Cento milioni di mascherine dall’estero. Di Maio: “Aiuti da Cina, Egitto e Brasile”

La nuova Quota 100: cento milioni di mascherine al mese che servono all’Italia per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. “Abbiamo firmato un contratto da 100 milioni di mascherine: da mercoledì inizieranno ad arrivare – ha dichiarato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio –. Ne arriveranno sei milioni, poi venti ogni settimana”.

La Farnesina è da settimane a caccia di materiale sanitario in tutto il mondo. Ieri sono arrivate dall’Egitto 1,5 milioni di mascherine; 40.000 dall’India; 2,5 milioni dalla Cina; 2 milioni dall’Europa, mentre atterravano nove aerei militari russi con ventilatori, mascherine e medici (destinati alla Lombardia), un carico da 2,5 milioni dal Brasile e uno cinese da un milione.

“Queste cifre – ha ribadito il ministro – sono la dimostrazione che l’Italia non è sola e che coltivare certe amicizie paga: la Via della Seta e l’approccio con tutto il mondo stanno permettendo al nostro Paese di ricevere aiuto”. Le mascherine “sono le munizioni per combattere la nostra guerra”, così il commissario straordinario Domenico Arcuri, intervenuto ieri a Mezz’ora in più su Rai3: lì ha promesso che “entro oggi o domani tutte le Regioni avranno mascherine per medici, operatori sanitari e malati. E a partire dalla settimana prossima contiamo di dare a tutti gli italiani i dispositivi di protezione individuale”. Ieri le mascherina distribuite sono state 3 milioni; 2 milioni sono invece quelle che produrranno in un giorno quasi 200 aziende della Camera della Moda, riunite in due filiere. Alle aziende che riconvertiranno la produzione lo Stato garantirà poi un fondo di 50 milioni di euro. “L’obiettivo è avere in poco tempo una quota sufficiente di produzione nazionale. Fino a 5 giorni fa distribuivamo un milione di mascherine al giorno; ieri sono state il triplo e nella prossima settimana contiamo di incrementare la dotazione”.

Notizie incoraggianti arrivano anche dalla Repubblica Ceca, dove è andato in scena un deplorevole sequestro di materiale medico donato dalla Cina all’Italia: grazie alla denuncia – raccolta dal Gr Rai – del ricercatore Lukas Lev Cervinka, si è scoperto che le autorità locali avevano fermato arbitrariamente un carico di 680 mila mascherine e 28 mila respiratori destinati al nostro Paese come aiuti umanitari. Divampata la polemica, e dopo timidi dietrofront del governo ceco, in serata Di Maio ha annunciato di aver sbloccato l’impasse: il collega “ministro degli Esteri mi ha assicurato che ci spediranno 110 mila mascherine entro le prossime 48 ore, lo stesso numero che doveva arrivare in Italia”. Infatti, delle 680 mila mascherine “sparite”, solo 101.600 – pare – erano destinate all’Italia, ma ormai tutto quel materiale confiscato resterà in Repubblica Ceca perché è stato già distribuito agli ospedali e registrato: ne manderanno di nuove, perciò, insieme a un carico di 200 mila protezioni, “ferme in Turchia”, ma finalmente sbloccate.

Sul delicatissimo fronte delle carceri italiani – molti temono nuove sommosse – saranno presto distribuite 20 mila mascherine chirurgiche dalla Protezione civile, che si aggiungono così agli oltre 200 mila pezzi destinati alla polizia penitenziaria. A Bari, intanto, la procura ha aperto un’inchiesta sul mercato nero delle protezioni.

La nuova alleanza degli “sciacalli” Salvini, Renzi & C.

Dall’industria alimentare, all’attività di raccolta dei rifiuti passando per la fabbricazione delle casse funebri che ormai scarseggiano: è il catalogo delle attività che da oggi rimarranno aperte per garantire i servizi essenziali in epoca di coronavirus compilato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte dopo un confronto tenuto aperto per tutta la mattina di sabato con le Regioni. E proseguito ad oltranza per tutta la giornata con i sindacati, le associazioni di categoria e le aziende che fino all’ultimo hanno cercato di convincere il premier che bisognava allargare la short list: c’è chi ha invocato la rilevanza strategica della sua attività ai fini dell’economia nazionale, chi ha chiesto di tenere aperti i battenti della propria azienda rivendicandone la connessione con quelle consentite in via principale, chi ha enfatizzato di essere al servizio dell’emergenza sanitaria in corso. Un moltiplicarsi di istanze a Palazzo Chigi proseguite tutta la notte e anche nella mattinata di ieri in un confronto che ha imposto gli straordinari anche al ministero dello Sviluppo economico incaricato di passare al microscopio le singole richieste: alla fine la pubblicazione del decreto con l’elenco definitivo delle attività produttive giudicate essenziali in questa fase di emergenza è slittato.

Il provvedimento che impone da oggi la nuova stretta era dunque già pronto sabato sera e Conte ha ritenuto doveroso comunicarlo immediatamente agli italiani chiamati alla “sfida più difficile dal dopoguerra”. Ma la scelta del premier è stata contestata dall’opposizione, che pure chiedeva il lockdown, e che lo ha accusato di “peggiorare il senso di insicurezza, ansia e incomprensione” (Giorgia Meloni), di “non dare certezze agli italiani” (Matteo Salvini), di voler trasformare la pandemia in “uno show”, tipo Grande fratello (Matteo Renzi). Al coro si è aggiunto anche l’Ordine dei giornalisti, oltre che Enrico Mentana direttore del TgLa7. Proprio La7 è stata costretta a interrompere un classico del cinema di tutti i tempi, Indovina chi viene a cena, per mandare in onda la diretta social di Conte. Come hanno fatto pure gli altri canali che, secondo una nota di Palazzo Chigi “avvisati per tempo, accedono attraverso collegamento diretto al segnale audio-video fornito dalla sala regia della Presidenza del Consiglio”.

Ma nulla basta a placare Salvini & C. che alzano il tiro chiedendo di essere ricevuti da Sergio Mattarella. E alla fine di una domenica di passione è sbottato il ministro Dario Franceschini (Pd), nel governo considerato tra i più vicini al capo dello Stato. “Sento il dovere di parlare nel momento più drammatico della Repubblica. Nel governo sono quello con la più lunga esperienza politica e sulla base di questa esperienza vi garantisco che c’è un’abnegazione assoluta da parte di tutti. Il premier Conte va ringraziato perché lavora giorno e notte, senza sosta”. Ad ogni modo Conte, come annunciato dal presidente della Camera Roberto Fico, riferirà presto in aula.

Morti e contagi, lieve calo. Cosa dice il decreto Conte

Forse per la prima volta dall’inizio del tragico rito nazionale, all’appuntamento delle 18 con la conferenza della Protezione civile, l’Italia tira un sospiro di sollievo celato sotto il dolore, comunque grande, per il nuovo numero di morti quotidiani: 651 ieri (il giorno prima il record, 793). Per un totale di 5.476, ormai lontani dal numero della Cina, ieri superato anche dalla sola Lombardia arrivata a 3.456 (nelle ultime 24 ore 361, sabato erano stati 546). Mentre proprio Pechino decide di riaprire i ristoranti e ritrovare un poco di normalità cala il ritmo della crescita anche dei casi accertati in Italia, pur rimanendo preoccupante. Ieri “solo” del 10% più alto di quello di sabato e in discesa negli ultimi dieci giorni dal 21% del 12 marzo.

Quindi, se i casi accertati in Italia, a quota 59.138, sono più del doppio del secondo paese europeo colpito dalla pandemia – la Spagna è a 28.603 – la tendenza lascia intravedere una flebile luce in fondo al tunnel: per questo il sospiro di sollievo. Mentre altri in Europa il tunnel lo hanno appena imboccato con incrementi giornalieri drammatici: + 63% in Svizzera, +30% in Germania e +20 in Francia. Negli Stati Uniti in pochi giorni i casi di persone contagiate dal coronavirus sono addirittura passati da 1.598 a 31.191 e anche Londra si preoccupa per un incremento da 590 a 5.683 dal 12 marzo a ieri.

Ritornando in Italia e all’appuntamento delle 18 bisogna registrare queste parole di Franco Locatelli, direttore del Consiglio superiore di sanità: “L’84% dei decessi per Covid-19 si è registrato in tre regioni: Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna. I trasferimenti dei malati verso altre regioni sono un’importante risposta da sostenere e potenziare, con l’obiettivo di garantire alle strutture più in sofferenza la possibilità di assistere i pazienti più compiutamente. È il momento di essere uniti e solidali”. Parole non casuali, mentre la situazione in Lombardia soprattutto rimane molto complicata, come ribadito dal governatore Attilio Fontana: “Siamo allo stremo, sono provati nell’animo ma anche nel fisico medici, infermieri, tutti coloro che lavorano nelle unità di crisi, chi guida le ambulanze…”. L’assessore al Welfare Giulio Gallera indica nella giornata di domani uno spartiacque per capire davvero “se le misure di contemimento hanno avuto successo”. Ieri la crescita dei contagi ha indicato un dimezzamento, da 715 a 347, a Bergamo, pochi giorni fa alla ribalta mondiale per le bare portate via dalle camionette dell’esercito in colonna. Le misure di contenimento sono da oggi incrementate dall’ultimo decreto di Palazzo Chigi, valido fino al 3 aprile. Nel decreto, che ribadisce i divieti per la cittadinanza – come quello di lasciare il territorio del Comune in cui si è –, la chiusura di scuole e musei, c’è l’elenco, in 80 voci, delle attività che non si fermano perché considerate essenziali.

Resteranno aperti studi di commercialisti, avvocati, ma anche ingegneri e architetti, così come l’intera filiera della stampa, dalla carta al commercio all’ingrosso di libri, riviste e giornali fino ai servizi di informazione e comunicazione. Oltre alle edicole porte aperte dai tabaccai, nonostante lo stop a Lotto e scommesse che dovrebbe costare allo Stato mezzo miliardo di euro. Portieri, colf e badanti conviventi potranno lavorare. Continua a essere garantita una serie di servizi, come i call center, che dovranno rispettare le regole su distanze, uso di guanti e mascherine: proprio ieri a Roma è morto a Tor Vergata un 34enne che lavorava in un open space per Tim. Restano attive tutte le filiere ritenute essenziali, dal settore alimentare a quello farmaceutico e biomedicale, alla fabbricazione delle bare. Garantiti i mezzi pubblici, il trasporto delle merci, vigilianza privata e raccolta rifiuti.

Divanisti alla riscossa

Purtroppo abbiamo disgrazie più gravi di cui preoccuparci. Quindi il ritorno degli sciacalli da divano, che in tempi normali farebbe schifo, in quest’apocalisse fa soltanto pena. Ieri, mentre l’Italia (e soprattutto la Lombardia) contava altri 651 morti e 4 mila nuovi contagiati, uno stormo di avvoltoi si levava in volo per azzannare Giuseppe Conte, reo nientemeno che di aver comunicato i contenuti del nuovo Dpcm con un breve messaggio su Facebook alle 23.20 di sabato. Il più lesto a speculare è stato l’Innominabile, che in tre righe è riuscito a infilare tre baggianate sesquipedali. “Noi rispettiamo le regole del Governo sulla quarantena” (e che pretende, una medaglia?); “Ma il Governo rispetti le regole della democrazia. Si riunisca il Parlamento” (che c’entra il governo se il Parlamento non si riunisce? Forse Conte-Tejero ha schierato i carrarmati dinanzi a Montecitorio e a Palazzo Madama per impedire l’ingresso a una folla di parlamentari ansiosi di entrare?); “Si facciano conferenze stampa, non show su Facebook: è una pandemia, non il Grande Fratello” (in che senso quei 7 minuti su Fb sono uno show o un reality? Chi è stato, fra Conte e l’Innominabile, a esibirsi ad Amici da Maria De Filippi col chiodo alla Fonzie?).

Poi si sono aggiunti Salvini e Meloni, che almeno non fanno parte della maggioranza. La Meloni delira di “intollerabili i metodi da regime totalitario” (qui la battuta si scrive da sé), “dichiarazioni trasmesse in orari improbabili” (lei preferiva le 22,51 o le 23.08), “con continui ritardi” (rispetto a cosa? A che ora esattamente la dichiarazione sarebbe arrivata in orario?), “attraverso la pagina personale su Facebook, come se in Italia non esistessero le Istituzioni, la televisione di Stato e la stampa” (in questi giorni tutti i capi di stato e di governo del mondo si rivolgono alle proprie nazioni in diretta, anziché affidarsi a freddi comunicati). Salvini tiene subito a precisare di essere rimasto, anche nell’ora più buia, il cazzaro di sempre: “Meglio tardi (troppo tardi) che mai, ieri notte ci hanno dato retta” (parola di quello che solo il 27 febbraio strillava “Riaprire tutto, negozi, discoteche, musei, gallerie, bar”); “non è questo il modo di agire e dare certezze agli Italiani” (parola di uno che ha “governato” in diretta Fb per un anno e mezzo, anche in piena emergenza Papeete). Al coro degli alti lai si unisce l’Ordine dei giornalisti, improvvisamente allergico alle comunicazioni dirette del premier (sempre esistite in tutto il mondo da che mondo è mondo), dopo decenni di silenzi sui “colleghi” che facevano domande-assist concordate o applaudivano B. e l’Innominabile.

Anche stavolta, non si capisce quale peccato mortale avrebbe commesso il premier. Non certo sospettabile di sfuggire alle domande, visto che quasi ogni giorno rilascia interviste ai quotidiani. Sabato, mentre era collegato con sindacati, Confindustria, 20 presidenti di Regione, Protezione civile, ministri e capi-delegazione giallorosa per decidere quali settori industriali e commerciali chiudere o lasciare aperti, a Otto e mezzo il solito tromboncino da divano strillava come un ossesso che era una vergogna il silenzio di Conte, dopo averlo accusato per settimane di parlare troppo. Finita la maratona di riunioni, il premier ha messo giù il discorso e poi l’ha letto, anticipando un Dpcm molto dettagliato, che è stato limato e integrato fino a ieri pomeriggio. Siccome tutti sapevano, per l’enorme numero dei soggetti coinvolti, che cosa grosso modo bolliva in pentola, ha chiarito appena possibile (cioè alle 23.20) la sostanza delle nuove restrizioni, rinviando i dettagli al testo uscito ieri e in vigore oggi. Non c’era tempo per convocare in extremis una conferenza stampa, che peraltro sarebbe andata deserta come le ultime (i cronisti lavorano in gran parte da casa). E occorreva evitare nuove fughe di notizie (e di persone) come quelle che gli erano state rinfacciate sul Dpcm dell’8 marzo. Ma qualunque cosa faccia Conte è sempre sbagliata: sia che parli sia che taccia, sia che anticipi le fughe di notizie sia che le insegua. Come se il dramma fossero le forme, i mezzi, gli orari delle sue comunicazioni. E come se fosse lui a deciderne i tempi per biechi motivi che peraltro nessuno spiega, e non le circostanze eccezionali. Per fortuna gli italiani sanno distinguere chi lavora da chi specula. Ed è questo che manda ai matti sciacalli e avvoltoi.

Siccome non c’è limite al peggio, un sedicente “Patto trasversale per la scienza”, ultimo travestimento di Burioni&C., diffonde una “diffida legale” alla virologa Maria Rita Gismondo invitandola ad abiurare pubblicamente alle sue convinzioni che costituirebbero il reato di “notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico”. In attesa che si allestiscano le pire per la nuova caccia alle streghe, segnaliamo a Burioni un cazzaro che il 2 e l’11 febbraio dichiarava: “In Italia il rischio è 0. Il virus non circola”, “Dobbiamo avere paura del coronavirus così come abbiamo paura dei fulmini”. Il suo nome è Burioni: al rogo anche lui.

L’appello dei medici di Brescia: “Chiudete tutto”

L’appello è disperato: “Chiediamo alle istituzioni di fermare tutto”. Arriva dai medici di Brescia, dove ieri si sono contati 328 casi di contagi in più: dall’inizio dell’epidemia, sono a quota 5.028. “Non si può continuare a far circolare le persone – dice Sergio Cattaneo, primario di Cardiorianimazione degli Spedali civili della città –, le terapie intensive della Lombardia non hanno più posti”. Appello condiviso da Paolo Terragnoli, primario del pronto soccorso della Clinica Poliambulanza di Brescia: “Vediamo ogni giorno aumentare i giovani contagiati. È finito il momento di uscire, bisogna stare a casa e chiudere tutto”. Richiesta accorata in una regione travolta anche dall’alto numero di medici e infermieri infettati: sono già oltre 2.800, in costante crescita.

I dati dell’Istituto superiore della Sanità, del resto, confermano: gli operatori contagiati ieri erano, a livello nazionale, 4.268. Il che significa 614 in più rispetto a venerdì scorso, un balzo che ha sfiorato il 17%.

I sanitari lombardi sono allo stremo. Tra Bergamo, Brescia, Crema, Mantova. Nelle corsie degli ospedali, in ginocchio, di fronte alla forte carenza di mascherine filtranti, quelle necessarie soprattutto nelle terapie intensive, c’è anche chi si arrangia come può. A volte con sacchetti di plastica o sacchi della spazzatura tenuti stretti da nastro adesivo. “La foto che avete pubblicato in prima pagina è drammatica”, dice Stefano Magnone, segretario regionale del sindacato dei medici Anaao, e medico chirurgo a Bergamo. “L’ho inviata alla Regione Lombardia e, come sindacato, faremo una denuncia: è un problema di sanità pubblica quello che il Fatto denuncia”. “Per le mascherine chirurgiche non c’è problema: quelle ci sono – prosegue Magnone – quelle che scarseggiano davvero sono le filtranti, così come mancano i camici impermeabili. Le forniture arrivano, ma vanno esaurite nell’arco di 36 ore”. La battaglia – oltre al contenimento del contagio – è anche questa: il reperimento dei Dpi, i dispositivi di protezione individuale.

È così anche in Piemonte, e in Valle d’Aosta, dove mancano i camici idrorepellenti: e allora ai sanitari del reparto Covid dell’ospedale regionale Parini sono stati dati in uso quelli utilizzati dai veterinari. Un ripiego, in attesa del rifornimento dei camici adeguati. In Piemonte la situazione è ancora più drammatica, come dimostra la lettera con la quale l’Ordine dei medici di Torino si è rivolto al premier Giuseppe Conte, al ministro della Salute Roberto Speranza, al capo della Protezione civile Angelo Borelli e al presidente della conferenza Stato-Regioni, Stefano Bonaccini. “Vi preghiamo di intervenire con urgenza”, ha scritto il presidente dell’Ordine Guido Giustetto, raccogliendo intorno a sé anche tutti i sindacati di categoria: “Il personale sanitario è sprovvisto degli adeguati dispositivi di protezione e cura i pazienti a rischio della propria salute. Mancano ventilatori, caschi Cpap, farmaci. Non abbiamo medici a sufficienza, sia per l’esplosione dei casi ricoverati sia per la quarantena di molti di noi, che si sono infettati. Vi preghiamo di rifornirci al più presto di tutto il necessario per curare la popolazione senza rischiare la vita”. In Piemonte mancano anche i caschi Cpap monouso per la ventilazione non invasiva. Servono ai pazienti, per evitare l’intubazione, e quindi la terapia intensiva, ma non ci sono. E allora l’unità di crisi della Regione ha dato disposizione a infermieri e Oss, gli operatori sociosanitari, di “ricondizionarli”, che significa lavarli e sanificarli, per poi utilizzarli su altri pazienti in crisi respiratoria. Ma il punto è che non si sa nè come né dove. Un grande caos.

Intanto spunta anche la questione del trattamento dei dispositivi già usati. Sono rifiuti speciali, possono essere infetti, dovrebbero essere tenuti in aree isolate. E invece, denunciano i volontari e i dipendenti delle strutture che garantiscono le ambulanze in convenzione con Areu – l’azienda regionale emergenza urgenza della Lombardia –, vengono lasciati in aree di passaggio, anche negli ospedali.

Il “caso Lombardia”: virus più aggressivo e tanti grandi vecchi

A un mese dall’emergenza Covid, la Lombardia con i suoi dieci milioni di abitanti ha raggiunto picchi di contagio superiori in proporzione anche alla regione cinese dell’Hubei che ha una popolazione simile a quella dell’Italia, circa 60 milioni. Aumentano gli infetti, aumentano i morti. Il sabato nero di ieri ha fissato cifre impensabili trenta giorni fa. Tanto più che il numero dei 25.515 contagi va quintuplicato per poter aggiungere gli asintomatici. Di tutte le province preoccupa quella di Milano arrivata a 4.672, con l’incremento record ieri di 868 casi: il quadro è drammatico. La sproporzione con le altre regioni italiane interroga i ricercatori. In Lombardia il virus è diventato più cattivo? Le domande sono tante, le risposte poco certe. Si formulano ipotesi di lavoro, non robuste teorie, perché i dati sono pochi.

La virologa Ilaria Capua, in uno studio condiviso con altri ricercatori americani, avverte: “La nostra analisi mostra gravi limiti nei dati attuali, alla luce dei quali qualsiasi scoperta dovrebbe essere considerata preliminare”. Il riferimento è allo studio delle sequenze complete del virus che in tutto il mondo sono 367. Ancora poche per individuare “un tracciamento molecolare” di SarsCov2. Di certo, spiega Capua sui giornali internazionali, “di fronte alla catastrofe in Lombardia è urgente porsi la domanda. Che cos’è successo?”. Si cercano indizi, magari legati “alle strutture ospedaliere”, condotte dell’aria vecchie come già successo con Sars1 “circolato attraverso l’aerazione dell’Hotel M a Hong Kong”.

La ricerca di una specificità lombarda sarebbe utile anche per non prevedere uno sviluppo simile nelle grandi metropoli europee. “Ma se il punto debole fossero solamente gli ospedali – spiega la professoressa Maria Rita Gismondo – avremmo numeri inferiori. Moltissimi si ammalano a casa”. Ragionamento al quale si allinea il professor Massimo Galli, sempre dell’ospedale Sacco: “Gli ospedali, come quelli di Codogno e Alzano sono vettori del contagio accidentali, anche se è vero che nel 2015 un caso di Mers all’ospedale di Seul provocò 33 morti e 16mila contagi”. Il bollettino nero della Lombardia così potrebbe arrivare da un virus che si è modificato. Di certo una “deriva genetica” e quindi la capacità di replicarsi con ceppi differenti, è stata rilevata dall’ultimo studio dell’equipe coordinata dal professor Galli. La professoressa Gismondo va oltre e ipotizza “una mutazione del virus” più aggressiva. “Il virus – spiega – in Lombardia uccide di più, la deriva genetica è evidente, dobbiamo, però, capire come questa eventuale mutazione influisce sul paziente”. Uno studio indiano ha individuato sulle glicoproteine S (i famosi spikes) “quattro inserimenti unici” che si trovano solo su SarsCov2. Questi inserimenti hanno “residui di amminoacidi” del primo virus dell’Hiv. È un dato importante perché ci spiega una parte di quel 15% del virus che si differenzia dalla prima Sars. “L’ipotesi indiana ha un senso – spiega Gismondo – perché con antiretrovirali possiamo abbassare la viralità ma non eliminarla. Il virus ha altri elementi patogeni a noi sconosciuti. Sappiamo che la polmonite è l’infiammazione più evidente, ma ancora non abbiamo trovato una molecole per inibirla. Anche per questo se vogliamo arrivare a qualche certezza dobbiamo collaborare a livello internazionale lasciando da parte le vanità personali”.

Al di là della mutazione del virus, anche Gismondo, come Capua, ipotizza “un puzzle di fattori negativi”. Tra questi, “i dati di comorbità”. Quanti morti da Covid-19 erano ipertesi? E quanti usavano gli Ace inibitori e non i betabloccanti? “È emerso da alcuni studi come gli Ace inibitori – spiega la professoressa Gismondo – facilitino l’infezione da Covid”. Nel “puzzle”, Gismondo mette il fatto che la Lombardia ha una popolazione anziana. Una generazione di “grandi vecchi” nata negli anni Trenta è, per il professor Galli, la spiegazione dell’accelerazione lombarda. “Anche perché non abbiamo evidenza che SarsCov2 – spiega – si sia modificato verso una maggiore virulenza”. Sulla “mortalità” abbiamo “un denominatore fatto da persone seriamente malate: in Cina la percentuale di mortalità di chi arrivava negli ospedali era del 14%. In Lombardia i malati gravi sono tutti tra 70 e 80 anni, molti sono maschi, fumatori o ex fumatori”. E aggiunge: “Abbiamo moltissimi anziani arrivati a essere grandi vecchi grazie al nostro sistema sanitario che li ha sostenuti con le cure, ma restano pur sempre individui fragili, che non resistono a questo virus”. Sono loro “ad aver fatto da incubatori. Non a caso i luoghi dove il virus si è propagato sono bar di provincia frequentati da anziani”, che poi hanno diffuso il Covid in famiglia, frequentando mogli, figli e nipoti.

Quasi 800 morti in 24 ore Milano assediata dal virus

Con il volto sempre più scuro il capo della Protezione civile Angelo Borrelli ha dato il numero spaventoso dei morti: sono 793 in 24 ore (+19,7 per cento), molti di più dei 627 di venerdì, dei 424 di giovedì, dei 478 di mercoledì. Ogni giorno aumentano tra il 15 e il 21 per cento. Siamo a 4.825, più della cina: sono più che raddoppiati da martedì. Saremo anche un popolo di vecchi e malati, ma quello di Borrelli è il bollettino del disastro della sanità, dei posti in terapia intensiva che mancano e infatti si muore spesso prima di arrivarci, dei medici e degli infermieri che danno l’anima senza protezioni e si infettano a migliaia, dell’incapacità diffusa di tracciare i contatti dei contagiati, dell’errore di non fare altre zone rosse nella Bergamasca quando era chiaro che nei primi giorni la chiusura totale aveva funzionato nel Lodigiano come a Vo’ Euganeo (Padova), delle industrie lombarde che non volevano chiudere. Inutile dare la colpa ai tifosi dell’Atalanta che sono andati in 40 mila a Milano a vedere la partita di Champions con il Valencia il 19 febbraio, cioè due giorni prima che suonasse l’allarme per il “paziente 1” di Codogno (Lodi): il virus era in Germania da fine gennaio, c’era stato anche un morto, e da lì secondo gli specialisti dell’ospedale Sacco di Milano era subito arrivato in Italia. Non ci avevano pensato alla Commissione europea, né alla Regione Lombardia, né a Palazzo Chigi e al ministero della Salute. Dovevano saperlo i tifosi dell’Atalanta?

Solo in Lombardia ieri hanno contato 546 decessi, naturalmente è un altro record e speriamo che rimanga tale. Ancora camion dell’Esercito che portano via le bare da Bergamo, nel Comune bergamasco di Zogno in poche settimane sono morti in 78 e non è normale: 20 erano positivi al tampone, agli altri non l’hanno fatto e chissà di cosa sono morti. Il totale regionale è 3.095 decessi. Sono 715 in Emilia-Romagna, 75 solo ieri. Trenta morti nelle Marche (154 totali), 18 in Veneto (146), 17 in Piemonte (255)

Nessuno ormai si azzarda a prevedere il picco, l’inversione della curva. “Non ho mai parlato di picco, né di previsioni che possono essere fuorvianti”, ha detto il presidente dell’Istituto superiore di sanità Sergio Brusaferro. “Tutti gli esperti ci avevano detto che i giorni più duri sarebbero stati sabato e domenica il 13° e il 14° giorno dall’introduzione dell’effettiva misura di contenimento e, ahimè, gli esperti avevano ragione, dato che i dati sono tutti in forte crescita”, ha spiegato ieri l’assessore al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera. Due weekend fa si passeggiava sui Navigli a Milano. Brusaferro ha fatto un discorso simile. Vedremo domani. C’è solo da restare in casa.

Aumentano anche i contagi rilevati, che a seconda delle stime sono tra metà e un quarto del totale: sono 53.578 (6.557 in più rispetto a ieri, più 13.9%). Circa la metà, 25.515, sono in Lombardia; a Milano città salgono meno delle previsioni più infauste. Sono cresciuti in tutte le regioni con percentuali variabili tra l’8 e il 20 per cento. In Italia, tolti i 4.825 deceduti e i 6.072 guariti, i soggetti positivi sono 42.681. Di questi, i pazienti ricoverati sono 17.708,2.857 sono in terapia intensiva e 22.116 in isolamento domiciliare. Solo in Lombardia ci sono 1.083 persone in terapia intensiva (33 in più). La migliore notizia della giornata è che in Emilia-Romagna invece i ricoverati nelle terapie intensive sono due in meno: 265. Lì, dice la Regione, ci sono ancora posti letto liberi, mentre in Lombardia ne hanno creati già 400 e non bastano. Borrelli ha spiegato che dai 5.300 posti in terapia intensiva a livello nazionale siamo arrivati a 7.700. Ma la ricerca dei macchinari è partita tardi.

Va bene la via di Seoul, ma qui mancano le basi

La Protezione civile, le Regioni e le Asl non sono in grado di applicare la ricetta coreana che Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute sul Coronavirus, ha dichiarato di volere seguire. Dopo 4.825 morti è ora di prendere atto che abbiamo sbagliato a non seguire quella strada, ma poi dobbiamo aggiungere che le strutture attuali non sono in grado di perseguirla.

Il 24 febbraio in una conferenza stampa congiunta con i medici cinesi, Bruce Aylward, il direttore della missione in Cina dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha spiegato perché la Cina ha sconfitto in un mese e mezzo il Coronavirus. C’è stato un blocco totale come in Italia, ma in più la Cina ha messo in campo uno sforzo attivo che ha coinvolto governo e popolazione. Aylward ha raccontato il suo stupore nel vedere la sala controllo dell’ospedale di Wuhan dove apparivano in tempo reale i report dei team di medici sparsi per il territorio che inviavano in 5g i dati sui malati appena testati e sulla ricerca dei potenziali contagiati. In Italia bisognerebbe creare squadre simili magari usando le competenze investigative di alcune forze di polizia come il Nas dei Carabinieri magari insieme alle risorse fresche dei giovani medici specializzandi, più utili in questa attività di tracciamento che nella clinica, il tutto sempre sotto i controllo del ministero della Salute.

Come è accaduto dopo le stragi di mafia o dopo l’11 settembre, c’è chi desidera l’esercito per placare la paura. Invece c’è bisogno anche stavolta di meno mitra e più intelligence. Bisogna creare squadre di pronto intervento che effettuino quello che in Corea chiamano ‘la caccia del virus’ e, poiché il virus cammina dentro le persone, c’è bisogno di professionalità abituate a capire dove vanno, cosa fanno, con chi si incontrano le persone. Dopo avere individuato il malato, bisogna scoprire subito i suoi contatti e monitorarli in tempo reale. Serve un’attività di contatto e diagnosi al telefono, da riservare ai medici, e poi un’attività di investigazione sul territorio e nel web per la quale le Asl, le Regioni, la Protezione civile non sono attrezzate.

In Corea e Cina hanno avuto 17 anni, dopo la Sars, per prepararsi, noi no. La via coreana si compone di tre T: Testing, Tracing, Treating. Cioè prima si fanno i test possibilmente su larga scala poi però c’è la seconda T, il tracciamento: si interroga il malato e gli si chiedono le sue abitudini di vita, i suoi contatti, fino all’ultimo colpo di tosse e all’ultimo caffè bevuto in un bar. I coreani e più ancora i cinesi hanno usato anche la tecnologia per monitorare la vita delle persone. I Carabinieri sono in grado di conoscere gli spostamenti e gli incontri degli italiani mediante lo studio delle celle dei loro cellulari però ci vuole il decreto di un giudice. La politica si sta interrogando se sia il caso di introdurre delle limitazioni al diritto alla riservatezza ma è una questione delicata. Però già oggi c’è una fase del tracciamento che non richiede tecnologia e norme anticostituzionali ma solo maggiore impegno. La via italiana al momento invece funziona così: non si fanno i test nemmeno a chi ha la polmonite. Chi ha la febbre e la tosse segnala al medico di famiglia, che segnala alle Asl, che quasi sempre non rispondono. Il malato si tiene il dubbio e talvolta il virus. Resta a casa o magari va in giro a infettare qualcuno. Quando finalmente viene individuato, quasi sempre allo stato grave, gli si chiedono i contatti ma non sempre vengono chiamati. Il monitoraggio è lasciato al solo medico di famiglia.

Restare a casa è giusto. Punire chi non rispetta le regole è giusto. Però non bisogna illudersi che basti stare serrati in casa a lanciare il gavettone al podista o multare chi prende il sole per far scendere la curva del contagio. Mentre noi stiamo a casa ci vuole qualcuno che dia la caccia al virus.

“Noi medici siamo ancora contagiosi dopo tre settimane”

Il primo tampone è risultato positivo il 9 marzo. “Ho ripetuto il test il 20, dopo oltre 7 giorni dalla fine dei sintomi, ed era ancora positivo. Questo fa pensare che si rimane contagiosi a lungo anche dopo la guarigione clinica completa”. Francesca, nome di fantasia, è un medico. Lavora nel reparto di Medicina interna dell’ospedale Papa Giovanni XXII di Bergamo, struttura in prima linea nel cuore del focolaio lombardo. “Sono molti i colleghi nella mia condizione. E noi medici siamo controllati: pensi al cittadino che sta a casa e una volta passate febbre e tosse va a incontrare amici e parenti pur essendo ancora potenzialmente effettivo”, spiega la dottoressa, mentre si fanno sempre più forti le voci che chiedono al governo di cambiare il metodo di rilevazione dei contagi.

L’Italia, che segue le linee guida dell’Oms, dal 27 febbraio i tamponi li fa solo a chi ha sintomi. Ma “sarebbe utile un’estensione a coloro che hanno sintomi che non siano necessariamente febbre e difficoltà respiratorie”, ha detto ieri a Fanpage il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri. Il solco è quello tracciato da Luca Zaia, che ha promesso test a tappeto nel suo Veneto sul modello di Vo’ Euganeo, dove la diffusione del Covid-19 sembra essersi fermata. Il 16 marzo l’Oms ha raccomandato di “aumentare il numero dei test ai sanitari in prima linea” ma continua a escludere lo screening di massa. Ieri poi Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute, ha indicato l’esempio della Corea del Sud: 300mila test e una capillare ricostruzione dei contatti avuti dagli oltre 9mila positivi hanno permesso a Seul di piegare verso il basso la sua curva dei contagi. E l’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera ha annunciato delibere per garantire test ai medici di base e al personale ospedaliero se hanno “più di 37 di febbre”. Ora le testimonianze che arrivano dagli ospedali paiono suggerire la necessità di rivedere anche le tempistiche delle analisi.

“Ho lavorato fino al 1° marzo – racconta al Fatto la dottoressa – avevo avuto contatti con pazienti poi risultati infettati. Quella notte ho avuto i primi sintomi, con febbre alta, tosse e dispnea, che nei giorni successivi sono peggiorati. Non ho avuto bisogno di ricovero, ma sono rimasta a casa. Il 9 marzo ho fatto il primo tampone, che è risultato positivo”. Le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità prevedono che un soggetto positivo al virus Sars-Cov2 faccia un nuovo test non prima di 7 giorni dalla fine dei sintomi. “Se questo risulta negativo, si fa un’altra analisi dopo 24 ore e se anche questa è negativa si può tornare al lavoro – prosegue Francesca – Ieri (venerdì, ndr), dopo 7 giorni in cui sono stata asintomatica, quando cioè si può parlare di guarigione clinica, ho fatto il test e sono risultata ancora positiva. E quindi ancora contagiosa. La stessa cosa è accaduta al mio compagno, anche lui medico. Questa cosa – conclude la dottoressa – è capitata a molti colleghi, anche in altri reparti”.

“Sì, si sono verificati dei casi di positività che eccede i 14 giorni – conferma Claudio Farina, direttore del Dipartimento di microbiologia del Papa Giovanni XXIII che, oltre a quelli dei dipendenti e dei pazienti dell’ospedale, analizza i tamponi che arrivano dal San Giovanni Bianco e dalla provincia di Bergamo – in questo momento non so quantificarglieli. Non sono molti, non è la norma, ma ci sono. È vero però che se una persona è tornata asintomatica il rischio che diffonda il virus è basso. Anche se non vuol dire che non ci sia”.

Sulla questione degli asintomatici ha lanciato un allarme anche l’Anaao-Assomed, il sindacato dei medici dirigenti, dopo che il 9 marzo il governo aveva allargato la platea dei sanitari che devono ripresentarsi in corsia: l’articolo 7 del dl 14 prevede che siano sospesi dal lavoro solo coloro che manifestano “sintomatologia respiratoria” o che sono risultati positivi al Covid-19.Tutti gli altri, ovvero chi non ha sintomi, tornano in reparto.

I piani pandemici c’erano: nessuno, però, li ha seguiti

Ogni giorno ci piovono addosso moniti sull’irresponsabilità dei cittadini: troppa gente in giro, dice anche chi fa ordinanze su tutto ma non ha voluto finora prendersi la responsabilità di chiudere cantieri, fabbriche e uffici non essenziali (solo nell’area metropolitana di Milano, dice la Camera del lavoro, per questi motivi si muovono ad oggi in 300mila ogni giorno). Va bene la responsabilità individuale, ovviamente, le leggi si rispettano, ma temiamo che il pulpito – dal governo alla Protezione civile alle Regioni – non sia abitato da predicatori senza peccato.

Grazie alla segnalazione di un lettore abbiamo infatti scoperto una cosa chiamata “Piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale” e i di lui figli, i Piani pandemici regionali: l’Italia se n’è dotata circa 15 anni fa dopo l’influenza aviaria (2003). Questi documenti – tutti disponibili online – appaiono un po’ datati quanto alla natura del contagio (danno, ad esempio, grande risalto al contenimento negli allevamenti e al ruolo dei veterinari) e non risultano essere stati aggiornati di recente, ma comunque tracciano utilissime linee guida per la reazione alle varie fasi della pandemia: da quando non c’è alcun pericolo ai primi casi sul territorio nazionale fino all’emergenza passando per la presenza dei primi cluster (focolai autonomi).

Conviene a questo punto ricordare che il primo (inascoltato) allarme coronavirus in Cina arriva a fine dicembre, a inizio gennaio c’è la conferma di Pechino, alla fine del mese è emergenza conclamata. Cos’hanno fatto di quanto previsto nei Piani pandemici governo e Regioni nel mese prima che scoppiasse il bailamme? Poco o nulla, parrebbe.

Solo qualche esempio. Nella fase pre-emergenza, il Piano prescrive “la preparazione di appropriate misure di controllo della trasmissione dell’influenza pandemica in ambito ospedaliero”. Quali? “Approvvigionamento dei DPI (dispositivi di protezione individuale come mascherine e guanti ndr) per il personale sanitario”; “Controllo del funzionamento dei sistemi di sanificazione e disinfezione”; “Individuazione di appropriati percorsi per i malati o sospetti tali”; “Censimento delle disponibilità di posti letto in isolamento e di stanze in pressione negativa”; “Censimento delle disponibilità di dispositivi meccanici per l’assistenza ai pazienti” (i respiratori e altri macchinari necessari). E mica si tratta di un avviso generico: “Costituire, previo censimento dell’esistente, una riserva nazionale di: antivirali, DPI, vaccini, antibiotici, kit diagnostici e altri supporti tecnici per un rapido impiego nella prima fase emergenziale, e, contestualmente, definire le modalità di approvvigionamento a livello locale/regionale nelle fasi immediatamente successive”. Responsabili: ministero della Salute, Istituto superiore di sanità e Regioni.

E ancora, tra le risposte necessarie si stabilisce di “attuare la sorveglianza per individuare rapidamente i casi fra gli operatori sanitari” come pure di prevedere “quarantena e sorveglianza attiva dei contatti” di chi è positivo (pratica che oggi il governo studia sul “modello coreano”, ma che oggi non viene seguita quasi mai neanche con banali telefonate ai soggetti a rischio). E dire che le strutture sulla carta sarebbero già predisposte capillarmente dai livelli regionali. Citeremo qui – per dare l’idea che il cosa fare è noto a tutti – solo il piano della Calabria, assai simile a quello delle altre zone del Paese. Intanto la Regione si è data i livelli di comando necessari: ha istituito una “Unità di Crisi Regionale per la Pandemia” e una “Unità di Crisi Aziendale per la Pandemia” in ogni azienda sanitaria regionale indicando chi ne fa parte e prescrivendo che ognuna si doti di un piano di azione. Tra le cose da fare c’è questa: quando si individua un caso, specie con numeri contenuti come al centro-sud, la segnalazione va fatta subito al soggetto pubblico competente “in modo che possa essere attivata immediatamente l’inchiesta sul malato, la sorveglianza dei contatti e definita la popolazione esposta”, anche “nel caso di visita ambulatoriale” raccogliendo “i nomi dei presenti in sala d’attesa”.

Tornando al centro di questa vicenda, cioè alla (non) preparazione del Servizio sanitario nazionale all’onda dell’emergenza, il piano calabrese è illuminante: “Ogni Azienda Sanitaria deve stimare il fabbisogno di DPI attraverso il censimento degli operatori sanitari, per singolo presidio e mettere a punto dei piani di approvvigionamento e distribuzione”. Ma solo negli ospedali? Giammai: anche in “ambulatori, distretti, servizi di sanità pubblica e veterinari, laboratori. Dovrà inoltre essere prevista la fornitura di DPI ai servizi di guardia medica e 118, ai medici di medicina generale ed ai pediatri”. E questo, ovviamente, riguarda anche i farmaci e i macchinari necessari. Insomma, qualcuno – e certo non solo in Calabria a giudicare dalla situazione generale – deve avere dimenticato di fare scorta quand’era il momento. Infine citiamo solo di sfuggita la formazione da fare a tutto il personale sul piano pandemico e le regole, su cui si insiste molto, per comunicare alla popolazione. Un solo estratto: “Definire messaggi chiari, omogenei, condivisi a livello nazionale e locale, elaborati sulla base della percezione collettiva del rischio”. Magari non è tutta colpa dei runner…