Modello “Uandovài”? Gli sceriffi buoni del Sud alla riscossa

Se il cielo voleva farci capire quanto condividesse l’idea di Renzi di trasformare il premier nel Sindaco d’Italia, lanciata il 19 febbraio, be’, c’è riuscito: il giorno dopo è scoppiato il primo focolaio di Coronavirus in Italia. E il bello è che è stata proprio la risposta dei sindaci e dei governatori regionali all’epidemia a dimostrare che i due concetti c’azzeccano come il caciocavallo (napoletano) sul panettone (milanese).
Gli amministratori locali stanno dimostrando di incarnare i regionalismi, il folklore, i costumi locali molto più di mille carnevali ambrosiani o dialetti irpini. Basta osservare i gesti, le ambientazioni, i registri linguistici usati per le comunicazioni istituzionali negli ultimi venti giorni di pandemia: cos’è il sindaco? È quello sorridente e rassicurante che ricorda ai cittadini che Milano/Bergamo/generica città del Nord non si ferma o quello che, col cameraman che lo rincorre come un disperato, se ne va urlando nei parchi e sul lungomare “Mannaggia chi t’è mmurt, vattinn’!”? La verità è che il più palpabile aspetto del divario Nord-Sud, in questi giorni, è quello della comunicazione delle autorità locali.

Al Nord, purtroppo, lessico e narrazione hanno dovuto fare i conti con la realtà. Beppe Sala da Milano e Giorgio Gori da Bergamo, nelle loro dolorose contraddizioni, hanno dimostrato che l’approccio giovanilistico da “amministratore delegato” della città che fattura è buono per i comunicati stampa e i video emozionali, ma meno alla prova dei fatti. I “Bergamo non si ferma”, i “Milano nemmeno”, i loro comunicati istituzionali dagli uffici tirati a lucido e graziosamente ammobiliati non assomigliano nemmeno un po’ alla loro aria tirata, stanca, smarrita di chi, suo malgrado, è travolto dagli eventi senza avere controllo del timone.

Per la prima volta nella vita gli amministratori dell’efficiente Nord si trovano a dover fare i conti con l’ineluttabilità degli eventi, dei cittadini che fanno come gli pare, con la sanità insufficiente, l’economia paralizzata. Quelli che fino a ieri erano i vessilli del Paese che funziona oggi sono solo mezzi busti segnati, a cui non resta che soffrire con la loro città e sperare che passi il prima possibile.

Al Sud, invece, è il momento della riscossa. Sindaci vittime di città storicamente incagliate, governatori di regioni vessate dalla criminalità, dalle ristrettezze economiche, dimenticate dal governo e spesso irrise per il folklore ora sono i protagonisti indiscussi di un nuovo modo di essere amministratori: gli sceriffi buoni. Una via di mezzo tra un burbero capo famiglia e uno sboccato boy scout di Kim Jong-un. Ha cominciato il sindaco di Lucera, Antonio Tutolo: “Ma gli anziani, i vostri genitori, nonni, zii, li vedo camminare per strada come capre al pascolo, ma che cazzo stanno facendo? Diteglielo: ma dove vai? Statti a casa che non puoi uscire”. Un accorato appello in pieno stile pertiniano, peraltro in perfetto dialetto foggiano. Continua con citazioni di King Kong e non meglio specificati riferimenti a “peluria che esce dai pantaloni”, ma perlomeno si mantiene nei confini della Costituzione. Uno a cui questi confini stanno stretti, e si sente, è Vincenzo De Luca, governatore della Campania. “In Cina, un cittadino che era uscito dalla quarantena, 23 anni, è stato fucilato. Ora, nelle democrazie occidentali non esistono questi metodi terapeutici”. “Purtroppo”, avrebbe voluto aggiungere. Si sente che è tarpato, che vorrebbe dare il suo apporto in maniera più efficace, definitiva. Ma risolve subito dopo “Qualcuno vorrebbe organizzare la sua festa di laurea. Mandiamo i carabinieri, ma li mandiamo col lanciafiamme”. Sobrio, pacato, istituzionale. Scagliandosi contro i venditori di zeppole di San Giuseppe, nelle sue parole condite “con una bella crema al coronavirus” è persino riuscito a far incazzare i napoletani. E voglio dire, non ce l’aveva fatta nemmeno con l’istigazione al voto di scambio o con le nomine di parenti dappertutto in Regione.

Ma c’è pure chi in ufficio non ci riesce a stare e, inquieto, si aggira per la città con fare minaccioso a cacciare i cittadini dai luoghi pubblici. Quella persona è Antonio De Caro, sindaco di Bari. Nei parchi, nei chioschi sulla spiaggia, De Caro arriva a cazziare la gente sventolando le mani, mettendola davanti alle proprie colpe, sempre con il suo fidato cameraman alle calcagna. Si mormora che i cani baresi abbiano imparato a farla nel wc alzando anche la tavoletta, traumatizzati dalle imboscate di De Caro. Insomma, se non ci fosse una tragedia di mezzo, se non fossimo tutti parte della stessa battaglia, potremmo dire che è la rivincita del Sud. Di sicuro, è quella del modello Uàn: “Statti a casa, Uandovai?”.

I sindaci in trincea, senza soldi né dati sui contagiati

Li vediamo aggirarsi nei parchi in versione “sceriffo”, alle prese con quelli che non hanno capito che è il momento di restare a casa. Li sentiamo parlare in dialetto davanti alle telecamere, per far arrivare via social il messaggio anche ai più anziani che magari – fuori dalla formalità dell’italiano – afferrano meglio il concetto. La trincea dei sindaci, anche con il coronavirus, è quella che si trova più a stretto contatto con i problemi e i paradossi dell’emergenza. Di ordine pubblico, innanzitutto. Ma pure economici e sanitari, perché è su di loro che per primi ricadono gli oneri della strategia di contenimento. Così, ieri, il presidente dell’Anci, Antonio Decaro, primo cittadino a Bari, ha scritto al premier Giuseppe Conte e al ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, spiegando che “la tenuta funzionale e organizzativa dei Comuni” è “messa a dura prova”. Non ci sono i soldi, le entrate sono crollate (basti pensare al sistema di trasporto pubblico locale rimasto quasi senza passeggeri, alle rette scolastiche congelate, etc), l’erogazione dei servizi pubblici è a rischio. Tradotto: “Il Paese rischia il collasso dell’unica istituzione di prossimità sul territorio nazionale”. Chiede liquidità, Decaro, e avanza una serie di proposte al Tesoro. Le stesse che la sindaca di Roma Virginia Raggi traduce in un decreto “cura Comuni”, quanto mai urgente perché “se non riusciamo a ottenere risposte sarà un grossissimo problema per tutti”. Ma è chiaro che in queste ore – ancor prima della preoccupazione per le casse vuote – gli amministratori hanno l’esigenza e la responsabilità di evitare che i casi di positività Covid-19 aumentino nel territorio in cui amministrano. Non esattamente un compito facile se molti di loro non hanno nemmeno contezza di chi siano e dove risiedano i malati.

Un dato estremamente sensibile, certo. Che però nel tentativo di contenere la pandemia diventa fondamentale: “A molti sindaci – spiega il primo cittadino di Cerveteri, Alessio Pascucci – non vengono fornite le generalità e neanche gli indirizzi delle persone che contraggono il virus Covid-19 o che vengono messe in quarantena preventiva. E questo nonostante il nostro ordinamento individui nel sindaco l’autorità sanitaria locale. È una cosa inaudita”. Un’informazione che – secondo quanto denuncia Pascucci, che sul tema si è confrontato anche con molti colleghi nelle sue stesse condizioni – non è in possesso nemmeno delle forze dell’ordine: “Se un soggetto contagiato, inopinatamente, decidesse di uscire e di infrangere le limitazioni imposte dalla sua condizione, chi potrebbe controllarlo?”. La questione è tanto più paradossale se confrontata con le richieste che arrivano dall’Istituto superiore di Sanità, che ha chiesto agli stessi sindaci di trattare in maniera differenziata i rifiuti provenienti dalle abitazioni in cui risiedono contagiati o sospetti tali.

Bolzano, i furbetti della bandana “antivirus”

La guerra della bandana. In Alto Adige hanno tentato anche quest’arma contro il contagio: 300mila pezzi distribuiti gratuitamente ai cittadini nelle edicole. Da giorni molti politici locali compaiono con la fascia intorno al collo. Ma adesso ecco arrivare la polemica: a produrre la bandana, ha raccontato il sito di informazione salto.bz, sarebbe una grande impresa di cui è socio un cugino dell’assessore alla Sanità della Provincia di Bolzano, Thomas Widmann. La spesa sarebbe di 700mila euro. Immediate le critiche dal M5S in Provincia: “Non c’è nessuna evidenza che la fascia sia utile. La spesa rischia di essere inutile perché in Alto Adige tutti i cittadini hanno già una sciarpa”.

Arno Kompatcher, presidente della Provincia (Süd Tiroler Volkspartei), taglia corto: “È solo fango sulle istituzioni e chi le rappresenta. Presenteremo una denuncia”. Widmann, il diretto interessato, replica: “Non fate perdere tempo. C’è un’emergenza, lasciateci lavorare”.

Ma partiamo dall’inizio. A Bolzano i casi di coronavirus hanno superato quota 600 su 533mila abitanti. E, come nel resto d’Italia, mancano le attrezzature per difendersi dal contagio: mascherine, tute protettive e guanti. Così la Provincia ha chiesto alle industrie locali di scendere in campo. Ieri in conferenza stampa Widmann l’ha raccontata così: “Abbiamo chiesto ad Assoimprenditori di indicarci imprese che potessero aiutarci”. Ne sono state individuate due. Sono il colosso Salewa e la TEXmarket fondata dai fratelli Heinrich e Cristoph Widmann. Salewa grazie ai suoi impianti cinesi avrebbe garantito 500mila maschere protettive FFP2 e FFP3, 400mila tute protettive e 40mila tute mediche per una spesa di 9,3 milioni.

TEXmarket invece dovrebbe fornire bandane. Ma che utilità può avere una sciarpa contro il contagio? In conferenza stampa ieri Weidmann ha risposto: “Non è mai stato detto che le bandane proteggono”. Ma allora perché distribuirne 700mila? “Tante cose contribuiscono ad allontanare il rischio, dal lavarsi le mani al mantenere le distanze. Tutto questo insieme di misure può essere utile”. Christoph Widmann di TEXmarket ha dichiarato a Salto.bz: “Siamo stati contattati per la consegna rapida di bandane. Non capita spesso che tu possa dare un contributo importante al tuo Paese: fare tutto il possibile per soddisfare questa richiesta è stato quindi ovvio per noi”. Dalla TEXmarket si sottolinea anche che ogni bandana è stata pagata appena 2,3 euro.

Diego Nicolini del M5S, però, non è convinto: “Non è il momento per fare polemiche, ma di fronte a casi come questo non è giusto stare in silenzio. Soprattutto perché nelle situazioni di emergenza rischiano di saltare i controlli. Ed è vergognoso comunque che vi sia carenza di altri dispositivi sanitari”.

Il Fatto ieri ha ripetutamente parlato con collaboratori di Widmann per avere un commento, ma l’assessore alla fine ha deciso di non rispondere. TEXmarket è una grande ditta del settore con quattro stabilimenti e oltre milleduecento dipendenti. Tra i fondatori oltre ai fratelli Heinrich e Cristoph Widmann c’è il cognato Peter Stadler. Le cronache ricordano che quest’ultimo è anche protagonista di una contestata operazione immobiliare a Riva del Garda insieme con altri nomi noti del potere economico altoatesino come Heinz Hager, braccio destro di René Benko, il miliardario austriaco che sta cambiando il volto di Bolzano con progetti immobiliari da oltre mezzo miliardo.

Rette da pagare: asili, scuole e università in ordine sparso

Rette di asili, mense scolastiche e rate delle università congelate. Ma non ovunque, e non per tutti. Dopo la chiusura di scuole e università di ogni ordine e grado dovuta all’emergenza Coronavirus, il principio guida dovrebbe essere uno solo: “Quello che non viene usufruito, non viene fatto pagare alle famiglie” spiega l’assessore alla Scuola del Comune di Firenze, Sara Funaro, che nelle ultime settimane si è impegnata per sospendere le tasse di asili, mense e trasporti nel periodo di sospensione. Eppure, questo non vale ovunque e si va in ordine sparso: la stessa decisione è stata presa dai comuni di Milano, Roma, Torino e Napoli con eventuali rimborsi per chi ha già versato i contributi ma a Ferrara e Modena, per esempio, le tasse sono ridotte del 25% mentre a Rimini avviene proporzionalmente ai giorni di chiusura.

I privati, invece, decidono in autonomia. Con segnalazioni e proteste che arrivano da tutta Italia, per esempio da Cardano al Campo (Varese) dove i genitori di una scuola materna si sono visti arrivare l’intera retta del mese di marzo pur non usufruendone. La giustificazione del preside è stata: “Vi preghiamo di comprendere l’importanza di effettuare il regolare e puntuale pagamento per intero della retta di frequenza”. Molti genitori che mandano i propri figli in istituti privati (uno ogni tre) hanno già pagato le rette per un servizio di cui, in parte, non usufruiscono: “Bisogna controllare il contratto firmato al momento dell’iscrizione, e capire se contiene una clausola che prevede il pagamento della retta anche con una chiusura imposta da eventi esterni” ha spiegato all’AdnKronos, Ivano Daelli di Altroconsumo. Secondo il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, la sospensione delle rette dovrebbe valere per tutte le strutture scolastiche, sia pubbliche che private, “per non creare disparità di trattamento tra i cittadini” e sul sito dell’associazione dei consumatori si può già trovare il modulo per chiedere il rimborso.

Per i privati, però, non è ancora chiaro come sarà possibile visto che queste strutture devono sostenersi economicamente e in caso di sospensione della retta subirebbero pesanti squilibri di bilancio. “Con la sospensione delle rette e delle mense vogliamo andare incontro alle famiglie che stanno vivendo un momento così difficile – dice al Fatto, la presidente della commissione Scuola del Comune di Roma Maria Teresa Zotta (M5S) – il servizio non viene erogato e quindi non possiamo farlo pagare”. Un principio simile che vale per le mense delle scuole elementari, che affidano il servizio a privati o cooperative: anche qui le tasse saranno sospese e si potrà chiedere un rimborso ma ogni città andrà da sola. Per le Università invece, dopo la sospensione delle attività “in presenza” (la didattica e le lauree proseguono per via telematica), la Conferenza dei Rettori ha accolto l’invito del ministro Gaetano Manfredi che aveva chiesto di rinviare il pagamento della seconda (o terza) rata e giovedì la Crui ha dato il via libera: tutto rinviato a fine maggio, compresa la deadline per laurearsi in corso nell’anno 2018/2019 posticipata al 15 giugno. Adesso spetterà a ogni ateneo redigere le nuove regole con delibere ad hoc. Ma, ha assicurato il ministro Manfredi, il Miur interverrà con “anticipazioni di cassa” per gli atenei che si troveranno in difficoltà economiche. Discorso simile per le Università private: la Cattolica del Sacro Cuore di Milano aveva già deciso a metà marzo di rinviare la scadenza dei contributi dal 30 aprile al 30 giugno, la Bocconi invece non ha ancora preso una decisione (ma si andrà in quella direzione) mentre gli studenti della Luiss di Roma hanno pagato l’ultima rata a fine febbraio. Dall’ateneo però fanno sapere che non sarà fatta pagare la mora per chi è arrivato in ritardo.

Palamara accettò soldi, ma cosa fece in cambio non si sa

Il pm romano Luca Palamara, già segretario dell’Anm e componente del Csm, dal 2011 al 2017, secondo la Procura di Perugia era a “disposizione” dell’imprenditore Fabrizio Centofanti (indagato per corruzione) nel pagamento di svariati soggiorni e nella ristrutturazione dell’appartamento della sua amante Adele Attisani che, dell’imprenditore, utilizzava persino gli autisti. Parliamo di un totale di 66 mila euro, 50 mila per la sola ristrutturazione. Ma c’è una novità: la Procura di Perugia non ha trovato una sola prova del do ut des. In sostanza, non si capisce con cosa, precisamente, Palamara abbia ricambiato le utilità ricevute. Lo si legge nel decreto di sequestro disposto nei primi giorni di marzo a Palamara, Attisani (quest’ultima è ritenuta l’istigatrice) e Centofanti per circa 60 mila euro ciascuno. Palamara è indagato per un reato più lieve – corruzione per l’esercizio della funzione – e, se da un lato viene sottolineato che i “continui benefici” erano una sorta di “remunerazione della stabile disponibilità” di Palamara con “particolare riferimento alle funzioni esercitate come componente del Csm”, dall’altro il gip spiega che “non vi sono elementi sufficienti per affermare che un effetto dannoso sia stato concretamente prodotto”.

Le indagini del Gico della Guardia di Finanza non hanno trovato alcuna traccia, per esempio, dei presunti 40 mila euro versati a Palamara, secondo le accuse iniziali, per favorire la nomina del pm di Siracusa Giancarlo Longo alla (mai avvenuta) guida della Procura di Gela. Dalle 191 pagine del decreto di sequestro emergono altri fatti degni di essere raccontati. Come l’interrogatorio dell’ex imprenditore renziano Andrea Bacci dinanzi alla Procura di Milano: “Ricordo che Piero Amara (l’uomo che avrebbe avuto interesse all’attività di Palamara al Csm, anch’egli indagato) mi parlò del dottor Capristo, procuratore di Trani, che voleva andare alla Procura di Firenze e mi chiese di sponsorizzare tale trasferimento presso Luca Lotti. Io non sponsorizzai il trasferimento (…) mi limitai a chiedere a Lotti chi sarebbe andato alla Procura di Firenze. Lotti mi disse che non lo sapeva. Ho conosciuto direttamente Capristo attraverso un poliziotto di nome Filippo Paradiso, di cui ho già riferito prima. Una sera andammo insieme a cena e Capristo sostanzialmente mi compulsò per evitare di andare in una sede del Nord, dicendomi anche che gli era gradita la procura di Firenze. Capristo mi disse che voleva un contatto con Lotti, per avere tale trasferimento a Firenze. Andammo a cena e casualmente incontrammo Lotti, che era appena tornato da giocare a calcetto. Paradiso e Capristo spinsero affinché io gli presentassi Lotti e io mi recai al tavolo di Lotti, ma lui non ne volle sapere in quanto era stanco e non voleva parlare di lavoro. Poi comunque Capristo riuscì a parlare per poco tempo con Lotti e ad avvicinarlo. Questo incontro è avvenuto in un ristorante in via dell’Orso a Roma ma non riesco a collocarlo temporalmente”. Contattato dal Fatto, Capristo bolla le parole di Bacci come “pura fantasia”.

Indagata e con la stessa accusa di Palamara, si scopre dagli atti, anche l’ex consigliera del Csm Paola Balducci, anch’ella in contatto con Centofanti che le avrebbe pagato nel giugno 2016: pagamento prodotti per estetica per 1.700, più trattamento benessere nell’hotel via Veneto di Roma per 700 euro, un soggiorno per due camere presso la struttura ricettiva Mandarin Oriental di Barcellona per due giorni per un importo di 1.245 euro.

Balducci fa risalire la conoscenza di Centofanti agli anni Novanta e racconta un episodio del 2013: “Quando sono andata alla Corte dei Conti, al consiglio di presidenza, ebbi modo di incontrarlo (Centofanti, ndr) in un contesto istituzionale. Dovevamo procedere alla nomina del presidente della Corte dei Conti. Procedemmo alla nomina di Raffaele Squitieri che venne proposto quasi all’unanimità. (…) Nello stesso contesto Centofanti mi disse che Zingaretti mi voleva incontrare perché perorava la nomina di Squitieri. Io dissi a Centofanti che era inutile procedere a un incontro perché l’accordo era già raggiunto per Squitieri che era già presidente aggiunto e magistrato più anziano, perché alla Corte dei Conti vigeva ancora il criterio della maggiore anzianità”. Contattato dal Fatto il segretario del Pd Nicola Zingaretti smentisce totalmente la ricostruzione. Per l’accusa si tratta dell’ulteriore conferma che Centofanti “ha manifestato da tempo un forte interesse per le nomine dei vertici dell’apparato giudiziario e ha cercato di influire sulle stesse”. La difesa di Balducci ritiene di aver chiarito la sua posizione e, scrivono gli avvocati, “Non escludiamo che la Procura si determini per la richiesta di archiviazione”.

“Prendiamo atto”, commentano invece i difensori di Palamara, Roberto Rampioni e Mariano Buratti, “che dopo oltre due anni, le iniziali ipotesi di vendita della funzione sono cadute. Abbiamo già depositato istanza di riesame e stiamo per depositare istanza di revoca del provvedimento convinti che anche le residuali ipotesi saranno presto chiarite”.

Contro i pogrom all’amatriciana: in emergenza serve il dissenso

Bisogna stare a casa e questo dovrebbe essere chiaro. Gli stronzi non mancano, non sono mai mancati d’altronde, però dai balconi fisici e da quelli virtuali, ivi compresi molti media, tira un’arietta di pogrom all’amatriciana contro i nuovi untori, i reprobi camminatori o corridori, gli affollatori di metro (ma come ci devono andare a lavorare?) che finisce non si sa quanto involontariamente per coprire le responsabilità più grandi: chi e perché, per dire, ha sguarnito il Ssn dimezzando i posti letto in trent’anni? Per questo abbiamo apprezzato ieri, in un’intervista su Repubblica, le risposte di Gustavo Zagrebelsky e un po’ meno le domande: Qual è il suo stato d’animo rispetto a questa peste del 2020? “In questo momento mi pare che si debba fare attenzione alle parole”; Quindi lei è tranquillo? “Tutt’altro. Ma penso che si debba reagire ragionando e non delirando”. Tra le cose che vorremmo far nostre c’è soprattutto questa: “È essenziale, proprio perché siamo in emergenza e in presenza di misure eccezionali, che il Parlamento sia in piena efficienza nella sua funzione di controllo”, l’invito all’unità “non esclude né la pluralità delle proposte, né il diritto al dissenso”. Benedetto chi dibatte, chi si oppone, chi critica, specie in stato d’emergenza (e specie in Parlamento): non si sa se loro sarà il regno dei cieli, ma intanto li ringraziamo ovunque siano, perché stanno salvando un pezzo di libertà non formali anche per quelli che non bisogna disturbare il manovratore (e ai quali, in definitiva, il dibattito dà fastidio pure senza emergenza).

Se il virus farà rinviare Tokyo 2020, Malagò&C. salveranno le poltrone

Il Coronavirus ha bloccato tornei e competizioni d’ogni tipo, solo le Olimpiadi resistono. Per ora: si moltiplicano le voci che chiedono un rinvio, gettando nello sconforto atleti, allenatori, organizzatori, tutti o quasi. Ciò che per il mondo dello sport sarebbe una catastrofe, per qualche capo dello sport italiano rappresenta un’occasione. Il buco normativo creato da un paio di statuti scritti con superficialità e una situazione senza precedenti, mette in dubbio le elezioni: lo sport italiano vota dopo i Giochi, ma se i Giochi non si fanno? Non si vota? Tutti i presidenti da Malagò in giù resterebbero in carica più a lungo.

È ancora presto ma pure Tokyo 2020 (24 luglio- 9 agosto) è a rischio. Si comincia a valutare alternative, fine agosto, ottobre, ma potrebbe non bastare. Perciò non si può escludere il rinvio al 2021 (ma ci sono troppi mondiali) o 2022, senza arrivare all’annullamento. Così il passaggio nello statuto Coni che regola l’elezione del presidente e a cascata degli altri rappresentanti, diventa cruciale: “Il consiglio è convocato entro il 31 dicembre dell’anno in cui si sono svolti i Giochi estivi”.

È sempre stato così e doveva esserlo anche nel 2020: le grandi manovre nelle Federazioni erano già cominciate. Un dubbio, un’opportunità si è però affacciata nella testa di qualche presidente, dei più preoccupati per la rielezione: “Fermi tutti, se per il Coronavirus non si fanno le Olimpiadi magari non si vota!”.

La questione è complessa. Lo statuto è chiaro per il Coni, meno per le Federazioni, per cui si parla solo di “quadriennio” (e non si è mai visto un quadriennio di 6 anni). Poi ci sono gli statuti federali, chi cita i Giochi, chi no. C’è pure una legge dello Stato, che taglia la testa al toro e indica 4 anni per tutti, però è una norma sul limite dei mandati. Il pasticcio resta. Con queste regole, per convocare le elezioni Malagò dovrebbe fare una forzatura, e non è uomo da forzature (specie su se stesso): chiederà un’interpretazione al Ministero.

Ma a beneficiarne non sarebbe tanto lui (confida di essere rieletto nel 2021 come nel 2022), quanto i presidenti che le urne preferirebbero evitarle. Dal calcio (dove l’elezione è un terno al lotto) all’atletica (unica ad avere un tetto di due mandati), dal ciclismo al basket al rugby, sono tanti gli sport in bilico dove gli attuali n.1 guadagnerebbero uno o due anni di mandato. Per questo nel caso servirà l’intervento del governo, che dovrà riallineare Coni e Federazioni, decidendo se e quando mandare tutti al voto.

Marzo senza lavoro: la Casta dona solo parte dello stipendio

C’è chi, come i medici, muore sul campo per tener fede al giuramento di Ippocrate e chi è precettato in fabbrica per il bene comune. Ma poi c’è pure chi, nonostante l’alto valore del suo ufficio (e gli stipendi stellari), di andare al fronte non ci pensa proprio: dopo giorni di dibattito su “voto a distanza sì, voto a distanza no”, il Parlamento rischia ora l’accusa di diserzione e di uscire con le ossa rotte dall’emergenza Coronavirus. Anche perché i due Matteo, Salvini e Renzi picchiano duro: esigono che Montecitorio e Palazzo Madama riaprano i battenti mentre i presidenti delle due Camere Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico si sgolano per dire che non si è mai chiuso seppure in una situazione difficilissima da gestire. Fatto sta che i Palazzi restano deserti a causa della paura che aleggia senza distinzioni, oltre che per le assenze dei pochi contagiati o in auto-quarantena. I lavori languono e al Senato il bilancio del mese di marzo è il seguente: l’aula si è riunita 4 volte (il 4, il 10, l’11 e il 18) per 13 ore in tutto. Alla Camera stessa solfa: aula convocata il 3, il 4, il 5, l’11 e il 18 per un totale di 17 ore complessive.

Al netto della polemica politica, che non rende merito a chi non si è mai sottratto (ad esempio i capigruppi che hanno garantito una presenza costante a Roma), la prossima settimana toccherà alle commissioni Bilancio riunirsi per iniziare l’esame del superdecreto sul Covid-19. Ma si procede a ranghi ridottissimi mentre vanno forti donazioni, liberalità, collette che però non servono a smorzare i toni di chi accusa gli inquilini dei Palazzi di lasciare naufragare la democrazia come un comandante Schettino qualunque.

A ogni modo, anche sulla solidarietà, che è sempre preziosa, ci si muove in ordine sparso: tanto per dire, è abortita sul nascere l’idea di promuovere una raccolta di fondi comune alla Camera perché i gruppi parlamentari erano già partiti con le loro iniziative che alleggeriranno le indennità di marzo, mese in cui si è lavorato a scartamento decisamente ridotto.

Giorgia Meloni ha deciso che i parlamentari di Fratelli d’Italia devolveranno l’intera indennità di marzo (che è solo una parte dello stipendio) per aderire alla campagna di raccolta fondi avviata dalla Fondazione An (che di suo ha stanziato un milione di euro) e dal Secolo d’Italia. Grazie al contributo anche degli assessori e dei consiglieri regionali del partito in meno di 24 ore sono stati raccolti 500mila euro che saranno destinati all’azienda sanitaria Papa Giovanni XXIII di Bergamo. La capogruppo al Senato di Forza Italia Anna Maria Bernini verserà il suo stipendio di marzo al Policlinico Sant’Orsola di Bologna, mentre la presidente dei deputati Mariastella Gelmini ha fatto una donazione alla “sua” Brescia. E gli altri eletti azzurri? Stanno pensando di aprire un conto corrente per raccogliere fondi, anche se difficilmente riusciranno a essere all’altezza di Silvio Berlusconi che ha donato 10 milioni di euro per la realizzazione dell’ospedale in zona Fiera affidata a Guido Bertolaso dopo il diniego della Protezione civile nazionale che ha fatto infuriare il governatore Attilio Fontana.

Anche la Lega ha deciso di mettere mano al portafogli bypassando il Dipartimento guidato da Angelo Borrelli: ogni parlamentare dovrebbe donare mille euro da destinare direttamente agli ospedali impegnati in prima linea nel contrasto all’emergenza.

Sul fronte della maggioranza Italia Viva sta organizzando una colletta tra i parlamentari impegnati ad aiutare le Regioni di appartenenza, come pure il Pd: gli eletti devolveranno almeno mille euro ciascuno alla Protezione civile, ma la segreteria di Nicola Zingaretti si è anche mobilitata per raccogliere donazioni a livello territoriale.

I parlamentari di LeU verseranno l’indennità mensile alla Protezione civile. Come i 5 Stelle, che hanno già destinato i 3 milioni delle restituzioni periodiche del Movimento al Dipartimento guidato da Borrelli e ora sono pronti a donare anche i mille euro che ogni mese ciascun eletto ha a disposizione per l’organizzazione di eventi sul territorio che ovviamente sono sospesi data l’emergenza.

Ipotesi pericolosa Solo la Bce può evitare il disastro

L’Europa ha cominciato molto male ad affrontare gli eventi legati all’epidemia. In maniera ipocrita la Commissione ha allentato i vincoli di bilancio (ora definitivamente sospesi), come se questi non sarebbero comunque saltati e la misura bastasse. Com’è noto, la possibilità per un governo di spendere in disavanzo dipende dai tassi di interesse che esso deve pagare sui debiti che contrae. I titoli tedeschi, considerati sicuri, pagano un tasso negativo. Invece, appena il governo italiano si azzarda a spendere troppo, i tassi che paga schizzano verso l’alto. In aggiunta, la presidente della Bce, Christine Lagarde, con un’improvvida, ma non casuale, dichiarazione aveva gettato benzina sul fuoco affermando che la Bce non era lì per frenare gli spread (il differenziale fra i nostri tassi e quelli tedeschi), cioè per aiutare l’Italia. Già allora si è palesato lo spettro del ricorso al Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Il messaggio dei falchi europei agli italiani era chiaro: spendete pure per tirarvi fuori dalla crisi, poi faremo i conti. Sull’orlo della bancarotta dovrete venire in ginocchio al capezzale del controverso fondo salva-Stati. Il Mes non ha risorse sufficienti per salvare l’Italia, ma una volta che un Paese vi ricorre, la Bce può intervenire comprando i suoi titoli pubblici. Ma il sostegno lo si paga caro, con il rischio di ristrutturazione del debito pubblico che ricade su banche e risparmiatori italiani. L’idea di fondo dei falchi Ue è che così l’Italia smetterà di costituire una mina vagante per la stabilità finanziaria dell’eurozona. L’aiuto del Mes è subordinato a un memorandum of understanding che pone sotto controllo le finanze pubbliche attraverso cure da cavallo, alla greca vien da dire, ma in realtà molto peggio perché dopo la crisi sanitaria saremo già moribondi.

Qualche mediazione della Merkel deve essere poi prevalsa, con un pensiero alla Francia che non se la sarebbe comunque passata bene, e a una deflagrazione dell’Italia e dell’euro. Sicché a metà settimana la Bce ha annunciato il dispiegamento del bazooka, un rafforzamento del piano di acquisti di titoli pubblici che porta il conto a oltre 1.000 miliardi. Forzando le regole, la Bce potrà sostenere di più i Paesi che, come l’Italia, sono sotto attacco. Poco, tanto? La permanenza di tassi di interesse su livelli ancora insostenibili per consentirci le necessarie politiche di spesa suggerisce che la misura della Bce sia insufficiente.

A sorpresa Conte ha espresso il desiderio italiano di ricorrere ai fondi Mes, purché non subordinati a condizioni capestro. Ma perché ricorrere al Mes quando c’è già l’intervento della Bce? I fautori vedono i prestiti dal Mes come una sorta di eurobond: il fondo salva-Stati emette titoli per noi a tassi molto più convenienti. Ma chi ci assicura che quando i crediti dovranno essere rinnovati non ci saranno imposte gravose, misure fiscali e la ristrutturazione del debito, e che dunque non ci stiamo mettendo nelle fauci del lupo? Perché i mercati dovrebbero sentirsi tranquillizzati?

Anche Ursula von der Leyen ha sostenuto l’emissione europea di “corona-bond”, eurobond per finanziare il nuovo debito col sostegno della Bce. Questo sì che potrebbe avviare una vera europeizzazione del debito in quanto esso apparirebbe come europeo e non nazionale. Gli eurobond sono anche migliori dell’acquisto di titoli nazionali da parte della Bce, misura pur sempre temporanea, e comunque ne completano l’azione a sostegno del debito preesistente. Qualcuno ha addirittura proposto di trasformare il Mes nell’organo tecnico d’emissione. Ma l’Olanda, che la Germania manda ipocritamente avanti, si è messa di traverso, per cui Conte deve aver pensato che questa strada è preclusa. E l’Italia ha molta più fretta della Germania. Ma solo gli eurobond, sostenuti dalla Bce, prefigurerebbero un principio di cambiamento strutturale della governance dell’eurozona senza cacciarci nella trappola del Mes.

Contro questa crisi va adoperata ogni arma disponibile

L’unico vantaggio di avere due crisi finanziarie nello stesso decennio in Europa è che oggi abbiamo gli strumenti per reagire: il fondo salva-Stati Mes (Meccanismo europeo di stabilità) è nato nel 2011 per gestire due emergenze potenziali: quella di un singolo Stato che non trova più finanziatori perché ha troppi debiti e quella di choc esterni che mettono a rischio le finanze di Stati altrimenti in buone condizioni. Siamo nel secondo scenario. Il fondo ha una capacità di intervento di 410 miliardi di euro: può emettere debito a basso costo, garantito da capitali versati dagli Stati membri inclusa l’Italia, e girarlo a chi ne ha bisogno.

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha lanciato una proposta che ora ha l’appoggio della Francia e di un gruppo di economisti europei, guidati dal tedesco Clemens Fuest, che ieri ha pubblicato un appello: il Mes dovrebbe emettere debito per conto di tutti i Paesi dell’eurozona e poi girarlo a ciascuno Stato membro secondo le proprie esigenze per fronteggiare i danni da virus.

Il fronte anti-euro, la Lega e una parte del Movimento 5 Stelle temono le condizionalità, impegni che i beneficiari dell’intervento del Mes devono firmare prima di ricevere i fondi ed evocano il caso Grecia. L’intervento in Grecia, va ricordato, è iniziato ad altre condizioni quando il Mes non c’era ancora e negli anni hanno usato il Mes anche Spagna, Cipro e Irlanda senza particolari impatti sociali negativi. Ma in questo caso non si tratterebbe di un salvataggio dell’Italia per i suoi conti fuori controllo, Conte chiede quindi l’assenza di condizionalità, altri economisti propongono che sia limitata all’uso delle risorse per contrastare l’emergenza (esempio: soldi per assumere nuovi medici o per sgravi fiscali temporanei di tasse, ma non per pensionamenti anticipati). Le nuove linee guida previste dalla riforma del Mes dello scorso dicembre dicono che può bastare una lettera di intenti, ma non sono in vigore perché bloccate proprio dal governo italiano, condizionato dal fronte euroscettico.

Dopo questa crisi, l’Italia avrà più debito: già oggi è al 135 per cento del Pil e, a differenza della Germania che ieri ha annunciato nuovo debito per 356 miliardi, l’Italia ha fatto salire l’indebitamento anche nelle fasi di espansione dell’economia, dunque ora ha poco margine d’azione. Il debito verso il Mes si aggiungerà a quello precedente. Se viene classificato come “senior”, privilegiato, renderà più rischioso e dunque costoso il debito normale. La soluzione è che il prestito Mes abbia scadenze molto lunghe – diciamo 50 anni – che di fatto ne escludono il rimborso.

Non basta la Bce, che comprerà titoli pubblici e privati per 750 miliardi? La Bce, per statuto, non modificabile in tempi brevi, non può finanziare direttamente gli Stati, ma solo comprare bond dalle banche che li hanno sottoscritti alle aste del Tesoro. Quindi può tenere basso il tasso di mercato condizionando la domanda, ma non imporlo (e genera effetti distorsivi sui prezzi di altri asset). Il ricorso al Mes – complementare e non sostitutivo – ha due vantaggi. Il primo è tecnico: se tutti i Paesi dell’euro chiedono l’intervento, tutti diventano beneficiari potenziali delle Omt della Bce, le operazioni di mercato aperto che sono gli acquisti illimitati di titoli mirati su un singolo Paese (cosa utile per l’Italia) e questo farà scendere i rendimenti senza neppure dover fare davvero gli acquisti. Poi c’è il lato politico: le obbligazioni del Mes sono l’unica forma di Eurobond possibile oggi, in assenza di un Tesoro europeo, usarli significa avere un approccio condiviso alla crisi.

Se invece manca il consenso politico per ricorrere al Mes e attivare le Omt della Bce, il mercato riceverà il messaggio che gli strumenti creati nel 2011 per fermare la crisi dell’euro erano un bluff. E la crisi finanziaria peggiorerà.