Insegnamento a distanza, come “stare in cattedra”

Chiudere all’improvviso le scuole e le università è stato uno choc. Il primo istinto è stato superare il trauma continuando le lezioni a distanza: in qualunque modo, pur di mandare un segnale di vita. Per sottolineare questo significato, molte istituzioni (come la mia Università per Stranieri di Siena) hanno promosso lezioni aperte a tutti, trasmesse sui canali youtube: e le grandi aule vuote dove il professore parla alle telecamere sono simbolo eloquente di una situazione che fino a ieri non avremmo mai pensato di dover vivere. Con il passare delle settimane, tuttavia, appaiono sempre più chiari i limiti e i rischi della didattica a distanza: è urgente l’avvio di una riflessione, che in buona parte vale sia per la scuola che per l’università.

Le criticità più ovvie sono quelle relative all’inadeguatezza tecnologica del sistema dell’istruzione. La moltiplicazione delle piattaforme di ogni tipo, il volenteroso quanto caotico fai-da-te di molti docenti, la mancanza di coordinamento e preparazione ha gettato nel panico le giornate, già tese, di docenti, allievi e genitori in tutta Italia. Ma si tratta di carenze che possono essere sanate, se non nel cuore dell’emergenza almeno in un futuro prossimo, con investimenti adeguati in termini di tecnologia e di preparazione ad usarla.

Forse meno evidenti, ma più serie e certo meno risolvibili, sono le criticità sociali che vanno emergendo. Tra le sue funzioni più importanti, la scuola ha quella di rendere eguali ragazzi mai come oggi invece diseguali: per questo, più la modalità di apprendimento si sbilancia verso il tempo a casa (con cumuli di compiti, per esempio), meno la scuola fa il suo dovere costituzionale. Facile immaginare cosa succeda quando si è costretti a spostare tutto a casa. Succede che ci sono famiglie senza una rete decente, famiglie che non possono assicurare un tablet o un pc a figlio (specie se i genitori lavorano a distanza, come ora accade spessissimo), che non possono stampare schede e esercizi. O case che non possono garantire ai ragazzi uno spazio che assomigli, almeno di lontano a quello, libero e indipendente dal resto della famiglia, della scuola. E poi ci sono genitori che aiutano i figli più piccoli a consultare registri, scaricare schede e caricare compiti: ma ci sono anche quelli che non possono, non sanno o non vogliono farlo. Insomma, la didattica a distanza fa parti eguali tra chi è diseguale, e questa – come ha scritto don Milani – è la più grande delle ingiustizie.

Oltre tutto questo, c’è poi un problema più profondo, e un rischio più grande, che riguarda tutti i gradi dell’istruzione, ma è più tangibile via via che si sale verso l’università. Ed è la tentazione di pensare che in fondo la didattica online sia del tutto equivalente a quella vera, e che anzi sia preferibile. L’affermazione delle università telematiche (che ho sempre considerato un’aberrazione, una contraddizione in termini: come musei solo virtuali, sesso solo online, cucina solo in tv…) sta di fronte a noi come un monito: non è che dopo il coronavirus si alzerà qualcuno a dire: “Perché non continuiamo sempre così?” Non sembri una paranoia da recluso: in molti dipartimenti (quelli a più alta densità di professori che esercitano una professione, come per esempio i giuristi) la spinta c’è da molto tempo, ed è sulla didattica a distanza che vengono istradate molte risorse premiali.

Ed è un errore, grave. Perché la scuola e l’università sono comunità: e hanno senso solo se lo rimangono, e non si riducono a somme di solitudini. La loro funzione non è rovesciare contenuti nella testa di uno studente (magari usando lo schermo del tablet come un imbuto), non è preparare ad una professione né rilasciare un titolo né valutare gli studenti: ma è quella di insegnare il pensiero critico. E dunque in un momento in cui ogni famiglia italiana è necessariamente, quanto istericamente, connessa alla rete (per informarsi, per distrarsi con serie e film, per comunicare con amici e parenti…), la scuola e l’università forse farebbero meglio a scegliere la strada della decompressione tecnologica e della liberazione mentale. Liberare dalla gabbia della individualità, invece che contribuire a consolidarla.

Il mio amico Guido, monaco di Bose, ha lodato su twitter la saggezza di una bambina di 9 anni che ha detto ai genitori: “Perché invece di vedere la messa in tv non leggiamo la Bibbia?”. Ecco: noi professori delle scuole e dell’università, invece di tenere connessi per ore i nostri allievi, avremmo potuto prescrivere loro un libro al mese per ogni materia (ordinabili via web: e non necessariamente da Amazon, ma anche dalle eroiche librerie reali connesse al portale Abebooks, per esempio), chiedendo di leggerli e poi di scrivere (in un tempo ragionevole) delle recensioni articolate, che noi avremmo corretto e rispedito. Sarebbe stato (e può ancora essere) un modo diverso di essere comunità, seppure a distanza: senza prenderci in giro su tecnologie inesistenti, senza metterci ancora più in tensione, senza mimare efficientismi aziendali. E anzi insegnando la cosa più preziosa: che anche mentre fuori tutto sembra crollare, i libri rimangono lo strumento più potente per stare in dialogo e per far presa sulla realtà. Per non smarrirci, e per rimanere vigili e critici sul mondo: in attesa di tornare ad incontrarci in corpo e anima, condizione indispensabile per ogni scuola che voglia essere umana.

Covid-19, il debole Nord Africa prova a prepararsi

“Quando vediamo cosa sta succedendo in Francia e in Italia, i cui sistemi sanitari, tra i migliori in Europa e nel mondo, sono al limite della saturazione, ci chiediamo: come possono le nostre sanità, già fragili, affrontare una crisi come questa, evitando il massacro delle popolazioni, in gran parte costituite da poveri?”, si allarma un medico del Rif, regione povera del nord del Marocco, per ora risparmiata dall’epidemia. La preoccupazione è alta in Maghreb dove l’epidemia del covid-19 sta avanzando. Come nel resto dell’Africa, Marocco, Algeria e Tunisia si stanno preparando al peggio. Fino a sabato scorso si contavano 94 casi accertati in Algeria e 10 morti, 86 casi in Marocco e due morti, 54 casi in Tunisia e un morto. Ma molti pensano che questi dati siano ben inferiori alla realtà.

Il Marocco, 36 milioni di abitanti, è stato il primo paese ad adottare misure drastiche nella regione, reagendo anche prima di molti paesi europei e chiudendo le frontiere terrestri e, in due tempi, lo spazio aereo. Prima, la scorsa settimana, con Francia, Italia e la vicina Algeria, primo focolaio del contagio in Africa, poi con una ventina di altri paesi d’Africa, America Latina, Medio Oriente. Una decisione radicale che ha valso al Marocco molte critiche, ma che era inevitabile. Il Marocco accoglie in media 13 milioni di turisti ogni anno. E viaggiare, ormai nessuno lo ignora più, significa diffondere il covid-19 su larga scala. Gli ospedali del paese vivono una situazione drammatica, con una palese mancanza di personale e mezzi. “Le capacità degli ospedali sono limitate. Il numero di letti in Marocco, con una media di 1,1 posti letto per mille abitanti, è molto basso”, spiega il medico epidemiologo Youssef Oulhote. Secondo l’associazione Tafra è molto probabile che “il numero reale di casi sia da dieci a 100 volte superiore a quello ufficiale”. Il dottor Oulhote si aspetta “decine di migliaia di casi in Marocco nelle prossime settimane. Il Marocco – ipotizza – potrebbe aver bisogno di 400 mila letti di ospedale, di cui una gran parte di terapia intensiva e rianimazione. Ma oggi il Marocco conta solo tra 30 mila a 40 mila letti e mancano medici e infermieri”. Altre misure di sicurezza sono state prese: sono stati vietati gli assembramenti, sono state chiuse scuole e università, poi caffè, ristoranti, cinema, hammam e anche le moschee. Le cinque preghiere quotidiane più quella di venerdì sono state annullate provocando l’ira degli islamisti radicali. Restano aperti solo i negozi essenziali, supermercati, alimentari, banche, farmacie. I trasporti pubblici sono disinfettati “più volte al giorno”. “Non c’è ancora panico, ma si sono verificate scene già viste in tutto il mondo, con i negozi e le farmacie presi d’assalto”, racconta un’abitante di Casablanca, che non esce mai di casa. Il sociologo Mehdi Alioua ritiene che confinare i marocchini nelle loro case “rischia di essere la soluzione peggiore e la più inefficace”. Sarebbe meglio, secondo lui, realizzare test generalizzati e confinamenti mirati come sta facendo la Corea del Sud, che ha uno dei tassi di mortalità più bassi, pur essendo uno dei paesi più colpiti dal contagio. Un’opzione che non sembra essere privilegiata dalle autorità, che puntano piuttosto al confinamento generale e hanno realizzato meno di 300 test, mentre l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha ancora ripetuto l’importanza dei test sistematici. “In un paese come il Marocco – precisa Mehdi Alioua – milioni di persone fanno la spesa giorno per giorno, in funzione di quanto guadagnano. Non hanno risparmi, né entrate stabili. Molti non hanno accesso all’acqua corrente e all’elettricità. Le persone delle classi popolari e medie, che hanno redditi più stabili e una casa, non guadagnano abbastanza per fare scorte sufficienti”. In Marocco, come negli altri paesi in via di sviluppo, dove la stragrande maggioranza della popolazione è povera, le famiglie vivono accalcate in locali molto piccoli, in cui convivono diverse generazioni, figli, genitori, nonni. “Se le persone sono costrette a star chiuse in casa con la forza – continua Alioua – nelle grandi città si rischia la rivolta. Ci sarebbero scene di panico e saccheggi”. Giovedì scorso (il 19 marzo), è stato dichiarato lo stato di emergenza sanitaria.

L’Algeria, 42 milioni di abitanti, è il primo paese africano ad aver segnalato un caso di covid-19, il 25 febbraio. Si trattava di un italiano arrivato ad Algeri a metà mese. Da allora l’epidemia sta avanzando pericolosamente in diverse regioni. In Algeria, dove solo un ospedale è abilitato a realizzare i test, sono stati effettuati 1.200 tamponi, secondo i dati del ministero della Salute. Se l’Algeria ha più posti letto del Marocco (una media di 1,9 posti per mille abitanti), la situazione degli ospedali non è meno critica. Gli ospedali algerini, dove dilaga la corruzione, dove mancano farmaci, risorse e personale (più di 10 mila medici si sono esiliati in paesi esteri, tra cui la Francia), riflettono tutti i mali dell’Algeria, impoverita dai vent’anni del regime di Bouteflika. Anche se il paese investe il 10% del suo budget pubblico nel settore sanitario (quasi il doppio rispetto al Marocco) e la sanità si basa sul principio della gratuità, il sistema sanitario algerino si deteriora anno dopo anno. In Algeria ci sono appena 400 letti di rianimazione. Il 12 marzo, già troppo tardi, il presidente Abdelmadjid Tebboune ha annunciato una nuova batteria di misure, chiudendo i confini terrestri, marittimi (tranne il traffico di merci) e lo spazio aereo. Sono state sospese le preghiere e chiuse le moschee. Vietati anche gli assembramenti e i cortei. Una misura che tocca particolarmente l’Hirak, il movimento anti-regime nato più di un anno fa, che ha rovesciato l’ex presidente Bouteflika. Da giorni i militanti dell’Hirak sono divisi come non mai dall’inizio della protesta, nel febbraio 2019: bisognava continuare o no la rivoluzione, che riunisce ancora migliaia di persone? “Gli algerini sono andati a manifestare martedì scorso ad Algeri a dispetto del buon senso e delle raccomandazioni degli scienziati”, ha scritto su Facebook il giornalista Farid Alilat. “Non sono un politico, né una figura dell’Hirak. Sono un giornalista libero che racconta agli algerini e al mondo questa rivoluzione eccezionale. Da domani smetto di seguirla per il bene di tutti”, ha twittato anche Khaled Drareni. “Inventiamo un nuovo modo di lottare, restando a casa, nell’attesa di poter scendere di nuovo nelle strade”, ha implorato l’attivista per i diritti umani Saïd Salhi. Anche gli algerini si precipitano nei mercati e negli alimentari per fare scorte di semola, farina, pasta, riso, acqua minerale. I prezzi sono saliti alle stelle. Non si trovano più gel per le mani né mascherine. Ma le persone, un po’ alla volta, cominciano a restare in casa e a rispettare la distanza di sicurezza. I medici lanciano appelli sui social alla prudenza. Il 19 marzo il governo ha chiuso bar e ristoranti, fermato i treni e i trasporti pubblici e chiesto al 50% dei dipendenti pubblici di restare a casa.

In Tunisia, 12 milioni di persone, dove il sistema sanitario è in crisi e il contesto economico è molto fragile, le autorità prendono misure anti contagio preparandosi al peggio. Fino a pochi giorni fa, a Tunisi, i più temerari continuavano a uscire al mattino nelle strade deserte per fermarsi a bere un capucin nei bar, aperti fino alle 16. Il 18 marzo, il presidente Kaïs Saïed ha annunciato che il coprifuoco sarebbe stato esteso a tutto il territorio nazionale, dalle 18 alle 6: “Dobbiamo fare sacrifici e mostrarci solidali”. Il 20 ha annunciato il blocco totale. I tunisini hanno dimostrato resilienza in quest’ultimo caotico decennio, tra rivoluzione del 2011, crimini politici, attentati e crisi economiche, politiche e sociali. I consigli di buon senso che circolano sui social e la creazione dell’hashtag #Cheddarek (“Resta a casa”) mostrano che le persone cominciano a prendere coscienza di quanto sia importante proteggere se stessi, i propri cari e gli anziani. In molte famiglie tunisine, la tradizione vuole che i figli continuino a vivere con i genitori anche una volta sposati. La cura e il rispetto degli anziani sono valori essenziali in molte famiglie. Selim, docente universitario di 40 anni, vive a Susa, nell’appartamento sopra a quello dei suoi genitori: “Vado io a fare la spesa per loro. Metto mascherina e guanti e uso il gel per le mani. Disinfetto sempre tutto. Esco solo per passeggiare al mare quando non c’è nessuno. Preferisco – dice – che mi diano del matto piuttosto che dell’irresponsabile”. Leila Ben Gacem, 50 anni, tiene dei bad & breakfast nella medina di Tunisi. Ma ha dovuto sospendere la sua attività e si è messa in quarantena con i suoi genitori: “Loro vivono a Beni Khalled, poco lontano da Nabeul, ma non volevo che restassero soli. Preferisco saperli con me a Tunisi e ho mostrato loro l’esempio mettendomi io stessa in quarantena”. Il padre, 80 anni, è diabetico. La madre, che soffre di ipertensione, ha 72 anni. “Mio padre mi dice che ha più paura di me che del virus perché controllo tutto quello che fa!“.

I genitori di Leila, come gli altri anziani, hanno dovuto cambiare le loro abitudini. “Ci stiamo organizzando con le associazioni locali perché gli anziani non debbano più andare alla posta per ritirare la pensione”, dice. A Biserta, dei volontari si sono offerti per fare la spesa agli anziani. La Tunisia ha adottato misure di sicurezza anche prima dei paesi europei. Sono state chiuse le moschee durante le preghiere e sospesa la preghiera del venerdì. L’orario di lavoro giornaliero è stato ridotto. Sono stati limitati i voli con l’Italia e la Francia, soppressi i voli commerciali e chiuse le frontiere marittime. A livello locale, i comuni, incluso quello di Tunisi, aumentano i controlli per disinfettare le strade e verificare che i caffè non vendano il famoso narghilè, simbolo nazionale, il cui uso è vietato per un mese. I tunisini che vivono all’estero hanno lanciato delle collette per raccogliere fondi per gli ospedali e il governo ha istituito un fondo di solidarietà. I medici tentano di allertare la popolazione: il sistema sanitario è a corto di risorse da più di dieci anni. Con solo 331 letti di rianimazione negli ospedali pubblici del paese, la Tunisia avrà difficoltà a far fronte alla crisi. Come nel resto del Maghreb, le conseguenze sanitarie, economiche e sociali potrebbero essere gravissime.

(traduzione Luana De Micco)

La felicità: meno sai, meglio stai

Ero con Gaia in un negozio di scarpe a provare dei sandali, mentre le faccio notare uno zatterone col tacco le dico: “Carini! sembrano quelli che andavano di moda negli anni ’40 durante la guerra” – “Quale guerra?”, mi dice con aria stupefatta. “Come quale? La 2ª Guerra mondiale” – “Ah”, continua lei sempre più sbigottita, “c’è stata una 2ª Guerra mondiale? Non lo sapevo” – “Certo, dal ’14 al ’18 la prima e dal ’39 al ’45 la seconda, mi prendi in giro?” – “Pensa, non lo sapevo! A me nessuno dice mai niente, mi dà un fastidio!”, risponde contrariata. “Spero tu stia scherzando!” – “Mi dispiace, ma se nessuno mi avverte!” – “E i libri di storia, i giornali, la tv, come fai a non sapere? Dai su, basta scherzare su queste cose. La Seconda guerra mondiale, i nazisti, la bomba atomica…” – “La bomba atomica cos’è?” – “Tu sei pazza, ma ci fai o ci sei?” – “No ti giuro. Io ho già tanti problemi, non posso pure occuparmi di ciò che succede agli altri. Ognuno pensi a sé!” – “Quindi nessuno ti ha mai detto che ci sono state due guerre mondiali?” – “Sì, forse ora che ci penso qualcuno mi ha accennato! Ma sai quanto so’ distratta io, poi adesso col trasloco di casa, la cucina nuova, il mutuo da pagare” – “Ma non vedi mai un cavolo di telegiornale?” – “Sì, ma non mi resta in testa, preferisco…. hai saputo che Albano e Romina forse si sono lasciati?” – “Tu non sai che ci sono state 2 guerre mondiali e stai in pensiero per Albano e Romina?” – “Sì, sono un’ammiratrice! No, ’sti sandali mi sa che non li prendo. Fanno tristezza, ricordano la guerra mondiale”. Non ho detto più nulla, sono uscita dal negozio e me ne sono andata. Ma ho capito cos’è la felicità, è vivere solo per se stessi. Il mondo comincia con te e con te finisce, meno sai meglio vivi… però questa cosa di Albano e Romina mi preoccupa!

(ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Leggere un libro su Obama e capire l’orrore di Trump

Se foste editori che cosa avreste detto a un giovane freelance italiano che, in piena campagna elettorale americana per o contro Trump, vuole pubblicare un libro su Obama? Francesco Paravati ha trovato chi gli ha detto sì, e il nostro autore coraggioso ha fatto 2 salti mortali. Il primo è di scrivere di Obama mentre si discute di Trump. Il secondo è ripubblicare il libro scritto durante la campagna elettorale di Obama. Ora il lettore scorre un volumetto (dotato di avventurosa copertina) che dovrebbe avere solo un valore storico (eventi, sentimenti, premonizioni e attese di allora) e invece è un piccolo trattato contemporaneo di politica americana.

Il lettore, quando scorre In viaggio con Obama (Porto Seguro Editore) scopre un curioso esperimento: in politica ripetere un discorso può essere un modo per cancellarlo e farne uno nuovo. Infatti la ripubblicazione, nella campagna elettorale B di quanto detto, pensato e scritto sulla campagna elettorale A, interpreta in modo inaspettato vecchi e nuovi eventi.

Ecco alcuni punti. Parlare di Obama (leader che cambiato la vita americana) offre una straordinaria descrizione (meglio, un giudizio) su Donald Trump. Obama era in movimento in testa all’America, a cui indicava un percorso senza guerra né razzismo, con meno disuguaglianza, dunque una grande avventura. Trump è stato 4 anni seduto sopra il suo Paese, costringendolo all’immobilità mentre sventure imperversavano dentro e intorno. Obama cercava il mondo, soprattutto l’Europa e l’Africa, mentre Trump è sospettato di voler acquistare in esclusiva, costi quel che costi, la cura o il vaccino contro il Coronavirus, così che solo l’America possa salvarsi. Obama voleva smontare poco a poco il controllo sempre più grande delle armi (ricordate la gigantesca bomba fatta sganciare da Trump sll’Afghanistan, senza una ragione o una conseguenza comprensibile al mondo?) per sostituirlo con sempre più diplomazia, confronto e decisioni collettive. Obama avrebbe voluto ridare vita e prestigio alle Nazioni Unite, Trump ne parlava poco, con disprezzo e per spazzarle via. Obama voleva il rispetto, Trump l’insulto. Obama offriva e cercava porte aperte, Trump muri e filo spinato.

Tutto ciò avrebbe richiesto un lavoro saggistico dettagliato e documentato. Nella ripubblicazione di In viaggio con Obama, invece, appare con chiarezza nella narrazione di un viaggio festoso, che stava portando verso un mondo rasserenato e in cerca di pace. Se leggete (o rileggete) Viaggio con Obama di colpo vi rendete conto che Obama ha dato all’America e al mondo 8 anni quasi allegri, certo sereni e con la sicurezza di un leader dall’umore stabile. Trump, in 4 anni, ha sempre espresso minacce, denigrazioni, il fiato cattivo di sentimenti e progetti di vendetta. Persino l’umiliante America First, che riconosce solo il peso e l’ingombro fisico del Grande Paese ma non la sua immensa capacità creativa, s’identifica nella bomba senza senso e scopo sull’Afghanistan, piuttosto che nella scoperta grandiosa del vaccino Sabin.

Curiosa dunque, e felice, la trovata di ristampare In viaggio con Obama quando l’America avrebbe dovuto essere “in viaggio con Trump”. Se questo piccolo libro con un grande merito (dirci tutto di Trump mentre parla di Obama) fosse uscito negli Usa sarebbe stato un aiuto per i candidati democratici alle primarie. Per ricordare che l’avversario da battere è Trump, non gli altri protagonisti della parte decente dell’America. Il candidato democratico in testa adesso è Joe Biden, che era il vice di Obama. Forse, come nel primo viaggio, vincono i buoni.

È tempo dell’equinozio: festa sacra del neolitico che arriva fino a Lecce

Dall’istante dell’equinozio è cominciato il nuovo anno, ovvero Now–Ruz. È il Nuovo Giorno secondo il costume dei Padri e la vita che ricomincia – con la sconfitta dell’inverno e dell’Inferno – restituisce la gioia e la vittoria alla luce. La Cina e la Turchia attualmente proibiscono la celebrazione di questo capodanno. In nove nazioni dell’eurasia – capofila sono le tre di lingua persiana, Iran, Afghanistan e Tajikistan – è festa.

Le radici di questa sacrissima solennità onorata da Zarathustra e istituita da Jamshid, il primo dei sovrani nello Shahnameh, intrecciano i destini di un unico popolo il cui sigillo è il fuoco e le cui scintille, ad Atene e così a Roma – ma anche nel pantheon indo-germanico – ornano l’attesa universale della primavera. Enea dalle torri di Ilio in fiamme, comandato dall’ombra di Ettore, si fa “profugo per fato” per innestare – al termine del suo viaggio – Troia a Roma. Il bottone giallo che in Albania tiene lontano il malocchio dalle culle è fuoco. E tutta l’Asia che è genitrice a noi, porta dagli albori dell’umano il fragore accecante del giallo: il paese dell’oro. Erodoto porta in Europa il racconto del Tibet: la terra della preziosa polvere che s’accumula in forma di cime abbaglianti. Il luccicante metallo è estratto dalle proprie tane da formiche giganti, i cunicoli si allungano fino all’alta valle dell’Indo i cui pozzi auriferi, secoli dopo, troveranno Odorico da Pordenone quale stupefatto cronista.

La forma dell’inchiostro non si rivela se non nelle lettere. Nella catena del logos, di goccia in goccia, in questa o in quella lettera si svela ancora una volta l’inchiostro. Giunge Now-Ruz, un avvento di cui si ha menzione dal neolitico, e i missionari cristiani come Giovanni da Pian del Carpine, assistono alla danza del Chaharshambè Surì: descrivono fastosi fuochi e sette salti intorno ad essi per recitare “il tuo rosso a me, il mio giallo a te”. La memoria del popolo – come a Novoli (Lecce), con la Fòcara per Sant’Antonio Abate – ancora oggi custodisce questo culto per interposta confessione e su un altro calendario ma, appunto, sono raggi di una stessa luce.

Ci tiene il broncio, il sole, quando sente venire meno il nostro omaggio. Ogni alba se ne sta svestita – coi piedi dentro la tinozza – in licenziosa promessa, per una nuova vita, e ogni ardore è atteso per preservare il cosmo. Il fuoco è un re cui è dovuto un trono e l’onore proprio dei sovrani. Quando nel 1976 gli inglesi lasciano lo Yemen anche i parsi, arrivati nell’Ottocento con i britannici, se ne vanno portandosi via anche il loro il fuoco.

“Il fuoco migrante di una comunità migrante”, scrive Neil MacGregor in Vivere con gli déi, “si era trasferito”. La scena è già la sceneggiatura di un film: un Boeing 707 è attrezzato per trasportare la fiamma viva; l’equipaggio, tutto parsi, è inviato ad Aden da Air India, la compagnia aerea della famiglia Tata, di confessione parsi e così il fuoco – il sacrissimo Atash – atterra a Mumbai, all’epoca ancora chiamata Bombay.

Il rosso e il giallo, allora: tanta di quella salute per scacciare per sempre la malattia; ed è tutto dell’amore per annientare l’odio. Nel “tu” e “io” di ogni danza, nell’accomunarsi del “noi” nella vita c’è l’auspicio di compiere la fusione. Il fiore sbocciato nel giardino è il fuoco. Di quale desiderio possa poi essere il desiderio, lo svela l’amore nel momento in cui l’amante – nella brama – diventa l’amato. Non c’è fusione più ardente dell’essere-due nell’Unico. L’unico augurio dell’unico sole di un unico popolo.

Banche europee deboli: l’economia rischia il collasso da Coronavirus

La consapevolezza che la pandemia di Covid-19 avrà effetti rovinosi sia sull’economia mondiale che sulle attività finanziarie ha penetrato in modo dirompente anche le menti più scettiche. Le ultime previsioni di banche e agenzie di rating sulla crescita del Pil globale variano tra l’1 e il 2 per cento. La contrazione delle attività economiche nei paesi sviluppati (e ovviamente in Cina) nella prima metà del 2020 sarà di un ordine di grandezza mai sperimentato in tempo di pace.

Terremoti e disastri naturali generalmente hanno durata breve e localizzazione circoscritta. Di questo shock economico non possiamo ipotizzare né la durata, né le aree colpite, né la portata futura. In tali frangenti reggerà l’architettura finanziaria internazionale? La crisi del 2008-09 ne aveva divelto le strutture portanti con rapidità sconvolgente. Architravi ritenute assolutamente solide come il mercato monetario o quello dei mutui avevano ceduto di schianto. Le obbligazioni tripla A erano diventate nottetempo spazzatura. Da allora alcune delle piaghe più purulente sono state in buona parte cauterizzate. Ad esempio lo shadow banking, che aveva creato i titoli tossici, ha subìto una drastica decurtazione. Le transazioni dei derivati esotici si svolgono in central clearing houses cioè mercati meglio organizzati, trasparenti e resilienti. Il sistema bancario americano dopo ricapitalizzazioni, stress test, piani di emergenza e ristrutturazioni sembra in condizioni di poter reggere l’urto. Quello europeo invece è stato in convalescenza più a lungo e la propaggine italiana è ancora gracile dopo 11 anni di tribolazioni. Il trasferimento della vigilanza sulle grandi banche alla Bce ha imposto maggiore disciplina (si spera), ma il nodo cruciale rimane irrisolto. In un’unione monetaria con un mercato dei capitali integrato un sistema bancario frammentato per comparti nazionali è un’aberrazione. Significa che quando un paese attraversa difficoltà le sue banche vanno in sofferenza e il credito si prosciuga. In sostanza il rischio paese viene esacerbato e si trasforma in rischio sistemico per tutta Eurolandia. Inoltre non è stato spezzato il meccanismo di contagio tra debito pubblico e banche, stolidamente imbottite di titoli di Stato, per cui un governo inetto trascinerebbe nel baratro tutta l’economia in poche settimane.

Purtroppo ogni nuova crisi ha caratteristiche peculiari, mentre politici e regolatori adottano le strategie della guerra precedente. Questa volta le deflagrazioni possono arrivare dai paesi emergenti indebitati in dollari, oppure dai giacimenti di idrocarburi non convenzionali in America, oppure ancora dal fallimento di uno stato sovrano. Insomma nonostante 11 anni di terapia intensiva non tutti i governi e le istituzioni finanziarie sistemiche sono immuni dal rischio di ritrovarsi come i birilli del bowling dopo uno strike.

Diario di un milanese: canti e aperitivi in chat con l’ansia del contagio

Casa mia. Milano. Quasi un mese di reclusione. Strana sensazione: stare dentro un incubo e scoprire via via che chi porta sciagure porta anche doni. Per quella ferrea legge della relatività. Le cose che ritrovano un valore alto, altissimo, prima mortificato, oscurato, dalla società dei consumi, o dall’abitudine alla sicurezza e alla libertà. Abbiamo riscoperto ad esempio, qualora ne avessimo perso di vista l’importanza, la sanità pubblica. Tornano ricordi di comizi lontani, inizio primavera nelle periferie milanesi.

Anni novanta, la gente che incitava a privatizzare, togliere i legacci del pubblico a una società che doveva decollare anche nella sanità, scrollarsi di dosso quel sistema costosissimo che gravava sulle spalle del contribuente. E ora eccola, quando arriva il conto, la sanità pubblica con i suoi eroi, i turni infiniti e i medici che cadono sul campo. Nella mia attuale condizione di recluso penso che dovremmo ricordarci i loro nomi. Specie nel giorno in cui scrivo, 21 marzo, giornata della memoria delle vittime innocenti di mafia, credo anzi che i paesi e le città debbano intitolare anche a loro, caduti su un altro fronte, una piazza, una scuola, un ospedale. E poi, siccome la vita di recluso genera anche qualche fissazione, penso che dovremmo sapere pure i nomi dei 249 medici, tanti dicono che siano, che a Napoli si sono messi in malattia. Non credo siano gli unici, pare ci sia qualche caso perfino nel lodigiano. Ma converrete che 249, con la tragedia in corso, sono veramente un’immensità. Mi ha detto una studentessa napoletana: ma se questa è una guerra, allora sono dei traditori della patria. Candore giovanile. Forse non l’avrei mai detto in questo modo. Ma condivido. E se qualcuno si sente colpito dalla generalizzazione, perché davvero malato, se la prenda con i suoi colleghi che offrono numeri vertiginosi (e vergognosi) che obbligano a generalizzare.

Però voglio qui darvi una notizia bella, di quelle che in queste giornate si moltiplicano, perché le reclusioni aumentano la voglia di sapere e far sapere, di vedere e far vedere cose belle. Dice la notizia che un’ex infermiera bresciana, addetta per 8 anni a un reparto di terapia intensiva, e poi partita per un master alla Bocconi e un’azienda di software sanitario, in questi giorni di dolore, davanti alle bare di Bergamo, ai numeri della Lombardia e della sua Brescia, ha deciso di tornare a Brescia a fare l’infermiera. Si chiama Silvia, ed è anche giovane vicesindaco di Paratico, paese di 3mila abitanti.

Vivendo soli a lungo, difficile non meditare anche su quel che abbiamo alle spalle, sui fili e sulle storie. Non ripassare volti sbiaditi. Ecco così arrivare telefonate da ex compagni di università, da amici lontani. Volersi ritrovare “a distanza”. Strano anche questo: più si è lontani, inaccessibili, più ci si sente vicini. Si sprecano caffè e aperitivi via skype. Ma sarebbe sbagliato pensare, non lo pensino nelle zone meno flagellate, che queste siano trovate estroverse, un divertirsi nell’incubo. Perché già iniziano a essere coinvolte famiglie che conosci. Lo zio di quello, gli zii di quegli altri, prima lei poi lui, morti all’insaputa l’uno dell’altro, sepolti senza funerali. No, non ci si diverte quando la morte fa sentire il suo alito sul collo, centinaia in un giorno solo in una città. Si saranno divertiti i giovani pimpanti che due settimane fa circa fecero a Palermo un corona-party pubblico ballando pigiati e divertiti (ma sì: i nomi, i nomi!, almeno degli organizzatori, così andranno di diritto nei film che un giorno racconteranno questa catastrofe che “è solo un’influenza”). Cercarsi in video, confezionarsi il sapore della leggerezza, è solo un modo per fuggire una manciata di minuti dalla consapevolezza che durerà, che le scuole forse non riapriranno, che la didattica a distanza durerà mesi, che non ci saranno viaggi estivi. Che la felicità sarebbero già le nostre strade. Che chissà quando arriverà un vaccino per tutti. Anche cantare dai balconi, più che un gioco, è un modo per darsi forza. Perché nell’animo di molti vedo un unico imperativo: fare l’impossibile per andare avanti con decoro nel proprio lavoro, difendere il Paese. Questo solca il nostro mare misto di paure e voglie di leggerezza, mentre la primavera, inconsapevole, mette fuori le sue gemme, che ci appaiono meravigliose. Segno di qualcosa che potrebbe essere e che non è. Di qualcosa che abbiamo visto per decenni provandone stupore incantato solo nell’infanzia. Ma torneranno i prati.

Vita e morte in Lombardia. “Ho perso papà ma niente tampone: e se ho il virus?”

Cara Selvaggia, mio papà si chiamava Siro, era nato il 7 Aprile 1955 a Torre De’ Roveri, un piccolo paese a pochi km dalla città di Bergamo. 37 anni fa, per lavoro in provincia di La Spezia e dopo vari spostamenti, s’innamora del monte Rocchetta e lì compra un rustico ristrutturandolo. Chiamava quella casa “il mio posto nel mondo”, isolato, su strada sterrata, con i cinghiali che passeggiavano in giardino e un enorme orto a cui si dedicava con tanto amore, con la Versilia che si vedeva dalla terrazza. Buon cuore, con la battuta sempre pronta, era diventato amico di tutti a Lerici: non si poteva passeggiare con lui senza che ci si fermasse ogni tre passi a salutare qualcuno che era felice di vederlo. Nel 2005 si ammala di un tumore al fegato, gli danno 3 mesi di vita. Ma dopo 6 mesi è ancora in piedi per noi, le sue donne, le tre figlie e la moglie. Dopo il trapianto, con qualche acciacco, la sua vita riprende a pieno. Preferisce comunque rimanere in cima alla sua adorata Rocchetta, rientrando a Bergamo solo per i weekend in famiglia.

Tutto questo fino al 22 Febbraio 2020, quando, per un dolore e gonfiore al piede si reca al pronto soccorso di Seriate, assieme a mia mamma. Per la sua “paura di dare fastidio” non dichiara di essere immunodepresso. Dopo un paio d’ore nella sala d’attesa gli viene diagnosticata una semplice infezione curata in pochi giorni. Il 2 di marzo scende a Lerici con il treno Bergamo–Pisa Centrale delle 6.40. Ha un po’ di tosse, ma avendo preso freddo non gli dà peso. Durante la settimana la tosse peggiora, il respiro è affannato e allora il 6 marzo, con 7 kg in meno e la febbre a 37.8, andiamo a prenderlo e lo riportiamo a casa. Telefonando al 1500 (numero di pubblica utilità per il Covid -19) mi danno solo dei consigli, la guardia medica non risponde, cade la linea. Al numero verde per la Lombardia mi consigliano di contattare subito il 112 e dopo un’ora e 7 minuti di attesa parlo con chi di dovere: prendono dati e sintomatologia del paziente, mi chiedono se è stato a contatto con contagiati da Covid, riferisco di no, ma segnalo che è stato in treno e in pronto soccorso proprio la giornata dello “scoppio” di ciò che oggi è una pandemia.

Mi viene detto “ti richiamerà un infermiere che valutata la tua casistica vedrà se è opportuno fare uscire un’ambulanza”. Dopo mezz’ora arriva la chiamata, l’infermiere sconsiglia l’intervento dell’ambulanza. Io insisto perchè conosco papà, è uno che se l’è vista brutta, ha la pellaccia e non si è mai lamentato. Se si è lasciato strappare dal suo paradiso terrestre per una “tosse” significa che è grave.

A mezzanotte arriva un’ambulanza, i volontari prendono qualche parametro e sconsigliano di portarlo all’ospedale perché “se non è Coronavirus, lo prende lì e ci lascia le penne”. Non potendo prescrivermi nulla, chiamiamo la guardia medica che, finalmente, risponde. Ci dice che è normale avere questi sintomi se lui da lunedì ha febbre e tosse e non prende niente per curarla: mi spediscono in farmacia a prendere un sedativo per la tosse e la tachipirina. La situazione non migliora, passiamo nottate di inferno, ogni colpo di tosse ti senti mancare il respiro insieme a lui, sembra stia affogando ogni volta. Domenica nella disperazione vado dalla guardia medica a chiedere aiuto. Trovo un dottore che dice “c’è un po’ di acqua nei polmoni” e, vista l’immunodepressione, consiglia a mio padre di fare l’aerosol. Questa “visita medica” non mi tranquillizza. Lunedì alle 8,30 apre l’ambulatorio medico del nostro dottore e io sono lì: munita di mascherina e guanti spiego in lacrime la situazione e i sintomi al medico. Riferisco che anche io ho qualche linea di febbre e che non posso andare a lavoro essendo espostissima (infopoint del centro commerciale di Orio al Serio). Ottengo qualcosa, dei farmaci. Papà sembra stare meglio! Non ha più febbre, mercoledì viene il medico di base di sua iniziativa a trovarci, lo trova in forma, io smetto di piangere, lui ci dice che sembra essere una polmonite batterica e non virale, papà si gode la partita della sua amata Atalanta e la vede trionfare, si beve addirittura una birra. Giovedì sembra tutto ok, la sera addirittura si mangia tre piatti di minestra: questo è il mio vecchio, ora lo riconosco. Mia mamma intanto ha una febbriciattola ballerina. Venerdì 13, alle 19.00, papà mostra segni di affanno, rantola, si lamenta. Inizio a chiamare: guardia medica non risponde, “utente occupato” per quasi 10 volte in diversi momenti; vado col 112, sale il panico, non riesce a respirare, fa fatica, la saturazione è a 70. Chiamiamo delle amiche infermiere, ci aiutano a spostarlo, una si attiva e va a cercare dell’ossigeno: la prima farmacia dove trovarlo è a 40 km da qui. Passano altri minuti, mio papà muore.

Ora siamo qui, con la salma di mio padre che, dopo aver manifestato ogni sintomo del Coronavirus, non c’è più. Il suo corpo è in una bara non areata in sala, rimarrà qui tutto il weekend, le pompe funebri sono oberate di lavoro. Non possiamo ricevere nessuno, commemorarlo come si merita, non ha avuto le cure che si meritava. Siamo io, mia mamma Judit, mia sorella Viktoria, mio cognato Giovanni, i miei nipoti Siro e Angelica. Non sappiamo se siamo positivi al Coronavirus o no. Ci siamo messi in auto-quarantena perché abbiamo buonsenso: vorremmo che nessun altro soffrisse come noi e soprattutto come mio papà. Ma di ufficiale non c’è nulla: sottopongono calciatori, politici, uomini di spettacolo asintomatici al tampone, mentre noi siamo qui, da due settimane abbandonati a noi stessi. Siamo, con ogni probabilità, un potenziale attentato alla sicurezza pubblica anche se usciamo a fare la spesa. Questo non interessa a nessuno. Di mio padre non è interessato a nessuno.
Asia

 

Cara Asia, così si muore e si vive in Lombardia, in questi tempi bui.

 

Sanità spolpata: prima si taglia, poi l’esercito arriva in strada

Caro Leonardo Coen hai ragione: nessuno ci salverà dal trombone-virus. L’eterno bla bla bla che in questo dannato Paese trasforma anche le tragedie più terribili in deprimenti farse. Un’eterna fiera della disonestà intellettuale. Osservo la sfilata di politici che ora chiamano eroi medici e infermieri costretti a buttare il sangue in questo periodo di peste, gente che si ammala (molti muoiono) per curarci. Li vedo appellarsi alla sanità pubblica, e mi sale il sangue alla testa. Spesso sono gli stessi che negli anni passati facevano “gli americani”, i “liberisti” con la salute degli altri, e applaudivano ad ogni chiusura di ospedale, sognavano l’America (quella prima delle riforme di Obama), sbandieravano il grande risultato del numero chiuso per le facoltà di Medicina. 37 miliardi, stampiamocela in testa questa cifra, tanto in dieci anni hanno tagliato alla salute degli italiani, questi Chicago boys alla matriciana. Oggi servono letti per la rianimazione. Li avete cancellati. Nel 1980 avevamo 922 posti per ogni centomila abitanti in questi reparti, nel 2010 sono diventati 300, nel 2015 275. Mancano medici e infermieri. Lo dite ora, dove eravate quando in soli otto anni (dal 2009 al 2017) la sanità pubblica ne perdeva 46500? Ora volete un Paese unito. Ed è giusto. Ma detto da voi, artefici di quella che gli esperti chiamano la “salute diseguale”, fa rabbia. Negli ultimi dieci anni il Sud ha perso 70mila posti letto, molte regioni non sono in grado di assicurare i livelli minimi di assistenza. Ora alcuni di voi invocano l’esercito. Il governatore della Campania De Luca (lo fa per sollazzare Crozza e Verdone) vuole “i carabinieri col lanciafiamme”. E finge di non ricordare i piani lacrime e sangue per risanare i bilanci, ma sempre in una sola direzione. In Campania negli ultimi anni la crescita della spesa sanitaria è stata solo dell’1%, quella per il personale è calata del 19,7%. E ora, De Luca lancia appelli: “Abbiamo bisogno di 1600 tra medici e infermieri”. Bisognerebbe venire a prendervi col forcone. Ma non si può uscire.

Trombonevirus: quanti diari da isolamento ci aspettano!

Caro Enrico, dal mio balcone non vedo nessuna Europa in ginocchio, non ho tali retoriche pretese, mi basta già il silenzio atroce della mia Milano, rotto di tanto in tanto dal suono delle sirene, dallo sferragliare – raro e però rassicurante – di qualche tram, cosicché ci si convinca che nonostante tutto qualcosa continua come prima. Ancora non sono stato contagiato dal trombonevirus che invece dilaga implacabile sui giornaloni, dove schiere di commentatori si prodigano nell’infliggere lezioni di vita, riflessioni sugli effetti collaterali del panico e della umanissima paura di morire, o sulle strategie paramilitari per contenere il maledetto contagio. Che non è l’unico in agguato. L’amica e scrittrice Caterina Emili paventa infatti il diffondersi della sindrome di Boccaccio: “Non temo il contagio tra la gente semplice, di poca perizia. Questa scriverà e scriverà e magari pubblicherà a pagamento. Ma mi terrorizza la diffusione di tale sindrome tra i narratori professionisti. Ommadonnasanta, quanti diari da isolamento ci aspettano! Amori che nascono tra la cucina e il cesso, viaggi attorno al tinello, brevi cenni sull’universo del balcone. Senza contare gli incontri con dio, ruffiano il Coronavirus…”. Natalia Aspesi, agguantando l’ironìa di Caterina, le ha risposto su Fb: “Lascia che si distraggano, intanto noi torniamo a leggere la Peverelli”, celeberrima rivale di Liala. Il poeta Gabriele Via teorizza la poesia come terapia e strumento di cura. Forse per questo Piero Nissim mi ha inviato il sonetto in vernacolo pisano “A’ tempi der coronavirus”.

Riordi Nèri della piena d’Arno? Fu ner sessantasei la gran sciagura! Ma s’era tutti ’nsieme ’n mezzo ar fango a sarvà’ i libri, l’arte, la ’urtura. Vennero terremoti a spiacciacce e noi a scavà’, cercà’ persone ’n vita e ’r foo a Carci, come se un bastasse, trovò la gente insieme, tutta unita. Ma qui, co’ ’sto ’Orona è n’artra ’osa, si deve sta isolati in quarantena, ognun per l’artri, ma rinchiusi in casa! Tempo sospeso fra colazione e cena: fragilità, stanchezza… ma non resa! “Adda passà’ a nuttata!” e vesta pena…