sul farmaco antiretrovirale Remdesivir. In queste settimane si sta organizzando un test sperimentale su un campione di mille pazienti cinesi. Obiettivo: determinare se dosi multiple di questo farmaco possano bloccare e invertire l’infezione, permettendo ai pazienti gravi di essere dimessi in meno di due settimane. Questo lavoro è definito in “Fase 3”, cioè molto avanzata.

Sempre in Cina, da tempo si è sperimentata su undici pazienti una miscela di due antiretrovirali, uno per curare l’Hiv e l’altro per l’epatite C. Secondo uno studio indiano, sulle glicoproteine S del virus, le famose spikes, sono presenti alcuni amminoacidi del primo virus dell’Hiv. Al momento nelle terapie viene usato il Lopinavir, farmaco per l’Hiv, in grado di abbassare la viralità di SarsCov2 ma non di eliminarla. Una società di biotecnologie inglese punta sul genoma del virus, composto da un unico filamento genetico chiamato Rna. I ricercatori dopo 42 giorni dal sequenziamento del primo genoma hanno prodotto un vaccino sperimentale chiamato mRna-1273. Si tratta di un filamento sintetico di Rna messaggero. L’obiettivo della futura sperimentazione è quello di “convincere” le cellule del corpo umano a produrre anticorpi contro il virus. Una collaborazione americana e canadese, invece, annuncia di aver identificato ben 500 anticorpi in grado di reagire a SarsCov2. Si studia quali di questi anticorpi reagisce in modo più forte. Tra quattro mesi si passerà alla sperimentazione.

Se l’ospedale Sacco è in prima linea, ieri ha rilanciato anche l’Università Statale stanziando 100mila euro per finanziare sette progetti con lo scopo di ottenere in tempi brevi diversi obiettivi: informazioni scientifiche su Covid-19 da condividere sul territorio, modalità e sviluppi dell’infezione per nuove terapie che “consentano di attenuare patogenicità e mortalità del virus”. Sempre la Statale e il dipartimento di Scienze farmaceutiche collabora al progetto Exscalate4CoV finanziato dall’Unione europea. L’obiettivo, usando la piattaforma di supercalcolo Exscalate, è individuare la molecola che meglio agisce contro SarsCov2. La ricerca utilizza una “biblioteca chimica” di 500 miliardi di molecole che vengono analizzate con una frequenza di tre milioni al secondo.

Resiste Milano, ma la cintura-nord è una polveriera

Milano resiste. L’onda d’urto del virus per ora si infrange sugli scogli della provincia e il temuto tsunami ancora non si vede. Il capoluogo lombardo segue l’andamento dell’intera Lombardia con nuovi contagi sì, ma in calo rispetto ai giorni scorsi. Cresce di meno anche il numero di decessi, arrivati a 3.776 con un incremento di 320 ieri, domenica 361. La distribuzione degli infetti mette in evidenza una differenza marcata tra le varie zone dell’area metropolitana, con il nord Milano molto più colpito rispetto ai comuni a sud. Non vi è dubbio che l’assetto urbano influenzi la diffusione di SarsCov2. Nell’area a nord che esce dalla città lungo le arterie stradali di viale Zara e viale Fulvio Testi si ha un concentramento decisamente maggiore di popolazione rispetto ai comuni del sud-ovest. Più persone, più case e poche aree verdi, mentre a sud il grande parco agricolo distanzia di molto i comuni. Inoltre a marcare la differenza c’è un territorio altamente industrializzato e puntellato da un risiko di grandi e medie fabbriche. Questo restituisce una fotografia sbilanciata del territorio milanese con un doppio colore: rosso a nord, arancione a sud.

L’andamento dell’area metropolitana ieri ha fissato un aumento di 230 casi, domenica erano 421, mentre sabato 868. La curva sale, ma sale meno. Questo porta la provincia a 5.326, terza per contagi dopo quelle di Bergamo (6.471) e Brescia (5.905). Il calo ieri è stato registrato in città con 137 casi in più (domenica erano 210, sabato 279) per un totale di 2.176. Insomma “la battaglia di Milano” evocata dal professor Massimo Galli del Sacco per ora non è persa. Ma bisogna restare in casa. Non tutti i milanesi lo hanno ancora capito. I dati sulle celle telefoniche domenica hanno registrato uno spostamento del 26%, il giorno prima era del 32%. Dati che devono ancora scendere perché simili a quelli del 14-15 marzo. Per comprendere se le ulteriori restrizioni abbiano convinto i milanesi a non uscire bisognerà attendere i dati di oggi.

La situazione migliora, ma lentamente e non ovunque. La lettura dei numeri mostra importanti criticità e aumenti. Nel quadrilatero a nord della città tra i comuni di Cologno Monzese, Sesto San Giovanni, Cinisello Balsamo e Bresso si concentrano quasi 600 casi di positivi al Covid-19. Si tratta di comuni adiacenti alla città di Milano e ai quartieri di Bruzzano, Niguarda, Crescenzago. È, però, soprattutto il comune di Cologno Monzese a mostrare la situazione più critica con un aumento di oltre il 100% in 72 ore, se è vero che giovedì 19 marzo i casi accertati erano 62, passati a 75 il venerdì e arrivati a 141 nella serata di sabato scorso, con un ulteriore incremento fino ai 157 di ieri. Il comune di Bresso, invece, appare in una situazione migliore da quella raccontata in questi giorni. Qui i contagi di giovedì si presentavano alti rispetto ai comuni vicini, con 108 infetti. Un numero che in 72 ore è cresciuto solo di 21 positivi in più, fino ai 129 di ieri. Sesto San Giovanni è invece passata dagli 85 di giovedì ai 126 di sabato fino ai 147 di ieri. In quest’area metropolitana mostra incrementi sensibili anche il comune di Cinisello Balsamo, passato dai 66 di giovedì ai 105.

Aumenti anche nel popoloso comune di Pioltello con 78 casi accertati alle due del pomeriggio. Molti di questi sono stati rilevati nel quartiere satellite composto da 40 palazzi di case popolari, abitati da circa diecimila persone di 60 nazionalità differenti. Non distante c’è il comune di Legnano balzato da 63 a 92 casi. Girando poi la cartina a est-sud est e seguendo la linea cittadina dei quartieri da Lambrate fino a Corvetto, si incontrano i comuni di Segrate, Peschiera, Mediglia e San Donato, i cui incrementi restano importanti con Segrate passata in tre giorni da 39 a 77. Il totale, a ieri, dei casi in questa fascia era di 224.

Arrivando a sud il contagio pare diradarsi, forse anche per la composizione del territorio, più verde e meno urbanizzato. Qui c’è da segnalare il caso del comune di Vizzolo Predabissi salito dai 7 positivi di giovedì scorso ai 27 di ieri. Insomma, le mura della città di Milano al momento resistono e pure l’area metropolitana non pare soccombere. E mentre i numeri concedono una tregua, continua la rincorsa ai posti di terapia intensiva che ieri sono aumentati di 41 unità. Nelle prossime ore saranno allestiti 78 nuovi letti tra Policlinico, Niguarda e San Carlo. Senza contare la corsa per inaugurare il nuovo presidio alla vecchia Fiera. Qui, entro quattro giorni saranno attivi i primi 40 letti di terapia intensiva. La “battaglia di Milano” non si ferma.

Morti e infetti crescono meno. E “40 province oltre il picco”

Per il secondo giorno consecutivo in Italia i nuovi contagi rilevati e i morti affetti da Coronavirus sono aumentati meno del giorno precedente: i primi sono stati 4.781 (erano 5.560 domenica, 6.557 sabato) e portano il totale a 63.927 (+8%), i decessi sono stati 601 (651 domenica, 793 sabato) e il conteggio arriva a 6.077. Ai numeri del capo della Protezione civile Angelo Borrelli si accompagna il pressante invito alla “cautela” del professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità. Due giorni di aumento più contenuto non c’erano mai stati ma, in sé, non sono niente. L’Italia è piena di contagiati, più o meno sintomatici, non rilevati: solo in Lombardia ce ne sarebbero 450 mila secondo il professor Andrea Crisanti di Padova, che in Veneto ha avuto buoni risultati con la “sorveglianza attiva”. Naturalmente senza i divieti i numeri schizzerebbero subito di nuovo verso l’alto. Anche nel Mezzogiorno perché siamo a due settimane, cioè il tempo di incubazione medio, dallo sciagurato weekend della fuga dal Nord.

In Lombardia i morti sono stati 320 in 24 ore, meno dei 361 tra sabato e domenica: sono 3.776 in totale, più che Cina. Anche i contagi sono aumentati in misura minore: sono 28.761, 1.555 in più rispetto a ieri quando erano cresciuti di 1.691. Per la prima volta diminuiscono i pazienti ricoverati negli ospedali lombardi: da 9.439 a 9.266 (-173), ma nelle terapie intensive sono saliti da 1.142 a 1.183 (+41).

Aumentano però i morti in altre regioni: non in Emilia-Romagna, dove se ne contano 76 contro i 101 del giorno prima (892 totali), sempre concentrati soprattutto a Piacenza dove il forno crematorio non ce la fa e i feretri si accatastano; 46 nel Piemonte la cui situazione preoccupa perché con 336 vittime supera le Marche, dove si sono registrati 28 morti ieri (203 in totale). È allarmante anche la Liguria dove si sono contati 41 decessi ieri e in tutto salgono 212. Il Veneto ne ha avuti 23 ieri, come il giorno prima, fermandosi a 192. Il Veneto ha più contagi rilevati (5.505) rispetto a Piemonte (4.861), Marche (2.569) e Liguria (1.924), ma meno vittime. I motivi sono molti e discussi. Anche i tassi di ospedalizzazione sono più alti nelle regioni con più morti. E forse dipende davvero anche dalla politica del Veneto, non solo più tamponi ma controllo più intenso sui contatti delle persone che risultano positive, più spesso isolate in casa.

I morti, ci hanno spiegato, riflettono i contagi di due/tre settimane prima. Secondo Giovanni Sebastiani, matematico del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) che da settimane analizza i dati sulla diffusione del virus, “tutte le province lombarde tranne Como e Lecco (che sono anche le meno colpite, ndr) e circa 40 province italiane su 107 sembrano aver superato il picco dei contagi, cioè da almeno tre giorni si riduce l’aumento giornaliero.

Domenica erano 31 province. Per la prima volta c’è anche Milano. Lodi (nel cui territorio furono chiusi i dieci Comuni nella prima zona rossa, ndr) c’è dai primi di marzo”. Scorrendo la penisola da nord a sud nell’elenco delle province che potrebbero aver invertito la curva troviamo Torino, Novara e Vercelli, tutta la Liguria, da ieri Verona e Vicenza, Udine è l’unica in Friuli-Venezia Giulia, Bolzano, Aosta, Piacenza e Forlì-Cesena in Emilia-Romagna, Pesaro-Urbino che è la più colpita nelle Marche, mezza Toscana (Arezzo, Grosseto, Massa, Prato), l’Umbria, tutto il Lazio meno Roma, Teramo e Pescara in Abruzzo, Campobasso in Molise, Napoli e Avellino in Campania, Reggio Calabria Catanzaro e Crotone, Potenza, Caltanissetta, Ragusa e Siracusa, Sassari e Sud Sardegna. Nelle altre invece al momento il tasso di contagi continua ad aumentare.

Il governatore umarell

Più passano i giorni, più vien da domandarsi come abbia potuto la regione più prospera d’Europa mettersi nelle mani di un Attilio Fontana. Bravo travet, per carità, ma totalmente inadeguato a compiti che non siano quello degli umarell in visita ai cantieri. Nulla di paragonabile al leghista veneto Luca Zaia che, anche quando dice o fa fesserie, dimostra di avere la situazione sotto controllo. Infatti, nella lotta al virus, ha sfoderato una strategia, giusta o sbagliata: tamponi a tappeto per censire tutti i positivi, i quali sono infinitamente più di quelli ufficiali perché includono gli asintomatici che, proprio perché asintomatici, sono più pericolosi dei sintomatici perché contagiano gli altri senza saperlo. In Lombardia, invece, il tampone non lo fanno neppure ai sintomatici. Ma non per scelta, che sarebbe almeno degna di valutazione: perché sono nel marasma totale e non sanno che pesci pigliare. Il che ci fa benedire una volta di più Salvini per l’unica cosa buona fatta in vita sua: rovesciare il Salvimaio e levarsi dai piedi, sennò oggi avremmo una Lombardia ancor più autonoma di quanto già non sia, cioè libera di fare ancor più cazzate di quante già non ne faccia.

Dopo aver detto tutto e il contrario di tutto, a rimorchio del presunto leader nazionale, sabato sera Fontana ha partorito un’ordinanza che doveva “chiudere tutto”. Ma in realtà, ancora una volta, non chiude quasi nulla: non per esempio le fabbriche, che a parole (sui media, ma mai con atti ufficiali) lo sgovernatore pretendeva fossero chiuse dal governo (pur avendo tutti i poteri per chiuderle lui) perché non voleva contrariare Confindustria. In compenso chiudeva gli studi professionali, compresi quelli legali, che un avvocato come lui dovrebbe sapere di non poter chiudere: la giustizia non è stata ancora abolita e i processi più urgenti (per direttissima e con imputati detenuti, anche per i divieti di passeggiata e corsetta da lui introdotti) si continuano a fare. E, siccome non è stata ancora abolita neppure la Costituzione, chi viene arrestato o processato in Lombardia necessita di un difensore: ma dove lo trova se tutti gli studi legali della Lombardia sono chiusi? Va a cercarselo in Puglia, sperando che lì il governatore sia un po’ più lucido del suo? Nessuno lo sa perché nessuno lo dice, ma lo scaricabarile di Fontana&C. ha creato il grosso del casino di sabato. Siccome Fontana fingeva di chiedere ciò che non chiedeva, l’odiato governo di Roma ha dovuto provvedere, previa trattativa Skype fra premier, ministri, Confindustria e sindacati su quali filiere produttive chiudere e quali tener aperte.

Distinzione piuttosto ardua, con buona pace di chi pensa che i decreti siano fiaschi che si abboffano e che, per chiudere tutto, basti scrivere “chiudiamo tutto” e annunciarlo in conferenza stampa all’ora del tè (se no Renzi, Salvini, Meloni e il giro Berlusconi-Stampubblica se ne ha a male). Infatti tutte le filiere produttive sono intrecciate: se lasci aperta l’ortofrutta, ma chiudi chi produce imballaggi, etichette e pellicole di cellophane, la frutta e la verdura non partono e non arrivano più a destinazione. Di questo si è discusso per tutto sabato pomeriggio. Poi Conte ha dovuto informare i 20 presidenti di Regione, ciascuno con le sue pretese confliggenti con quelle degli altri 19. Così l’appuntamento fra lui e Fontana, in videoconferenza, fissato per le 19.30, è slittato alle 20.15. Ma cinque minuti prima, alle 20.10, il governatore umarell se n’è uscito con la sua ordinanziella Chiudo-Nonchiudo senz’avvertire nessuno. E in aperto contrasto con le regole del decreto che lui sapeva essere in arrivo da Roma per tutta Italia (Lombardia inclusa). Come se fosse il dittatore dello Stato libero di Bananas. E ora, dopo avere scatenato questo casino, Fontana fa pure l’offeso sui giornali amici (tutti) perché il dpcm “è un po’ riduttivo rispetto alle misure che avevamo predisposto noi” e “non ha il nostro consenso”.

Cioè crede che il governo debba prendere ordini da un “governatore” che fra l’altro non sa neppure quali ordini impartire, visto che da giorni chiede per finta ad altri di fare ciò che potrebbe fare lui, e poi lo fa (malissimo) cinque minuti prima che il premier gli dica cos’ha deciso il governo. E intanto continua a non far nulla per le migliaia di sintomatici con tosse e febbre, contagiosissimi per i familiari e i passanti, scaricati dalla “sanità modello” che non dice loro null’altro che “prendi un’aspirina”. Dopodiché, mentre i media raccontano di centinaia di anziani infetti che muoiono soli come cani, abbandonati nelle case, negli ospizi e nelle cliniche private (pagate da noi) dalla sanità lombarda al collasso, mente spudoratamente al Corriere : “Noi curiamo tutti e non lasceremo mai indietro nessuno” (resta da spiegare perché in Lombardia 9 morti su 10 col coronavirus non abbiano mai visto un ospedale). E ri-mente sul Bertolaso Hospital in Fiera, che “servirà a tutta l’Italia”, quando sa benissimo che i 300 posti letto si riempiranno in mezz’ora, e di pazienti lombardi. Ma, curiosamente, chi crocifigge Conte anche quando non sbaglia tace sugli errori di Fontana che ne infila almeno due al giorno. A riprova del fatto che, per quante disgrazie si abbattano sull’Italia, la peggiore resterà sempre la cosiddetta informazione.

A proposito. Casomai qualcuno volesse la verità sulla scandalosa “diretta Facebook di Conte” sabato, quella non era una diretta Facebook. Il discorso del premier è stato diffuso, come quelli di tutti gli altri premier in passato, dal segnale audio-video della sala-regìa della Presidenza del Consiglio, a cui si sono connesse le tv che volevano trasmetterlo, il canale YouTube di Palazzo Chigi e la pagina Fb di Conte. Cioè: sono due giorni che si parla del nulla.

Quando si ferma il calcio. Storia dei tornei sospesi

Con il calcio fermo, l’Europeo rinviato, le coppe in bilico, le formule sotto schiaffo (playoff, non playoff?) e i calendari ostaggi del virus, corre, la memoria, a quando lo scudetto – che scudetto ancora non era, visto che l’avrebbe ‘coniato’ Gabriele D’Annunzio ai tempi di Fiume – venne assegnato in un giorno, uno solo, a Torino. Era l’8 maggio 1898, quattro squadre in lizza (oggi, a distanza di secoli, diremmo final four), incasso di 197 lire, titolo al Genoa, il 1º della nostra storia.

Nella lotta contro la pandemia siamo tutti soldati senza divisa, tutti bersagli, e il nemico così subdolo, così invisibile da usare gli starnuti e i colpi di tosse come armi. C’è la metafora e c’è la realtà: l’entrata dell’Italia in quella che avremmo chiamato la Grande Guerra, un mattatoio da 16 milioni di morti, spinse i federali, il 23 maggio 1915, a bloccare l’attività. “In seguito alla mobilitazione per criteri opportunità sospendesi ogni gara”.

L’euforia era tale che si parlò di interruzione, non già di cancellazione. Viceversa, tra Caporetto e Vittorio Veneto si dovrà aspettare il 1919 – ma c’è chi scrive il 1921 e chi il 1924 – perché il torneo spezzato trovi un padrone: il Genoa, di nuovo. In testa alla poule settentrionale allorché i cannoni presero il potere. Deciso per convenzione, senza lo straccio di una delibera ufficiale. Al comando del girone centro–meridionale figurava, in compenso, la Lazio. Squadra che, in condizioni normali, avrebbe verosimilmente conteso lo scettro proprio al Grifo. Insomma: un bel pasticcio. Gli avvocati di Claudio Lotito non mollano l’osso. Reclamano almeno la metà dello “scudo” che la burocrazia indirizzò a tavolino, sorda alle pendenze del campo.

E il 1925? Si giunse fino in fondo, per carità, ma al limite della faida tribale. Il Sud era talmente debole che, in pratica, il primato ruotava attorno alla finale nordista. Genoa contro Bologna. Apriti cielo. Cinque spareggi, addirittura, l’ultimo dei quali, il 9 agosto 1925 sul terreno della “Forza e Coraggio” di Milano alle 7 di mattina, senza un’anima in giro (a porte chiuse, secondo il lessico moderno). Vinse il Bologna, 2–0, che poi completò l’opera asfaltando l’Alba Roma. Il fascismo entrò a gamba tesa sull’ordalia. Un gol fantasma di Giuseppe Muzzioli (nel 2-2 della terza puntata) scatenò l’ira dei liguri. Alla stazione di Torino, quarto round, tifosi bolognesi spararono a tifosi genoani. Totem dei fasci petroniani, e di lì a poco gran capo della Figc, Leandro Arpinati ricevette l’accusa di aver manipolato la serie. Politique d’abord, direbbero i francesi.

Strano, molto strano, risultò pure il campionato 1927, vinto dal Torino davanti al Bologna, ma confiscato per l’illecito che un dirigente granata, in combutta con lo juventino Luigi Allemandi – squalificato e poi amnistiato – avrebbe compiuto durante un derby–chiave, che il Toro si aggiudicò per 2–1, al prezzo di 25 mila lire. Dal processo emersero indizi, non prove. E anche per questo Arpinati, ancora lui, revocò lo scudetto al Toro senza però assegnarlo al “suo” Bologna. Memore dei moti genovesi del ’25.

E siamo alla seconda guerra mondiale. Scritto che dalla stagione 1929-’30 è stato introdotto il girone unico, la caduta del regime mussoliniano funge da spartiacque. Con il settentrione in mano ai nazisti e ai repubblichini, e il meridione agli alleati, ci si spacca, ci si divide, pur di sopravvivere “sportivamente”. Se sotto Roma ci si arrangia su base regionale, più su si dà vita al campionato Alta Italia: 65 squadre suddivise in 7 gironi. Alé. All’epilogo giungono il Torino di Valentino Mazzola, allenato da Vittorio Pozzo e sponsorizzato dalla Fiat, ebbene sì, il Venezia, club dal quale Valentino proveniva, e il 42° Corpo dei Vigili del Fuoco della Spezia. Saranno proprio costoro a risalire dal ruolo di outsider al rango di “campioni”: 1–1 con il Venezia, 2–1 al Toro. Agli archivi passa un’impresa, non uno scudetto: lo impone la cesura geografica che fece da tragico sfondo al mini–rodeo.

L’allenatore dello Spezia era Ottavio Barbieri. Studioso famelico, adottò il mezzo sistema: un terzino travestito da “libero” e marcature rigorosamente individuali. Un’idea su cui avrebbero lavorato, con successo, Gipo Viani e Nereo Rocco. Altro che pompiere, Barbieri: un piromane.

Mura, il baluardo della notizia critica

“Sta prendendo sempre più corpo un’idea di informazione che non condivido e che non intendo praticare, un’informazione liofilizzata, senza approfondimento o gusto del racconto. Twitter, sms, eccetera. Poi non si capisce che cazzo se ne fa la gente del tempo che guadagna. Credo proprio che il vero dramma di oggi sia non avere tempo libero, o averlo illusoriamente. Come se stare un’ora a leggere il giornale seduti su una panchina sia una cosa dell’altro mondo. Invece il mio sogno da pensionato è una bella panchina verde, con spalliera, due o tre giornali, un bar vicino per il caffè o il bianchino. Non è che si stesse meglio nell’800, però tutto quello che è accelerato, fast, mi spaventa”. Da un’intervista al Mucchio del 2013, pensieri e parole di Gianni Mura, lo straordinario giornalista di Repubblica morto sabato a 74 anni per un improvviso attacco cardiaco. Quante volte, in memoria di un personaggio scomparso, ci è capitato di leggere la ritrita formuletta “era il migliore?”.

Ebbene: Gianni Mura, che nel mondo del giornalismo personaggio non ha mai voluto essere, e che ha lottato anzi ostinatamente per rimanere sempre e solo persona, il migliore lo era davvero. E lo è stato a lungo, un po’ grazie alla classe pura di cui madre natura l’aveva dotato e che lui esprimeva in qualità di scrittura (e di racconto) eccelsa; e un po’ grazie all’irripetibile scuola che da giovane aveva avuto la fortuna di frequentare: dopo il liceo classico a Milano, la scuola della Gazzetta dello Sport (niente a che vedere col foglio rosa tutto lustrini e gossip di oggi) diretta negli anni ’60 da Gualtiero Zanetti; poi, l’accademia di Gianni Brera e Mario Fossati a Repubblica. Il Pantheon, per capirci.

Gianni Mura non ha mai scritto un pezzo alla fine del quale, dopo averlo letto, un lettore non si sia sentito più ricco. E se è vero che Pantani, uno dei campioni che Mura in assoluto ha amato di più, gli svelò un giorno il suo segreto dicendo: “Vado forte in salita per abbreviare la mia agonia”, lo stesso avrebbe potuto dire il fuoriclasse della penna Gianni Mura: “Scrivo pezzi sublimi per stemperare la mia agonia”. L’agonia di vivere un tempo che non gli apparteneva, il tempo del giornalismo dell’effimero, del titolo sensazionalistico, della totale mancanza di critica, spessore, approfondimento.

“Gianni Brera scriveva 6 cartelle, 180 righe, anche su Inter-Atalanta perché la sua firma nobilitava la partita; io per la finale mondiale Italia-Francia, quella della testata di Zidane a Materazzi, avevo 70 righe”, raccontò un giorno Mura per rendere l’idea. Un Tirannosauro imprigionato in un pollaio: questo si sentiva il timido, silenzioso, burbero, generoso Gianni Mura. Che nell’era della tv che divora i giornali, e poi dei social che ingurgitano tutto, non ha rinunciato mai, nemmeno per un secondo, a battersi per la sola cosa che amasse forse più di se stesso: la parola scritta. La parola scritta a regola d’arte, con l’inchiostro della competenza e del sentimento, la parola scritta contro la parola detta, urlata, berciata.

L’ultima sua rubrica “Sette giorni di cattivi pensieri” scritta per Repubblica s’intitolava: “Imbecilli senza confini, ma la brava gente è di più”. Ecco: scusaci Gianni per i troppi imbecilli. E grazie per tutto quello che ci hai dato. E per la pazienza che hai avuto.

Serve lo psicologo? Su internet fioccano le consulenze gratis

“Lo tsunami del Coronavirus sta invadendo la mente di tutti noi. Ma nel caso delle donne in gravidanza, col bisogno di creare uno spazio mentale per il loro bambino, questo è più grave. Per non parlare del timore di contagiare il bambino o non poterlo allattare. Ecco perché abbiamo pensato a un aiuto specifico per loro”. Marcello Florita, psicoterapeuta milanese, racconta l’iniziativa “Genitori ‘quasi’. Gruppi gratuiti di sostegno e accompagnamento alla nascita ai tempi del COVID-19”, Un’iniziativa dell’area perinatale della Società Italiana di psicoanalisi della relazione (per info: corso.psicologiaperinatale@gmail.com).

I sostegni a distanza non sono solo per chi aspetta un bambino. Sono centinaia, infatti, le iniziative di sostegno psicologico in rete, quasi sempre gratuite, esplose mano mano che la reclusione avanzava. Ad organizzarle sono le Asl, ma anche gli Ordini degli psicologi regionali, oppure i singoli professionisti, specie i più giovani “digitalmente” avanzati (il consiglio è di cercare in rete perché quasi ogni regione o comune si è mosso in questo senso). I destinatari sono i più vari: l’Asl3 di Genova, ad esempio, ha attivato un numero per genitori con figli minori (010849 6838) e lo stesso ha fatto l’ospedale Meyer di Firenze, che ha pensato soprattutto alle famiglie in casa con bambini: (0555662547 o supportopsicologico@meyer.it). L’Ordine degli psicologi del Lazio ha invece messo a disposizione di tutta la popolazione 4000 psicologi pronti a offrire la propria consulenza attraverso la comunicazione a distanza. “E sono già ben 8.000 le persone”, spiega Federico Conte, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, “ad aver consultato l’elenco dei professionisti”. L’Università di Torino invece, in collaborazione con il Dipartimento di psicologia, ha pensato invece alla comunità universitaria, soprattutto gli studenti (circa 80.000 persone).

Moltissime, infine, le iniziative dedicate specificamente agli operatori sanitari. Il Policlinico di Bari ha istituito uno sportello di ascolto, gestito da 12 psicologi, per i propri dipendenti. Ma i protagonisti di questo fenomeno sono soprattutto loro, i professionisti più giovani. Capaci di mettere su in pochi giorni – è il caso di tre specializzandi in psichiatria – un sito, come diamociunamano.com – dove si possono prenotare colloqui gratuiti di trenta minuti. O la psicoterapeuta trentenne Maria Cristina Zezza, che si è inventata uno sportello digitale gratuito specifico per medici e infermieri (mariacristina.zezza@gmail.com), che possono chiamare senza limiti di orari e anche durante il weekend.

“Ho lavorato 5 anni in un hospice e so che per gli operatori sanitari il rischio di sviluppare un disturbo post traumatico da stress, non ora che devono ‘tenere’ ma dopo, quando tutto sarà finito, è altissimo. Sono contenta di vedere così tante iniziative, in genere quando si fa qualcosa di gratuito tra gli psicologi si accende lo scontro. Invece ci stiamo muovendo insieme, a sostegno di tutta la comunità”.

Virus, per gli “schiavi” nei campi non esistono regole e protezioni

Non può restare a casa chi una casa non ce l’ha, ma abita in una tenda. Non può lavarsi spesso le mani chi non ha sempre a disposizione acqua corrente. Non può evitare assembramenti chi ogni mattina prende un pullman affollato per andare a lavorare nelle campagne. Difendere dal Coronavirus i braccianti agricoli è una missione molto difficile. Soprattutto per gli africani che vivono nei ghetti nei quali l’emergenza igienico-sanitaria è perenne.

La precauzione che in questo momento si cerca di adoperare nei luoghi di lavoro sembra non valere per chi è impegnato nelle raccolte. Le storie che racconta chi vive queste realtà lo confermano. “Di questo – spiega Giovanni Mininni, segretario della Flai Cgil – ci informano i nostri delegati che dormono nella fabbrica occupata di Foggia, nel ghetto di Rignano o a Borgo Mezzanone”. Si sta ammassati, mancano mascherine e strumenti di protezione, gli alloggi sono fatiscenti e non permettono di seguire le indicazioni delle autorità. Uno scenario simile alla provincia di Reggio Calabria: “A San Ferdinando – prosegue Mininni – sono in una tendopoli, e non ci sembra il luogo adatto per affrontare un’eventuale quarantena”. In questi giorni, i supermercati sono presi d’assalto dalle persone che svuotano interi scaffali per fare provviste settimanali, anche i banchi di frutta e verdura: nei terreni, raccontano i sindacati, l’attività si è intensificata. Un settore da sempre esposto a sfruttamento e illegalità, a maggior ragione in una situazione del genere, è meno controllabile. Secondo la Flai, quindi, il rischio è dimenticare un mondo che proprio in questi giorni avrebbe visto una spinta alla lotta contro il caporalato, che il governo ha messo in testa all’agenda con l’approvazione di un piano triennale. Ora c’è bisogno di un’accelerata nella messa in pratica delle misure previste dall’intesa, che partono da un’accoglienza dignitosa per questi lavoratori. “I prefetti – ha detto Jean-René Bilongo, coordinatore dell’osservatorio Placido Rizzotto – requisiscano caserme dismesse o strutture simili per poterli ospitare, disponendo contemporaneamente piani di monitoraggio da parte delle aziende sanitarie”. Già due anni fa, l’allora prefetto di Foggia Iolanda Rolli (poi spostata altrove da Matteo Salvini) aveva individuato strutture disponibili. Oggi il problema si ripropone con ancora più urgenza. Il protocollo per il contenimento del contagio sui luoghi di lavoro firmato con il governo da sindacati e Confindustria non ha visto la partecipazione delle associazioni di imprese agricole. In queste ore si sta cercando di definire un accordo nel settore. Anche perché, oltre alle ragioni umanitarie che basterebbero da sole, c’è anche un interesse collettivo: in alcune zone del Paese, scarseggiano gli stagionali bulgari e rumeni, perché sono soliti tornare nelle loro nazioni durante i periodi di inattività e ora sono rimasti bloccati. Gli africani, invece, restano in Italia e si spostano da una regione all’altra. Con il loro impegno sono loro a garantire l’approvvigionamento di frutta e ortaggi nelle nostre case. Se i campi dovessero diventare focolai, l’effetto sarebbe devastante.

Scuola online, tra verifiche al telefono e prof. “assenti”

La scuola prosegue su internet finché dura l’emergenza e la maturità inizia il 17 giugno: per il resto, studenti e prof navigano al buio. Ad esempio, l’esame finale: ci sarà la seconda prova? Gli studenti saranno tutti ammessi? Il dicastero dell’Istruzione dice: forse sì, forse no, vedremo. La didattica a distanza “è un imperativo categorico”, per la ministra Lucia Azzolina. Ma molti prof. s’imboscano e smettono di fare lezione. Certi fanno l’appello e segnano le presenze, altri no. Alcuni interrogano e segnano voti sul registro, ma c’è chi non lo fa. Risultato: la scuola nazionale è uno spezzatino. Si capisce la prudenza del ministero ad imporre regole e strumenti: la libertà d’insegnamento è un principio costituzionale, mica siamo in Cina. Sono in corso i monitoraggi, ma i dati sono in elaborazione, dicono a viale Trastevere. Quanti prof. fanno lezione? Non si sa. Al sindacato degli insegnanti, il Gilda, non piace l’occhio indagatore: “Non è il momento di stressare i docenti”, dice il segretario Rino Di Meglio.

Doveva arrivare il naufragio del Coronavirus, perché gli insegnanti provassero a nuotare nel mare del web. E quasi tutti annaspano. “Certi, con la scusa del ‘non vogliamo stressare voi studenti’, sono spariti”: Arianna si prepara per la maturità al liceo Gargallo di Siracusa. “Nella mia classe 2 insegnanti hanno smesso di fare lezione – dice la studentessa – ma i docenti ‘fantasma’ sono in tutta la scuola”.

Se risaliamo lo Stivale fino a Milano, liceo Einstein, stessa solfa. “2 dei miei prof. non fanno più didattica – dice Ludovico, studente al 4º anno -, ma ad altri va peggio. In alcune classi 4 insegnanti su 10 si sono dati alla macchia”. Per fortuna la preside Alessandra Condito li ha tirati per un orecchio davanti al computer. “Ora si stanno organizzando”, dice Ludovico. Ci tiene a lodare la dirigente scolastica. Ma i presidi hanno armi spuntate per convincere i docenti: se uno decide di non fare lezione online, chi può obbligarlo? Nessuno. “Il preside può fare moral suasion ma non ci sono sanzioni”, dice Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione dei dirigenti scolastici. Li ha investiti di una missione epica, il ministro Azzolina: “Siete i comandanti della nave con la responsabilità di garantire la didattica a distanza, è un obbligo”. Ma l’insegnamento digitale non è nel contratto e il governo, del resto, il 4 e il 9 marzo ha decreto la “sospensione della didattica ordinaria”. Un “liberi tutti”, per qualcuno. Il gruppo Facebook della “Classe capovolta” conta 73 mila iscritti e ha fatto una domanda: “Quante ore di didattica a distanza ha fatto tuo figlio negli ultimi due giorni?”. Hanno risposto più di mille. “Il 40% ha detto zero”, dice Maurizio Maglioni. Insegna Chimica a Roma ed è un alfiere della scuola digitale. Segue il metodo della Flipped classroom: la lezione è un video da vedere a casa, i compiti si fanno in gruppo. Su internet sguazza, il prof Maglioni, ma è pessimista sui colleghi: “Molti dicono: ‘non farò mai didattica online, tanto i ragazzi accendono il pc, spengono la webcam e se ne vanno a giocare a Fortnite nell’altra stanza”. La scusa non tiene: basta fare domande agli studenti in videoconferenza, per capire se ci sono, pure con la webcam spenta. La verità è un’altra, secondo Maglioni: “Gli insegnanti hanno sempre rifiutato il digitale, nemmeno 1 su 10 sa usarlo davvero per l’insegnamento e ora si deve improvvisare”. La stima trova sponda nell’Associazione nazionale dei presidi: “Solo il 10% delle scuole ha già sperimentato la didattica a distanza, la formazione digitale per i docenti non è mai stata obbligatoria ”, dice Giannelli. In teoria la Buona Scuola, con la Carta del docente, aveva dato 500 euro l’anno ai prof. per i corsi d’aggiornamento. Ma solo un quarto è stato speso per la formazione. Il resto per pc e tablet, teatro, cinema, concerti, musei.

Se fai notare a Maurizio Maglioni che secondo IlSole24Ore e Skuola.net 9 prof su 10 fanno didattica online, lui risponde: “Certo, perché includono chi dà solo i compiti, senza nessun dialogo con gli alunni”. Ma Azzolina è stato chiara: le lezioni devono essere interattive. Il ministero, sul sito, suggerisce programmi informatici e link ai documenti. I software più gettonati sono quelli di Google e Microsoft. Ma alcuni prof. preferiscono Zoom, Skype, WeSchool, Edmodo. Si va in ordine sparso, a discapito degli studenti. “In classe mia ogni docente ha scelto piattaforme diverse – dice Arianna, del Gargallo a Siracusa – così aumenta il caos e capita di non trovare i file online”.

All’Einstein di Milano, invece, la preside ha accolto la richiesta degli studenti: un’unica piattaforma digitale per classe. Ma è un caso virtuoso, perché altrove ogni docente fa a modo suo. Alcuni filmano le spiegazioni con video selfie da condividere sui gruppi Whatsapp dei genitori, o su Facebook e Youtube. Altri registrano solo l’audio e la lezione diventa un messaggio vocale sullo smartphone. Ma l’imprevisto, nella giungla digitale, è dietro l’angolo. Su Skype e Hangout possono spegnere il microfono al prof. che fa lezione, gli studenti. E condividere disegni sconci durante la spiegazione, con Zoom: è accaduto anche questo. Bisogna conoscere le opzioni avanzate dei software, per scongiurare inconvenienti. Piazzare la webcam, poi, mica è facile: impagabile, per gli studenti, seguire lezioni con la fronte del prof. a tutto schermo. Serve tempo per imparare, ai docenti, e per capire come fare interrogazioni e dare voti.

Una cosa è certa: a distanza, durante le verifiche, barare col suggeritore o gli appunti vicino al pc è facilissimo. Impossibile scoprire il trucco, quindi ci si arrangia. “Alcuni telefonano a sorpresa per interrogare, ma dopo un po’ gli studenti smettono di rispondere”, racconta Maglioni. Perciò all’Einstein, fino ad ora, niente voti sul registro: si fanno esercitazioni e si commentano gli errori, stop. La valutazione è obbligatoria, per il ministero, ma non spiega i criteri. Così molti segnano voti che faranno media, scatenando il panico tra gli studenti. “Non sappiamo quanto peseranno, anche se sono voti ‘falsati’”, dice Arianna. In attesa della maturità, speriamo non a distanza.