“Il virus è una grande lente di ingrandimento sulla società. E conduce l’occhio nei luoghi che non vedevamo più, impone l’attenzione sulle questioni che erano state abbandonate in un cassetto, ci fa avanzare domande che fino a ieri avevamo ritenute superate”.
Fausto Bertinotti ha compiuto i suoi 80 anni “nel rigoroso rispetto delle prescrizioni governative. Isolamento domiciliare, qualche passeggiata solitaria e la propensione a guardare avanti, ad essere necessariamente ottimista”.
Ci voleva una catastrofe sanitaria per ricordarci che il welfare non è spreco.
Non uso la parola catastrofe, meglio definire quel che ci sta capitando “l’evento”. E certo questo drammatico evento produce ravvedimenti operosi che a un uomo di sinistra come me dovrebbero far rallegrare. Eppure la strada è lunga e anche piuttosto incerta.
Il virus almeno ci obbliga a capire che sanità e assistenza sociale non sono voci di spesa inutile.
È una rivalutazione del keynesismo, diciamo così. E questo dovrebbe far riflettere le politiche sciagurate nel tempo di un capitalismo selvaggio che imponeva continue spending review, e accreditava come buon governo quel salasso prodotto ai ceti deboli, a coloro che nel Novecento chiamavamo la classe operaia, al proletariato, uso volentieri questa parola antica.
Dovevamo giungere a un punto così estremo?
Mi faccia ricordare Marx che ci spiegava: “Se la lotta di classe non dà luogo a una civiltà superiore allora si giunge alla catastrofe”. E purtroppo dobbiamo notare, (ora uso le parole di De Rita), che in questa società destrutturata vive il popolo della sabbia. Tanti individui come tanti granelli che non riescono a formare un insieme solido.
Il popolo è sabbia non mattone.
Iniziamo da una considerazione sull’oggi: le politiche di austerity hanno pregiudicato le capacità di reazione della società a un evento così misterioso e letale. Il sistema sanitario non regge l’ondata della malattia, si piega nonostante sforzi eroici del suo personale. Il virus è penetrato nel fondo dei nostri corpi, e ogni giorno facciamo l’amara conta di chi lascia la vita, perché le difese sociali sono state ridotte al lumicino. Quanto è grande la responsabilità delle politiche governative, quanto è potente la denuncia, inascoltata, contro quelle misure che devastavano, destrutturavano, liquefacevano i piloni che avrebbero dovuto sorreggere uno sviluppo compatibile, sostenibile, gestibile della produzione con il lavoro? Questo io chiedo.
Ogni crisi, quando è così drammatica, spinge però gli uomini a ritrovare spunti di solidarietà, a mettere in comune la fatica e anche la paura, a farsi forza, a sacrificarsi per l’altro. Si rallegra almeno di questa improvvisa venatura socialisteggiante della società?
Vorrei tanto che fosse così. Certo l’esempio dei medici, il loro sacrificio, l’assoluta abnegazione fino alla morte sono dimostrazioni che esiste un valore, il dovere della solidarietà, non smarrito. E anche i canti sui balconi, quel sentimento di sano patriottismo, quell’orgoglio che pure unisce, sono ritratti importanti. Segnano la civiltà e la maturità di un popolo. Penso però che la strada da percorrere sia ancora lunga.
A parte gli operatori sanitari, chi va al lavoro, chi è costretto a sfidare quotidianamente il virus, fa parte in prevalenza della classe meno abbiente. Operai, camionisti, cassiere, riders, magazzinieri. In casa – oltre ai disoccupati – resta chi, in prevalenza, fa un lavoro più qualificato. I deboli spingono la carretta e i forti aspettano di essere trainati?
È indubbiamente così. Gli addetti ai lavori più faticosi e meno retribuiti sono costretti a lavorare anche in queste giornate così pericolose. Naturalmente esistono le eccezioni, ma il virus, come lente di ingrandimento, aiuta appunto a cogliere la distanza della società alta da quella bassa. Distanze che sono sempre più consistenti perché il processo di destrutturazione ha avuto tempo di scendere in profondità.
Il virus mina i corpi. Ma infetta anche la democrazia? Questa compressione progressiva dei diritti, l’assenza del Parlamento, la richiesta di autorità, i limiti alle nostre libertà fondamentali….
La democrazia è un corpo malato e similmente al fisico dei più fragili, dei più deboli, che sono gli anziani, subisce l’aggressione dello stato di emergenza.
I paradosso è che in tanti anelano a provvedimenti ancor più restrittivi, e il modello cinese, Stato autoritario e verticale, è assai applaudito.
Una democrazia forte è in grado di fare scelte coraggiose e dure ed è in grado di scegliere, di indicare la via anche nelle ore più buie come questa. Ma lei vede nel mondo leader capaci, autorevoli, lungimiranti? Ascolta una parola che la induca al pensiero, alla riflessione? Macron, Johnson, non parliamo di Trump, men che meno di Putin? Questi i leader sulla scena. E le loro dichiarazioni resistono il tempo dell’istante. Un’ora dicono e l’ora successiva capovolgono il loro pronunciamento senza nemmeno curarsi di renderne conto. Ho letto il discorso alla nazione di Macron. Tranquillamente ha annunciato che tutte le riforme approvate in tema di pensioni e altro sono sospese per via dell’emergenza. Ma come? Ha dimenticato che contro le sue riforme si è scagliato un intero popolo? I gilet gialli chi erano? Niente, neanche un accenno. Le ha cancellate con un colpo di tosse, un soffio di vento, come se nei mesi precedenti non avesse illustrato e definito il copione opposto.
Leader non ce ne sono alla vista.
Mi creda: tolto papa Francesco non c’è nessuno in grado di indicare una via.