Da Batman a Nanni e Verdone fermi tutti: set e film congelati

“Il cinema è un’invenzione senza futuro”, aveva ragione il papà dei fratelli Lumière. Di certo, è un’invenzione senza presente: set sospesi, film bloccati, serie parcheggiate. La parola “fine” non è più nei titoli di coda, ma tracima dal bollettino di Protezione civile e omologhi internazionali.

Happy end? Può attendere, per ora a mettere bocca non sono gli attori, bensì uno sceneggiatore infido, ubiquo e letale: il Covid-19. Fuori dallo schermo e dentro la realtà, ha fatto proprio il primo comandamento della Settima Arte, la sospensione dell’incredulità, e ci sguazza. Molto abbiamo già visto, da Contagion in giù, molto aspetteremo per vedere qualcosa di nuovo.

A oggi sono un’ottantina i film che sarebbero già dovuti uscire nei cinema italiani, e alcuni dovranno con buona probabilità cambiare titolo, involontariamente profetico: Si vive una volta sola di Carlo Verdone, Andrà tutto bene di Francesco Bruni. Altri hanno cambiato piani, primo fra tutti Tre piani di Nanni Moretti, atteso nei nostri cinema il 23 aprile con successivo approdo a Cannes: rimandati sine die entrambi, uscita e festival.

Il regista – e sceneggiatore di Si vive una volta sola – Giovanni Veronesi ha aperto via Twitter alla distribuzione in streaming di questi titoli: opzione plausibile, a metà tra mutuo (cinematografari e pubblico) soccorso ed economia di guerra, e da The Hunt a L’uomo invisibile e Trolls 2 c’è chi abbia convenuto. Forse lo farà anche Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, premiato alla Berlinale e originariamente atteso in sala il 16 aprile, ma non mancano le controindicazioni: ancor più per il cinema d’autore le dimensioni dello schermo contano e, sebbene il consumo online non abbia affatto inibito il theatrical, la paura sottaciuta è che l’ipotetico successo di questa tele-visione possa disaffezionare il pubblico alla sala, nel momento in cui servirà coraggio, e non poco, per farvi ritorno.

L’istantanea fotografa il surplace, meglio, l’impasse dell’audiovisivo ai tempi del Coronavirus. In principio fu il pipistrello? Pena del contrappasso, si ferma l’Uomo Pipistrello, The Batman di Matt Reeves, con Robert Pattinson protagonista. La pandemia non guarda in faccia a nessuno, nemmeno Animali fantastici 3, e chissà che non annoverassero il pangolino, altra specie incriminata. Ganasce per il reboot di Matrix; per i live-action Disney, da La sirenetta a Shang-Chi sul set, da Onward a Mulan in uscita; per The Witcher e gli altri titoli Netflix. Persino i muscoli possono poco: il servizio streaming ha sospeso Red Notice con Dwayne Johnson, Fast and Furious (Universal) con Vin Diesel procrastina di undici mesi al 1° aprile 2021.

E se anche la magia deve stare a riposo, con la serie de Il Signore degli Anelli messa in pausa in Nuova Zelanda, nel nostro Paese non s’è fatto distinguo sovranista: prima gli italiani, tra cui Il bambino nascosto di Roberto Andò, con Silvio Orlando e Roberto Herlitzka, e prima anche gli stranieri, quali Mission Impossible 7 con Tom Cruise. Mala tempora currunt, e a battere il ciak della ritirata strategica è stato uno dei titoli più attesi, di certo il più sintomatico: No Time to Die, il nuovo film di James Bond slittato dal 9 aprile al 12 novembre, quando – si spera – potrà finalmente mantenere le promesse.

Che fare? La conta dei caduti. Oltreoceano s’annotano scrupolosamente le perdite seriali, per reparti: streaming, da The Handmaid’s Tale a Stranger Things; via cavo, da Fargo a Young Dylan; broadcast, da Ncis al Saturday Night Live. Un finale di stagione preterintenzionale.

Si sta come di primavera i film sui listini, ovvero pending, “in attesa di” chissà che cosa. Si ammalano gli attori, da Tom Hanks (dimesso) a Idris Elba e la Bond Girl Olga Kurylenko, ma confidiamo con 007 che il domani non muore mai. Non per tutti però, non per Paul Schrader, che s’è visto stoppare sul set The Card Counter per il contagio di un attore. Il regista di American Gigolo non ha digerito, se l’è presa con “i produttori conigli”, e ha sentenziato: “Sono vecchio e asmatico, quale modo migliore di morire se non sul lavoro?”.

 

Gli scrittori (senza idee) sanguisughe di catastrofi

Finalmente è arrivato il loro momento. E pensare che avevano quasi perso le speranze, i giovani scrittori italiani di catastrofi, i romanzieri dell’apocalisse, i narratori del malaugurio.

Da troppo tempo non succedeva più niente in questa italietta poltrona e provinciale, diciamocelo. Non una sparatoria come si deve e neanche un attentato islamista. Almeno uno potevano pur organizzarlo quei pazzi, si dicevano spesso, ma niente. Avevano tanto sperato nella profezia dei Maya, questi distopici della domenica: essere testimoni della fine del mondo non è indubbiamente una cosa da poco, anzi, ma il 2012 era passato come tutti gli altri anni, costellato di qualche fatterello politico, di qualche scioperetto, di qualche polemicuccia da giornale scandalistico.

Di recente, le loro speranze si erano riaccese sulle minacce della Corea. Anche una guerra nucleare non è da buttar via, si confidavano tra loro gli aedi della sciagura, purtroppo non è detto che finisca il mondo, ma ci si può arrivare vicino e qualche bella paginetta di grande letteratura la possiamo pur tirar fuori. Ma i mesi erano trascorsi nella solita indolenza internazionale, e da laggiù non era partito neppure un razzetto, neppure un piccolo fuoco d’artificio, tanto per farci un raccontino da pubblicare online.

E ciondolavano stanchi, i giovani scrittori di catastrofi, tra i caffè della provincia italiana, dove si parlava soltanto di corna, di bustarelle, di furtarelli che non interessavano neppure alla polizia. Una noia, neanche da ricavarci un commissario! Davanti a un bicchiere di Averna, si trovavano a pregare almeno per un terremoto, che però, narrativamente parlando, è una palla pazzesca.

Almeno i nostri nonni, diceva uno di loro, hanno avuto i fascisti, la guerra, i tedeschi, i partigiani! Con tutto quel materiale è stato facile diventare veri scrittori. E i nostri padri, aggiungeva un altro particolarmente sconfortato, hanno avuto un bel poco di terrorismo rosso e nero e il boom economico… quanta bella letteratura ne hanno ricavato!

Alla scuola di scrittura che frequentavano, chiedevano consigli: come si fa a scrivere così e cosà? Come faccio a trovare una storia? Esiste una ricetta per coltivare l’ispirazione? Ma era tutto inutile. Gli insegnanti ne sapevano meno di loro. Consigliavano un viaggetto a Parigi, un mesetto a New York, un master da 20 mila euro sullo storytelling, ma niente. Ne uscivano sempre con la solita storia familiare, o generazionale, o di formazione, o introspettiva.

E poi, proprio quando pensavano di doversi trovare un lavoro, un lavoro vero, ecco che è arrivato il loro momento. Certo, non si tratta di un attacco alieno, quello è ancora il loro sogno più grande, quello con cui si addormentano la sera, con il sorriso. Ma è chiedere troppo, non si lamentano. Ci accontentiamo, dicono questi scrittori, dell’epidemia anzi, misuriamo le parole, della pandemia! Come dimostrano Lucrezio e Boccaccio, Manzoni e Saramago, Mann e Camus non esiste grande scrittore senza un’epidemia, è chiaro! Glielo avevano detto alla prima lezione della scuola di scrittura.

Ora, finalmente, vivono in una zona rossa, dove pare di stare a Pryp’jat’, emozionati dall’arrivo delle prime divise, dei primi camioncini dei carabinieri. Sì, ci vuole l’esercito, i carri armati, la legge marziale, la pena di morte per chi esce di casa, come in Cina! E dove sono i marines? Dove sono? Uh, un elicottero!, esclamano sollevando la testa al cielo.

Corrono al primo supermercato, gli scrittori italiani di catastrofi, come gli americani quando c’è un tifone, e riempiono il carrello di scatolame vario: fagioli, passata, piselli, tonno. Tanto tanto tonno. Come negli anni dell’università, solo che oggi quel tonno ha più gusto. E poi fanno scorta di spaghetti, rigatoni, riso. Penne lisce? No, le penne lisce no, non esageriamo. Non si sa mai che crolli lo Stato, che arrivino gli zombie, ma le penne lisce no. E le pizze congelate? Chiede la moglie di uno di loro. Assolutamente no! Anzi sì va, prendine un paio, le risponde. Una volta a casa, accendono il pc e sbavano sui social la loro preoccupazione per le durissime misure e poi inni all’unità nazionale, tanti “Ce la faremo”, bandiere tricolori e Fratelli d’Italia, ma tremano a ogni dato positivo.

Il Presidente parla di un calo dei contagi, no, non scherziamo su queste cose, aspetta aspetta, si dicono davanti alla tv. Il Presidente ha precisato che il peggio deve ancora arrivare, ecco sì, il peggio deve ancora arrivare, non scherziamo proprio adesso, altrimenti vien fuori che questa epidemia è l’ennesima italianata, un urlare al lupo al lupo, e poi! Fatecelo vedere, ’sto lupo!

Si chiudono in casa, gli scrittori italiani di catastrofi, si riparano in soffitta, sentendosi come Anna Frank, o era una cantina, non ricordano ma è lo stesso; si chiudono con i loro Mac sulle ginocchia e poi… Poi cagano. Cagano romanzetti d’emergenza, racconti dal fronte, diari della quarantena, e ogni volta si dicono: ecco, questo sarà un best-seller, quest’altro diventerà una serie tv prodotta dalla Rai con Beppe Fiorello nei panni di un inascoltato epidemiologo, e altre cose così. Arriveranno perfino dagli States a prendere ispirazione, si dicono, perché è il loro momento, non c’è dubbio. In ogni caso, dopo qualche giorno già si trovano a invidiare i dinosauri. Loro sì che hanno avuto una grande occasione: l’arrivo di un asteroide in diretta. Peccato, davvero peccato, che non ci abbiano scritto nulla.

Straziarono Nirbhaya Impiccati in quattro “Non è la soluzione”

“Finalmente sono stati impiccati. È stata una lunga battaglia, ma non abbiamo mai smesso di pensare a Nirbhaya”. Basta questo nome, sussurrato all’alba della mattinata di venerdì da Asha Devi, madre di Nirbhaya, per evocare il peso di una vicenda che ha distrutto la vita di una donna e segnato un’intera nazione, l’India.

Era la notte del 16 dicembre 2012 quando nella capitale indiana, Delhi, veniva ritrovato il corpo senza vita della giovane vittima di uno stupro efferato, una studentessa di fisioterapia di 23 anni, chiamata Nirbhaya (“colei che è senza paura”) dalla stampa, perché secondo la legge indiana la vittima di una violenza sessuale non può essere identificata. I quattro uomini condannati per l’omicidio e la violenza, Akshay Thakur, Vinay Sharma, Pawan Gupta e Mukesh Singh, sono stati impiccati all’alba di ieri mattina nella prigione di massima sicurezza di Tihar. Degli altri due condannati, uno è stato trovato morto in prigione nel marzo del 2013 mentre il secondo, minorenne al momento dei fatti, ha scontato tre anni di pena prima di essere rilasciato.

La sera del 16 dicembre di otto anni fa, Nirbhaya aveva deciso di andare con un amico al cinema e, finito il film, avevano preso un risciò per raggiungere la fermata dell’autobus di linea che li avrebbe portati a casa. Il mezzo pubblico tardava, la zona era isolata e i due accettarono di salire su un autobus privato. Che partì immediatamente, ma verso la direzione sbagliata. Le porte erano state sigillate e i cinque giovani ubriachi a bordo iniziarono a molestare Nirbhaya. Il ragazzo protestò, venne picchiato con una sbarra di ferro mentre la ragazza venne violentata a turno e lacerata con un’asta arrugginita. Sanguinante e incosciente, venne gettata con l’amico a lato della strada, dove vennero ritrovati da un passante. A causa delle gravi ferite, lacerazioni genitali e intestino perforato, Nirbhaya venne trasferita in un centro di Singapore, dove morì il 29 dicembre.

“Saremo felici solo quando questa gente verrà impiccata” ha ripetuto la madre della vittima, in questi anni, mentre folle di giovani donne, madri e nonne, mobilitatesi per le strade del Paese, le facevano eco. “Chiedo a tutti i governi di creare un sistema incisivo, che faccia sì che gli autori di tali crimini siano impiccati entro sei mesi” annunciava la presidente della Commissione per le donne di Delhi, Swati Maliwal.

Ma con il procedere del processo, molte associazioni femministe hanno iniziato a ribattere: la pena di morte, dichiarava l’avvocatessa Indira Jaising (che pochi mesi fa, in extremis, ha chiesto pubblicamente alla madre di Nirbhaya di perdonare i quattro), è una forma di “giustizia rapida” che non risolve il reale crimine, il vero problema della società: la violenza contro le donne. “In India la pena di morte non è un deterrente”, ha scritto su Twitter Nivedita Menon, scrittrice e professoressa femminista dell’Università Jawaharlal Nehru. “È inflitta in modo sproporzionato a persone appartenenti a determinati gruppi, emarginati nella società”, ha precisato, ricordando che il 75% dei condannati a morte appartiene agli stati più poveri e meno istruiti, come nel caso dei quattro appena impiccati.

Associazioni femministe come il Saheli Women’s Resource Centre di Delhi, il Forum Against Oppression Of Women di Mumbai, la Feminists In Resistance di Calcutta e Shakti Shalini, hanno sottolineato in un comunicato comune che negli ultimi 20 anni, oltre ai quattro imputati, sono stati giustiziati quattro condannati a morte, tre per attività legate al terrorismo e uno per lo stupro e l’omicidio di un minore. Secondo un rapporto del National Law University di Delhi tra il 2000 e il 2014 i tribunali indiani hanno condannato a morte 1.810 persone, la metà delle quali sono state commutate in ergastolo e circa un quarto delle quali sono state assolte dalla Corte suprema. La tendenza è cambiata con il caso Nirbhaya, spiegano, con un numero di record di 162 condannate a morte nel 2018, la gran parte delle quali trasformata in ergastolo dalla Corte Suprema. “La logica di condannare a morte gli stupratori si basa sulla convinzione che lo stupro sia un destino peggiore della morte”, hanno scritto le associazioni.

“Riteniamo che sia uno strumento patriarcale, un atto di violenza e non abbia nulla a che fare con la moralità, il carattere o il comportamento”. La violenza contro le donne indiane, ribattono, non si combatte con sentenze capitali. “Congratulazioni, ora è un paese sicuro per le donne” ha commentato ironicamente l’avvocatessa Neetika Vishwanath sui suoi social. “Ciò di cui avevamo bisogno era proprio impiccare i quattro colpevoli? La società non è in alcun modo responsabile della creazione e del sostegno di una cultura dello stupro?”.

Ma che ci porti a fare lì a Pechino se c’è il Covid-19?

Poi ci sono le trasmissioni che continuano ad andare in onda come le stelle estinte continuano a brillare in cielo. Puntate precotte con l’avviso “Questo programma è stato registrato prima dell’emergenza” (e lo credo bene, altrimenti irromperebbe Fontana con l’esercito). Però le stelle morte brillano come fossero vive, e se ne cade una si può esprimere un desiderio; in tv l’unico desiderio esprimibile è che cada il programma. Non è tanto una questione di qualità (tendenzialmente pari allo zero), ma di opportunità, l’ilarità plastificata di certi pubblici, conduttori e concorrenti fa l’effetto delle unghie sulla lavagna. Alcuni format come Uomini e donne, Vieni da me, Avanti un altro hanno avuto la ragionevolezza di cadere da sé; altri insistono imperterriti. Il più ipocrita è il game show Pechino Express, che con l’intuito di chi ci vede lungo quest’anno è tornato a svolgersi in Estremo Oriente. Il solito gruppo di vip di ultima scelta, tipi che hanno vinto alla lotteria travestiti da finti poveri, giocano alla caccia al tesoro nei Paesi dove la povertà c’è davvero (quando la società dello spettacolo riscopre le delizie del colonialismo). Mentre gli italiani sono sigillati in casa, la truzzeria versione globetrotter continua a scorrazzare in Thailandia, Corea, Cina. Rai2 non si sogna di sospenderlo, si spera per sempre, anche se il treno delle angosce va all’incontrario. Adesso sono i cinesi a venire da noi, in onda su Italia Express. E non c’è molto da ridere.

Se l’Ue cambia lo si vedrà sul fondo salva-Stati

La vicenda del Mes è il banco di prova tra chi vuole cambiare e chi vuole continuare sulla vecchia strada. Di fronte al contagio gli alfieri dell’austerity neoliberista sono diventati tutti a parole sostenitori della spesa pubblica, lo sforamento dei parametri di Maastricht e del Fiscal Compact è diventa sacrosanto e la sanità pubblica centrale. Nessuno chiede scusa per il pareggio di bilancio in Costituzione, il taglio di 37 miliardi alla sanità, le riforme che hanno reso più povero il nostro Paese. Ora con il bazooka da 750 miliardi della Lagarde anche la Troika sembra redenta. Meglio evitare facili illusioni. Non è scontato che il ravvedimento sia operoso. Partiamo dagli stanziamenti annunciati. La lezione del 2013/14 è che la speculazione si ferma solo se la Bce interviene in forme potenzialmente illimitate come ha già fatto in passato. Altrimenti i 750 miliardi fissano il limite del terreno di gioco della speculazione ma non la impediscono. Vi è il concreto rischio che il finanziamento delle spese necessarie per far fronte all’emergenza avvenga in cambio di ulteriori obblighi a privatizzare e tagliare. Continua il lavorio per imporre il Mes. Dire che è senza condizioni è un falso perché bisognerebbe riscrivere il Trattato e la sua condizionalità è nella sua natura di prestito e di fondo da rifinanziare. Per altro si parla di una cifra risicata. Il problema non può essere aggirato. Il deficit chi lo paga e con quali tassi di interesse? Bisogna spendere oggi in deficit e più di quanto stia facendo il governo, ma non accettando di tagliare di nuovo e di più domani. Per farlo è necessario mettere da parte il Patto di Stabilità, mandare in soffitta il Mes e che sia la Bce a finanziare un piano europeo come minimo da 1.000 miliardi all’anno a tasso zero con scadenza a 100 anni per sanità pubblica, emergenza economica, riconversione ambientale. Questa sarebbe una svolta reale.

 

 

Quei 40 milioni

 

“Gestire il servizio pubblico con le logiche della società del mercato, che tende a monetizzare tutto, sarebbe la sua negazione”

(da Ricostruiamo la politica di Francesco Occhetta, Edizioni San Paolo, 2019 – pag. 117)

 

Nell’arco di 24 ore, fra martedì e mercoledì scorsi, la Rai ha perso 40 milioni di euro. L’articolo 78 contenuto nella bozza del “decreto Covid-19” e intitolato “Contributo per il sostegno della Radiotelevisione Italiana SpA”, è stato sostituito all’ultimo momento con un nuovo testo che reca “Misure in favore del settore agricolo e della pesca”. Quei 40 milioni erano stati previsti per “mitigare gli effetti economici negativi derivanti dalla parziale sospensione del canone di abbonamento”, a causa del rinvio per il pagamento delle bollette, “oltre che dal prevedibile rilevante calo degli introiti pubblicitari per il servizio pubblico radiotelevisivo a seguito dell’emergenza sanitaria”. Ma, a quanto pare, un veto dei Cinquestelle ha imposto l’abrogazione di questo obolo che – a onor del vero – con la lotta all’epidemia c’entrava poco o niente.

Il fatto è che quei fondi alla Rai spetterebbero in forza della legge di Bilancio 2019, con cui il ministero dello Sviluppo economico ha previsto un contributo “una tantum” di 40 milioni a favore dell’azienda, sia per l’anno scorso sia per quest’anno, incagliato finora nelle procedure burocratiche. Ma come?! Mamma Rai non incassa già il canone d’abbonamento, pari a un miliardo e 770 milioni di euro, oltre ai ricavi da pubblicità (650 milioni), per un totale di 2,694 miliardi? E ancora non le bastano?

No, non le bastano. Tant’è che nel bilancio di previsione 2020 risulta un “rosso” di 65 milioni, al netto del contributo una tantum, in mancanza del quale il deficit salirebbe quindi a 105. E non le bastano per sostenere le spese e gli sprechi che continua a fare; i costi del personale (più di un miliardo per oltre 13mila dipendenti) e quelli esterni complessivi (1,153 miliardi), per diritti, appalti e contratti.

Ma alla Rai il canone non basta anche perché fin da quando è stato inserito nella bolletta elettrica il governo (a partire da quello di Matteo Renzi) con una mano dà e con l’altra toglie. Ridotto nel 2016 il costo dell’abbonamento da 113 a 90 euro all’anno, e poi “congelato” dalla legge di Bilancio 2019, alla Rai viene sottratto un “extragettito” di circa cento milioni l’anno che in buona parte confluisce nella fiscalità generale. Una specie di prelievo forzoso, insomma, che riduce all’83% i ricavi del canone, riportandoli in pratica ai livelli precedenti, se non inferiori.

Naturalmente, tutto ciò non giustifica la malagestione. Ma fornisce all’azienda un alibi per continuare a spendere e spandere, rivendicando un credito nei confronti dello Stato che coprirebbe almeno in parte i “buchi” di bilancio. La logica e la trasparenza imporrebbero invece di utilizzare i ricavi del canone esclusivamente a fini di servizio pubblico, in modo da garantire l’identità e l’autonomia della Rai.

Occorrerebbe, dunque, una rigorosa spending review, un’opera di pulizia e di moralizzazione, per consentire al servizio pubblico di rispettare i suoi compiti e le sue responsabilità istituzionali. A cominciare dall’informazione – imperniata magari su un canale all news, come già progettava l’ex dg Luigi Gubitosi – che resta la sua ragion d’essere. Ma molto c’è da fare anche nel campo dello spettacolo. E perciò, merita di essere segnalata la proposta del consigliere d’amministrazione Riccardo Laganà, eletto dai dipendenti Rai, per ridurre i costi di produzione e in particolare quelli relativi ai contratti di collaborazione editoriale e artistica.

Vista la realtà, nascono pensieri torbidi sul virus

Io apprezzo molto il lavoro fatto dal presidente Conte, dal suo governo, dai tecnici e dai medici cui si è rivolto per fronteggiare questa epidemia. Del resto il mio apprezzamento è solo un pulviscolo, visto che è stato espresso dall’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e che quasi tutti i Paesi europei ci stanno copiando. E credo che a Conte e ai suoi collaboratori, insieme s’intende ai medici in prima linea, un po’ di merito e di gratitudine andrebbero riconosciuti.

Ma adesso la situazione per noi cittadini si sta facendo pesante e se dovesse durare per mesi diventerebbe intollerabile. All’inizio abbiamo preso la nostra reclusione se non proprio come un divertimento, almeno come una variante. Si sta più in famiglia, per togliere i bambini dall’ipnosi della televisione e degli smartphone si raccontano loro fiabe, si lavora di fantasia, si ripescano nella nostra memoria le cose più interessanti che ci sono accadute. In fondo è quello che si faceva un tempo – un tempo che io ho avuto modo di vivere – quando la sera ci si raccoglieva tutti e si raccontavano storie, miti, leggende e appunto favole. È una sorta di ritorno al passato.

Ma adesso, come dicevo, la reclusione comincia a farsi difficilmente sopportabile. E affiorano pensieri torbidi. C’è un film, tremendo, I viaggiatori della sera interpretato da Ugo Tognazzi e Ornella Vanoni, regia di Tognazzi. A sessant’anni i cittadini di entrambi i sessi vengono prelevati e mandati in un’“Isola felice”. Ogni settimana c’è una tombola e chi vince viene messo su una nave che lo porterà in un’isola ancor più felice che in realtà è la morte. Una soluzione del genere, istituzionale, a cui qualcuno sta pensando, è inaccettabile, sarebbe né più né meno come quella dei nazisti che accoppiavano giovani sani e belli perché sfornassero figli ancora più sani e più belli. Ma la domanda “torbida” che viene spontanea è: e se avessimo lasciato al Coronavirus di fare il suo corso liberamente, eliminando i più deboli tenendo in vita i più robusti e i più adatti? La Natura è imparziale.

Non pensi il lettore che io scriva quel che scrivo a cuor leggero. Ho 76 anni e sarei quindi fra i possibili ‘eliminandi’. Però… però… ho avuto una vita intensa sia dal punto di vista sentimentale che professionale. Sono stato sposato, ho un figlio (ne avrei voluti di più ma la vita ha deciso diversamente), ho avuto rapporti sentimentali importanti, col sesso mi sono divertito quanto basta. Ho fatto un mestiere appassionante, quando era ancora appassionante, sono stato inviato in Italia e nel mondo e oggi, come opinionista, vengo pagato per scrivere cose che comunque direi, gratuitamente, al bar. Ho scritto libri alcuni dei quali, ne sono convinto, rimarranno nel tempo, almeno per un po’. Sono stato, improvvidamente, un attore, ho scritto testi di teatro non banali. Che più? Che mi devo aspettare dal futuro se non una decadenza più o meno lenta e comunque inesorabile? Ho perso amici importanti, Bocca, Oreste Del Buono, De Michelis, Montanelli (per la verità il termine ‘amico’ per Montanelli è un po’ troppo, comunque l’ho frequentato assiduamente). Alcuni di questi uomini avevano un quarto di secolo più di me ed è stato quindi normale, ma Cesare De Michelis era mio coetaneo e miei coetanei, o ancora di me più giovani, sono tanti amici che oggi “dormono, dormono sulla collina”. Tutti noi conosciamo o sappiamo di vecchi eccezionali, lucidi e in gamba fino alla fine. L’esempio più recente che viene in mente è quello di Gillo Dorfles morto, in piena lucidità, a 107 anni. Giuseppe Prezzolini, che andava verso i novanta, si lamenta nel suo Diario che la moglie, Jackie, che aveva trent’anni di meno, al suo terzo assalto gli ha detto di no. Prezzolini morì esattamente a cent’anni. Erano uomini d’un’altra tempra che io non credo, e nemmeno spero, di avere. Comunque, come dice una mia amica di Verona, “vedaremo”.

Economia, ora serve acchiappare il topo

Dopo la cosiddetta gaffe di Christine Lagarde, la Banca centrale europea ha aggiustato il tiro e ha promosso un nuovo “bazooka” con il via libera all’acquisto per 750 miliardi di titoli dei Paesi dell’eurozona. Un intervento che ricorda il “whatever it takes” di Mario Draghi e ha riportato la presidenza della Bce sotto una luce più positiva.

La misura è di grande impatto anche perché aggiungendosi a quelle già adottate porta a 1.000 miliardi la forza d’urto della Bce. Basterà?

Forse non basterà, perché nessuno può sapere quanto grande e profonda sarà la crisi (le prime stime disegnano già una caduta del Pil italiano nell’ordine dei 150 miliardi e un possibile rapporto debito/Pil al 160%). Soprattutto, l’intervento della Bce serve a smorzare la febbre dei mercati finanziari, a ridurre il prezzo dei titoli obbligazionari, a ridurre lo spread. È una misura che rasserena le banche oltre, ovviamente, a rasserenare la sostenibilità di emissioni del debito sovrano. Ma non risolve del tutto il problema dell’economia reale e del modo di intervenire con nuove risorse fresche. Anche per questo è aperta la discussione su altre proposte come i Corona-bond e il Mes, gli Eurobond o l’helicopter money.

Sull’utilizzo del Meccanismo europeo di stabilità ieri si è avuto lo scontro tra il M5S e il presidente del Consiglio. Giuseppe Conte, infatti, in una intervista al Financial Times, ha aperto alla possibilità di utilizzare il Mes come una sorta di “Corona-Fund”, un fondo comune per rispondere all’emergenza “senza condizionalità”. Per condizionalità si intende quella formula-capestro del Mes secondo la quale per avere dei soldi in prestito occorre aderire a piani di rientro e a “riforme strutturali” che potrebbero significare la rovina del Paese costretto a indebitarsi.

Conte sembra giocare su un piano inclinato perché punta alla soluzione dei “Corona-bond”. A Palazzo Chigi assicurano che l’obiettivo sia questo e solo per questo motivo il premier ha chiamato in causa il Mes che, è la sua intenzione, potrebbe essere trasformato in altro. Come? Mettendo a disposizione le risorse non per un solo Paese, ma per tutti, vincolare il loro utilizzo all’emergenza Covid e, soprattutto, “non prevedendo condizionalità”. Conte pensa che questo obiettivo possa essere raggiunto anche senza rivedere i trattati, ma imponendo le nuove condizioni nel Memorandum of Understanding che ogni Paese sigla al momento di ricorrere ai fondi del Mes.

Il muro alzato dal M5S, oltre che dalla destra, indica che il problema politico non sarà facilmente aggirabile, anche se Conte può vantare il sostegno di Paolo Gentiloni e forse qualche incrinatura nel fronte del nord, in particolare nella Germania.

Si vedrà se la scommessa riuscirà o se invece il tema dovrà essere accantonato. Magari per perseguire la strada, che però sembra ancora la più ostica, degli “eurobond” avanzata negli anni 90 dall’ex presidente della Commissione europea Jacques Delors e poi ripresa da Romano Prodi e da Giulio Tremonti.

Gli eurobond costituirebbero una condivisione europea del debito che non peserebbe quindi sul singolo Stato bisognoso di aiuto, ma su tutta l’Unione. Inoltre, stimolerebbero l’ipotesi di un coordinamento economico e quindi politico e potrebbero così far fare dei passi avanti all’Unione come soggetto politico.

Resta il problema di fondo: come passare da misure di tipo finanziario a misure di sostegno diretto all’economia, alla produzione, ai lavoratori e ai cittadini. Su questo, l’ipotesi più incisiva sembra essere l’helicopter money, cioè soldi messi direttamente (come se fossero lanciati da un elicottero) in tasca ai cittadini. La misura è stata annunciata da Donald Trump e se n’è iniziato a discutere anche in Europa.

Sembra un’idea folle, ma in realtà il crollo della produzione e del reddito che si verificherà in seguito alla pandemia (di cui al momento non si può prevedere la fine) sarà tale che solo una misura-choc, e quindi un cambio di paradigma culturale, potrà affrontare.

La crisi sta cambiando molte delle nostre convinzioni per cui anche l’idea visionaria di soldi distribuiti universalmente potrà risultare efficace. Idea che potrebbe tradursi in un “reddito di base” per tutti, parente prossimo del Reddito di cittadinanza. Misura osteggiata dalla destra, ma che potrebbe invece rappresentare l’unica risorsa a disposizione per sostenere immediatamente la domanda e dare fiato a un sistema produttivo che sarà in mille pezzi.

Quale che sia la strada da percorrere. comunque, la sua ispirazione dovrà essere la vita delle persone e non i profitti di pochi. Ancora una volta, non importa di che colore sarà il gatto, l’importante è che acchiappi il topo.

Mail box

 

Troppi pareri divergenti sui tamponi “a tappeto”

Sentiamo parlare gli esperti in tv della necessità di fare tamponi a tappeto e qualche presidente di Regione parla anche di estendere la misura ai non sintomatici, ovvero ai presunti sani. Il problema nasce quando la realtà ci mette di fronte a prassi opposte. Per quanto riguarda Milano, mi risulta da più testimonianze, anche di medici, che quelli che potremmo definire parasintomatici o iposintomatici si sentono negare il tampone con inviti ad attendere il corso degli eventi. Se pensiamo che questo comporta l’assenza di quarantena specifica per loro e per chi gli vive accanto, capiamo come sia difficile definire il contagio. Nessuno può sapere se chi guarisce era o no contagiato e contagiante. C’è risposta a tutto questo?

Gloria Bardi

 

Nell’emergenza c’è bisogno di più “onestà scientifica”

Scrivo alla dottoressa Gismondo condividendo il suo editoriale. Mi riferisco in particolare ai decessi imputati al Covid-19. Il bollettino quotidiano della Protezione civile enumera i decessi come Covid salvo poi aggiungere la postilla che è un dato che dovrà essere confermato dal Iss. Ebbene, dato che vivo in una zona di confine, mi tengo informato anche su ciò che accade in Austria. Ho notato che loro attribuiscono la morte al Covid solo dopo che l’autopsia l’ha confermato. E se riportano sui quotidiani la notizia, prima che la causa sia stata determinata, lo specificano. Invece da noi si parla di morti tutti per Covid. Come scrive la dottoressa, l’emergenza c’è ma ci deve essere anche un dovere di “onestà scientifica”.

Graziano Chieregato

 

Le misure restrittive aumentano il disagio psichico

Condivido il giudizio di Travaglio su quello che è il lavoro del governo Conte: se penso a quelli che lo hanno preceduto, si può ben sperare. Ma, ho un ma: riguarda le misure restrittive prese per l’emergenza del Coronavirus. Bene, si tratta di impedire i contagi, ma si tratta anche di altro. Io scrivo da Brescia, e voi, so per certo, conoscete la situazione della città. Tuttavia mi sorge un dubbio: e la gente che sclera? Dalle telefonate che mi capita di fare, mi pare siano parecchi lì lì per esplodere. Non vi pare che si rischierà, una volta usciti da questa situazione, di svuotare gli ospedali dei malati di Coronavirus, per riempire i reparti psichiatrici?

Bruno Navoni

 

Non diamo la colpa al destino, ma all’inerzia delle autorità

Le Regioni sono competenti in materia di sanità. Nessuno, quindi, può addebitare la responsabilità di questo disastro al destino cinico e baro perché, alla luce di quanto successo in Cina e del conseguente allarme dell’Oms, tutti erano al corrente che il virus provocava un numero abnorme di ricoverati in ospedale e di pazienti in terapia intensiva, a causa di difficoltà respiratorie per le polmoniti virali. Le istituzioni competenti avrebbero dovuto provvedere tempestivamente all’acquisto dei respiratori artificiali e delle mascherine, visto che un posto in più o in meno in terapia intensiva può fare la differenza tra la vita e la morte… Finita l’emergenza vanno individuati tutti coloro che hanno sottovalutato il problema contribuendo con la loro inerzia ad aggravarlo.

Maurizio Burattini

 

Forza a tutti i giornalisti al lavoro in questi giorni

Ringrazio Marco Travaglio e la redazione. Forse ci considerano tutti stupidi e smemorati: adesso bisognerebbe dire grazie a Berlusconi (per le sue donazioni)? Be’, certamente Sallusti glielo deve. Non noi. Io, invece, ringrazio Il Fatto Quotidiano che mi dà voce. Forza meravigliosi giornalisti! Avete accanto tutti noi.

Carmen Puricelli

 

L’evasione fiscale è un delitto Vale anche per la Chiesa

Quando Papa Francesco sostiene che chi non paga le tasse non commette solo un reato, ma un delitto, vuol forse dire che d’ora in poi la Chiesa e gli enti religiosi non compieranno più delitti e pagheranno le tasse sugli immobili in Italia, che finora non hanno mai voluto pagare ? Vuol anche dire che tutti gli enti religiosi che esercitano abusivamente l’attività alberghiera nel nostro Paese presenteranno regolari dichiarazioni fiscali e pagheranno le imposte sui redditi? O, come temo, nonostante le dichiarazioni del Papa, la Chiesa le tasse continuerà a non pagarle?

Pietro Volpi

 

Da dottoressa, ho assistito al declino della Sanità

Buongiorno. Condivido quanto dice Travaglio dai tempi del ministro Bindi, che non ce l’ha fatta a proibire a chi lavora nel pubblico di lavorare anche nel privato. Ho fatto il primario per 23 anni e ho gioito per l’avvento del Ssn, ma conosco tutte le miserie e i compromessi (quando non le ruberie) della commistione pubblico/privato… Ho lavorato fino a 70 anni e ho visto con dolore il degrado del pubblico. Ora è chiaro il disastro delle autonomie regionali…

Dottoressa Gabriella Marchetti

 

Smettiamola di investire in F-35: serve più Ricerca

Siamo stati derubati dai nostri governanti negli ultimi decenni: i nostri versamenti individuali allo Stato sono stati spostati sul fronte militare e sottratti a sanità e istruzione. Per quale esigenza? In difesa da quale nemico? In ubbidienza a quale dovere? Ora è chiaro a tutti che gli F-35 non ci curano e non ci salvano. Dunque torniamo alla normalità: riprendiamoci i fondi destinati a F-35, basi Nato, lavoratori-soldati in giro per il mondo… e rimettiamoli a presidio delle vere necessità popolari, del benessere degli italiani: sanità, istruzione, ricerca.

Anna Serena Bartolucci

In corsia “Ecco chi siamo noi infermieri: eroi da 1.600 euro al mese, senza diritti”

Stiamo vivendo un dramma sanitario di enormi proporzioni dalle conseguenze incalcolabili sia in vite umane sia in danni economici, che rattrista profondamente il nostro cuore.

Non è il momento di fare polemiche, non è assolutamente questa la mia intenzione, ma vorrei che la gente sapesse qualcosa in più sugli “eroi” infermieri.

Gli infermieri sono quelli che – da sempre – si prendono cura delle persone, stanno loro accanto nei momenti più difficili, a loro e alle loro famiglie, di giorno e di notte, 365 giorni all’anno. Li curano, li consolano, li aiutano a guarire il corpo e lo spirito, gli danno la forza di andare avanti.

Sono quelli che rischiano la propria vita (e la vita dei loro familiari) tutti i giorni, non solo per il Covid-19, ma anche per l’epatite, la Sars, l’Hiv e tante altre malattie infettive più o meno letali.

Sono quelli che hanno lo stipendio bloccato a 1.600 euro da circa 20 anni e lavorano in condizioni sempre peggiori, sempre con meno diritti e più doveri (i sindacati non esistono più), con meno personale, e con le esigenze assistenziali dei pazienti che aumentano sempre di più nel tempo.

Sono quelli a cui vengono NEGATE le ferie che invece dovrebbero essere garantire dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Tanti colleghi (come me) hanno mesi, se non anni, di ferie arretrate.

Sono quelli che di notte vengono chiamati da casa, in urgenza, per salvare una persona dall’infarto e vengono pagati con ben 10 euro netti per un’ora (tanto dura un intervento di angioplastica) di lavoro straordinario.

Sono quelli a cui (in tanti ospedali del Nord) non viene fatto il tampone Covid-19 perché insostituibili, specialmente nelle terapie intensive.

La nostra soddisfazione-realizzazione non viene dalle istituzioni, che in tutti questi anni hanno distrutto il Sistema sanitario nazionale e hanno demoralizzato e demotivato il personale sanitario, ma dai sinceri ringraziamenti dei pazienti, dal loro sguardo pieno di amore e gratitudine nei nostri confronti. Noi siamo i loro eroi, e loro lo sono per noi.

Grazie.

 

Un infermiere del Veneto