Dai balconi si canta anche il Miserere, il salmo del pentimento di re Davide

Non l’inno d’Italia, né una canzone di ieri o di oggi. Ma il canto del Miserere nella versione del maestro abruzzese Saverio Selecchy (1708-1788). È successo ieri a Piano di Sorrento, nella costiera in provincia di Napoli: una terra nota anche per le tradizionali processioni di incappucciati nei due giorni centrali della Settimana Santa, il Giovedì e il Venerdì.

Alle sette meno un quarto, quando il giorno vira verso il buio, da balconi e terrazzi è risuonata la stessa esecuzione del Miserere, riprodotta in precedenza. Il canto si è steso come un manto sulle strade vuote, le stesse che vengono percorse ogni anno, la sera del Venerdì Santo, dagli incappucciati neri dell’Arciconfraternita della Morte e Orazione. “Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam”. “Pietà di me, o Dio, secondo la tua grande misericordia”.

Da secoli, i confratelli del coro del Miserere vengono inquadrati nel corteo degli incappucciati che portano in giro i simboli della Passione e della Morte di Gesù nonché le statue del Cristo Morto e della Madonna Addolorata. Ma quest’anno, per la prima volta (a meno di un miracolo), il Venerdì Santo sarà un deserto, in costiera sorrentina come in altre zone d’Italia, dall’Abruzzo alla Puglia e alla Sicilia. Mai successo, a memoria d’uomo. Un vuoto che si avverte già in questa Quaresima pandemica di clausura.

Questi sono infatti i giorni in cui gli organizzatori delle processioni mettono a punto tutti i dettagli per le uscite: le vesti da distribuire, i lampioni da lustrare, i cori da far provare, l’allestimento delle statue e così via. Di qui i tanti significati del Miserere “cantato” ieri da balconi e terrazzi. Viene in mente un’altra tragedia, quando la versione del maestro Selecchy venne cantata da una collina di Chieti verso le macerie dell’Aquila. Era il Venerdì Santo del 2009, l’anno del terremoto.

Il Miserere è uno dei salmi attribuiti a Davide, re d’Israele. Il numero cinquanta. Ed è il grido di pietà per un feroce delitto: Davide desiderò Betsabea, moglie del suo soldato più fedele, Uria l’Ittita, e giacque con essa, che rimase incinta. Il re, poi, fece in modo che Uria morisse in battaglia. Il bimbo nacque ma morì. Davide chiese perdono e sposò Betsabea, che gli diede un altro figlio: Salomone.

Lasciar morire i nostri anziani?

Chi ancora avesse dubbi sulle misure adottate dal governo – obbligo di auto-isolarsi, non uscire di casa neanche per passeggiate, evitare ogni contatto con persone esterne – farebbe bene a valutare la condizione in cui ci troviamo, in Italia e nei paesi europei: tracollo dei sistemi sanitari, mancanza acuta di posti letto e attrezzature per terapie intensive e ventilazione dei polmoni, carenza di infermieri, rianimatori, anestesisti.

È il risultato di anni di tagli alla sanità e di privatizzazioni. Gli anziani in prima linea farebbero bene a non muoversi di casa in alcuna circostanza, dai 70 e anche 65 anni in su. Per loro i tracolli e le mancanze hanno un significato evidente: non ci sono né letti a sufficienza né attrezzature per ospitarli. Non saranno nemmeno ammessi agli ospedali, se questi sono veramente “allo stremo” come si annuncia da settimane. Nel migliore dei casi, se affetti da difficoltà respiratorie verranno convogliati in ospizi medicalizzati. Nel peggiore e più frequente moriranno in casa: soli, senza medico che ti attacchi al ventilatore se ti manca l’aria, senza un parente che sia vicino.

In Francia questo viene ormai formalmente dichiarato, ammesso. La fase del cosiddetto “triage” – la selezione fra chi viene aiutato a sopravvivere e chi no, tra chi è ammesso in ospedale e chi ne è escluso, tra persone in grado di resistere per età o “storia medica” e anziani con una bassa aspettativa di vita – è ufficialmente cominciata in un numero crescente di ospedali. Il personale viene istruito in tal senso da rapporti ad hoc, che si richiamano all’esperienza italiana. Si dà per scontato che in Italia il “triage” sia ormai la norma, più che il rischio da evitare.

Un articolo apparso il 18 marzo su Le Monde rivela l’esistenza di un rapporto che prescrive la selezione dei malati. Si intitola “Definizione delle priorità (priorisation) nell’accesso alle cure critiche in un contesto di pandemia”, il 17 marzo è stato trasmesso alla Direzione generale della sanità da un gruppo di esperti convocato dal governo. Scopo del rapporto è aiutare i medici a operare le scelte che fatalmente occorrerà fare – che occorre fare sin d’ora – in caso di saturazione dei letti di rianimazione.

Il sito Mediapart ha condotto un’inchiesta non meno brutale, il 20 marzo. In alcuni ospedali, soprattutto a Perpignan nei Pirenei Orientali e nell’Est della Francia (in Alsazia e in particolare a Mulhouse e Colmar), esistono espliciti protocolli e tabelle schematiche, a uso di ospedali e medici, che mettono nero su bianco la necessità di operare le selezioni. Mediapart pubblica nelle grandi linee un “Piano Bianco” del 18 marzo scorso, messo a disposizione del servizio rianimazione del centro ospedaliero di Perpignan e del suo personale sanitario: se il numero dei malati critici oltrepassa le risorse disponibili (posti letto, attrezzature, medici, infermieri), la selezione s’impone.

Nel Piano Bianco vengono distinte quattro categorie di rischi di morte cui far fronte (o non far fronte): le “morti inevitabili”, a causa della severità della malattia o dell’età – Le “morti evitabili”, grazie a un miglioramento delle cure e dell’organizzazione – Le “morti inaccettabili”, di pazienti giovani senza concomitanti malattie gravi – e infine le “morti accettabili”, cioè i “pazienti anziani o poli-patologici” (con malattie concomitanti). La priorità va data ai pazienti il cui rischio di morte è giudicato “inaccettabile”.

Vero è che il Piano prevede la consegna a domicilio di ventilatori per chi è precluso dagli ospedali. Ma non si sa se le risorse siano sufficienti, man mano che aumenterà il numero di pazienti anziani in stato critico che restano a casa. È qui che scatta la trappola etico-sanitaria: a partire dal momento in cui la morte dell’anziano minacciato da asfissia è definita “accettabile”, tutto è permesso. Compreso il disinteresse sostanziale al suo stato e la sua esclusione dalle cure. L’etica finisce dove comincia il “principio di realtà”, che guida schemi e protocolli. Dice un infermiere in una città dell’Est: “Non lo si dice perché non si può, ma l’ordine tacito è di non ammettere più negli ospedali le persone oltre i 75 anni, di lasciarle nei ricoveri per anziani o a casa: cioè lasciarli morire”.

I medici fanno valere che una certa selezione veniva praticata anche prima del Coronavirus, negli ospedali e fuori dagli ospedali: a partire da una certa età la rianimazione non è frequente. Ma la soglia abbassata ufficialmente ai 70 anni è una novità. “È un battesimo di fuoco”, hanno detto i medici a Mediapart.

La chiamano “priorisation”, ed essa viene applicata anche quando accade che un anziano sia intubato. Visto che le cure di rianimazione-ventilazione sono molto lunghe 14 giorni in media per paziente. “In Italia il primo paziente giovane è stato intubato per quattro settimane”, ricorda un medico in Alsazia), quando procedere al distacco dei tubi? A Mulhouse (Alsazia), il responsabile del servizio di aiuto medico urgente (la Samu, ovvero il nr telefonico 15, equivalente dei nostri numeri verdi) denuncia la saturazione della rianimazione in tutto il dipartimento e spiega: “Quando viene intubata una persona di 70 anni e quando quest’ultima occupa l’ultimo letto disponibile, viviamo nell’angoscia che un’ora dopo arrivi una persona di 50 anni in crisi respiratoria”.

La scelta della selezione viene presentata in Francia come medicina delle catastrofi, o di guerra. Come scelta razionale, anche se terribile, fra le esigenze dell’etica e “principio di realtà”. Probabilmente per questo Macron, quando con enorme e colpevole ritardo ha annunciato misure di auto-segregazione individuale, il 16 marzo, ha usato almeno cinque volte la parola guerra. Sapeva già quello che questa parola comporta: il sacrificio inevitabile di molte persone. Angela Merkel e il re di Spagna hanno evitato la parola guerra.

Per ora non esistono né cure risolutive del Covid-19 né vaccini. Test estesi sul piano nazionale non si possono fare per mancanza di tamponi. Non resta che la via dell’autodisciplina nel praticare l’autosegregazione. Chiunque non la osservi crea le condizioni d’un numero sempre maggiore di “morti accettabili”. Nicolas Van Grunderbeeck, rianimatore all’ospedale di Arras, riassume così il dilemma: “Dobbiamo rassicurare i pazienti senza occultare il fatto che esistono casi in cui dobbiamo selezionare”.

Ritroviamo un serio e mite amor di Patria

Non tutti, è ovvio, ma molti nostri concittadini che hanno aperto le finestre per ascoltare insieme l’Inno di Mameli trasmesso da tutte le radio, hanno voluto esprimere un sentimento sincero di amor di Patria. Che non è orgoglio pettoruto per la superiorità della nostra Patria rispetto alle altre; non ha nulla a che vedere con il ripugnante slogan “prima gli Italiani” sbandierato dai demagoghi nostrani; non è la disgustosa simulazione dei furbi che sventolano il Tricolore e violano regole e leggi per fare i propri comodi. È il semplice senso del dovere, la consapevolezza che sempre, ma soprattutto in condizioni di emergenza come questa che viviamo, ognuno di noi deve fare la sua parte: rispettare le leggi e praticare la solidarietà, come prescrive la nostra Costituzione – il testo che meglio di ogni altro insegna cosa vuol dire essere Italiani e come si deve amare la nostra Patria. Un amor di Patria mite, che vive di opere e detesta i proclami, che pretende molto da ciascuno e proprio per questo è severo nei confronti dei politici che neppure di fronte a questa gravissima emergenza pensano al bene comune ma vogliono esclusivamente tornare al potere.

Se da questa guerra contro l’epidemia usciremo con un ritrovato, serio, amor di patria, potremmo anche, superata l’emergenza, tornare alla non alla “normalità” e continuare a vivere senza senso civico, ma vedere una rinascita della nostra Repubblica. Mai come ora abbiamo bisogno di guide autorevoli che sappiano dare l’esempio di spirito repubblicano e sappiano trovare le parole giuste per fare capire agli Italiani che abbiamo un destino comune e che i comportamenti individuali hanno conseguenze sulle vite degli altri. Le parole, non dimentichiamolo, ispirano e insegnano. Se perderemo anche quest’occasione per imparare a vivere sul serio con il senso del dovere, superata in qualche modo l’emergenza grazie a chi il senso del dovere l’ha, torneremo a essere una patria solo di nome, senza le energie morali necessarie per affrontare nuove sfide come e forse anche più dure di questa.

Dalla sospensione agli utenti morosi: il punto sulle bollette

Le bollette di acqua, luce e gas sono le grandi escluse dal decreto Cura Italia che ha stanziato 25 miliardi di euro per far fronte all’emergenza Covid-19. Tra le misure previste per le famiglie, tra bonus, congedi e congelamenti, non ci sono infatti le utenze domestiche nonostante fossero state incluse in un primo momento. Così come è accaduto con il decreto dello scorso 28 febbraio che per l’originaria zona rossa ne ha stabilito la sospensione fino al 30 aprile. “Abbiamo ragionato sulla riduzione delle bollette, ma si sarebbe andati oltre il nostro spazio di copertura”, ha spiegato il giorno dopo l’approvazione del Cura Italia il vice ministro dell’Economia Antonio Misiani. Del resto si tratta di numeri imponenti: in Italia ci sono 30 milioni di famiglie che hanno un contratto di fornitura elettrica e 20 milioni che hanno anche quella del gas (in entrambi i casi si tratta della somma tra il mercato tutelato e quello libero). Bollette che, insomma, pesano come un macigno sia per i conti del governo che per le famiglie che, a causa della possibile mancanza di entrate nei prossimi mesi, potrebbero non farcela a pagare con regolarità. Fino ad oggi sono tre le misure previste e gestite dall’Autorità per l’energia, le reti e l’ambiente (Arera) per andare incontro alle difficoltà dei consumatori. Facciamo il punto.

La sospensione delle bollette di acqua, luce, gas e rifiuti fino al 30 aprile è valida solo per le utenze degli 11 Comuni dell’ex zona rossa di Lombardia e Veneto: Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione D’Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini e Vo’. Solo per gli utenti di questi Comuni sono sospese anche le fatture che contabilizzano i consumi effettuati fino alla fine del prossimo mese, pur se saranno emesse successivamente. “Le norme – sottolinea il presidente dell’Autorità, Stefano Besseghini – consentono la sospensione del pagamento, non l’annullamento. Questo significa che, passata la situazione di emergenza, si dovranno comunque pagare le bollette per i servizi che si stanno utilizzando in casa e nelle imprese. Ciascuno dei cittadini degli 11 comuni valuti quindi se fruire della possibilità di sospensione prevista dalla nostra delibera oppure effettuare i pagamenti secondo le proprie abitudini”.

Dal 10 marzo, invece, in tutta Italia, le eventuali procedure di sospensione delle forniture di energia elettrica, gas e acqua per morosità – di famiglie e piccole imprese – sono state rimandate fino al 3 aprile 2020. Una misura che eviterà ai clienti che non possono pagare le bollette di ritrovarsi senza dei servizi essenziali. Nel dettaglio, la sospensione dei distacchi per morosità per l’elettricità riguarda tutti i clienti in bassa tensione e per il gas tutti quelli con consumo non superiore a 200.000 Smc/anno. Mentre per il settore idrico si fa riferimento a tutte le tipologie di utenze domestiche e non domestiche. Per garantire questo stop, e la sostenibilità degli attuali e futuri interventi in favore delle famiglie, è stato istituito un conto presso la Cassa per i servizi energetici e ambientali, con disponibilità fino a 1 miliardo di euro. Tecnicamente i gestori dal 10 marzo hanno rialimentato le forniture di energia elettrica, gas e acqua eventualmente sospese. Poi dal 3 aprile, le compagnie potranno disalimentare o ridurre la fornitura del cliente moroso, procedendo a una nuova costituzione in mora.

Sul fronte dei rifiuti, l’Arera ha segnalato l’opportunità di riconsiderare i termini previsti per l’approvazione delle “tariffe della Tari in conformità al piano finanziario del servizio di gestione dei rifiuti urbani”, proponendo il differimento dal 30 aprile al 30 giugno.

Altra misura valida per tutte le famiglie, che ne hanno i requisiti, è il ricorso ai bonus sociali: l’Arera ne ha prolungato la scadenza di due mesi nel periodo 1 marzo-30 aprile 2020 per aiutare i cittadini che potrebbero avere difficoltà logistiche a presentare la domanda di rinnovo. I bonus sociali sono uno sconto sulla bolletta di luce, acqua e gas alle famiglie in condizione di disagio economico e fisico e alle famiglie numerose. I requisiti per ottenerli sono una soglia massima Isee di 8.265 euro, mentre per le famiglie con almeno 4 figli a carico l’Isee non deve superare 20 mila euro. Il valore del bonus sociale luce dipende dal numero dei componenti della famiglia: 125 euro fino a due componenti, 148 euro fino a quattro componenti, 173 euro oltre i quattro. Mentre per il gas non si hanno degli importi fissi: il calcolo è legato a diversi fattori rispetto alla categoria d’uso associata alla fornitura di gas, alla zona climatica di appartenenza del punto di fornitura e al numero di componenti della famiglia anagrafica. Conoscendo questi dati è possibile calcolare l’ammontare del bonus sociale gas sul sito dell’Arera. Tutte le domanda dei bonus vanno presentate presso il Comune di residenza o ai Caf.

Auto: – 7,2% in Ue, ma non è l’effetto del virus

Non promettono nulla di buono i dati sul mercato europeo dell’auto: se a gennaio c’era un calo del 7,4%, a febbraio si è verificata una nuova contrazione pari al 7,2%, per un totale di 957.052 immatricolazioni. Dunque il consuntivo del primo bimestre chiude a quota 2,2 milioni di pezzi, in picchiata del 7,3% sullo stesso periodo del 2019: un andamento che, secondo il Centro Studi Promotor (Csp), è “determinato soprattutto dalla debolezza della domanda dei privati fortemente incerti per la scelta del tipo di alimentazione”. Bisogna avere ben presente, nondimeno, che gli effetti del Coronavirus devono ancora abbattersi con tutta la loro violenza: li vedremo a marzo (si prevedono 50-60 mila vetture immatricolate contro le 195.000 di marzo 2019) e, prevedibilmente, nei mesi a venire.

Il tonfo più grosso del primo bimestre 2020 l’ha fatto il mercato tedesco, il più importante del vecchio continente, con il suo -9%. Male anche Francia (-7,8%), Italia (-7,3%), Spagna (-6,8%) e Regno Unito (-5,8%). “In tutti i Paesi le associazioni dei produttori e dei consumatori chiedono incentivi per le auto ecologiche (come l’eliminazione dell’Iva sulle elettriche) e chiedono anche un maggior impegno per la realizzazione delle infrastrutture di ricarica, dato che l’offerta di auto elettriche è ora molto ampia ed in grado di soddisfare una gamma molto grande di esigenze”, spiega Csp.

Tra i costruttori, infine, bene Hyundai-Kia (+1,1%), Bmw (+3,1%) e soprattutto Toyota (+11,5%). Battute d’arresto invece per i gruppi Volkswagen (-5,3%), Psa (-8,9%), Renault (-14,3%) e Fca (-7%).

Ventilatori, mascherine: l’industria si converte

Non è ancora chiaro a tutti, ma siamo in guerra. E come sempre, dalla notte dei tempi, si producono armi. Quante più possibile, anche grazie alla riconversione parziale dell’industria nazionale. Le nostre armi, su tutte, sono mascherine e ventilatori: questo serve e a questo comincia a dedicarsi anche il comparto automotive. A cominciare da quello inglese, che dopo il dietro front di BoJo sull’inquietante prospettiva dell’immunità di gregge, è stato invitato dal governo di Sua Maestà a fabbricare ventilatori per la terapia intensiva, visto che in tutta l’Inghilterra ce ne sono solo 5.000. Jaguar-Land Rover, Ford, Honda e Rolls Royce pare abbiano dato la loro disponibilità. Così come la Tesla di Elon Musk, il quale in una mail ai dipendenti si è detto pronto a produrre respiratori polmonari. Anche le Big Three di Detroit hanno già dato disponibilità in tal senso all’amministrazione Usa. Ovviamente dopo il passo indietro di Trump, inizialmente restio a considerare seriamente il rischio di epidemia. Nel nostro Paese Fca, Ferrari e Marelli collaboreranno con la Siare Engineering, il primo costruttore italiano, alla fabbricazione sia dei ventilatori (per le terapie intensive) che dei loro componenti. A dare l’esempio per primi, non solo sulle misure da prendere per evitare l’epidemia, sono stati i cinesi, in particolare quelli di Byd: da settimo costruttore di auto nazionale sono diventati i primi produttori al mondo di mascherine. Perché in tempo di guerra ognuno deve fare la sua parte.

Quei beni pubblici da salvare rivelati da questa pandemia

Abbiamo parlato tanto di beni pubblici, negli ultimi dieci anni, ma è stato un dibattito rivolto al passato – acqua, territorio, spazi urbani – che va aggiornato in fretta: la Commissione europea ha chiesto a Netflix di ridurre la definizione delle sue trasmissioni, per non occupare troppa banda in un momento in cui la rete serve a cose più importanti che guardare Narcos. Netflix ha accettato, ma ci siamo resi conto all’improvviso che a decidere sui destini di Internet è una azienda privata – Netflix – e non la politica.

La crisi da Coronavirus sta facendo emergere molte fragilità delle nostre economie digitali che abbiamo rimosso a lungo, abbagliati dai servizi a costo zero (Google, Facebook) o quasi simbolico (Netflix, Amazon prime). All’improvviso stiamo scoprendo di aver consegnato la nostra stessa sopravvivenza a un gruppo di ex-ragazzi della Silicon Valley che decidono dei nostri destini senza rispondere a nessuno se non alle loro coscienze o, al massimo, ai propri azionisti.

Negli Stati Uniti il presidente Donald Trump deve chiedere a Google di costruire un sito web per gestire il monitoraggio della pandemia in America e annuncia che il ramo biomedico dell’azienda ha pronto un tampone da realizzare a domicilio. Sono annunci a beneficio di telecamere cui abbocca soltanto la propaganda trumpiana, ma rivelano il preoccupante deficit di competenze della più importante economia del mondo che ha rinunciato a possedere competenze strategiche e le ha lasciate non al mercato, ma a una manciata di monopolisti digitali.

Durante l’epidemia, Amazon ha diritto di vita o di morte su individui e imprese che dipendono dal suo servizio di spedizioni e non solo. Negli Stati Uniti Amazon ha annunciato che fino al 5 aprile darà priorità alla consegna di medicinali, cibo (per uomini e animali) e prodotti “industriali &scientifici” (categoria vaga assai). Come conseguenza, molte piccole imprese che non hanno alternativa alla distribuzione via Amazon si vedono condannate alla bancarotta: hanno già affidato ai magazzini di Amazon i propri prodotti, oggi non possono recuperarli per cercare di venderli in canali alternativi e neppure possono farli arrivare al cliente finale, visto che sono fermi.

Risultato: se e quando le cose torneranno alla normalità, quelle piccole aziende si troveranno sommerse di rating negativi da clienti insoddisfatti, penalizzate dagli algoritmi di Amazon che danno visibilità in base ai risultati di puntualità e ai riscontri degli utenti, ostaggio delle banche per sopperire all’assenza di flussi di cassa.

Chi beneficerà di questo disastro? Sempre Amazon, per due ragioni. Primo: perché in molti settori offre prodotti concorrenti a quelli delle aziende che usano la piattaforma come canale di distribuzione (molti di voi avranno per esempio utensili da cucina Amazon Basic). Secondo: perché così spinge le imprese a usare Amazon soltanto per la distribuzione e non per il magazzino, un’ulteriore prova di forza del monopolista che può ridurre la qualità del servizio senza abbassare i prezzi. La Borsa ha capito che tra le macerie delle economie occidentali Amazon resterà in piedi e aumenterà i suoi profitti grazie al disastro: mentre tutta Wall Street è tornata ai livelli del 2016, cancellando cinque anni di boom, Amazon resiste. Le sue azioni valgono ancora 1800 dollari contro i 600 del 2016.

Tra i pochi titoli che prosperano a Wall Street in questi giorni di disastri c’è quello di Zoom, la società che offre i servizi di videoconferenza che stanno permettendo a molte aziende di continuare a funzionare anche con i dipendenti a casa. Il prezzo delle sue azioni è raddoppiato da 63 dollari di dicembre ai 130 attuali. Ma anche il successo di Zoom è in realtà un successo di Amazon, visto che le videoconferenze sono possibili soltanto grazie ai servizi di cloud offerti proprio da Amazon con il ramo d’azienda Aws, molto meno visibile dei pacchi ma altrettanto redditizio.

Le conseguenze di questo potere assoluto di Amazon preoccupano anche i sindacalisti e i lavoratori, non soltanto gli economisti: in Italia come negli Stati Uniti il personale dei magazzini reclama più precauzioni sanitarie in tempo di epidemia, ma l’azienda è abbastanza forte da potersi permettere di rispondere che basta tenere la distanza tra le persone, ma niente guanti e mascherine.

Questa crisi ci ricorda che non soltanto l’acqua e l’aria sono beni pubblici, ma anche la connessione e perfino la tanto vituperata globalizzazione. Appartengono a tutti i cittadini, siano clienti, piccoli imprenditori o anche soltanto beneficiari indiretti. Il Covid-19 ci ha dimostrato in modo brutale che invece abbiamo costruito un sistema pericoloso in cui gli Stati, anche per tutelare la salute dei propri cittadini, si trovano a dover chiedere il permesso a poche aziende private.

Ora che gli Stati, come è giusto che sia, guidano la reazione contro le ricadute economiche della pandemia è bene che tutti si ricordino che l’obiettivo non può essere soltanto di spendere risorse pubbliche. Bisogna anche evitare che vengano sprecate per alimentare rendite private. Lo Stato spende, ma può anche dettare le regole. Anche molti difensori del libero mercato pensano che l’unica cosa peggiore di un monopolio pubblico sia un monopolio privato.

Stop alla produzione. Ecco la mappa delle chiusure

L’Europa dei fabbricanti d’auto va in letargo da Coronavirus: la chiusura interessa praticamente tutti i costruttori e fornitori. Fca ha già disposto lo stop, fino al 27 marzo (salvo proroghe), della maggior parte dei propri stabilimenti, dislocati a Melfi, Pomigliano, Cassino, Mirafiori, Grugliasco e Modena. All’elenco degli impianti fermi si aggiungono le fabbriche di Kragujevac (Serbia) e di Tychy (Polonia). Catene di montaggio bloccate pure a Maranello, dove la Ferrari ha programmato uno stop dei lavori fino al prossimo 27 marzo: la causa è da attribuirsi all’approvvigionamento della componentistica, divenuto problematico. Sicché, gli operai incrociano le braccia, mentre gli impiegati ricorreranno allo smart working. Situazione simile per la concorrenza: Lamborghini (di proprietà del gruppo Volkswagen), chiude fino al 25 marzo.

Fra i fornitori di Fca figurano Marelli e Brembo. Il primo (maggior produttore nazionale di componentistica per auto) ha sospeso tutte le attività produttive negli stabilimenti italiani attivando la cassa integrazione speciale. Brembo, leader mondiale della produzione di impianti frenanti, ha deciso di bloccare i lavori sino al prossimo 29 marzo.

Il Gruppo Bmw ha chiuso tutti i suoi dodice stabilimenti europei fino al 19 aprile prossimo, ultimo giorno di vacanze pasquali in Germania. Il gruppo Volkswagen, invece, fermerà la produzione dei suoi impianti in Europa almeno per due settimane (così come la Daimler, proprietaria di Mercedes), salvo rinvii.

Una decisione che l’ad di Vw group, Herbert Diess, attribuisce alle interruzioni delle catene delle forniture e al significativo peggioramento della domanda di mercato, che potrebbe comportare “sfide sconosciute sia da un punto di vista operativo che finanziario”.

Il gruppo Vw, peraltro, è stato già costretto a chiudere gli stabilimenti della Ducati e altri impianti tra il Portogallo (Setubal), la Slovacchia (Bratislava) e la Spagna (Martorell e Pamplona), pure in ottemperanza alle disposizioni delle autorità locali. Motivazioni analoghe per il gruppo Psa, che presto convolerà a nozze con Fca: tutti i siti di assemblaggio sparsi nel vecchio continente saranno chiusi fino al 27 marzo.

Colpa, secondo l’ad Carlos Tavares e l’unità di crisi istituita dal costruttore, anche della crescita dei contagi in alcune fabbriche. Giù le saracinesche in casa Renault e, oltremanica, in Jaguar Land Rover. Oltre a quelli nazionali, anche i costruttori esteri hanno gettato la spugna: dallo scorso 18 marzo Toyota ha sospeso la produzione di veicoli, motori e trasmissioni negli stabilimenti europei, fino a nuovo avviso. Congelate, infine, le attività Ford, Kia, Hyundai e Nissan.

“E a Berlino si sente ancora parlare di corona-party, sono irresponsabili”

“Noi italiani all’estero, per i rapporti con l’Italia che abbiamo, è come se venissimo dal futuro rispetto ai paesi in cui viviamo. Ci sentiamo un po’ come Cassandra” dice Andrea, astrofisico di 47 anni, che vive con la famiglia da 19 anni a Monaco. La Baviera è stato il primo Land in Germania a vietare di uscire di casa solo se non per un numero limitato di motivi. “Il governo federale ha fatto quello che doveva” dice Andrea. “Avendo un paio di settimane di vantaggio sull’Italia, era giusto che facesse le cose con gradualità: prima chiudere stadi, poi le scuole, locali e palestre, e ora il divieto di uscire di casa. L’impressione è che nessuno minimizza. Stanno usando il tempo in più per preparasi, nelle strutture sanitarie come nell’economia”.

Diversa è l’opinione di Ottavia, 47 anni, referente dell’Agenzia nazionale del turismo e a Berlino da 11 anni. “Mi sento insicura e sorpresa di come è stata gestita la situazione qui” continua. “Mi pare incredibile che ogni Land prende le decisioni in autonomia: la Baviera chiude e Berlino no, ma invita a prendere le distanze”. “Lo stupore è che l’esperienza italiana non sia stata presa da esempio qui”, aggiunge.

Giusy, danzatrice di 25 anni e in Germania da 3, è spaventata: “Qui sottovalutano il problema. La gente è menefreghista e non rispetta le distanze” racconta. Ora che dall’Italia non arrivano più soldi, non può rinunciare al suo lavoro di cameriera. “Sarebbe da chiudere tutto e anche il mio capo è d’accordo. Ma finché la decisione non arriva dal governo, a lui non arrivano i soldi per metterci in cassa integrazione” dice. “I miei amici italiani comunque stanno tutti chiusi in casa”. In Germania vivono 831.000 italiani registrati all’Aire, 38.000 a Berlino, riferisce l’ambasciata italiana (dati 2020).

Clorinda è un’infermiera di 37 anni e vive da 5 anni con la famiglia a Koepnick, nella cintura Est di Berlino. “Qui si sente ancora parlare di corona-party mentre in Italia si muore” ci racconta. “Il governo ha capito la gravità della situazione e si appella alla responsabilità dei cittadini. Ma per i miei vicini di casa, ad esempio, il divieto di uscita è difficile da accettare, lede la loro idea di libertà e in più qui nell’ex Est non vogliono sentir parlare di reclusione in casa, troppo vicina la memoria del muro” dice. “Finora il governo ha fatto bene. Lavorando in ospedale so che certe misure drastiche le puoi prendere solo sulla base dei numeri e finora i contagi erano pochissimi”. Fino al 13 marzo erano 3.300 i contagi e 8 morti, ieri il conto è salito a oltre 23.000 infettati e 93 vittime.

“Il datore di lavoro non mi fa mettere la mascherina, qui siamo terrorizzati”

Gli italiani nel Regno Unito sono consapevoli dei rischi, spaventati dall’incoscienza dei vicini britannici, atterriti dalla strategia del governo Johnson. Valentina C, farmacista in Yorkshire, denuncia l’inconsapevolezza degli inglesi: “Ieri in negozio una cliente anziana con storia di dipendenza da droga ha abbracciato le amiche, poi ha ammesso di avere tutti i sintomi. Io ho la mia mascherina ma al lavoro mi impediscono di metterla. Il medico di famiglia dice che tanto è solo un’influenza”. La pensa cosi anche Valeria M a Cardiff: “Non ho nessuna fiducia nel governo. Le direttive non sono chiare, l’ignoranza è diffusa e questo mix fa si che la gente pensi allo stipendio prima che alla salute”.

Gli italiani hanno tentato di avvertire gli inglesi per settimane, inascoltati. Alessio Ricco, manager a Londra: “Da tempo ho comprato la mascherina, preso precauzioni… gli amici inglesi mi hanno chiamato Cassandra. La gente nel mio quartiere sembra incurante del pericolo, Londra è una macchina del tempo, mi mostra Milano settimane fa”.

La sfiducia nei confronti del governo britannico è un tema dominante. Ce la confermano in molti. Come Imma Luciani, che ci scrive da Swansea: “Tengo a casa i bambini da 10 giorni. Abbiamo paura del contagio e di non venire tutelati, anche se la chiusura delle scuole da un po’ di serenità”.

Caterina De Mattia, che vive a sud di Londra, è ancora più critica: “Il discorso di Johnson sull’immunità di gregge ci ha terrorizzato e abbiamo capito che siamo lasciati a noi stessi”.

Particolarmente colpiti i lavoratori temporanei come Andrea Massi, cameriere in un ristorante italiano a Londra: “Sono tornato da poco dall’Italia e il manager mi ha messo in isolamento. Ma se non posso lavorare non pago l’affitto. Sto cercando posto su uno dei pochi voli rimasti per l’Italia”.

Cresce l’ansia per le carenze del sistema sanitario britannico, già in affanno. Giuseppe Ciccomascolo, giornalista, ha tutti i sintomi ma, a sette giorni dalla prima di molte chiamate al numero di emergenza, non ha ricevuto il tampone.

È una preoccupazione giustificata, secondo le nostre fonti in NHS.

Come C.C, chirurgo a Londra: “Già riutilizziamo equipaggiamento monouso, non abbiamo mascherine. Dalla prossima settimana tutti gli interventi non di emergenza sono sospesi per velocizzare il training dello staff. Ma la mancanza di test sta stressando tanti colleghi in prima linea. Aspettiamo lo tsunami e non abbiamo i mezzi per gestirlo”.