L’affare mascherine, i medici: “Parigi ci ha mentito”

La rabbia del personale ospedaliero esplode in Francia. Secondo i 600 medici del collettivo C19 il governo non ha preso le misure necessarie per far fronte all’epidemia di Covid-19 e mente sin dall’inizio. Dopo un primo ricorso al tribunale amministrativo il 4 marzo, i medici hanno sporto denuncia, il 19, contro il premier Edouard Philippe e contro Agnès Buzyn, l’ex ministra della Salute che seguiva la crisi sanitaria prima di candidarsi a sindaco di Parigi. Iniziativa depositata presso la Corte di Giustizia, il solo tribunale in Francia che giudica i membri del governo per fatti legati alle loro funzioni. La recente rivelazione a Le Monde della stessa Buzyn, che ha accusato il governo di aver ignorato il suo allarme sull’epidemia a fine gennaio, per i medici è solo una conferma: si è di fronte a una “menzogna di Stato”. Dall’inizio della crisi il governo sostiene che non serve mettere la mascherina se si è asintomatici. Un discorso che, per molti, nasconde la realtà: a inizio crisi la Francia contava in stock solo 117 milioni di mascherine. Erano un miliardo nel 2010, fa notare la stampa francese. Pare che un cambio di politica sia seguito a un episodio del 2009 quando una pandemia di influenza A spinse l’allora ministra Bachelot ad acquistare 95 milioni di dosi di vaccini, mai usate. Si denunciò lo spreco. Ieri il nuovo ministro della Sanità, Olivier Véran, ha annunciato ordini per 250 milioni di mascherine. C’è poi la questione dei tamponi. Il governo difende la sua strategia “razionale” di testare solo chi presenta sintomi gravi. Ma mente ancora, sostengono i medici: “Per testare in massa la popolazione, come raccomanda l’Oms, il governo avrebbe dovuto acquistare grandi quantità di test sin da gennaio”. Ma non lo ha fatto. Anche Jean-François Delfraissy, presidente della Commissione scientifica che consiglia il governo, ha ammesso che per ora non è possibile effettuare più 5 mila o massimo 8 mila test al giorno in Francia perché “mancano prodotti che arrivano da Cina e Stati Uniti”. Test di massa saranno effettuati a fine confinement, le misure di divieto di circolazione. La Francia conta 14.459 contagi e 562 morti.

Usa WP: “Il presidente sapeva del pericolo”

Trump annuncia un farmaco miracoloso, mentre gli Stati agiscono in ordine sparso

Negli Stati Uniti, il coronavirus ha già fatto almeno 266 vittime, mentre i positivi hanno superato i 21 mila. Lo Stato di New York, che ha superato quota 10 mila positivi, registra oltre la metà dei casi; la Grande Mela ne ha 5.683, ma con “appena” 43 morti, molto meno del rapporto nazionale positivi /deceduti. Ai dati inquietanti sulla rapidissima avanzata del contagio nell’Unione, il presidente Donald Trump continua a replicare alternando ottimismo e provocazioni: “Celebreremo presto la vittoria su questo nemico invisibile”, assicura in conferenza stampa, chiamando di nuovo il Covid-19 “virus cinese”. L’atteggiamento di sfida a Pechino è avallato e incoraggiato dalla stampa di destra: il Daily Signal, della Heritage Foundation, dice che il Covid-19 è “una maledizione lanciata dai cinesi sul mondo”. Su Twitter, il magnate presidente alimenta speranze in trattamenti farmaceutici che sarebbero efficaci contro il Coronavirus: l’idrossiclorochina (un anti malaria, ndr) e l’azitromicina (un antibiotico usato contro la polmonite batterica, ndr) “presi insieme – scrive – hanno una chance reale di essere una delle più grandi svolte nella storia della medicina”. Non ci sono però studi che ne abbiano dimostrato la sicurezza e l’efficacia; e la Food and Drug Administration non s’è ancora pronunciata. Dopo Trump, anche il suo vice Mike Pence, ha fatto il tampone: un suo collaboratore è risultato positivo. La risposta al contagio nell’Unione resta a macchia di leopardo: New York, la California e altri Stati ricorrono a misure di tipo “italiano”; altri sono lassisti come il presidente. Che, fin da gennaio, secondo il Washington Post, avrebbe ricevuto a più riprese rapporti classificati dell’intelligence che lo avvertivano della pericolosità del Coronavirus. I rapporti non dicevano quando poteva arrivare negli Usa ma ne tracciavano la diffusione, ammonendo Pechino che pareva ridimensionare la gravità dell’epidemia. Economicamente, il contagio disarma il presidente candidato: venerdì, Wall Street ha chiuso sotto i livelli del 20 gennaio 2017, giorno dell’insediamento del tycoon alla Casa Bianca. L’indice Dow Jones ha cancellato il “Trump bump”, perdendo circa il 35%. Le previsioni non sono positive, malgrado gli interventi fiscali.

 

Russia I ricchi si ricoverano in casa

L’ultima moda degli oligarchi: comprare ventilatori polmonari per evitare l’ospedale pubblico

A Mosca la clinica, gli oligarchi, se la fanno in casa. L’ultima tendenza è quella di acquistare ventilatori polmonari per evitare il ricovero in ospedali pubblici, in caso di infezione da Covid-19. La storia è stata raccontata dal Moscow Times che ha proposto alcune testimonianze: “Siamo riusciti a ottenere un ventilatore polmonare e stiamo cercando di averne altri due, ma c’è una lista d’attesa di otto mesi”, ha raccontato un esponente di una ricca famiglia russa. L’apparecchio costa circa 22.500 dollari. Secondo il quotidiano, negli ospedali statali ci sono circa 42-43.000 ventilatori polmonari, con una media di 29 macchine ogni 100.000 abitanti, “più degli otto ventilatori ogni 100.000 abitanti dell’Italia”. Ma questa è la situazione in metropoli come Mosca e San Pietroburgo; fonti mediche indicano che in alcune regioni della Russia ci sono sei ventilatori ogni 100.000 persone e molti di loro “sono vecchi e di scarsa qualità”. La testata online Meduza scrive che nella regione di Kaluga ci sono solo cinque ventilatori per 100.000 abitanti. I dati: ieri sono stati registrati altri 53 casi in 18 regioni, il totale è 306. A Mosca il vicesindaco Bochkare ha confermato che a 40 chilometri dalla Capitale è in costruzione un centro per 500 malati; dovrebbe essere pronto fra un mese.

 

Spagna Ormai oltre 1.300 i morti

Madrid corre ai ripari: test rapidi, hotel aperti per i casi meno gravi e 20 mila operatori richiamati

Madrid è al limite: con il 41 per cento dei contagiati da Coronavirus più di ieri – 25 mila è il dato dei malati di ieri – che finisce in terapia intensiva, i maggiori ospedali della Capitale spagnola, epicentro con la metà dei casi nazionali, già ospitano pazienti per un numero doppio rispetto alle proprie capacità. I morti salgono a 1.326, più di 300 nelle scorse 24 ore. Numeri e immagini, quelli raccontati dai quotidiani spagnoli che in Italia abbiamo visto solo un paio di giorni fa, con andamento della letalità leggermente inferiore alla nostra, ma con percentuali di contagio che vanno di pari passo. Così, oltre alle misure restrittive e l’esercito in strada a vigilare che vengano applicate (le multe nei primi tre giorni sono state 30 mila e i fermati 350), il ministero della Salute spagnolo ha reso operativo il primo ospedale da campo alla periferia di Madrid (5.500 posti letto) e ha aperto i primi hotel per i pazienti con sintomi non gravi. Quanto ai materiali sanitari, “il mercato è aggressivo per eccesso di domanda”, ha chiarito in conferenza stampa la portavoce della Commissione d’emergenza del ministero della Salute, ma sono già stati fatti ordini per 8 milioni di mascherine, il cui confezionamento si sta implementando in quattro fabbriche spagnole. Sul fronte test, il ministero ha fatto sapere che finora si stanno effettuando tra le 15 mila e le 20 prove quotidiane, ma che grazie ai nuovi test rapidi in arrivo, che permettono di avere risultati nel giro di 15 minuti, si spera di valutare fino a 80 mila casi al giorno. Chiamati a intervenire anche i medici appena formati: 7 mila giovani in tutto che si sommeranno al personale medico in pensione richiamato in servizio, in tutto 15 mila operatori nonché laureandi tra infermieri e medici. “Questo per non mandare in sofferenza gli ospedali e poter continuare a curare anche i pazienti non Covid-19”, hanno spiegato dal ministero. Non mancano le polemiche, soprattutto dei governatori: Madrid e Barcellona incrementano le restrizioni del governo socialista di Pedro Sanchez, mentre i Paesi Baschi criticano la linea dell’esecutivo che lascia “troppa libertà d’azione alle regioni”. Nota positiva: il Commissario, Fernando Simón, non presente in conferenza per sintomi lievi di Covid-19 è risultato negativo.

Haftar prima lancia razzi su Tripoli, poi accetta la tregua

Donne uccise, bambini e civili feriti: sussulti di guerra a Tripoli e nei sobborghi della Capitale ci rammentano che la situazione in Libia non è ‘normalizzata’ e che la tregua è fragile e spesso rotta. Il generale Khalifa Haftar (nella foto) approfitta della disattenzione del mondo, concentrato sull’emergenza coronavirus, per accentuare la pressione delle sue forze sul capo del governo riconosciuto dalla comunità internazionale, Hafez al-Serraj. Tra venerdì e sabato, tre razzi sparati dalle milizie di Haftar hanno colpito il centro storico di Tripoli ferendo “una donna e una bambina”, dicono il sito Libya Observer e l’account Facebook di ‘Vulcano in collera’, l’operazione di difesa della capitale. Giovedì, un bombardamento attribuito alle milizie di Haftar aveva ucciso cinque donne e fatto numerosi feriti. Razzi e obici erano caduti sui quartieri di Ain Zara e bab Ben Ghachir. L’attacco dell’altra notte, secondo fonti di Tripoli, è il primo sul centro storico, dove vi sono edifici d’epoca romana e ottomana. Il bombardamento della ‘città vecchia’ è un’ennesima violazione del cessate-il-fuoco: le milizie di Haftar continuano a “prendere di mira di civili, scuole e istituzioni”, dicono le fonti di al-Serraj, mentre il percorso politico e diplomatico tratteggiato due mesi or sono alla conferenza di Berlino non fa passi avanti. C’è stata un’iniziativa di ‘tregua umanitaria’ del premier al-Sarraj per l’emergenza coronavirus – in quarantena lo stesso portavoce del generale Haftar, Ahmed al-Mismari –, propugnata sia dalla missione di sostegno dell’Onu sia dagli Usa. Una nota del Dipartimento di Stato invita i leader libici a “dare priorità alla salute del popolo libico, sospendere le operazioni militari, respingere le interferenze straniere”. Ieri sera, finalmente, anche il comando dell’Esercito nazionale libico di Haftar ha fatto sapere che si “impegna a cessare i combattimenti”. Quanto durerà?

Salmond, l’ex primo ministro che rischia la fine di Weinstein

Storia della caduta di un simbolo, di un potente in disgrazia, di 9 presunte vittime di abusi sessuali e di un processo che scuote la politica scozzese. L’ex potente è Alex Salmond, 65 anni, già leader dello Scottish National Party, il partito indipendentista scozzese che proprio sotto la sua guida è arrivato dai margini politici al governo del Paese. Primo ministro scozzese dal 2007 al 2014, è il motore decisivo del referendum per l’indipendenza di Edimburgo da Londra del 2014, che si conclude con la netta vittoria del No, ma rompe un tabù. Pur non essendo più parlamentare, né a Holyrood né a Westminster, Salmond è ancora una figura influente del panorama politico scozzese e continua a battersi per la causa dell’indipendenza. Fuori dalla prima linea della politica, non riesce però a stare lontano dai riflettori: nel 2017 accetta di condurre l’Alex Salmond Show, un programma di interviste in onda su RT, il canale considerato da molti “uno strumento di propaganda del Cremlino”.

Salmond difende la sua scelta, ma il suo nome ne esce macchiato e poco dopo il simbolo si sporca definitivamente. Agosto 2018. In pieno #metoo viene accusato di condotte sessuali inappropriate commesse, secondo le sue accusatrici, fra il 2008 e il 2013, quando era primo ministro scozzese. Lui si dimette dal partito: promette di tornare una volta dimostrata la propria innocenza. Gli credono in molti: lancia una raccolta di fondi per pagare le spese legali e in due giorni ottiene 100 mila sterline. Il 24 gennaio 2019 viene arrestato: 14 i capi di imputazione, poi ridotti a 13, fra cui tentato stupro, violenza sessuale e abuso sessuale.

Quel giorno affronta la stampa e dichiara: “Respingo categoricamente queste accuse e mi difenderò con tutte le mie forze in tribunale. Ho completa fiducia nella giustizia scozzese”. Refrain molto sentito, per colpevoli e innocenti. Il processo è iniziato il 9 marzo e ieri, dopo due settimane di udienze, la giuria è stata mandata a casa per il fine settimana; nove donne e sei uomini chiamati a valutare caso per caso, con l’opzione di indicare, per ognuno dei presunti reati, tre esiti: colpevole, innocente, insufficienza di prove. In questi giorni l’ex premier ha testimoniato, accompagnato in una occasione anche dalla moglie Moira, 82 anni, sposata nel 1970, quando lei era il suo capo negli uffici del Dipartimento per gli Affari scozzesi a Londra. Moira era a fianco del marito nell’aula dell’Alta corte di Edimburgo quando l’avvocato dell’accusa Alex Prentice ha definito Salmond “un predatore sessuale, un uomo potente che ha abusato di quel potere per soddisfare i suoi appetiti sessuali pensando di farla franca”.

Ma non tutte le accuse sembrano reggere. Secondo una testimone, una delle vittime non era fisicamente presente alla cena in cui sarebbe avvenuta la presunta violenza. In un’altra occasione, in cui Salmond è accusato di aver tentato di baciare una collaboratrice, lui si è difeso così: “Doveva essere un bacio della buona notte sulla guancia che per errore è finito sulla bocca. Eravamo completamente vestiti. Lei ha detto: ‘Non è una buona idea’. Io: ‘Si, una pessima idea’: e mi ha augurato la buona notte”. In un altro caso, Salmond ha ammesso di aver toccato e baciato la sua accusatrice ma ha parlato di incontro consensuale non sfociato in un rapporto. La linea ufficiale della difesa parla di esagerazioni, malintesi o fabbricazioni politicamente motivate.

In aula Salmond ha concluso con forza: “Non ho mai, in tutta la mia vita, avuto relazioni sessuali non consensuali. Con il senno di poi, vorrei essere stato più cauto nei rispettare lo spazio personale degli altri, ma non ho mai avuto cattive intenzioni”.

Sono circostanze difficili da ricostruire e accuse difficili da provare. E sul processo pesa un precedente non direttamente correlato ma rilevante: ad agosto 2019 Salmond ha ottenuto un risarcimento di oltre mezzo milione di sterline dal governo scozzese, riconosciuto colpevole di aver commesso errori e pregiudizi nell’ inchiesta interna sui presunti abusi. La sentenza, non scontata, potrebbe arrivare già lunedì.

“Sordi? Un maestro di vita. A Fellini mancava la famiglia. E un vaffa alla Wertmüller”

C’è un filo, a volte sottile, altre sottilissimo, spesso quasi invisibile, che lega Satyricon a Poveri ma belli, Cleopatra a Ricotta, Ugo Tognazzi a Totò, Anna Magnani a Claudia Cardinale, John Huston a Cinecittà, le osterie al cestino della pausa pranzo. Alberto Sordi a tutto e al contrario di tutto. Questo filo si chiama Antonio Spoletini, 83 anni da pochi giorni, fisico importante così come il carattere imperioso: alle domande non risponde subito, prima interroga (“lo conosce questo film? E questo attore?”) per capire se l’interlocutore è preparato e attento. Altrimenti si scoccia.

Lui è un mattone e più di Cinecittà, della fabbrica dei sogni, e dal 1948, giorno del suo esordio: da allora ha ricoperto tutti i ruoli possibili, da comparsa ad aiuto del regista, fino a gestire il “contorno” della pellicola stessa (generici, organizzazione del set, gestione attori). E ancora oggi è sul campo (“mi piace”), tanto da diventare il protagonista di un bel documentario, Nessun nome nei titoli di coda: al centro l’amicizia con Fellini.

Il suo esordio…

La prima volta davanti a una macchina da presa? È stato per un piccolissimo ruolo, e nel 1948, per un film girato nei capannoni di Goffredo Lombardo (fondatore della Titanus). Mi coinvolse mio fratello più grande.

La sua famiglia già lavorava nel cinema.

Noi eravamo cinque maschi, e i due, più grandi, venivano coinvolti per qualche piccola parte, delle comparsate come in Poveri ma belli: sono nella scena in cui insidiano le fidanzate di Maurizio Arena e Renato Salvatori, all’interno di uno stabilimento balneare sul Tevere.

Il fiume balneabile.

E lo era: noi ragazzi cresciuti a Trastevere ci andavamo normalmente, per noi tuffarci era normale, così come era normale avere uno stabilimento di riferimento.

E lei con il cinema?

Ci ho provato per vari anni: provini, provini e ancora provini, poi all’ultimo accedeva qualcosa e saltava il ruolo importante; però all’inizio ho partecipato pure a I soliti ignoti, in teoria dovevo prendere il posto di Renato Salvatori; poi appaio in Cleopatra e lì sono stati costretti a darmi del fondotinta perché ero troppo abbronzato, volevano mandarmi via “questo è un negretto”.

Poi?

Con Jules Dassin ho partecipato ai provini di La legge: era in Italia perché espulso dagli Stati Uniti durante il periodo maccartista, con l’accusa di filo comunismo…

E…

Era andata bene, le scene provate con Claudia Cardinale funzionavano, ma alla fine hanno cambiato la storia e l’età dei protagonisti, così hanno scelto Gina Lollobrigida e Yves Montand.

Un suo punto di riferimento?

Alberto Sordi. Ci siamo conosciuti nel 1960, e con lui, nel 1970, sono arrivato al ruolo di assistente alla regia per Il presidente del Borgorosso Football Club, e l’ho seguito fino agli ultimi suoi lavori; lui era un grande, da lui e con lui ho capito tante sfumature della vita privata e professionale.

Un vero maestro…

Per Borgorosso abbiamo girato alcune scene in una casa-famiglia romagnola, tre giorni di riprese; prima di finire Alberto mi chiama: “Attenzione, a chi lavora gli vanno retribuite diecimila lire al giorno”. E io: “Va bene, do il totale al parroco, poi ci pensa lui”. “No, a loro. In mano. Vedrai cosa accadrà”.

Cosa è successo?

Ho eseguito le indicazioni: li ho chiamati uno a uno, e ogni volta, all’improvviso, vedevo i loro sguardi mutare, e non era per i soldi, non ne avevano bisogno, erano dei benestanti, ma tutti mi esprimevano gratitudine perché si erano sentiti utili; Alberto è un po’ cambiato alla fine.

Gli ultimi film non sono capolavori.

C’era malinconia in sottofondo, come in Nestore l’ultima corsa: la metafora del cavallo anziano era legata alla sua condizione; secondo lui nella vita potevi essere stato chiunque, ma alla fine le persone ti buttano nel cesto della mondezza.

Donnaiolo?

Si faceva i fatti propri, era riservato; mi ricordava sempre: “Diffida da chi pubblicizza la propria beneficenza: se regalano un milione faranno in modo di recuperarne dieci, mentre c’è chi dona senza il bisogno di gridarlo”.

Come lui.

L’ho scoperto anni dopo, nessuno immaginava nulla. Alberto era speciale.

È celebre anche per la sua fissazione rispetto al “cestino” del pranzo.

(Sorride) Fino agli ultimi anni Settanta, primi Ottanta, c’era la differenza tra generici e comparse; su 100 persone, 30 erano generici e 70 le comparse, e con un differente trattamento; un giorno Frank Sinatra si accorge che durante la pausa pranzo c’era chi mangiava e chi no, a chi era concesso un vassoio e chi era costretto a portarselo da casa.

Quindi?

Smise di girare, prese l’elicottero direzione Appia Antica, e si chiuse nella villa dove viveva. “Torno quando mangeranno tutti”. Da allora i cestini li hanno presi pure le comparse; mentre è diverso quando si gira in un teatro di posa (come quello di Fellini): lì si organizzano le cucine, altrimenti gli attori sparivano per cercare un piatto caldo, magari finivano dentro le osterie e allora la pausa non terminava più.

Quanti film ha girato?

Non tanti, dagli anni Sessanta sono dedito all’assistenza del regista…

Con chi si è trovato meglio?

Non ce n’è uno in particolare, con ognuno ho un ricordo, e davo del “tu” a tutti, compresi Fellini, Sordi e Monicelli; anzi proprio Alberto m’insegnò un trucchetto: “Anto’, a seconda di come ti chiamano, tu rispondi; se Agnelli ti si rivolge con ‘Antonio’, allora lui è ‘Gianni’; se sei il ‘signor Spoletini’, lui diventa ‘signor Agnelli’”.

C’è un ma…

Solo con due persone non ci sono riuscito: Anna Magnani e Totò.

Come mai la Magnani?

Per me era ed è il massimo del cinema; una donna schietta, romana, una che non si nascondeva mai, e magari ti diceva in faccia “lassa perde, questo lavoro non è per te: chi ti ci ha messo?”. Insomma, con lei certi confini non era semplice passarli.

E Totò?

In lui ho riscontrato una bontà, un’umiltà mai vista e soprattutto silenziosa: aiutava quante più persone poteva, in continuazione, un po’ come Mario Merola; un giorno ero sul set de Gli onorevoli, e a metà giornata arriva un signore anziano e mi consegna una poesia; vado dal principe, che mi risponde “Oramai vedo poco, non posso. Chiama Cafiero (il suo storico autista)”. Obbedisco. Arriva, gli parla all’orecchio, Cafiero va, torna e mi consegna 10mila lire. “Dalle al signore”. Per quegli anni era una cifra molto alta.

Con chi non si è trovato o ha discusso?

Il problema è che sono sempre stato uno al quale je rodeva il sederino, e mio fratello mi ha insegnato una regola aurea: “Devi discutere solo a lavoro concluso”; l’unica persona con la quale non ho retto è Lina Wertmüller: a lei il vaffa mi è scappato durante le riprese di Mimì metallurgico.

Come mai?

Caratterino, il suo (cambia discorso). Ho lavorato con Ozptek.

Dove?

A Le fate ignoranti, e l’ho pizzicato.

In cosa?

Leggo tutti i copioni dei film dove ho partecipato, e mentre iniziavano le riprese, sono andato da lui: “Scusa Ferzan, ma io questo film l’ho già girato, la storia la conosco, ricorda una pellicola di Vittorio Caprioli, Splendori e miserie di Madame Royale”. Ha sorriso.

In “Splendori e miserie” c’è Tognazzi, suo amico.

Con Ugo ho lavorato varie volte, come in Ro.Go.Pa.G., film del 1963 diviso in quattro episodi e girati da Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti; sul set c’era pure il figlio, Ricky, un rompipalle clamoroso, da calci nel sedere; (sorride) poi siamo diventati amici.

Quindi ha partecipato a produzioni straniere.

Sono stato l’assistente di John Huston per Lettera al Kremlino e le riprese sono durate 16 settimane…

Conosce l’inglese?

Io? Ma se a stento mi affido all’italiano; no, Huston parlava la nostra lingua. E mi mandava a prendere tutti gli attori: lì il problema quotidiano si chiamava Richard Boone, che arrivava e sbiascicava per quanto era ubriaco.

Sempre?

Sì, così lo trasportavo in camerino, passava un’ora ed era un’altra persona.

Usava la cocaina.

Credo di no; comunque qualche giorno dopo parlo con Huston che mi chiede della giornata, poi all’improvviso arriva un signorone, mi dà una pacca sulla spalla e mi saluta: “Ciao Antò”. Era Orson Welles. Ci ho lavorato in Ricotta di Pasolini. Huston stupito: “Conosci tutti?”.

Come è andata con Pasolini?

Con i miei fratelli ho lavorato in quasi tutti i suoi film: ne Il Vangelo secondo Matteo ho un piccolo ruolo da centurione, ed era uno che emanava fascino anche quando non te lo aspettavi, era capace di polarizzare l’attenzione; (attimo di pausa) però chi mi manca è Federico.

Intende Fellini…

Nel 1963 mi ero stancato dei troppi “no”, così avevo mollato il cinema, e trovato un impiego da facchino al mattatoio. Tre anni e mezzo. Fino a quando mio fratello mi ha chiamato per La Ragazza di Bube, poi ho continuato con Barbarella e Jane Fonda protagonista (si ferma, sospira velocemente) avrei altre cose da raccontare, in quel periodo ero un bel tipo.

Love story con la Fonda?

Alcune situazioni non si possono raccontare; (altra pausa) dopo Barbarella è arrivato Il segreto di Santa Vittoria, e soprattutto Satyricon ; da lì sono tornato definitivamente sui set.

Amava i film di Fellini?

In realtà, dopo la proiezione di Satyricon, fuori dal cinema Federico mi convoca da parte: “Che ne pensi?”. “Te devo di’ la verità? Non ci ho capito nulla”. Per me lui era il regista dei Vitelloni, de La strada, lavori con un inizio e una fine, mentre Satyricon mi appariva un mosaico.

E lui?

Con calma ha iniziato a interrogarmi scena per scena, a guidare il mio ragionamento, e alla fine ho capito.

Fellini timido?

No, gli mancava un po’ la famiglia, delle radici, ed era colpito dall’unione mia con i fratelli tanto da volerci tutti e cinque in Roma.

Chi sono le comparse e i generici?

Fino agli anni Ottanta si giravano 370 film all’anno, e quello della comparsa era un lavoro, sono nate famiglie, generazioni, per non parlare dei macchinisti, degli elettricisti: il cinema era la seconda industria in Italia; oggi non è più possibile, è solo un impiego saltuario e i film vengono proiettati in sale piccole e poi vanno direttamente in tv.

C’è grossa differenza.

Enorme, e non solo qualitativa, anche pratica: i capolavori di Sergio Leone erano pensati per schermi enormi, e quei metri andavano riempiti; adesso con schermi molto più piccoli c’è anche minore necessità di comparse.

E lei?

Io vado avanti. Proseguo. Il cinema è la mia vita, mi diverte e non ne posso fare a meno.

@A_Ferrucci

Era un pantagruelico, leggerlo significava non sentirsi soli

Gianni Mura era un talento puro e la sua idea di andarsene ieri a 75 anni è una delle poche che non mi è piaciuta. I suoi racconti dal Tour de France resteranno vette rare, e non solo quelli. Gianni aveva cuore, talento, ego, spigoli, genio e generosità. Per molti era “l’unico erede di Brera”. Lo pensava anche lo stesso Brera. Mura ne parlava con quell’affettuosa deferenza con cui si parla dei maestri. Eppure ho sempre pensato a Gianni (Mura) come solo e soltanto a Gianni (Mura): aveva il suo stile, la sua musica. La sua utopia. Per chi ha amato la letteratura sportiva, e per chi ha creduto anche in tempi non sospetti che lo sport potesse essere epica, Gianni è stato un amico. Un faro. Un compagno di strada e di sogni.

Due o tre vite fa ho avuto la fortuna frequentarlo. Mi telefonò un giorno d’autunno del 2003 e mi disse a bruciapelo: “Ho deciso di assegnarti il Premio Sporterme, perché sei il giornalista under 30 più bravo d’Italia”.

Fu uno dei giorni più belli della mia vita, perché se me lo diceva lui allora forse un po’ era vero. Dopo la cerimonia a Bagno di Romagna, facemmo le sei del mattino a bere con Bruno Pizzul, Giovanni Galeone e altri pazzi. Fu una sorta di iniziazione per me e la mia ex moglie: o ricevevi (anzitutto da Gianni) la qualifica di “uno che sa reggere bene il vino”, o alla sua corte anarchico-etilica neanche potevi avvicinarti. Con lui, quando tutto funzionava, erano ore perfette. Le cene infinite – negli slowfood che tiravano tardissimo a Milano, alle “Maschere” di Sarsina, “Da Maurizio” a Cravanzana in alta Langa – con sua moglie Paola, Luigi Bolognini, Gigi Garanzini, il vignaiolo Flavio Roddolo e chi aveva la fortuna di esserci; la sua prefazione al mio Canto del cigno, nella quale mi rimproverava di innamorarmi sempre della “bellezza fredda” (Van Basten, Edberg, Fossati); i tanti consigli enogastronomici; le nottate al Club Tenco. Gianni era un pantagruelico per Dna e per vocazione: un vorace prodigioso di cibo, vino e aneddoti. Risate, giochi di parole (adorava gli anagrammi) e vita vissuta. Incontrarlo, soprattutto se eri a inizio corsa, significava ritrovarsi nel bel mezzo del paese dei balocchi. Provò anche ad aiutarmi a entrare in giornali “importanti”, e questo – in un settore di iene sceme & dinosauri efferati – era una rarità. Infatti posso dirlo solo di Marco (Travaglio), Antonio (Padellaro), Edmondo (Berselli). E di Gianni. Poi, senza mai litigare, ci siamo persi di vista: la vita lo fa spesso. Anni fa mi raccontarono che Gianni si dispiaceva molto che fossi passato al Fatto: non era un giornale che amava. Non ho mai voluto indagare oltre: per me non cambiava niente. Maestro era stato e maestro sarebbe stato.

Ora che non c’è più, lascia il vuoto che lasciano le anime salve. Leggerlo – in tivù no: mai andato granché d’accordo – significava anzitutto non sentirsi soli. Gianni era l’amico che ti raccontava quello che credevi di sapere già, solo che lui te lo raccontava molto meglio. Aveva lo sguardo buono dei burberi incazzosi, il nichilismo di chi al morire sani preferisce vivere malati e la penna di chi sapeva scorgere tracce vive di Pantadattilo negli scatti ascetici di Marco Pantani. È stato un gigante. Lo resterà.

Gianni Mura, l’amico speciale giocoliere di parole (e di storie)

Un infarto ha ucciso ieri mattina l’amico geniale (e burbero) Gianni Mura, talento purissimo del nostro giornalismo. Aveva 74 anni. Ha scritto bellissime pagine di sport. E di tanto altro. Stava a Senigallia dove si trovava in convalescenza, reduce da una polmonite, ospite di una collega. Lì per lì ho pensato a una fake news. Un omonimo, ho sperato. Ho associato in automatico la notizia al coronavirus, ma stavolta il Covid-19 si è rivelato innocente: la conferma mi ha lasciato sgomento. Senza parole. Appunto, parole: “L’opera”. “Le apro”. “E parlo”… gli anagrammi sono misteri gaudiosi, ci disse una volta Gianni scodellando con perizia da biscazziere i dadi da poker coi quali, assieme a Enrico Bonerandi, Guido Passalacqua e Fabrizio Ravelli, giocavamo alternando agonismo ludico e battute sferzanti, su nella sua stanzetta al quarto piano di via De Alessandri, dove si trovava la redazione milanese di Repubblica. “I giochi di parole”, ci diceva, non finiscono mai, “bisogna aver fogli”. Spostando una sillaba o una vocale però diventava un’altra plausibile frase: “I giochi di prole, bisogna aver figli” e come potevi non ammirare le acrobatiche doti lessicali (“Lessico e nuvole”…). Pochi giorni fa aveva rassicurato gli amici, tranquilli, sto bene qua a Senigallia, ho ancora una buona scorta di Settimane Enigmistiche, non a caso la fulminante rubrica quotidiana “Spassaparola” era la più letta di Repubblica. Ieri c’era questa: “Fascia: tagliente striscia di tessuto”. Piccoli capolavori d’arguzia e di cultura.

Qualità che Mura disseminava a ogni riga e a ogni convivio. Che scrivesse di calcio o di Tour de France, che concionasse di cibi e vini, che intervistasse un vecchio campione o che stigmatizzasse il razzismo nel calcio o l’imbecillità “senza confini” (“ma la gente perbene è di più”). Odiava sprecare aggettivi: “Ci vogliono. Precisi, non aggiunti a capocchia”. Detestava i punti e virgola, preferiva i punti alle virgole. Il ritmo. Nella rubrica settimanale “sette giorni di cattivi pensieri” chiudeva sempre coi versi di poesie o di canzoni. Amava la musica nelle parole e le parole della musica. Per chissà quale misterioso intreccio del destino, Mura è morto nel giorno dedicato alla poesia, sebbene l’idea di ingabbiare la poesia per decreto lo irritava, ogni giorno è giorno per la poesia. Che è pure il giorno in cui sono nati Alda Merini e Luigi Tenco.

Gianni sapeva a memoria i testi dei grandi cantautori: Tenco, appunto, Fabrizio De André, Paolo Conte, Enzo Jannacci (ma anche Sergio Endrigo). E George Brassens. E Jacques Brel, “avec la mer du Nord pour dernier terrain vague…”, citava spesso l’inizio del Plat pays: gli rammentava le atmosfere stoiche e antiche delle “classiche” del Nord come la Roubaix, fango, sudore e polvere, il pavé di un ciclismo di memoria più che di cronaca.

Eppure, un cruccio lo tormentava. Il ciclismo celava maschere inquietanti, e opachi successi: “La fatica in sella resta sempre sconcia, la salita non si negozia mai se non con il sacrificio”, mi disse un giorno al Tour del 2015, “ma mi sono sentito tradito da Lance Armstrong”, dal suo doping. L’eroe che aveva celebrato era un bugiardo. Un malandrino: “Racconto quel che vedo, non so se quel che vedo è quel che credo di aver visto”. Restava aggrappato alla France del Tour de France, all’anima profondamente popolare del ciclismo. Fu addolorato per la recente scomparsa di Raymond Poulidor, l’eterno secondo della Grande Boucle. Scriveva, Gianni, al ritmo di una tastiera pensionata, quella dell’Olivetti 32, e l’anacronistico ticchettìo si spandeva in sala stampa, poi, purtroppo, fu costretto alla resa. Il sistema editoriale gli impose il portatile, col quale litigava. Il nostro è un mestiere pieno di insidie e di trappole. Tanti anni fa – in fondo ci conoscevamo da solo mezzo secolo – ci trovammo ai Giochi di Seul in un ascensore assieme a Florence Griffith, che aveva demolito il record dei 100 metri, e con Carl Lewis. Dovevamo arrivare in cima, a Casa Italia. Lewis faceva strane smorfie con le labbra, verso Gianni: “Leo, se continua a fare il cascamorto, lo strangolo”, mi disse in un soffio, “sarà pure il figlio del vento, ma con me non ha un glande potere…”. Gioco di consonanti…

Qualche tempo fa, per una commemorazione di Gianni Brera, ci ritrovammo a San Zenone Po, ospiti di una paciada, una “scorpacciata” di prodotti enogastronomici locali. Lo trovai dimagrito: “Ho perso ventidue chili, sono a dieta, ordini del medico”. Doveva essere una dieta tollerante, perché non rinunciò ad affettati e risotti, né a trincare buoni rossi dell’Oltrepò: “Tanti salumi a tutti”, disse sornione, congedandosi.

Che la terra ti sia lieve, adesso finisci pure il tuo pacchetto di Gitane, quello che tieni sempre di riserva (Bonerandi ricorda invece le stecche di Ms).

Autonomia indifferenziata

La curva dei contagiati e dei morti sembra salire un po’ meno ovunque fuorché nella Lombardia, che da sola ha superato quelli di tutta la Cina. Ilaria Capua ipotizza che la “sanità modello” lombarda non solo abbia diffuso il virus, ma l’abbia financo moltiplicato tramite le condotte di aerazione contaminate di ospedali pubblici vetusti (intanto i soldi andavano alla sanità privata). Massimo Galli del Sacco conferma ciò che disse Conte quando, senza incolpare medici e infermieri, notò che qualcosa all’ospedale di Codogno non aveva funzionato, e ci aggiunge quello di Alzano Lombardo: “Hanno amplificato la malattia, si aspettava qualcuno che poteva arrivare dalla Cina e intanto il virus ha circolato libero per quattro settimane prima che ci si accorgesse di lui”. Le partite di calcio, l’eventuale mutazione del virus e le scemenze dei sindaci Sala e Gori su Milano e Bergamo da bere e da spritzare hanno fatto il resto, insieme agli stop and go della Regione, più sensibile a Confindustria che ai virologi. Ieri sera il governo ha fatto (addirittura su scala nazionale) ciò che Fontana e la sua giunta non avevano voluto fare. Dicevano sempre “non basta, vogliamo di più, chiudiamo tutto”, ma non facevano nulla. La Regione – come tutte, responsabili esclusive della sanità pubblica – ne aveva i poteri. Ma il governatore mascherato preferiva buttare la palla a Roma chiedendo truppe inutili, esaltando pannicelli caldi come il Bertolaso Hospital (300 posti che si riempiono in mezza giornata), pretendendo dal governo i divieti che non aveva il coraggio di imporre lui.

Ora le chiacchiere stanno a zero. I primi quattro decreti Conte hanno recepito le indicazioni degli scienziati e il quinto quelle dei sindaci bergamaschi e della giunta Fontana. Se la Lombardia, che sta all’Italia come Wuhan alla Cina, continuerà a dire che bisogna fare di più, lo faccia e la pianti con lo scaricabarile (altre regioni hanno già preso iniziative autonome, peraltro quasi tutte demenziali). Da tempo la Cgil segnalava che ogni giorno si muovono per lavoro a Milano 300mila persone che non svolgono mestieri indispensabili, affollando vieppiù strade, autobus, metro, treni per pendolari e fabbriche. Eppure la Regione non ha fatto nulla: neppure chiedere al governo di chiudere uffici pubblici e aziende inessenziali, anche se a giudicare dal volume delle telechiacchiere quotidiane pareva il contrario. Quando tutto sarà finito, chi pretendeva “più autonomia” dovrà spiegare perché in questo dramma apocalittico non ha esercitato neppure quella che già ha. Parafrasando Longanesi: meglio assumere un Bertolaso che una responsabilità.

“Fermiamo tutto” Conte costretto allo stop totale

Un nuovo giro di vite, vero, per tutta Italia. La serrata di tutte le fabbriche “non strettamente necessarie” come spiega il premier Giuseppe Conte in diretta su Facebook, a tarda sera. Perché l’ordinanza di venerdì è stata un pannicello caldo che non è bastato a nessuno, dentro e fuori il governo, forse neppure al ministro che l’aveva firmata, quel Roberto Speranza che avrebbe voluto misure più dure. E perché la conta dei morti corre, senza clemenza. “Dobbiamo tutelare la vita, il bene più importante” ricorda Conte. Così di sabato sera, dopo aver fatto il punto in video-conferenza con Confindustria e i sindacati, il presidente del Consiglio si mette a scrivere con un pugno di ministri e i capi-delegazione dei partiti un nuovo decreto per aggredire l’emergenza da coronavirus. Un testo che prevede la chiusura di tutte le attività produttive non essenziali, in tutto il Paese. Ergo, ci sarà lo stop per tutte le fabbriche che lavorano al di fuori della della filiera alimentare, zootecnica, sanitaria ed energetica, ovviamente vitali. Una lista che a tarda notte è ancora in via di definizione: l’allegato che “delimita” i settori è il punto più delicato del decreto, che varrà fino al 3 aprile.

Una mossa ad ampio raggio. Anche se diversi ministri. come quello all’Economia, il dem Roberto Gualtieri, e il 5Stelle Stefano Patuanelli (Sviluppo economico) avrebbero voluto limitare la stretta solo alle regioni più colpite, quelle del Nord. Ma ha prevalso la linea dei capidelegazione di Pd e M5S, Dario Franceschini e Alfonso Bonafede. Chiusura ovunque. “Rallentiamo il motore produttivo, non lo fermiamo” spiega Conte, che predica fiducia: “Lo Stato c’è, ci rialzeremo, non rinunciamo alla speranza”. Anche se questa, ammette, “è la crisi più grave del dopoguerra”. Così, ecco la serrata. Proprio nel sabato in cui il governatore lombardo Attilio Fontana aveva già chiuso quasi tutto nella sua regione: l’epicentro del disastro, dove in certe province le bare non sono più sufficienti. Così ieri pomeriggio, dopo aver avvertito Palazzo Chigi, Fontana ha emanato l’ordinanza regionale, che chiude tutti i negozi fatta eccezione per alimentari, farmacie, tabaccai ed edicole. Stop anche ai cantieri edili, agli studi professionali e agli uffici pubblici, tranne quelli che erogano “servizi essenziali e di pubblica utilità”. Infine, chiusura anche delle attività artigianali “non legate alle emergenze e alle filiere essenziali”, divieto di fare jogging e limite di due persone per gli assembramenti. Misure che varranno almeno fino al 15 aprile, e che il governatore motiva così: “La situazione è in peggioramento”. Non solo in Lombardia. Per questo l’Agenzia per le dogane e i monopoli sospende Lotto e il Superenalotto.

La decisione della nuova stretta arrivava da governatori e sindaci di mezza Italia. E a invocare la sospensione di “tutte le attività non essenziali” erano anche i tre principali sindacati, Cgil, Cisl e Uil, finora cauti. E a battere forte alla porta di Conte c’era pure il M5S, che dalla mattina reclama “misure più drastiche”, e da dove fuori taccuino fanno filtrare malumore “perché il presidente ultimamente ci ignora”. Poi c’è Matteo Salvini, che si appella al presidente della Repubblica e urla: “Chiudere tutto, stop a tutte le tasse nel 2020”.

Tutto questo piove su Palazzo Chigi. Così diventa difficilissimo per Conte prendere tempo. Puntava a una maggiore gradualità, perché c’è il tema della tenuta sociale e dell’ordine pubblico, una preoccupazione che non lo abbandona mai. Giustificata, anche a guardare le code chilometriche iniziate dall’alba di ieri davanti ai supermercati di tante città, compresa quella Milano dove nessun amministratore ha mai chiesto limitazioni per le rivendite di alimentari. Anche se sei Regioni, tra cui Veneto ed Emilia-Romagna, hanno chiuso i supermercati nei festivi.

Ma Conte è concentrato su altro, su come dare un nuovo segnale. Per questo consulta sindacati e imprese. E poi decide per la nuova stretta. Una carta, per provare a fermare l’apocalisse.

A Cameri nemmeno il Covid-19 ha fermato gli F-35

Nel ciclone delle conseguenze del Covid-19 ci finisce anche lo stabilimento di Cameri, nel Novarese. Cuore tecnologico dell’Aeronautica italiana e della difesa aerea nazionale, produce l’ala completa degli F-35 (la prima fonte produttiva è negli Usa, la seconda in Italia) e l’assemblaggio finale dei caccia, non solo per l’Italia, ma anche per l’Olanda. A Cameri è arrivato il virus: nelle ultime settimane ci sono stati un paio di contagi. Ma Leonardo (primo gruppo industriale italiano in Aerospazio, Difesa e Sicurezza) fino ad aggi era fermamente deciso a non chiuderlo, facendosi forte di un Protocollo nazionale firmato con Fim, Fiom e Uilm in cui l’azienda si impegna a garantire le misure di sicurezza necessarie (soprattutto la distanza di un metro) e in generale la riduzione delle presenze nei vari stabilimenti, oltre ad aver fatto nei giorni 16 e 17 marzo un’operazione di sanificazione. Non abbastanza per Cameri, a quanto dice la Fiom, che sta chiedendo all’azienda di verificare le condizioni di applicazione del Protocollo, mentre fa notare come i lavoratori siano impauriti (molti si sono messi in malattia).

A volere la chiusura dello stabilimento è anche la rete “Sbilanciamoci”. Che la mette così: “Ai lavoratori possiamo chiedere il sacrificio di stare in prima linea negli ospedali e nei servizi essenziali, ma non quello di essere contagiati per montare la fusoliera di un cacciabombardiere. Per un F-35 non ci si può ammalare di coronavirus”. Gli F-35 sono un tema da sempre molto discusso. Storicamente contrari i Cinque Stelle e mezzo Pd. Va detto, però, che quando a novembre il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini ha reso nota al Parlamento la sua decisione di confermare il profilo di acquisto per il triennio 2020-2022 di 27 F-35, nessuno si è opposto. “In questa emergenza nazionale, non c’è motivo che la produzione vada avanti. Non è una priorità”, spiega Giulio Marcon, portavoce di “Sbilanciamoci”. Mentre si chiede un intervento al governo (Leonardo è un’azienda partecipata ).Dice Guerini al Fatto: “Leonardo applica ai propri siti produttivi le regole che sono state date per le aziende. E si adeguerà alle ulteriori misure che si decideranno di adottare”. Perché a continuare a produrre fino alla scorsa settimana sono state moltissime grandi aziende italiane. Un’ulteriore stretta dovrebbe riguardare anche Leonardo. Pure se anche questa non è una scelta facile: in ambienti di governo si riflette su come l’areonautica militare e l’industria della difesa siano un settore strategico, anche in prospettiva di una ripartenza post-virus. E Cameri viene considerato un ingranaggio essenziale, visto che è l’Hub per la manutenzione europea del programma F-35. Ma con la Lombardia fuori controllo, difficile pensare di non chiudere tutto ciò che è davvero essenziale.

Fonti vicine all’azienda, viceversa, ci tengono a dire che di fatto lo stabilimento lavora già in un regime minimo: in questi giorni su 1000 persone ne sono presenti 90 (quelle che servono a garantire la sicurezza degli impianti, che si renderebbe peraltro necessaria pure con un provvedimento più restrittivo), mentre molti sono in telelavoro. Ma anche che Leonardo non può chiudere: per il Paese sarebbe un danno nel danno. E fanno riferimento alle strutture satellitari che vigilano sulla sicurezza nazionale, agli elicotteri, alle eli ambulanze. Mentre chiariscono come Cameri abbia già rallentato.

Altro che red carpet: festival chiusi o rinviati

Nello stallo globale, la regola è guardare (sempre più) avanti, in una condivisa consapevolezza dal titolo work in progress. Non fa eccezione il mondo dei cine-festival, con gli eventi primaverili già in “sala d’attesa” e con quelli estivi – due su tutti Venezia e Toronto – a tremare. Nel frattempo, dopo giorni di surreali tentennamenti, il Festival di Cannes che ha finalmente ufficializzato l’inevitabile: non si terrà nelle date prestabilite (12-23 maggio) slittando su un ipotetico “fine giugno/inizio luglio” che suona comunque poco plausibile.

Spike Lee – designato presidente di giuria – ha benedetto la decisione, e Cannes si allinea così nell’esercito dei vari appuntamenti cinematografici europei e italiani costretti al temporaneo stop. Fra questi anche il David di Donatello, la cui serata di premiazione prevista per il 3 aprile si è riposizionata sull’8 maggio, ferma restante la (remota) speranza che per quella data l’emergenza sia superata. Ma se la kermesse dell’Accademia potrebbe ovviare con eventuali “porte chiuse” beneficiando della diretta su Rai Uno, così non potranno fare le diverse rassegne, che da marzo hanno similmente immaginato maggio/giugno come collocazione, purtroppo destinata a ulteriore ripensamento. Fra questi i lombardi Festival del Cinema Africano, Asia e America Latina (rinviato al 2-10/5), Sguardi Altrove Film Festival (al 7-15/5), Bergamo Film Meeting (al 23-31/5) ma anche svariati sparsi lungo la Penisola, dal Florence Korea Film Festival (Firenze, al 21-29/5) al Far East Film Festival (Udine, al 26/6-4/7).

Con maggior lungimiranza, altri eventi primaverili hanno scelto il generico “a data da destinarsi”: fra questi il Bif&st – Bari International Film Festival, il Trento Film Festival, Sottodiciotto Film Festival di Torino, la 10ª edizione del Rendez-vous del Cinema Francese di Roma, allineandosi a “colleghi” stranieri come il prestigioso Tribeca Film Festival di New York che annuncia “vi faremo sapere, stay tuned” e allo svizzero Vision du Réel di Nyon.

Alcuni festival, purtroppo, hanno dovuto proprio rinunciare a svolgersi perché collocati a ridosso delle misure emergenziali: ne ha fatto le spese il Seeyousound Music Film Experience di Torino, subendo drammatiche perdite economiche.

A tal proposito, l’Afic (Associazione Festival Italiani di Cinema) che raggruppa oltre 70 rassegne sul territorio nazionale, ha esposto richiesta con due lettere indirizzate rispettivamente al ministro del Mibact Dario Franceschini e alla Direzione generale per il cinema di implementare misure urgenti e speciali a sostegno dell’articolato universo cine-festivaliero italiano. Tre i punti precisi esposti dalla presidente Afic Chiara Valenti Omero: istituzione di un fondo speciale per i festival “slittati”, pubblicazione anticipata del bando promozionale 2020 (con rapida liquidazione dei saldi rendicontati dai festival svolti nel 2019), possibilità di rendicontare nel bando 2020 le spese preventivamente sostenute prima dell’esigenza dei posticipi.