“Mi davano dell’esagerata perché seguivo le regole di Roma, poi si sono adeguati”

“Quando Macron ha annunciato la chiusura delle scuole, ho avuto un senso di sollievo. Mi sono detto ‘ci siamo’. Sapevo che il blocco totale era vicino. Era tempo”. Raffaele, di Roma, lavora da tanti anni come animatore socio educativo vicino a Grenoble. Come tanti italiani che vivono in Francia aveva passato giorni di grande ansia: il figlio di 11 anni continuava ad andare a scuola quando in Italia i bambini già studiavano da casa. “Sentivo la preoccupazione crescere in Italia. Mi chiedevo: perché qui non chiudono tutto? In un’Europa migliore – dice al telefono – ogni Paese non sarebbe considerato come uno Stato a sé stante, ma come una regione di un’entità geografica unica. Se fosse così, quando l’Italia ha cominciato a essere in difficoltà, si sarebbe potuto mettere subito a punto una politica di intervento comune”.

Romina, umbra, che vive a Parigi e insegna l’italiano in una scuola media, ha iniziato molto presto a seguire le regole “italiane” di buon senso. Ha anche cercato di allertare le persone intorno a sé: “Mi prendevano per esagerata”. Su internet ha acquistato delle mascherine e ne indossava sempre una per andare a lavoro nei metrò affollati. Ha anche preparato in anticipo le fotocopie delle lezioni da consegnare ai suoi studenti in vista della chiusura delle scuole, quando ancora il governo francese non prevedeva la chiusura generale degli istituti: “Era assurdo stare in classe coi ragazzi. Non mi sentivo al sicuro. Il governo francese non diceva la verità”. Sua figlia di 9 anni, terza elementare, ha vissuto un brutto episodio a scuola, rientrando da una breve vacanza a Roma, a febbraio: “I compagni di classe le hanno detto: ci porti il virus, devi startene a casa. Era successa la stessa cosa con dei compagni cinesi poco tempo prima”. Ora che anche in Francia è scattato il lockdown, anche Stefania si sente più tranquilla: “Adesso sta alle persone essere responsabili. Ma capisco che qui ci sia una certa difficoltà a rispettare le istruzioni. Le persone non sono state informate a tempo. Tutti facevano come se niente fosse e poi di punto in bianco è stato detto loro che siamo in guerra”.

Stefania, di Roma, vive a Gournay–sur–Marne, nella regione di Parigi. Esce solo per la spesa, ma nei negozi la distanza di sicurezza non è ancora rispettata: “Solo a casa mi sento al sicuro. Ma se mi ammalassi preferirei essere in Italia, anche con gli ospedali saturi e la situazione così grave. Almeno è casa mia, la mia famiglia è lì”.

“È come la Lombardia di un mese fa, ma senza avere la sanità pubblica”

Chicago è indietro di tre settimane rispetto all’Italia: le prime misure di prevenzione contro il virus sono arrivate soltanto venerdi, con l’ordinanza del governatore dell’Illinois JB Pritzker subito ribattezzata “Stay at home”, traduzione letterale di quel “Io resto a casa” che il premier Giuseppe Conte ha scelto come nome del suo decreto più drastico. Anche le discussioni sui media e sui social sono indietro: “Per essere onesti, non abbiamo le risorse, la capacità o il desiderio di controllare i comportamenti di ogni individuo”, ha detto Pritzker.

Gli Stati Uniti sono nella fase Wyle Coyote, corrono sul burrone ma ancora non hanno iniziato a cadere. Salgono i numeri dei contagi e quelli dei morti, certo, ma la situazione non è neanche lontanamente paragonabile a quella italiana. In questo contesto gli italiani hanno alcune preoccupazioni comune con quelle di tutti gli altri residenti e alcune più specifiche.

Quella comune con gli americani riguarda la sopravvivenza e il lavoro. Il sistema sanitario americano è indecifrabile anche per chi vive negli Usa da anni, i veri costi e la vera copertura dell’assicurazione sanitaria (di solito pagata dal datore di lavoro) si scoprono soltanto nel momento del bisogno. L’idea che si possa essere curati con i mezzi e la prontezza che abbiamo visto negli ospedali della Lombardia è fantascienza, il servizio sarà peggiore e il conto finale avrà quasi certamente tre zeri, nonostante le vaghe promesse della Casa Bianca di coprire le spese per test e assistenza in caso di contagio. Poi c’è il tema del lavoro: chi ha vissuto la crisi del 2008 racconta di licenziamenti fulminei, altro che lente agonie all’italiana o protezione dei sindacati. Una mail e il contratto finisce, per molti italiani questo avrebbe come diretta conseguenza di mettere a rischio la permanenza negli Stati Uniti, se il visto di soggiorno è legato al lavoro. Le grandi imprese sono anche esentate dall’obbligo di garantire la malattia pagata in caso di contagio da Covid-19: chi si assenta poi non torna.

Ci sono poi le paure specifiche da stranieri, e da italiani. La prima è sentirsi intrappolati in quello che fino a un mese fa era il più globale dei Paesi: gli aerei si sono diradati, chi va in Italia non è sicuro di poter rientrare e comunque lo aspetta la quarantena. La seconda paura da stranieri è confrontarsi con il lato più brutale dell’America. Quando colleghi solitamente pacifici ti dicono che stanno pensando di comprare una pistola per difendere le scorte alimentari accumulate, viene da pensare che il virus non è l’unica minaccia all’incolumità.

Gli italiani oltre confine: “Abbiamo tanta paura”

L’Italia ha il primato mondiale per le vittime da Coronavirus, ma i compatrioti all’estero farebbero carte false per tornare a casa. Hanno paura, non si sentono al sicuro, non di rado vengono bollati come untori. L’anchorman inglese Christian Jessen non ha rinunciato ail luoghi comuni “pizza&spaghetti”: “Gli italiani stanno usando la pandemia per non andare a lavorare…”. Ma ora perfino Boris Johnson, il premier d’Oltremanica, ha rotto il tabù: per frenare la corsa del virus ha ordinato la chiusura di pub, ristoranti, teatri, cinema e palestre. BoJo ha abbandonato la strategia dell’immunità di gregge: l’idea di combattere il microrganismo lasciandolo a briglia sciolta è franata col crescere dei contagi. Mentre la pandemia avanza, infatti, i governi (non tutti) procedono al lockdown, come nello Stivale. Gli italiani all’estero tirano un sospiro di sollievo: finalmente si fa come in patria. Del resto, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è stata chiara: “L’Italia è la piattaforma di know how in Europa e nel mondo”, ha detto Hans Kluge, direttore per l’Europa.

Intanto, il governo di Giuseppe Conte lavora per riportare a casa i connazionali, quelli che vivono in Italia: “Diamo priorità ai nostri studenti all’estero e ai cittadini momentaneamente fuori dal Paese – ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio –. Chi invece è residente all’estero da 10 o 20 anni, ha la sua ambasciata di riferimento per qualsiasi problema”. Qualcuno però ha approfittato dei voli a prezzi stracciati e, secondo il ministro, “c’è anche chi è andato in vacanza il 10 marzo e adesso pretende che io lo vada a prendere con il volo di stato”.

“Un virus anti-democratico e i sacrifici li fa l’operaio”

“Il virus è una grande lente di ingrandimento sulla società. E conduce l’occhio nei luoghi che non vedevamo più, impone l’attenzione sulle questioni che erano state abbandonate in un cassetto, ci fa avanzare domande che fino a ieri avevamo ritenute superate”.

Fausto Bertinotti ha compiuto i suoi 80 anni “nel rigoroso rispetto delle prescrizioni governative. Isolamento domiciliare, qualche passeggiata solitaria e la propensione a guardare avanti, ad essere necessariamente ottimista”.

Ci voleva una catastrofe sanitaria per ricordarci che il welfare non è spreco.

Non uso la parola catastrofe, meglio definire quel che ci sta capitando “l’evento”. E certo questo drammatico evento produce ravvedimenti operosi che a un uomo di sinistra come me dovrebbero far rallegrare. Eppure la strada è lunga e anche piuttosto incerta.

Il virus almeno ci obbliga a capire che sanità e assistenza sociale non sono voci di spesa inutile.

È una rivalutazione del keynesismo, diciamo così. E questo dovrebbe far riflettere le politiche sciagurate nel tempo di un capitalismo selvaggio che imponeva continue spending review, e accreditava come buon governo quel salasso prodotto ai ceti deboli, a coloro che nel Novecento chiamavamo la classe operaia, al proletariato, uso volentieri questa parola antica.

Dovevamo giungere a un punto così estremo?

Mi faccia ricordare Marx che ci spiegava: “Se la lotta di classe non dà luogo a una civiltà superiore allora si giunge alla catastrofe”. E purtroppo dobbiamo notare, (ora uso le parole di De Rita), che in questa società destrutturata vive il popolo della sabbia. Tanti individui come tanti granelli che non riescono a formare un insieme solido.

Il popolo è sabbia non mattone.

Iniziamo da una considerazione sull’oggi: le politiche di austerity hanno pregiudicato le capacità di reazione della società a un evento così misterioso e letale. Il sistema sanitario non regge l’ondata della malattia, si piega nonostante sforzi eroici del suo personale. Il virus è penetrato nel fondo dei nostri corpi, e ogni giorno facciamo l’amara conta di chi lascia la vita, perché le difese sociali sono state ridotte al lumicino. Quanto è grande la responsabilità delle politiche governative, quanto è potente la denuncia, inascoltata, contro quelle misure che devastavano, destrutturavano, liquefacevano i piloni che avrebbero dovuto sorreggere uno sviluppo compatibile, sostenibile, gestibile della produzione con il lavoro? Questo io chiedo.

Ogni crisi, quando è così drammatica, spinge però gli uomini a ritrovare spunti di solidarietà, a mettere in comune la fatica e anche la paura, a farsi forza, a sacrificarsi per l’altro. Si rallegra almeno di questa improvvisa venatura socialisteggiante della società?

Vorrei tanto che fosse così. Certo l’esempio dei medici, il loro sacrificio, l’assoluta abnegazione fino alla morte sono dimostrazioni che esiste un valore, il dovere della solidarietà, non smarrito. E anche i canti sui balconi, quel sentimento di sano patriottismo, quell’orgoglio che pure unisce, sono ritratti importanti. Segnano la civiltà e la maturità di un popolo. Penso però che la strada da percorrere sia ancora lunga.

A parte gli operatori sanitari, chi va al lavoro, chi è costretto a sfidare quotidianamente il virus, fa parte in prevalenza della classe meno abbiente. Operai, camionisti, cassiere, riders, magazzinieri. In casa – oltre ai disoccupati – resta chi, in prevalenza, fa un lavoro più qualificato. I deboli spingono la carretta e i forti aspettano di essere trainati?

È indubbiamente così. Gli addetti ai lavori più faticosi e meno retribuiti sono costretti a lavorare anche in queste giornate così pericolose. Naturalmente esistono le eccezioni, ma il virus, come lente di ingrandimento, aiuta appunto a cogliere la distanza della società alta da quella bassa. Distanze che sono sempre più consistenti perché il processo di destrutturazione ha avuto tempo di scendere in profondità.

Il virus mina i corpi. Ma infetta anche la democrazia? Questa compressione progressiva dei diritti, l’assenza del Parlamento, la richiesta di autorità, i limiti alle nostre libertà fondamentali….

La democrazia è un corpo malato e similmente al fisico dei più fragili, dei più deboli, che sono gli anziani, subisce l’aggressione dello stato di emergenza.

I paradosso è che in tanti anelano a provvedimenti ancor più restrittivi, e il modello cinese, Stato autoritario e verticale, è assai applaudito.

Una democrazia forte è in grado di fare scelte coraggiose e dure ed è in grado di scegliere, di indicare la via anche nelle ore più buie come questa. Ma lei vede nel mondo leader capaci, autorevoli, lungimiranti? Ascolta una parola che la induca al pensiero, alla riflessione? Macron, Johnson, non parliamo di Trump, men che meno di Putin? Questi i leader sulla scena. E le loro dichiarazioni resistono il tempo dell’istante. Un’ora dicono e l’ora successiva capovolgono il loro pronunciamento senza nemmeno curarsi di renderne conto. Ho letto il discorso alla nazione di Macron. Tranquillamente ha annunciato che tutte le riforme approvate in tema di pensioni e altro sono sospese per via dell’emergenza. Ma come? Ha dimenticato che contro le sue riforme si è scagliato un intero popolo? I gilet gialli chi erano? Niente, neanche un accenno. Le ha cancellate con un colpo di tosse, un soffio di vento, come se nei mesi precedenti non avesse illustrato e definito il copione opposto.

Leader non ce ne sono alla vista.

Mi creda: tolto papa Francesco non c’è nessuno in grado di indicare una via.

Ecco perché ho detto quelle frasi in linea con dati e altri scienziati

Nessuna voglia, né intenzione di replicare al mittente. Solo tristezza per la perdita di tempo e per l’immagine di divisione che si dà alla gente che oggi – si veda il mio appello di ieri – vorrebbe vedere i ricercatori uniti a cercare di risolvere l’emergenza che stiamo vivendo. Scrivo solo nel rispetto dei lettori, che devono avere argomentazioni e dati per un’informazione corretta. I legali faranno il loro corso nelle sedi opportune.

In sintesi il Patto Trasversale per la Scienza, fondato dal dottor Burioni, mi accusa di aver reso dichiarazioni volte a minimizzare la gravità della situazione, che avrebbero potuto indurre parte della popolazione a violare i precetti governativi volti a contenere il contagio, con nefaste ricadute in termini di salute pubblica. Solo per cominciare, desidero confermare il mio rispetto per le misure governative, riportando quanto ho dichiarato il 5 marzo: “L’unica arma che abbiamo è il contenimento. Non ha senso valutare i numeri di pochi giorni. Appena saranno passati 14-18 giorni cominceremo a trarre delle conclusioni”. E ricordando quanto ho più volte ribadito su Il Fatto Quotidiano sulla necessità che soprattutto i giovani si rendano responsabili e rispettino le regole del momento.

Ma andiamo alle frasi “incriminate” (fra l’altro estrapolate dal loro contesto e da un discorso più complesso). La prima è un mio post privato su Facebook: “È una follia questa emergenza, si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale” (23.2.2020). Lo scopo era spegnere il panico crescente mentre, ricordo, in Italia si registravano solo i primi casi autoctoni circoscritti a Codogno. Ecco cosa affermavano altre accreditate fonti. Il 25 febbraio 2020 il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana dichiarava: “Cerchiamo di sdrammatizzare: questa è una situazione senza dubbio difficile ma non così tanto pericolosa. Il virus è aggressivo e particolarmente rapido nella diffusione, ma nelle conseguenze molto meno; è poco più di una normale influenza”. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche sottolineava: “Per evitare eccessivo allarmismo è bene ricordare innanzitutto che 19 casi su una popolazione di 60 milioni di abitanti rendono comunque il rischio di infezione molto basso. … L’infezione, dai dati epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza”.

Il virologo Fabrizio Pregliasco precisava il 23 febbraio: “È una malattia che rientra nelle cosiddette infezioni respiratorie acute che fanno da corollario all’influenza in ogni inverno”. E il 24 febbraio Ilaria Capua rassicurava: “Il Coronavirus circolerà per mesi, ma niente allarmismo ingiustificato”, “Bisogna chiamarla sindrome similinfluenzale da Coronavirus. Questo è l’unico modo in cui possiamo liberarci dal panico” (dal sito Il Bo Live). Altra mia frase “incriminata”: “Non voglio sminuire il coronavirus, ma la sua problematica rimane appena superiore all’influenza stagionale”. Frase estrapolata dalla disamina dei dati pubblicati dall’Istituto Superiore della Sanità sulle influenze. Secondo i dati più aggiornati di InfluNet (il sistema nazionale di sorveglianza epidemiologica e virologica dell’influenza, coordinato dal Ministero della Salute con la collaborazione dell’Iss), da ottobre 2019 a febbraio 2020 il numero di casi stimati di sindrome simil-influenzale è stato di circa 5 milioni e 632 mila. Tra il 2007 e il 2017, i morti “diretti” per influenza sono stati in media 460 l’anno, mentre le stime per i decessi “indiretti” vanno dai 4 mila ai 10 mila l’anno.

Da questo deducevo che “Non deve preoccuparci la letalità, ma la velocità di diffusione” e precisavo: “L’emergenza potrebbe avere pesanti ripercussioni sul sistema sanitario”. Peraltro, esaminando i decessi, che il commissario Angelo Borrelli continua a chiarire essere i dati totali comprensivi dei morti “con” e “per” Coronavirus, il fondamentale report dell’Iss sui pazienti morti (17 marzo) riportava che complessivamente 3 (0,8% del campione esaminato) presentavano zero patologie, 89 (25,1%) una patologia, 91 due patologie (25.6%) e 172 (48,5%) tre o più patologie.

Terza e ultima mia frase “incriminata”: “Tra poco il 60-70% della popolazione sarà positivo, ma non dobbiamo preoccuparci” (13.3.2020).

Anche questa affermazione è stata più volte confermata, in termini più ampi. Il 4 marzo, in un’intervista, Ilaria Capua, alla domanda “A che punto è l’epidemia in Italia?”, rispondeva: “Non lo sappiamo: i contagiati sono molti di più dei circa 2 mila dichiarati”. Quanti? “Forse anche oltre 100 volte tanto”. Perché una differenza così clamorosa tra numeri ufficiali e dati possibili? “Perché i test più usati individuano il virus e non gli anticorpi. Di conseguenza non sappiamo quanti siano gli infetti, contando sia i sintomatici sia gli asintomatici”.

Potrei continuare, ma non credo sia necessario. Il mio unico intento è dare al lettore un quadro chiaro in un momento così impegnativo e consentire la lettura degli effettivi dati scientifici. La vera scienza, come più volte ho sostenuto, esige un dialogo aperto tra ricercatori che abbiano il coraggio di discutere pur sostenendo orientamenti diversi. Dal confronto leale e corretto credo nasca la vera scienza.

 

Gli infermieri militari in tv: “Mancano i letti per salvare tutti”

La voce del sottufficiale a momenti inciampa: “Per mancanza di posti letto nella rianimazione si è costretti a fermare alcuni pazienti gravi perché non c’è la possibilità di portarli in rianimazione, devono lasciare il posto a persone più giovani che hanno più chance di sopravvivere. L’età è il primo fattore”.

È un maresciallo infermiere della Marina Militare, un uomo con qualche capello bianco e la mascherina, che ha raccontato ieri in diretta a Tonia Cartolano di Sky Tg 24 il dramma della scelta tra chi è possibile e salvare e chi no negli ospedali della Lombardia. Un dramma inevitabile perché “mancano i posti” in rianimazione, benché per l’emergenza ne siano stati creati centinaia in tutta la regione. Infatti gran parte dei decessi avvengono fuori dalle terapie intensive. È tutto previsto dai protocolli, ma in questo caso, hanno spiegato, la situazione di dover scegliere si ripropone più volte al giorno, da molti giorni. Ed è durissima.

Il maresciallo era davanti all’ospedale di Niguarda a Milano ma succede anche altrove. Lo raccontano medici e infermieri. E stavolta tocca i i loro colleghi militari, spesso veterani di missioni in zone difficili o di guerra, che la Difesa ha mandato a dare una mano in ospedali con centinaia di medici e infermieri contagiati. Davanti alla telecamera c’era anche un altro maresciallo, più giovane: “È un altro tipo di guerra – ha detto –, ma è guerra vera. Assistiamo ogni giorno a un triage di tipo militare dove il coefficiente dell’età fa la differenza. Dal punto di vista psicologico è molto dura. In quel letto di ospedale ci può essere un tuo amico, un tuo genitore che hai lasciato a casa. Sembra come nei film che uno vede in tv e dice ‘non succederà’, invece è una cosa veramente drammatica, i numeri che si leggono sui giornali sono persone, hanno una famiglia, dei figli che non possono nemmeno salutarli”.

34enne morto: lavorava al call center “pollaio”

Il 10 marzo abbiamo pubblicato la denuncia di un lavoratore di un call center della Tim di Roma che ci avvisava della situazione in cui era costretto a lavorare durante l’emergenza coronavirus: in centinaia dentro un open space, condividendo gli stessi microfoni e le stesse cuffie, senza mascherine ma con la possibilità, offerta da Youtility center, la compagnia del cui servizio si avvale Tim, di pulirsi da soli la postazione con una specie di Vetril.

Purtroppo ieri notte un lavoratore di quello stabile di via Faustiniana, Emanuele, è morto a 34 anni dopo essere risultato positivo a Covid-19. La Asl al momento non ha convocato le persone che hanno lavorato con lui e che tuttora continuano a lavorare. Dall’11 marzo, giorno del decreto “io resto a casa”, l’azienda aveva lasciato ai “collaboratori” la scelta se lavorare da casa, a patto che disponessero di una connessione veloce, ovviamente a proprie spese; gli altri hanno continuato ad andare in ufficio. Il decreto con cui sabato sera Conte ha chiuso le aziende e le attività non indispensabili non riguarda i call center: il funzionamento della linea telefonica è considerato essenziale; e in effetti, se uno sta male come chiama l’ambulanza se non c’è linea? Il punto è che quest’onere – supplire ai disservizi della rete – è ricaduto tutto sugli operatori, ammassati in un carnaio che può diventare un focolaio di infezione. Mentre ancora si indicava in chi fa jogging nei parchi la principale causa dell’aumento dei contagi, c’era un esercito di invisibili costretti a lavorare, a spostarsi coi mezzi pubblici, a usare i servizi igienici in promiscuità con altre persone. Insieme ai rider delle consegne a domicilio, gli operatori dei call center sono il vero sotto-proletariato rimosso della nostra società iperconnessa: contrattualizzati in modo agile, addestrati a parlare come dischi, pronti a risolvere anche quando le infrastrutture sono tali da garantire l’assoluta inutilità di qualunque segnalazione di guasto, e sostituibili. Un nuovo abito per il vecchio sfruttamento.

Il povero Emanuele, che era un ragazzo sano, è stato male ed è morto. I suoi colleghi rispondono ancora al telefono, in azienda o a casa, chiedendosi se devono isolarsi, cercando di ricordare quand’è stata l’ultima volta che l’hanno incontrato, per quanto tempo, se hanno preso il suo posto e usato il suo microfono dopo il suo turno. Quanti giovani in tutta Italia i responsabili di questi pollai, e a salire nelle gerarchie i dirigenti, i manager, i quadri, i padroni ben barricati nei loro uffici sanificati, stanno mandando al macello?

Antitrust: stop ai profitti sulle donazioni anti-virus

La piattaforma più usata per raccogliere fondi a beneficio di medici e ospedali in Italia, GoFundMe, ha tre giorni di tempo per smetterla di caricare commissioni poco trasparenti ai donatori. Oppure rischia una multa fino a 5milioni di euro. Lo ha stabilito ieri l’Autorità Antitrust dopo la denuncia del Fatto Quotidiano di una settimana fa.

La piattaforma è stata usata anche da Chiara Ferragni e Fedez per raccogliere 4milioni di euro a favore dell’ospedale San Raffaele per potenziare la terapia intensiva. I tanti italiani che hanno contribuito si sono trovati spesso a donare anche a GoFundMe, spesso senza esserne consapevoli, come conferma l’Antitrust. Forse per prevenire le polemiche, GoFundMe ha poi donato 260.000 euro per integrare le somme di Fedez e Ferragni.

Resta il fatto, osserva l’Anitrust, che il servizio offerto da GoFundMe non è affatto gratuito, come si potrebbe pensare leggendo sulla home page che “non ci sono costi”. In realtà GoFundMe – che non è un ente non-profit ma una società privata basata in California – trattiene il 2,9 per cento delle somme raccolte, anche per compensare i costi delle transazioni bancarie (i soldi passano dai conti irlandesi dell’azienda prima di arrivare ai beneficiari, si immagina per sfruttare il regime fiscale vantaggioso offerto da Dublino). Non è però questa la cosa che contesta l’Antitrust, quanto la “mancia” aggiuntiva.

Dopo aver indicato la somma che vuole donare, l’utente viene portato a contribuire con una ulteriore percentuale preimpostata – che l’azienda chiama “mancia” – del 10 per cento a diretto beneficio di GoFundMe. L’utente può sempre selezionare il menu a tendina, scorrere fino alla voce “altro” e impostare manualmente “zero”, ma se non compie tutte queste azioni si trova a finanziare – spesso a sua insaputa – anche l’azienda che gestisce la raccolta.

Questa la sintesi dell’Antitrust, nel provvedimento di ieri: “I comportamenti oggetto di contestazione appaiono idonei a indurre il consumatore medio all’assunzione di decisioni di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso, sulla base di una ingannevole rappresentazione della realtà circa la gratuità dei servizi offerti e di una modalità aggressiva di preselezione della percentuale di contributo al sito su ogni donazione”.

Secondo l’Autorità della concorrenza guidata dal presidente Roberto Rustichelli, queste sono “pratiche commerciali scorrette”, tanto più gravi perché attuate in un momento così difficile. Con parole pesanti l’Antitrust accusa GoFundMe di “sfruttamento della tragica pandemia in atto per orientare i consumatori ad effettuare donazioni sulla piattaforma che, promossa come gratuita, prevede costi e commissioni preimpostate”. Se GoFundMe non interrompe le condotte contestate, cioè non elimina le “mance” preimpostate del 10 per cento su ogni donazione, l’Antitrust può bloccare l’attività dell’azienda in Italia per un mese. Finora GoFundMe aveva difeso la liceita’ dei propri comportamenti sia nelle risposte alle domande del Fatto che alle richieste di chiarimenti dell’Antitrust, ma ora non può continuare a fare finta di niente.

Nell’attesa che l’azienda smetta di attribuirsi “mance” indebite, i tanti italiani generosi che vogliono continuare a donare somme di denaro a sostegno di chi è in prima linea contro il virus hanno tre opzioni. La prima è usare GoFundMe ma ricordandosi di impostare “altro” e poi “zero” nel contributo alla piattaforma. La seconda opzione è passare ad altri servizi come buonacausa.org che non applicano commissioni.

La terza opzione è anche la più semplice: donare direttamente ai beneficiari, usando l’Iban che identifica il conto corrente dell’istituzione, che sia la Protezione civile, l’ospedale Spallanzani di Roma o qualsiasi altro soggetto. Così tutti i soldi donati arriveranno direttamente al beneficiario finale.

La “pigrizia” di aiuti della Chiesa cattolica

Papa Francesco predica bene ai tempi del coronavirus, passeggia nelle strade di Roma per andare a pregare in due chiese del centro, ma soprattutto per affermare quel non arrendersi alla paura e alla solitudine, e rilascia interviste (l’ultima a La Stampa di Torino, venerdì scorso) nelle quali ribadisce parole come queste: “Bisogna ricordare una volta per tutte agli uomini che l’umanità è un’unica comunità. E quanto è importante, decisiva la fraternità universale. Dobbiamo pensare che sarà un po’ un dopoguerra. Non ci sarà più ‘l’altro’, ma saremo ‘noi’. Perché da questa situazione potremo uscire solo tutti insieme”.

Frasi che, sia pure nei formalismi di risposte inviate probabilmente via Internet e giunte dalla clausura-quarantena che ha coinvolto anche la residenza di Santa Marta, non sembrano lasciare dubbi per ciò che riguarda la loro interpretazione nello stesso tempo più profonda ma anche più pragmatica: serve solidarietà. Tra gli Stati di una stessa comunità continentale e anche del Mondo, da parte di chi più ha avuto e ha nella nostra società, tra gli stessi cittadini comuni e nella vita di ciascuno di noi. Compresa la Chiesa, a cominciare da quella italiana, coinvolta in un’emergenza che per ora ha avuto uguali solo in Cina. Ma è a questo punto che, anche se sarebbe sbagliato spingersi a dire che Bergoglio predica bene ma il suo gregge razzola male, si comincia a intravedere una certa pigrizia (chiamiamola pure così, si tratta pur sempre di un “vizio capitale”) nelle gerarchie che guidano la Conferenza episcopale italiana: i vertici della nostra Chiesa.

Spieghiamoci con qualche esempio e qualche numero (i dati sono del Mef, Dipartimento delle Finanze). Facendo una media ponderale di quanto l’Unione buddista italiana e la Chiesa valdese hanno versato per l’emergenza coronavirus, in rapporto a quanto hanno ricevuto dall’8 per mille nell’anno 2019 sui redditi ripartiti nel 2015, emerge un dato del 20,33 per cento: i valdesi, infatti hanno ricevuto 43.198.823 euro e hanno donato sinora 8 milioni di euro (il 18,52 per cento), mentre i buddisti hanno donato 3 milioni di euro contro i 13.549.941 ricevuti (il 22,14 per cento).

Se quella media del 22,33 fosse dunque applicata al gettito dell’8 per mille arrivato alla Chiesa italiana nello stesso periodo (un miliardo, 131 milioni, 196.216 euro), l’ipotetica donazione alla “diletta nazione italiana” (così un tempo i pontefici chiamavano nei loro discorsi l’Italia) potrebbe raggiungere la cifra di 229 milioni, 972.190 euro. Per il momento, almeno consultando il sito della Cei, risulta un’unica donazione ufficiale, per l’emergenza coronavirus, di 10 milioni: affidati alla Caritas italiana. È vero infatti che l’8 per mille serve alla Chiesa (teoricamente) per mantenere il clero e i religiosi e per opere di assistenza e di carità già in corso, ma non è certo un destino diverso da quello che riguarda le identiche destinazioni alla Chiesa valdese e all’Unione buddista, mentre analoga è l’origine di quelle somme: la generosità degli italiani che oggi vivono in una situazione gravissima.

Non c’è da dubitare, però, che anche e soprattutto i vescovi italiani leggano le interviste del papa e quelle sue riflessioni sulla “fraternità universale”. E magari si preparino a dichiarare, come ha fatto il presidente dei vescovi spagnoli, che “sono a disposizione del governo sia le opere sia le risorse” della Chiesa.

Neonato positivo da madre negativa dopo l’operazione

Il coronavirus non risparmia neppure un neonato di appena 10 giorni. Il piccolo, nato all’ospedale di Urbino, è risultato positivo al tampone nasale a cui è stato sottoposto dopo un delicato intervento chirurgico che nulla aveva a che vedere col SarsCov2 e adesso è ricoverato in terapia intensiva. Le sue condizioni sono stabili, il neonato è sottoposto a costante monitoraggio clinico e strumentale, a controlli ematologici a terapie mediche e viene nutrito a livello parenterale. I familiari (entrambi cinesi), la madre in particolare, sono stati subito sottoposti al test, risultando tutti negativi. L’unica spiegazione plausibile sulle modalità di contrazione del virus, dunque, è legata alla sua presenza all’interno di due ospedali: quello di Urbino dove è venuto al mondo e il pediatrico di Ancona dove è stato sottoposto all’intervento chirurgico e dove adesso si trova ricoverato nel reparto di anestesia e rianimazione.

La conferma di come gli ospedali siano un grosso bacino di incubazione del Covid-19, tra pazienti positivi e sospetti tali e personale a contatto giornaliero con pazienti infetti e anch’essi positivi ma, in quanto asintomatici, comunque in corsia per alleviare la carenza di personale. Proprio ieri il governatore delle Marche Luca Ceriscioli, oltre ad annunciare l’arrivo stamattina di Guido Bertolaso, già collaboratore della Regione Lombardia, per una consulenza sulla costruzione di un ospedale ex novo, ha lanciato un grido d’aiuto: “Nelle Marche servono 250 tra medici e infermieri, ma anche mascherine e altri presidi sanitari, altrimenti rischiamo il collasso”. Da ieri nella lista dei contagi le Marche contano anche il neonato urbinate. Giovedì scorso il piccolo è finito in sala operatoria per risolvere un problema congenito di natura gastrointestinale emerso subito dopo la nascita. L’intervento è tecnicamente riuscito in maniera perfetta, ma durante le fasi pre e post operatorie, nonostante risultasse in parte asintomatico, persisteva nel neonato uno stato febbrile che non ha lasciato tranquillo lo staff medico-chirurgico dell’ospedale pediatrico di Ancona.

In altri tempi non sarebbe stata presa alcuna precauzione diagnostica, stavolta si è scelto di sottoporre il bambino a tampone nasale. Il risultato ha mostrato, senza ombra di dubbio, la sua positività e da qui la scelta di trasferirlo in rianimazione è stata immediata: “Per fortuna l’azienda Ospedali Riuniti (di cui il pediatrico fa parte assieme ad altri due presidi) aveva previsto un rischio del genere decidendo di allestire una stanza Covid-19 isolata e a pressione negativa – spiega Alessandro Simonini, primario dell’unità di anestesia e rianimazione dell’ospedale anconetano –. Si tratta di un ambiente super protetto con due posti letto e ad oggi il neonato è l’unico presente al suo interno. Dall’inizio dell’emergenza coronavirus nelle Marche non abbiamo avuto altri casi pediatrici positivi al virus. Abbiamo avuto un solo caso sospetto in un minore, risultato poi fortunatamente negativo. Non ho sentito di altri casi in Italia di un neonato di pochi giorni positivo al Covid-19. Voglio tranquillizzare tutti, pur mostrando cautela: attualmente le sue condizioni cliniche appaiono stabili e soddisfacenti”.

Le Marche dopo la Lombardia e l’Emilia Romagna, è in proporzione la regione più colpita dal virus. I dati aggiornati ieri hanno visto altri 19 decessi che hanno portato il bilancio a 202 morti in regione. Sul fronte dei contagi superata quota 2.400 su 6.400 test effettuati. La provincia di Pesaro-Urbino resta la più colpita con 1.249 casi, ma in proporzione da ieri cresce la statistica in provincia di Ancona dove i positivi al virus sono 676.